Cartabia e il buon compromesso fra giacobini e ultragarantisti di Guido Salvini* Il Foglio, 11 agosto 2021 Ho pensato sin dalla sua presentazione che la riforma Cartabia andasse incoraggiata e non vilipesa. Certamente non era una proposta perfetta, nessuna lo è, ma è stata studiata e rielaborata con il contributo di tutti e in questo senso è una vittoria per tutti. Andava incoraggiata e migliorata non solo perché facilita l’accesso ai Fondi europei ma soprattutto perché ha affermato, dopo molto tempo, il diritto della politica a intervenire nel campo della giustizia, ascoltando, come è giusto, anche l’Anm ma senza riconoscerle diritti di veto. Le incursioni mediatiche dei più noti magistrati inquirenti, sono sempre loro a parlare, erano in larga parte sopra le righe. Molti dati declamati sugli organi di stampa erano truccati e nascondevano il desiderio che non si facesse nulla. Le interviste a tutta pagina secondo cui i processi di mafia sarebbero evaporati in grado di appello erano in gran parte allarmistiche. I processi per fatti di mafia sono e restano in altissima percentuale con imputati detenuti. Quindi i tempi che contano non sono quelli della prescrizione ma quelli della custodia cautelare che normalmente tutte le Corti d’appello rispettano fissando, anche con priorità, i processi che portano al traino anche i coimputati non detenuti. Per il delitto di associazione mafiosa già il primo grado prevede una prescrizione di 18 anni che, in caso di atti interruttivi, un interrogatorio ad esempio, può ripartire da zero. Due anni dal primo grado all’appello, soprattutto sempre prorogabili dalla corte se il processo è complesso, possono decisamente bastare. Comunque, con le limature apportate con gli emendamenti e la previsione di un ampio periodo transitorio, sino al gennaio 2025, ogni difficoltà ragionevolmente prevedibile sembra superata. Resta da mantenere la promessa di un adeguamento del personale amministrativo e delle strutture, anche delle tecnologie digitali. Non dimenticando comunque, quanto ai magistrati, che il loro numero è bassissimo, il più basso d’Europa, defalcato tra l’altro nel segmento più critico, quello delle Corti d’appello, dai pensionamenti anticipati imposti dalla riforma Renzi. Anche se i magistrati non godono più di molta popolarità, accusati tra l’altro di non lavorare, il loro numero deve essere drasticamente aumentato, almeno di 2.000-3.000 unità tra giudici di carriera e onorari. E si potrebbe cominciare a pensare a concorsi riservati ad avvocati con una affidabile esperienza di carriera alle spalle, contribuendo così anche a superare gli steccati, anche mentali, tra le due categorie. Alla fine ne è venuto fuori un testo che non si è lasciato spaventare dagli scenari apocalittici evocati dai giacobini senza cedere nello stesso tempo alle istanze ultra-garantistiche per cui le uniche indagini buone sono quelle che non si fanno. Forse né gli uni né gli altri, giacobini e ultragarantisti, hanno mai pensato al fatto che essi in realtà si sostengono l’un l’altro, rendendo impossibile qualsiasi cambiamento. Vi sono stati molti passi avanti: in tema di riti alternativi in cui forse si poteva incidere anche un po’ di più, allargando di più il patteggiamento, subordinandolo magari a qualche forma di riparazione. Ancora passi avanti in tema di funzione di controllo del gip sulla corretta e tempestiva iscrizione nel registro notizie di reato e sulla durata delle indagini, in tema di nuovi criteri per l’archiviazione, di aumento dei reati procedibili a querela e di effettivo riconoscimento ed esecuzione delle sentenze della Cedu. E, a lato della riforma, la proposta che limita le conferenze stampa dei pm e della Polizia giudiziaria in cui, in genere dopo gli arresti, gli indagati sono già dipinti come colpevoli. Nel testo approvato alla Camera c’è anche una piccola gemma. Il diritto all’oblio, cioè il diritto del cittadino a vedere “deindicizzati” da Internet gli articoli e i riferimenti obsoleti a processi nei quali era imputato ma in seguito è stato assolto. Un tempo le “cattive notizie” duravano un giorno, quello in cui il giornale veniva venduto nelle edicole. Ma oggi, anche quando sono superate dai fatti, sul web si replicano all’infinito e l’imputato rimane tale per l’eternità. Per fortuna questa forma di gogna dovrebbe finire. La questione della improcedibilità resta aperta. E’ meglio una prescrizione sostanziale o una processuale, che suscita parecchi dubbi? Cosa potrà dire la Corte costituzionale? Ma c’è tempo per riparare e migliorare. La riforma è un work in progress ed è comunque importante che sia partita. Per quanto concerne il processo di appello, ritenuto dai magistrati la secca più pericolosa, è purtroppo scomparsa l’ipotesi di introdurre il giudice monocratico di appello che avrebbe potuto decidere sui processi giudicati anche in primo grado con rito monocratico. In questo modo, rinunciando alla collegialità in processi in cui peraltro non era prevista nemmeno sin dalla sua fase più importante, sarebbe stato possibile utilizzare al meglio le energie disponibili e aumentare il numero di processi definiti. Ma forse è una scelta solo rinviata. Ora l’attenzione dovrebbe passare al primo grado per evitare il paradosso per cui i gradi di appello e di Cassazione hanno una durata massima prestabilita ma il primo grado può durare 10 anni e anche più. E’ stato giustamente ampliata la platea dei reati che, dopo la fine delle indagini, proseguono più rapidamente con la citazione diretta a giudizio senza la stretta dell’udienza preliminare, ricomprendendovi quelli puniti sino a sei anni. E’ prevista per essi un’udienza predibattimentale in camera di consiglio, una sorta di udienza di prima comparizione, in cui il giudice, fungendo da filtro, dovrà valutare se, sulla base degli atti portati del pm, vi siano le condizioni per una sentenza di non luogo a procedere perché gli elementi non consentono una ragionevole previsione di condanna e in cui comunque potranno essere chiesti i riti alternativi come il patteggiamento o il giudizio abbreviato. Forse si poteva fare anche di più. Il sistema non può sopportare quelli che di norma sono quattro gradi di giudizio. Uno è l’udienza preliminare che, secondo il codice, doveva essere fissata entro cinque giorni dal deposito della richiesta di rinvio a giudizio mentre il gup doveva essere un punto di passaggio senza arretrato. Ma non è così. In realtà i fascicoli giacciono inevitabilmente in attesa di fissazione per parecchi mesi e la fase che intercorre tra la richiesta e la decisione del gup allunga il processo di un anno e anche più. In questo modo si forma un autentico imbuto anche per la disponibilità limitata dei pm e del personale. I processi si accumulano già nella fase iniziale, nelle stanze dei gup sommerse dai fascicoli, talvolta arrivando prossimi alla prescrizione e consegnando al tribunale di primo grado reati già vecchi di 4, 5, 6 anni. Si può quindi pensare a un’abolizione dell’udienza preliminare trasferendo tutti i reati sulla nuova udienza di comparizione in cui chiedere i riti alternativi e in cui vi sarebbe sempre, e più accentuato con la riforma, lo sfoltimento dei processi inutili e cioè quelli in cui c’è carenza di interesse a procedere perché sarebbe difficile pervenire a una condanna o in cui l’imputato, con i suoi comportamenti riparatori, si è “meritato” un proscioglimento. Questa modifica consentirebbe tra l’altro, eliminando la funzione gup, di rafforzare anche numericamente quella del gip cui è affidato quel decisivo controllo sulle richieste del pm, intercettazioni, misure cautelari, sequestri preventivi, che oggi è spesso difficile anche perché le due funzioni di gip e gup si cumulano sullo stesso giudice. C’è tempo per pensarci dato che la riforma è un laboratorio e non un punto di arrivo. Infine un’annotazione solo apparentemente slegata dall’approvazione della riforma. Indagare il procuratore capo di Milano equivale, volendo usare una metafora teologica, a trascinare Dio davanti al giudizio universale. Quello che gli si rimprovera è in sostanza di aver insistito, con i suoi sostituti, oltre ogni limite consentito, in una indagine che sinora avrebbe avuto come unico risultato quello di mettere in dubbio inutilmente l’integrità di un presidente di sezione del tribunale e, in più, quello di far perdere al nostro paese un’importante risorsa energetica. Non so se questo sia una responsabilità penale, saranno le indagini a Brescia a verificarlo. Ma il solo fatto che una verifica sia possibile significa che anche nella magistratura nessuno è più irresponsabile, forte della sua posizione, e anche questo è un segnale di cambiamento. Per finire. Sono contento per Paolo Storari, e non aggiungo altro. *Magistrato Giustizia, stop all’uso di sbarre e manette ai processi: solo il giudice potrà ordinarle di Liana Milella La Repubblica, 11 agosto 2021 Nel decreto sulla presunzione d’innocenza poche righe ampliano il diritto dell’imputato di presentarsi in aula fuori dalla cella. Caiazza “Giusto che la responsabilità sia di chi decide”. Costa: “In un paese civile è normale che imputato e difensore stiano vicini”. Musolino, pm a Reggio: “La scelta dovrebbe essere il legislatore”. Sono immagini indimenticabili quelle di Enzo Tortora e di Enzo Carra in manette. Sono passati, rispettivamente, 38 e 28 anni, un’eternità. Eppure il ricordo, e la reazione indignata, restano vivide. Il primo arrestato, il secondo condotto in aula con gli schiavettoni. Chissà se quelle foto sono passate davanti agli occhi di chi ha scritto - nel decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza appena trasmesso alla commissione Giustizia della Camera che dovrà esprimere un parere entro 40 giorni - un articolo sicuramente destinato a influire proprio sulla condizione dell’imputato detenuto nell’aula del processo. Un articolo - che Repubblica ha visionato - che addossa al giudice una nuova responsabilità, quella di decidere, con un’ordinanza motivata e dopo aver sentito le parti, se davvero l’imputato deve stare dietro le sbarre o dietro un vetro protettivo perché viene considerato pericoloso, oppure se all’opposto ha diritto di sedersi accanto al suo avvocato. Per il giudice si apre una nuova pagina di responsabilità, che va ad aggiungersi a quella di stabilire se un processo può durare un po’ di più per non finire nel cesto della improcedibilità. Ma vediamo le poche righe del decreto che si possono battezzare, nei fatti, come un definitivo stop alle manette. Che, sia chiaro, anche oggi sono bandite dall’aula del processo, ma vengono utilizzate per portare il detenuto dal carcere all’aula del palazzo di giustizia. Ma se, fino a oggi, il deus ex machina che validava la pericolosità dell’imputato era di fatto la polizia, da domani il difensore potrà chiedere al giudice conto e ragione di questo trattamento, ed ottenere, di conseguenza, un’ordinanza motivata che consente all’imputato di seguire il processo da uomo “libero”, nel pieno dei suoi diritti, come chiede dal 2016 la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, solo oggi recepita e tradotta nella legislazione italiana. Il decreto - messo a punto dall’ufficio legislativo del ministero della Giustizia e portato giovedì 5 agosto a palazzo Chigi dalla ministra Marta Cartabia - già interviene sulle conferenze stampa dei procuratori (ammesse solo se “strettamente necessarie”), sulla possibilità per l’imputato di chiedere rettifiche a notizie troppo spinte eventualmente fornite, sull’eventuale intervento della procura generale sulla procura della Repubblica in caso di violazioni, sullo stop ai nomi con cui polizie e pm battezzano le inchieste (non devono violare la presunzione d’innocenza). E poi eccoci al nostro articolo 4. Poche righe ma dense di significato. Perché il legislatore aggiunge un comma all’articolo 474 del codice di procedura penale che sotto il titolo anodino “assistenza dell’imputato in udienza”, detta la regola generale della sua presenza: “L’imputato assiste all’udienza libero nella persona, anche se detenuto, salvo che in questo caso siano necessarie cautele per prevenire il pericolo di fuga o di violenza”. E qui arriva l’intervento di via Arenula con un secondo comma che dice: “Il giudice, sentite le parti, dispone con ordinanza l’impiego delle cautele. È comunque garantito il diritto dell’imputato e del difensore di consultarsi riservatamente, anche attraverso l’impiego di strumenti tecnici idonei, ove disponibili. L’ordinanza è revocata con le medesime forme quando sono cessati i motivi del provvedimento”. Nella relazione che illustra la misura via Arenula spiega che il comma aggiunto ha “la specifica finalità di chiarire che l’eventuale adozione di misure di coercizione fisica nei confronti dell’imputato in corso di processo debba costituire oggetto di specifica valutazione da parte del giudice”. Che ricorrerà “a un’apposita ordinanza da pronunciarsi in udienza nel contraddittorio delle parti e da revocarsi allorquando le esigenze di cautela risultino cessate”. Tradotto, questo significa che non ci sarà più alcun automatismo nella presenza del detenuto dietro le sbarre. Né che a decidere sarà solo la polizia. Il giudice dovrà assumersi per iscritto la responsabilità di una scelta. Una decisione che, ovviamente, rende entusiasti i fan della presunzione di innocenza, primo tra tutti Enrico Costa di Azione che con un suo emendamento a fine marzo ha obbligato il governo a recepire le norme europee in attesa dal 2016 di entrare e avere effetto sulla legislazione italiana. Pienamente soddisfatto il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. Perplesso e preoccupato delle conseguenze un pm come Stefano Musolino, che lavora a Reggio Calabria, e che appena un mese fa è stato eletto nuovo segretario di Magistratura democratica. Costa reagisce da garantista. “Nello schema di decreto - dice il responsabile Giustizia di Azione che ha creato anche il sito presunto innocente.com - è scritta una cosa che dovrebbe essere naturale in un paese civile: che l’imputato ed il difensore possano consultarsi riservatamente. Perché si arriva a doverlo scrivere esplicitamente? Perché troppo spesso l’esercizio della difesa è considerato un inutile orpello da limitare. Quanto all’imputato dietro le sbarre, a meno che il pericolo di fuga non sia gravissimo, siamo di fronte a una violazione grande come una casa delle norme Ue”. Scontato il via libera di Caiazza che parla di “rafforzamento positivo” delle norme esistenti e di “una giusta assunzione di responsabilità da parte del giudice sul diritto di stare in aula”. Secondo Caiazza “prevedere la necessità di un’ordinanza motivata, che può essere oggetto d’impugnazione, rafforza il diritto dell’imputato, in nome della presunzione di non colpevolezza, a vedere adeguatamente motivata la sua privazione del diritto di comparire al processo come un uomo libero. Oggi, nel caso di più imputati, già di fatto accade che l’imputato non possa sedere vicino al suo difensore”. Ma da Stefano Musolino, a contatto con le cosche reggine ogni giorno, arriva una preoccupazione. “Questa previsione si risolve nell’ennesimo trasferimento in capo al giudice di valutazioni che avrebbero preteso un’assunzione di responsabilità del legislatore. Nei fatti poi la valutazione sarà di fatto rimessa alla polizia penitenziaria o giudiziaria che accompagna in aula il detenuto e ha la responsabilità di garantire sia la sua incolumità che il suo stato. E sarà difficile, per il giudice, decidere in contrasto con le polizie”. Il rischio, per Musolino, è che tutto questo sortisca un solo effetto, “creare un’altra causa di conflittualità interna al procedimento che ne rallenterà l’andamento”. E va da sé che, nei tempi futuri di processi “improcedibili”, questo potrebbe essere un grattacapo. Presunzione d’innocenza, maggioranza già in ordine sparso di Errico Novi Il Dubbio, 11 agosto 2021 La presunzione d’innocenza divide il Governo. M5S freddo sul decreto, mentre Forza Italia è favorevole. “Addio alle indagini-show”. Pensare che la partita sulla giustizia si sia esaurita col via libera della Camera alla riforma penale è una vera e propria illusione. Lo dimostrano non solo i propositi bellicosi avanzati sul ddl, in vista dall’esame in Senato, sia dal neo-leader 5 Stelle Giuseppe Conte che dall’Anm, ma anche i punti di vista divergenti che continuano a registrarsi nella maggioranza su altri dossier, a cominciare dal decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza. Il testo varato in Consiglio dei ministri la scorsa settimana dovrà essere sottoposto ai pareri, seppur non vincolanti, delle commissioni Giustizia: il deputato che presiede quella di Montecitorio, il pentastellato Mario Perantoni, ha già detto chiaramente che per lui il decreto non dovrà limitare la libertà di stampa. Presunzione d’innocenza, parla Fiammetta Modena - Opinioni diverse in molti altri partiti. Ad esempio da parte di Enrico Costa, il responsabile Giustizia di Azione che aveva proposto inizialmente un autonomo ddl sulla materia. Ieri è stata la senatrice azzurra Fiammetta Modena a sbilanciarsi favorevolmente sul provvedimento licenziato a Palazzo Chigi il 5 agoisto. Quel testo, ricorda la parlamentare della commissione Giustizia, “attua la legge delega che a sua volta dà applicazione a una direttiva del 2016 del Parlamento europeo relativa alla presunzione di innocenza. Si stabilisce intanto un principio fondamentale, cioè che non si possono dare i nomi alle inchieste, perché facendo così automaticamente le persone coinvolte diventano dei fenomeni da baraccone e queste inchieste dei romanzi”. “In secondo luogo”, aggiunge la senatrice di FI, “si dà la disposizione precisa alle autorità per cui non si può mai indicare con la parola “colpevole” una persona fin quando non c’è una sentenza definitiva. “Evitare la spettacolarizzazione dei processi” - Poi, com’era già di prassi ma viene ora stabilito da norme, il procuratore capo è colui il quale può fare dei comunicati stampa, o eccezionalmente solo per casi rilevanti fare delle conferenze stampa o autorizzare la polizia giudiziaria a farle: ciò in modo tale da evitare la spettacolarizzazione dei processi”, prosegue Modena, parlando ancora del principio sulla presunzione d’innocenza. “È un passo in avanti importante di fronte alla degenerazione di processi che diventano show, una forma di rispetto per chi si ritrova coinvolto ma anche per i fruitori dell’informazione, esposti di fronte a titoli che sembrano fiction”. Ci sarà battaglia anche su questo, c’è da scommetterci. Bettini, la giustizia e il segnale al Pd di Stefano Folli La Repubblica, 11 agosto 2021 Agitare il tema della separazione delle carriere equivale a inserire un cuneo tra Pd e Conte. Una contraddizione, in apparenza. O forse la presa d’atto che l’alleanza ha bisogno di una scossa. Non è certo un fulmine a ciel sereno la firma di Goffredo Bettini ad alcuni dei quesiti referendari sulla giustizia promossi dai radicali (limiti alla custodia cautelare, abolizione della legge Severino, separazione delle carriere): l’iniziativa era da tempo annunciata e aveva fatto notizia. Si capisce perché: la figura in penombra di Bettini, poco nota a chi non segue le cronache politiche, è tutt’altro che secondaria nella recente storia della sinistra, in particolare del Pd. Si tratta di una “eminenza grigia”, come si dice in questi casi: un consigliere che ama starsene nel retropalco, ma essenziale nel definire strategie e tattiche. Forse più le prime delle seconde. Ex comunista con un’ascendenza repubblicana, quindi laica, oggi rivendicata insieme al ricordo di Marco Pannella, Bettini passa - non a torto - per il principale teorizzatore della stretta intesa tra Pd e M5S, tanto che gli si attribuisce l’idea di Conte come “punto di riferimento di tutti i progressisti”. Oggi, al di là del successo molto relativo di tale alleanza, colpisce la divergenza sulla giustizia, il tema più politico che in questo momento condiziona il centrosinistra. Quando Bettini fece sapere che avrebbe firmato i quesiti, compreso il più dirompente, quello che vuole imporre la separazione delle carriere dei magistrati, la riforma Cartabia non era stata ancora approvata. Oggi invece ha avuto il “sì” della Camera e sappiamo quali polemiche abbia scatenato proprio nel circuito Pd-5S-LeU. Il neo-leader Conte ha promesso che la riforma - peraltro votata anche dai 5S - sarà smantellata non appena il suo partito avrà la forza elettorale per farlo. È la linea tradizionale di piena copertura della magistratura che accomuna la sinistra nelle sue varie accezioni, compresi ampi settori del Pd e appunto i Cinque Stelle. Ma i quesiti radicali appoggiati, tra gli altri, da Salvini e Renzi vanno in direzione opposta. Come ha scritto sul Fatto Franco Monaco, “difficile negare il segno ostile alla magistratura (...): troppi vivono questa stagione come l’occasione propizia per darle una lezione, profittando della crisi e delle divisioni che l’hanno investita”. Tuttavia non è credibile che Bettini e altri come lui, provenienti da sinistra, intendano fare la guerra alla magistratura. E allora? Non si può nemmeno ridurre il gesto a “una questione di coscienza”: almeno nel caso del super-consigliere, la valutazione politica non è del tutto decifrabile, ma di sicuro non è banale. Le interviste non aiutano granché a sbrogliare la matassa. Esiste o no un dissenso rispetto a Enrico Letta, che quella scelta ovviamente osteggia? Peraltro agitare il tema della separazione delle carriere equivale a inserire un cuneo tra Pd e Conte. Una contraddizione, in apparenza. O forse la presa d’atto che l’alleanza ha bisogno di una scossa per non essere solo un’operazione di palazzo. Riformare la giustizia anche al di là della legge Cartabia, sembra dire Bettini, deve diventare il vessillo di un Pd più coraggioso. Senza timore dei Renzi e dei Salvini. E l’intesa con Conte non può risolversi nella subalternità all’avvocato del popolo. Nell’idea originaria, costui era, sì, il riferimento dei “progressisti”, ma i fili dovevano essere saldamente nelle mani del Pd. Oggi invece Conte è sul palcoscenico e qualcuno gli permette di recitare il suo one man show. Qui la critica a Letta è implicita, ma è difficile non coglierla. Perché sui tempi del processo si è scelta la via scartata dai saggi? di Giorgio Spangher* Il Dubbio, 11 agosto 2021 Archiviata la concitata fase della trattativa sulla riforma della giustizia penale, che dovrebbe portare a una riduzione del 25% dei tempi dei processi, è possibile, forse, superando le logiche di schieramento e di posizionamento, avviare qualche pacata riflessione. Va del resto considerato che è concluso soltanto il primo tempo della partita, visto che dovremmo attendere l’esito del Senato. Inoltre, quanto agli effetti della riforma, essi sono cadenzati al momento al 2022- 2023 per l’attuazione della delega e al 2024- 2025 per quanto attiene la prima possibile decisione di improcedibilità. Fatte queste premesse, in primo luogo non può non segnalarsi che si sono determinate alcune slabbrature istituzionali: rapporti con il Csm, considerato che, mentre l’organo costituzionalmente legittimato sul tema del funzionamento della giurisdizione stava esprimendo un parere, il governo concludeva le trattative con i partiti; sede e modalità della elaborazione della riforma - da via Arenula a Palazzo Chigi; attendibilità del perseguimento degli obiettivi europei - date le criticità espresse da più fronti e una lunga attesa per i risultati. Il tema di maggior rilievo tuttavia, in secondo luogo, è costituito dai contenuti della riforma, da un punto di vista comparativo (Bonafede, Lattanzi, Cartabia), e sostanziale. Sotto il primo profilo è certo che il risultato finale, se messo a confronto con l’originario impianto dell’AC 2435, evidenzi sensibili miglioramenti in punto di garanzia. Tuttavia va onestamente affermato che già all’esito delle audizioni della commissione Giustizia e degli emendamenti proposti dai componenti della stessa, la proposta del relatore Vazio avrebbe superato alcune delle criticità del testo originario. È invece improponibile il confronto tra l’elaborato della commissione Lattanzi e l’esito finale della riforma passata alla Camera, sia per l’organicità dell’impianto, sia per i risvolti sistematici, sia per la capacità di analisi e rielaborazione. Quali che siano state le ragioni, di non difficile individuazione, il prodotto riformatore, al di là della confermata novità del sistema sanzionatorio, appare debole e soprattutto difetta dei più significativi elementi di novità che proprio nella prospettiva europea la proposta Lattanzi aveva suggerito di introdurre (si veda a pagina 51 della Relazione). È indubitabile che l’oggetto delle riforme fosse quello di superare la proposta Bonafede (la legge 3 del 2019) e la formulazione della proposta del deputato di Leu Conte (il “lodo bis” predisposto dal parlamentare). Però la criticità emerge facendo un raffronto tra le soluzioni della commissione Lattanzi e quelle adottate dalla guardasigilli Cartabia nei due Consigli dei ministri. Sul punto emerge un dato sorprendente: la commissione Lattanzi avanzava un ventaglio di proposte sulle quali c’è stato un confronto di opinioni tra i membri della stessa, lasciando aperta la strada della valutazione alla ministra, ritenendole tutte, con varie accentuazioni, praticabili. Tuttavia, leggendo la relazione finale, a pagina 56 emerge quanto segue: “Un’altra soluzione alternativa, pure discussa anche se non accolta come proposta della commissione, limita infine il meccanismo della improcedibilità per decorso dei termini di fase ai soli giudizi di impugnazione”. Si tratta della soluzione “Cartabia 1”, che ha poi gemmato in termini peggiorativi la soluzione “Cartabia 2”: regime transitorio, allungamento dei tempi, differenziazione tra le varie imputazioni. Si è creato un sistema che con legge ordinaria, nel tempo, sarà modificato e incrementato, come avvenuto per le altre previsioni “container”. Si impongono due domande: chi ha suggerito questa, peraltro legittima, scelta che era stata sconsigliata? E perché è stata fatta? Viene da chiederselo anche considerato che la presentazione degli emendamenti governativi non risulta essere stata accompagnata dalle ragioni poste a loro fondamento. *Professore emerito di Diritto penale processuale presso La Sapienza di Roma “Serve una tutela specifica per i giornalisti colpiti da querele temerarie” di Giulia Merlo Il Domani, 11 agosto 2021 Intervista a Nello Rossi, direttore editoriale di “Questione giustizia, la rivista giuridica di Magistratura democratica: “La tutela generale è insufficiente. Per i giornalisti è necessario un regime di tutela specifico, meglio rispondente alle peculiarità del mondo dell’informazione”, spiega. “Non sono un esperto di retroscena politici. Ma credo che la politica dovrebbe avere più coraggio e più capacità innovativa. E non solo sul versante delle liti temerarie”. La libertà di informazione è uno dei principi costituzionali più citati, ma anche meno difesi nella prassi. Denunce pretestuose per diffamazione e liti temerarie contro i giornalisti vengono spesso utilizzate non per veder tutelata (e risarcita) la propria reputazione, ma per inibire l’iniziativa di chi indaga per far emergere verità che sempre più spesso vengono taciute. Nelle ultime settimane Domani è finito al centro di uno scontro con Eni che ha chiesto il pagamento di 100mila euro entro dieci giorni a titolo di risarcimento per una presunta campagna diffamatoria. Il tutto senza aver avviato alcuna azione di tipo giudiziario. La materia è complessa, tuttavia “la tutela generale è insufficiente. Per i giornalisti è necessario un regime di tutela specifico, meglio rispondente alle peculiarità del mondo dell’informazione”, spiega l’ex magistrato Nello Rossi, direttore editoriale di Questione giustizia, la rivista giuridica di Magistratura democratica. La professione giornalistica merita particolare tutela giuridica? È evidente che la libertà di informazione si salvaguarda “anche” fornendo ai giornalisti, che ne sono i principali attori, un quadro di certezze e di garanzie giuridiche. Il che significa misurarsi con i problemi posti dalla figura bifronte del giornalista, che ha due volti diversi e opposti. Quali? Per un verso il giornalista, che di regola vive solo del proprio lavoro, è un soggetto debole, che deve essere protetto dalle possibili ritorsioni e intimidazioni dei detentori del potere politico o economico. Ma egli esercita anche un temibile potere nei confronti dei singoli cittadini perché - con l’uso arbitrario della sua libertà - può ledere beni preziosi come l’onore personale e professionale e la reputazione. Di qui l’esigenza di contemperare tutela e responsabilità. Una recente sentenza della Corte costituzionale è intervenuta, dichiarando parzialmente incostituzionale il carcere per i giornalisti in caso di diffamazione a mezzo stampa, nell’inerzia del parlamento. Quali interventi legislativi servirebbero, oggi? In Italia le condanne di giornalisti a pene detentive per il reato di diffamazione erano ormai una rarità assoluta. Ma la decisione della Consulta resta importante perché ha chiarito definitivamente che il carcere per i giornalisti è in contrasto con la Costituzione e che una pena detentiva è concepibile solo nei casi limite dell’aperta istigazione alla violenza e dei discorsi di odio. La stessa Corte era consapevole che la sua decisione avrebbe comunque avuto una portata limitata e perciò l’aveva rinviata di un anno, sollecitando il parlamento ad approvare una nuova disciplina in materia di diffamazione a mezzo stampa e di azioni civili temerarie. Purtroppo, come già accaduto per la disciplina del fine vita, il termine annuale è decorso senza interventi del legislatore, che restano però indispensabili. Non esiste solo la dimensione penale, dunque. Uno degli strumenti tipici per inibire l’iniziativa giornalistica sono le azioni civili temerarie: costano solo le spese di giudizio a chi le propone, ma per un giornalista - specialmente un freelance - sono un peso che spesso si trascina per anni. È una prassi che si può inibire? In quest’ambito non sono concepibili divieti o preclusioni assolute. Contro gli abusi - che ci sono - occorre invece mettere in campo un forte potere deterrente che oggi nel nostro ordinamento non esiste. Con lo sguardo rivolto soprattutto ai giornalisti più giovani spesso precari e privi di copertura assicurativa. Come si accerta la temerarietà di una causa e che elementi devono integrare la malafede e la colpa grave di chi agisce in giudizio? Gli indici rivelatori della colpa grave o della malafede possono essere diversi. Una rappresentazione gravemente falsata di fatti che potevano essere accertati con la normale diligenza. La deliberata scelta di ignorare orientamenti interpretativi consolidati. Errori marchiani sul piano procedurale. Inoltre la parte soccombente può essere condannata d’ufficio a pagare un’ulteriore somma, determinata equitativamente dal giudice, quando questi ritenga che vi sia stato un vero e proprio “abuso” dello strumento del processo. Queste norme di carattere generale sono sufficienti a tutelare i giornalisti da azioni intimidatorie o ritorsive? A mio avviso no. Nel contenzioso riguardante i giornalisti entrano in campo variabili - economiche, politiche, culturali - che richiedono un regime di tutela specifico, meglio rispondente alle peculiarità del mondo dell’informazione. Come sarebbe possibile realizzare una maggiore deterrenza? Chi promuove un’azione civile, rigettata dal giudice perché chiaramente infondata e pretestuosa, dovrebbe essere a sua volta condannato a pagare al giornalista una somma elevata a titolo di risarcimento. Somma che può essere predeterminata per legge - ad esempio un quarto della domanda risarcitoria, come prevede il disegno di legge Di Nicola all’esame del Senato - o quantificata dal giudice a partire da una significativa soglia legale. Una sorta di contrappasso per scoraggiare le richieste di risarcimenti milionari, proposte con la prevalente finalità di intimidire. Tuttavia siamo ancora all’anno zero e, nonostante molte proposte di legge si siano susseguite negli anni, nessuna è mai arrivata all’approvazione... In effetti la politica non sembra aver l’interesse o la capacità di adottare iniziative riformatrici. Al Senato sono da tempo impantanati sia il ddl Di Nicola in materia di liti temerarie, sia il disegno di legge di riforma complessiva del reato di diffamazione a mezzo stampa, che peraltro è stato oggetto di numerosi rilievi critici da parte di organismi rappresentativi dei giornalisti. Sono state criticate, in particolare, la mancata depenalizzazione della diffamazione (rimangono infatti in vita multe penali ritenute troppo elevate) e il regime delle rettifiche che estinguerebbero il reato ma solo a patto che la rettifica sia pubblicata senza alcuna replica. È la politica ad avere più da perdere se si crea un deterrente alle querele temerarie? Non sono un esperto di retroscena politici. Ma credo che la politica dovrebbe avere più coraggio e più capacità innovativa. E non solo sul versante delle liti temerarie. Si deve puntare maggiormente sulla giustizia riparativa che rammenda gli strappi e le lacerazioni del tessuto sociale provocati dall’illecito. Nella società dell’informazione e dell’immagine la più incisiva riparazione del danno provocato da un articolo lesivo dovrebbe consistere nella pubblica ammissione dell’errore e nella “restaurazione” della reputazione compromessa. Un capitolo a parte va dedicato anche alle querele dei magistrati ai giornalisti. Il tema è delicato perché si tratta di due figure di controllo democratico, che però spesso si scontrano ed esiste un preconcetto che dice che i magistrati querelanti vincano sempre, perché il giudice della controversia è loro collega... Da più parti si sono di recente levate critiche contro i magistrati che propongono querele. Non le trovo giuste. Da un lato le statistiche giudiziarie smentiscono ampiamente la tesi che i magistrati “vincano sempre”. Dall’altro lato c’è da considerare che per un magistrato l’onore professionale e la reputazione non sono orpelli ma strumenti essenziali di lavoro, che a volte è necessario difendere accettando il rischio del giudizio. Piuttosto c’è da superare il malvezzo per cui una affermazione diventa vera se non c’è stata una querela. Siamo di fronte all’ennesimo cortocircuito di un sistema imperfetto? La libera stampa e la magistratura indipendente devono operare come “poteri infedeli”, liberi da pregiudiziali vincoli di fedeltà verso altri poteri ma anche pronti a controllarsi reciprocamente. È quando questa “sana” relazione di reciproca infedeltà si inceppa, quando i due poteri non si controllano a vicenda ma si coalizzano e colludono impropriamente che cominciano le deviazioni e le scorrettezze. “Perché lo Stato vuole censurare il libro di Palamara sulle toghe?” di Simona Musco Il Dubbio, 11 agosto 2021 L’interrogazione di 14 europarlamentari italiani Bruxelles: “La libertà di stampa e di espressione sono contrastate da un organo statale, a rischio i diritti di tutti”. “Un attacco alla libertà di espressione”. E, di conseguenza, allo Stato di diritto. Rappresenterebbe questo, secondo 14 europarlamentari italiani, la richiesta di risarcimento di un milione di euro avanzata dall’Avvocatura dello Stato a carico di Luca Palamara, ex presidente dell’Anm. Una richiesta formalizzata nel corso dell’udienza preliminare conclusasi nelle scorse settimane con il rinvio a giudizio dell’ex pm romano, durante la quale l’Avvocato dello Stato ha sottolineato il “danno per le Istituzioni” legato al libro scritto dall’ex magistrato e dal giornalista Alessandro Sallusti, dal titolo “Il Sistema”, “presentato anche sulle spiagge”. Un libro che, di fatto, racconta una realtà ancora incontestata, spiegando il meccanismo delle correnti e la gestione delle nomine nelle procure più importanti d’Italia, un vero e proprio scandalo che l’indagine su Palamara aveva soltanto lasciato intravedere. La richiesta dell’Avvocatura era arrivata un anno dopo la pubblicazione di quel libro, ormai campione di vendite e conosciuto a menadito dagli addetti ai lavori. Una sorta di “manuale” che lo Stato non ha però gradito, puntando sulla censura per far recuperare credibilità alla magistratura. La scelta non è però piaciuta agli europarlamentari Sabrina Pignedoli (Ni), Antonio Tajani (Ppe), Salvatore De Meo (Ppe), Chiara Gemma (Ni), Carlo Fidanza (Ecr), Nicola Procaccini (Ecr, Raffaele Fitto (Ecr), Giuliano Pisapia (S& D), Dino Giarrusso (Ni), Alessandro Panza (Id), Raffaele Stancanelli (Ecr), Nicola Danti (Renew), Sergio Berlato (Ecr) e Massimiliano Salini (Ppe), che hanno presentato un’interrogazione bipartisan alla Commissione con richiesta di risposta scritta, partendo dalla risoluzione del Parlamento europeo del 25 novembre 2020 sul rafforzamento della libertà dei media. I parlamentari hanno dunque evidenziato come “questo Parlamento ha condannato “l’uso delle azioni legali strategiche tese a bloccare la partecipazione pubblica al fine di mettere a tacere o intimidire i giornalisti e i mezzi di informazione e di creare un clima di paura in merito alle notizie riguardanti determinati temi”“, sottolineando anche come “i problemi della magistratura italiana sono molto sentiti dall’opinione pubblica e che per la prima volta l’Avvocatura dello Stato agisce contro la pubblicazione di un libro”. Da qui la richiesta di chiarire se la Commissione “non ritiene che l’azione dell’Avvocatura dello Stato si possa configurare come una azione temeraria “utilizzata per spaventare i giornalisti affinché interrompano le indagini sulla corruzione e su altre questioni di interesse pubblico”, come afferma la risoluzione del Parlamento” e se “la libertà di stampa e di espressione in Italia siano contrastate da un organo dello Stato, che dovrebbe tutelare questi diritti, configurandosi come un rischio per lo Stato di diritto”. La notizia era stata accolta con non poco stupore dai due autori. Per Sallusti si tratterebbe di “un tentativo di estorsione dello Stato nei miei confronti e di Palamara”, mentre l’ex consigliere del Csm si è detto “turbato dalla richiesta di censura del libro da parte dei rappresentanti dell’Avvocatura dello stato: vogliono forse silenziarmi?”. Contro la richiesta dell’Avvocatura - che ha anche invocato il sequestro del libro - si è ribellato anche il Codacons. “Si tratta di un gravissimo attentato alla libertà di espressione e di una azione del tutto paradossale - aveva evidenziato in una nota -. Il libro riporta infatti gli scandali del sistema giudiziario italiano che lo Stato non ha saputo impedire, e porta i cittadini a conoscere cosa accade nel settore della giustizia attraverso un lavoro di ricostruzione dei fatti. Se è vero che lo Stato chiede soldi a due scrittori liberi di esprimersi, gli stessi Sallusti e Palamara devono ora agire contro lo Stato in via riconvenzionale chiedendo 10 milioni di euro di danni per non aver saputo prevenire ed impedire la guerra tra bande nella magistratura italiana - proseguiva l’associazione -. In tal senso il Codacons offre il proprio staff legale per sostenere i due autori del libro contestato e difenderli in questo vergognoso giudizio”. Giustizia tributaria, l’evasore non può chiedere l’oscuramento della sentenza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2021 La richiesta è giustificabile solo se è in gioco l’onore delle parti, ma non quando il cittadino e l’Erario si confrontano su tesi differenti. Le sentenze di tributario non contengono dati sensibili e non incidono su diritti personalissimi, per questo non c’è ragione di oscurarle. Una decisione diversa il giudice potrebbe adottarla solo se fosse in gioco l’onore e la reputazione delle parti per illeciti o condotte elusive. Mentre il no è giustificato se lo scontro tra contribuente ed Erario riguarda solo la diversa interpretazione di una legge. Per l’oscuramento servono ragioni valide - La Corte di cassazione, con la sentenza 22561, respinge il ricorso di un cittadino che chiedeva, senza neppure prendersi la briga di dare delle motivazioni, che dalla sentenza della Commissione tributaria che lo riguardava venissero oscurati tutti i suoi dati. Un’istanza che presupponeva, sottolinea la Cassazione, quasi un obbligo di legge. Ma così non è, altrimenti non sarebbe necessario, come invece è, indicare le ragioni, della domanda di anonimizzazione. Il Garante e le discrezionalità del giudice - La norma, infatti, non specifica quali sono i motivi che legittimano la richiesta. Spetta al giudice pesare i contrapposti interessi, mettendo sul piatto della bilancia le esigenze di riservatezza del singolo e il principio della generale conoscibilità dei provvedimenti giurisdizionali e del contenuto integrale delle sentenze “quale strumento di democrazia e di informazione giuridica”. Un riferimento per il giudice possono essere le linee guida del Garante della privacy, del 2010, in materia di riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica. Indicazioni che spaziano dalla presenza di dati sensibili, alla delicatezza della vicenda oggetto del giudizio. Nulla di tutto questo è, in genere, contenuto nelle sentenze delle commissioni o delle sezioni tributarie. Per questo il giudice può negare il consenso alla nota della Cancelleria volta precludere, in caso di riproduzione del provvedimento, anche per informazione giuridica, l’indicazione di generalità o dati utili a identificare il contribuente. Ad avviso della Suprema corte non c’è motivo. In più il ricorrente vince anche la causa tesa ad affermare il carattere di pertinenza di un lastrico solare. E i giudici chiariscono: se la proprietà è esclusiva va considerata una pertinenza a prescindere dal fatto che il bene sia censito o meno insieme all’immobile principale. Sul punto vince ma non sulla possibilità di anonimizzare i suoi dati. Niente tenuità del fatto per il piccolo spacciatore che vive dell’attività illecita Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2021 Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 31427 depositata il 10 agosto. No alla particolare tenuità del fatto per il piccolo spaccio messo in atto dallo straniero senza fissa dimora che trae da questa attività l’unica sua fonte di sostentamento. Lo ha deciso la Cassazione con la sentenza n. 31427 depositata il 10 agosto. L’imputato era stato trovato in possesso di 10 grammi di sostanza stupefacente di tipo marjuana dalla quale potevano ricavarsi 40 dosi. Di qui la condanna a otto mesi di reclusione e ad un’ammenda di mille euro. Sia in tribunale che in appello la difesa ha invocato l’applicazione dell’articolo 131-bis del codice penale, non punibilità per particolare tenuità del fatto. Una richiesta respinta nei due gradi di giudizio e riproposta in Cassazione. Ed anche i giudici di legittimità hanno escluso la possibilità di applicare il 131-bis. I magistrati ricordano che affinché si possa applicare la particolare tenuità del fatto devono ricorrere insieme due requisiti la particolare tenuità del comportamento e la non abitualità del comportamento. E l’attività di piccolo spaccio non può essere inquadrata “nella minima offensività” anche perché come sottolineano i giudici della corte di Appello “è la tipica espressione di chi, straniero senza fissa dimora ed attività lecita in Italia, vive esclusivamente della sua attività di spaccio di droga”. Campania. Più visite e telefonate a casa per un carcere più umano di Viviana Lanza Il Riformista, 11 agosto 2021 La proposta dell’Osservatorio regionale. Spazi all’aperto inutilizzati, passeggi ricavati tra edifici impersonali, dotazioni igieniche insufficienti nelle celle, il sovraffollamento, la mancanza di spazi per la socialità: “In un luogo senza tempo, carcere e affettività sembrano due parole inconciliabili”, ha ribadito il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello presentando, nella sede del Consiglio della Campania, un lavoro teso a dimostrare come si potrebbe, invece, rendere i due temi perfettamente conciliabili. “Abbiamo ritenuto che da entrambi questi temi, habitat e affettività, occorre ripartire per riportare al centro dell’attenzione il dettato costituzionale che assegna alla pena una funzione rieducativa e non afflittiva. Habitat e affettività - ha spiegato Ciambriello - intesi come un insieme di sentimenti, emozioni, stati d’animo e passioni, in grado di garantire l’espressione degli aspetti fondamentali della personalità”. Lo studio presentato dal garante è il risultato di contributi di professionisti, testimonianze di garanti e una proposta di legge in materia di tutela delle relazioni affettive intime delle persone detenute la cui prima firmataria è la senatrice Monica Cirinnà. Un lavoro su cui ha posto l’attenzione anche il presidente del Consiglio regionale della Campania Gennaro Oliviero: “Grazie all’impeccabile lavoro di Ciambriello e alla sua collaborazione con il Consiglio - ha affermato Oliviero - siamo in grado di avere un focus e un’apertura costante sugli ambienti carcerari. Il sovraffollamento, da un lato, e la difficoltà di garantire l’affettività e un rapporto costante con la famiglia, dall’altro, devono essere stigmatizzati dalla politica che deve indicare le soluzioni. Dobbiamo ricordare che in carcere non c’è una belva, ma una persona che ha sbagliato e deve scontare una pena certa e che passi anche attraverso la certezza dei suoi diritti”. Promosso dall’Osservatorio regionale sulla detenzione, lo studio svela come sia possibile rendere il carcere uno spazio vivibile e all’interno del quale si possa trovare posto tanto per la certezza della pena quanto per il recupero dei sentimenti e dell’affettività a cui ciascun recluso ha diritto. Il tema delle relazioni affettive, che poi si lega anche a quello della sessualità del detenuto, rientra tra quei diritti fondamentali che in carcere attualmente ancora non trovano spazio, definiti il “nocciolo duro della dignità”. Non trovano spazio né fisico né culturale. Di qui la proposta di una legge che consenta ai detenuti di recuperare il proprio diritto all’affettività. Nel dettaglio si propone, per detenuti e internati, la possibilità di una visita al mese, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore, delle persone autorizzate ai colloqui, visite da consentire in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari. Tra le varie modifiche proposte, anche quella di consentire telefonate con i familiari con una frequenza superiore a una alla settimana, anche quotidiana, e di durata massima, per ciascuna conversazione, di venti minuti. Si tratta dunque di rivedere la normativa penitenziaria che, nonostante abbia da tempo riconosciuto il valore dei rapporti affettivi, in realtà non riesce ancora a garantire queste relazioni. E tutto sulla scia degli esempi virtuosi di altri Paesi come Francia, Svezia, Croazia, Austria, Danimarca, Olanda, Norvegia, Belgio, Svizzera e Portogallo, dove la possibilità, per i detenuti, di incontrare i familiari in spazi adeguati e senza il controllo visivo e auditivo è una prassi consolidata da anni. San Gimignano (Si). “Ranza, il carcere è un forno. Soffrono guardie e reclusi” di Simona Sassetti La Nazione, 11 agosto 2021 La garante dei detenuti Sofia Ciuffoletti: “Ci sono 235 posti e 277 persone. Poca acqua e attività sospese. Questo porta ad autolesionismo e suicidi”. È un caldo insopportabile all’interno delle carceri italiane e anche a Ranza l’incubo ‘estate rovente’ è tornato nelle celle sovraffollate. La struttura del carcere, di cemento e ferro, non fa altro che amplificare il calore e a risentirne è tutta la popolazione penitenziaria, detenuti e operatori. “A San Gimignano ci sono 277 detenuti rispetto ai 235 posti - spiega la garante dei detenuti di Ranza Sofia Ciuffoletti - e tra questi ci sono ancora detenuti di media sicurezza che dovevano essere separati. Un problema grave che aumenta la fatiscenza di queste strutture”. In questi forni incandescenti capita di stare in tre in 12 metri quadrati. “I detenuti passano anche 20 ore al giorno in una cella con 45° - afferma Ciuffoletti. In più ad agosto non ci sono le attività e i corsi come la scuola, falegnameria e giardinaggio”. Tutto questo porta sempre più spesso ad atti autolesionisti e suicidi, che si accentuano in queste situazioni estreme. “Questo - afferma - è proprio il momento in cui si verifica il picco annuale di questi atti”. Il sovraffollamento e il caldo rovente è in tutte le carceri d’Italia la scintilla che fa scoppiare un incendio di sofferenza. E se a questa sofferenza si aggiunge la mancanza d’acqua e l’insufficienza delle docce che possono offrire sollievo, si rasenta la tortura. “Ancora oggi moltissimi detenuti - spiega Ciuffoletti - comprano l’acqua in bottiglia per bere e per lavarsi. Questa è una situazione di penuria di approvvigionamento idrico che diventa ancora più drammatica in estate, in violazione di quel principio cardine che è il divieto di tortura e di trattamento disumano e degradante”. Ma a soffrire non sono solo i detenuti ma anche le loro famiglie e gli agenti. “La pena è comune - afferma Ciuffoletti - e coinvolge anche chi entra in carcere per le visite. Ranza ha riaperto ai familiari il 6 agosto, una notizia positiva visto che prima erano solo online, il problema è che questi colloqui, a causa di tutte quelle norme dettate dalla pandemia, vengono fatti all’esterno sotto il sole rovente”. Se la situazione a Ranza resta molto difficile, diversa è quella a Santo Spirito a Siena che, grazie alla predisposizione del carcere e anche a un numero ridotto di persone al suo interno, non sta vivendo tali disagi. “Il carcere di Siena è una situazione particolare, perché è un carcere molto piccolo, una casa circondariale realizzata in un vecchissimo convento e in questo momento ospita poco più di 50 persone - spiega la garante dei detenuti del carcere di Siena Cecilia Collini - Nella situazione problematica generale il carcere di Siena non presenta particolari problemi in estate”. Oristano. “Caldo e celle sovraffollate, Massama è al collasso” La Nuova Sardegna, 11 agosto 2021 Ritorna il problema del sovraffollamento nel carcere di Massama. “Il caldo afoso di questi giorni, reso ancora più insopportabile dagli incendi che hanno favorito un innalzamento delle temperature, insieme alla convivenza di tre o quattro persone in celle progettate per due, stanno creando disagio tra i ristretti della Casa di reclusione “Salvatore Soro” di Oristano Massama”. La denuncia è di Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”. Facendosi interprete dei disagi segnalati dai familiari dei detenuti, Caligaris riferisce di una situazione piuttosto difficile all’interno dell’istituto dove, secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 luglio risultano 262 reclusi per 259 posti. “Si tratta solo apparentemente di un’eccedenza insignificante - scrive Caligaris. In realtà non tutti i posti nella Casa di reclusione sono sempre disponibili per necessità inerenti ristrutturazioni e/o adeguamenti e ciò costringe alcuni detenuti a condividere le celle con più persone. Occorre inoltre ricordare che la maggior parte dei cittadini privati della libertà di Massama sono ergastolani e dovrebbero poter usufruire di celle singole”. Ma c’è di più: “Attualmente quello di Oristano, secondo i dati ministeriali, è l’unico Istituto sardo oltre il limite regolamentare. Quel che emerge con sempre maggiore evidenza dal resoconto ministeriale è però il fatto che la Sardegna primeggia a livello nazionale per il numero delle Case di reclusione all’aperto semi-vuote (208 presenze per 613 posti), per la concentrazione di detenuti in Alta Sicurezza e 41 bis (circa 750), per la gravissima carenza di Direttori (quattro su dieci) - scrive ancora l’esponente di Sdr. Senza dimenticare i problemi legati all’inadeguatezza del numero del personale della polizia penitenziaria, degli educatori e del personale amministrativo. L’auspicio - conclude Caligaris - che la ministra Cartabia intervenga personalmente per garantire almeno i direttori degli istituti”. Terni. 48 ore senza acqua e senza luce nel carcere terninrete.it, 11 agosto 2021 Senza luce e senza acqua. Così si ritrova il carcere di Terni da 48 ore. A renderlo noto i sindacati della polizia penitenziaria Sappe e Sarap. “Da giorni ormai si vive nell’Istituto ternano una situazione a dir poco drammatica. Senza energia elettrica e senza acqua per un guasto che si ripete da mesi e per il quale non sono mai stati presi provvedimenti seri - scrive il Sappe - il personale è allo stremo e la situazione al collasso”. Sulla stessa lunghezza d’onda il Sarap: “Stesso carcere, stesso problema, al Sabbione di Terni dopo mesi di denuncia ancora una volta si ripresenta il problema dell’ennesimo black-out che questa volta dura da più di 48 ore, situazione che per gestirla al meglio il vertice dell’istituto è arrivato a pensare di trattare con la popolazione detenuta concedendole di allungare la durata di apertura delle celle sino alle ore 22.00, come se tale concessione facesse riapparire come per magia l’energia elettrica, invece quanto trattato non ha fatto altro che compromettere l’operato del personale di Polizia Penitenziaria in prima linea, che si è trovato in una situazione così imbarazzante, senza avere mezzi adeguati per gestirla. Questa volta il problema si è protratto anche nel turno di notte. E la nottata i poliziotti l’hanno passata senza torce a sufficienza per il controllo dell’istituto, senza i condizionatori d’aria e senza acqua£. Calamadrei, il j’accuse alle prigioni italiane: “Luoghi di tortura”. di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 agosto 2021 “Bisogna aver visto!”, è la parola d’ordine che dette Piero Calamandrei in uno dei suoi primi interventi parlamentari del 1948. Non è difficile notare quanto siano attuali le sue parole sulla condizione carceraria. Riprese quel suo intervento sulle carceri nell’introduzione al numero 3 del marzo del 1949 della rivista Il Ponte, che titolò “Bisogna aver visto”. Ecco uno stralcio: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Qui invece riportiamo il passaggio fondamentale del suo lungo intervento: “Onorevoli colleghi, al Senato è stato parlato lungamente delle carceri. È un argomento sul quale, credo che quello che dirò non potrà suscitare opposizione o interruzioni da nessuna parte. Si è parlato lungamente delle carceri e ne hanno parlato soprattutto coloro che più avevano il diritto di parlarne, cioè quelli che vi sono stati lungamente, che vi hanno sofferto e che hanno sperimentato quel che vuol dire esser recluso per dieci o venti anni. Signor Ministro, alle raccomandazioni fatte al Senato sulla necessità di una riforma fondamentale dei metodi carcerari e degli stabilimenti di pena, ella ha risposto dando generiche assicurazioni. Ora, io vorrei che non ci si contentasse di assicurazioni non impegnative, come tutti i Ministri - anche quando sono seri e coscienziosi come ella è - sono disposti a dare, nel rispondere alle osservazioni che si fanno sui loro bilanci. Io vorrei che da questa esperienza di dolore che colleghi di questa Camera e del Senato hanno sofferto, nascesse per l’avvenire un effetto di bene. Questo mistero inesplicabile della vita umana che è il dolore, si può forse avvicinarsi a spiegarlo, soltanto quando si pensi che il dolore di un uomo possa servire a risparmiare il dolore ad altri uomini; e allora si sente che anche il dolore può avere la sua ragione. Ora, questa esperienza di dolore che i nostri colleghi hanno fatto non deve andare perduta. In Italia il pubblico non sa abbastanza - e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di esperimentare la prigionia, non sanno - che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto. Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione sulla porta della Corte d’appello, il quale aveva chiesto, una volta, ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo egli si rendeva conto che avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi, e avrebbe potuto poi, dopo quella esperienza, adempiere con coscienza a quella sua funzione di giudice di sorveglianza, che potrebbe esser pienamente efficace solo se fosse fatta da chi avesse prima esperimentato quella realtà sulla quale deve sorvegliare. Vedere! questo è il punto essenziale. Per questo, signor Ministro, ho presentato un ordine del giorno con cui si chiede al Governo di nominare una Commissione d’inchiesta parlamentare fatta di deputati e senatori, fra i quali siano inclusi in gran numero coloro che hanno sperimentato la vita dei reclusori; in modo che gli esperti possano servir di guida agli altri in queste ispezioni che dovrebbero compiersi non con visite solenni e preannunciate, come è accaduto di recente nel carcere di Poggioreale, ma con improvvise sorprese e con i più ampi poteri di interrogare agenti carcerari e reclusi, ad uno ad uno, a tu per tu, da uomo a uomo, senza controlli e senza sorveglianza. Solo così si potrà sapere come veramente si vive nelle carceri italiane. Voi sapete che quel sorprendente opuscolo che costituisce una delle glorie più grandi della civiltà italiana, quel miracoloso li In Gabbia Intervento alla Camera dei Deputati, 27 ottobre 1948. Bisogna aver visto bretto “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, che riuscì ad abolire in pochi anni in Europa la tortura e la pena di morte, è nato, direi quasi, per caso, proprio perché qualcuno aveva visto come si viveva e si soffriva nelle prigioni. Il Beccaria non era un giurista, era un economista: andava la sera in casa degli amici conti Verri, uno dei quali, Alessandro, ricopriva in quegli anni il pietoso ufficio di “protettore dei carcerati”. La sera Alessandro raccontava agli amici quello che aveva visto nell’esercitar quella sua missione caritatevole: gli orrori di quelle carceri, le sofferenze di quei torturati; e il Beccaria ne rimase talmente turbato che non come un trattato scientifico, ma come un grido di angoscia sentì uscir dal suo cuore quelle poche pagine che bastarono in pochi anni a travolgere in tutta l’Europa i patiboli e gli strumenti di tortura. Ora, onorevoli colleghi, questo bisogna confessar chiaramente: che oggi in tutto il mondo civile, nella mite ed umana Europa, a occidente o a oriente e anche in Italia (ma forse in Italia meno che in altri Paesi d’Europa) non solo esistono ancora prigioni crudeli come ai tempi di Beccaria, ma esiste ancora, forse peggiore che ai tempi di Beccaria, la tortura. Questi sono argomenti sui quali di solito si ama di non insistere; si preferisce scivolare e cambiar discorso. Eppure bisogna avere il coraggio di fermarcisi. Ai primi di settembre, al congresso dell’Unione parlamentare europea ad Interlaken, al quale intervennero numerosi colleghi che vedo presenti in quest’aula, ci accadde, nel discutere un disegno preliminare di costituzione federale europea, di imbatterci in un articolo, che nella sua semplicità era più terribile di qualsiasi invettiva: “È vietata la tortura”. Nel leggerlo, abbiamo provato un’impressione di terrore: in Europa nel 1948, c’è dunque ancora bisogno di inserire nel progetto di una costituzione federale, da cui potranno essere retti domani gli Stati uniti d’Europa, questa avvertenza?”. Controlli sul Green Pass, il pasticcio all’italiana di Francesco Bei La Repubblica, 11 agosto 2021 Il corto circuito che si è creato intorno alla certificazione verde Covid 19 rischia di recare un danno alla credibilità di uno strumento che è stato concepito per farci sentire tutti più liberi e più sicuri. È un gran peccato il corto circuito che si è creato nelle ultime 48 ore intorno al Green Pass. Non fa giustizia degli sforzi del governo e del generale Figliuolo sulle vaccinazioni e, soprattutto, rischia di recare un danno - speriamo non irreparabile - alla credibilità di uno strumento che è stato concepito per farci sentire tutti più liberi e più sicuri. Il presidente del Consiglio era riuscito a portare a casa il provvedimento e a farlo passare nonostante le proteste, le manifestazioni di piazza e il tentativo di sabotaggio di un partito della sua stessa maggioranza, la Lega. Una missione quasi impossibile, uno sforzo ripagato tuttavia dalla fiducia degli italiani che in 38 milioni hanno già nel portafoglio o sullo smartphone il lasciapassare verde e sono intenzionati ad usarlo. I problemi sono sorti a seguito di una serie di dichiarazioni della ministra dell’Interno Lamorgese al quotidiano “La Stampa”. Non un ministro qualunque, ma proprio la titolare del dicastero che dovrebbe occuparsi di far rispettare e osservare le leggi promulgate dal suo governo. Spiace doverci occupare di Lamorgese, una persona seria che serve lo Stato da 40 anni, nel momento in cui sta subendo un attacco politico strumentale sulla gestione dell’emergenza migranti, ma la ministra ha commesso due errori abbastanza gravi a cui palazzo Chigi ha dovuto porre in fretta rimedio. Il primo errore è stato affermare che non spetta ai ristoratori (o agli altri esercenti, il discorso è lo stesso) verificare l’identità del possessore di Green Pass. E perché mai? Gli impiegati di un albergo sono tenuti a chiedere il documento di identità ai turisti che vogliono prendere una camera, i baristi sono obbligati a chiederlo ai sospetti minorenni che vogliono consumare bevande alcoliche, i tabaccai lo devono pretendere da chi vuole comprare sigarette se sospettano non abbia 18 anni, persino i cassieri dei cinema lo devono chiedere a chi vuole vedere film vietati ai minori. Dunque dov’è il problema? Per fortuna è intervenuto il Garante della Privacy, sollecitato dalla Regione Piemonte che chiedeva chiarimenti su questo caos, a specificare l’ovvio: i ristoratori possono chiedere di esibire il documento di identità insieme al Green Pass. Del resto era cristallino il testo del Dpcm emanato da Draghi il 17 giugno: “L’intestatario della certificazione verde all’atto della verifica dimostra, a richiesta dei verificatori, la propria identità personale mediante l’esibizione di un documento di identità”. Dove per “verificatori” andavano appunto intesi tutti, non solo i pubblici ufficiali. Oltretutto sono anche previste sanzioni pesanti, fino alla chiusura del ristorante o del bar, per chi dovesse far banchettare persone no vax con lasciapassare falso o di un’altra persona. Del tutto legittime e comprensibili dunque le richieste salite dai rappresentanti di categoria di abolire le relative sanzioni dopo aver sentito Lamorgese. E invece le multe restano, così come l’obbligo di verificare il Green Pass, se necessario e se si sospetta la truffa, anche con la richiesta dei documenti. L’altro errore comunicativo della ministra è quello relativo al chi deve controllare i trasgressori. “Non si può pensare che il controllo venga svolto dalle forze di polizia - aveva dichiarato - perché significherebbe distoglierle dal loro compito primario, che è garantire la sicurezza”. Parole sconcertanti, che equivalgono a un tana libera tutti. Il messaggio che è passato, nel paese dei furbi, è infatti che questo Green Pass non è una cosa seria se mancano i controlli e nessuno sanziona. E pensare che c’eravamo tanto dannati per averlo in tempo. No, signora ministra, “garantire la sicurezza” significa anche garantire che il mio vicino di tavolo non sia un falsario che non si è voluto vaccinare e ora sta mettendo a rischio la mia vita e quella dei miei famigliari. Dopotutto non sono stati i poliziotti e i carabinieri, durante il lockdown, a effettuare i controlli delle famigerate autocertificazioni che abbiamo firmato a milioni? Non era sicurezza anche quella? Ora arriva questa circolare prefettizia per fare chiarezza e ribadire quello che non ci sarebbe stato bisogno di ribadire, ovvero che il Green Pass è insieme un obbligo e un dovere. Chiama in causa anzitutto la responsabilità del cittadino, ma a questa deve corrispondere uguale responsabilità e serietà da parte delle Istituzioni. Affinché il lasciapassare verde, uno strumento essenziale per spingere le vaccinazioni e convincere gli ultimi titubanti, non si trasformi in una burla, come purtroppo abbiamo rischiato in queste 48 ore di hellza-popping comunicativo. Vivere e morire con dignità: le battaglie di Filomena Gallo di Carmine Fotia L’Espresso, 11 agosto 2021 L’avvocata dell’Associazione Luca Coscioni spiega perché il cuore della politica passa dal corpo delle persone. E dalle conquiste sulle leggi civili. “Dal corpo delle persone al cuore della politica”. Sono conquistato da questa frase di Filomena Gallo - 53 anni, nata in Svizzera ma poi cresciuta nel paese paterno, Teggiano, a cavallo tra il Salernitano e la Lucania, avvocata, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, promotrice del referendum sull’eutanasia (si può firmare fino a settembre. Per informazioni c’è il sito referendum.eutanasialegale.it). La incontro nella sede dell’associazione in via di San Basilio a Roma e non è solo la sua bellezza mediterranea a conquistarmi: lineamenti forti, incorniciati dai capelli corvini, Filomena ricorda Maria Callas o Anna Magnani. Né la circostanza che quel nome sia stato molto importante nella mia famiglia. Né il fatto che conosco il suo impegno da quando, lavorando a La 7, la incontrai per un reportage sulle nuove famiglie italiane, perché lei si occupava di coppie infertili che volevano ricorrere alla fecondazione assistita. È che queste parole, a ben pensarci, raccontano molto bene questa estate del 2021. La seconda dopo la pandemia, sospesa tra timori e speranze. Segnata dall’irrompere dei diritti sulla scena politica: diritti violati, come quelli dei migranti o dei detenuti torturati a Santa Maria Capua Vetere (a proposito, ricordo che quando pubblicammo su L’Espresso un reportage sulle carceri italiane, erano i giorni delle rivolte, chiesi di intervistare il direttore del Dap, Francesco Basentini, che si rifiutò di parlare con noi. Ed ora abbiamo capito perché). Diritti che forse finalmente si affermano, come nella Legge Zan; diritti ancora negati, come quello alla libertà di ricerca; il diritto di scegliere come vivere e come morire; il diritto di farsi in santa pace una canna. In quest’ultimo caso, in particolare, si raggiunge il massimo dell’ipocrisia: nella vita reale l’uso della cannabis è un’abitudine come lo spritz, tanto che nelle fiction e nei film lo spinello è totalmente liberalizzato, fino al punto che abbiamo una fiction prodotta dalla Rai, nella quale un vicequestore inizia tutte le sue giornate con un bel cannone, mentre migliaia di giovani sono sottoposti a sanzioni assurde perché trovati in possesso di un decimo di quel che si presume consumi quotidianamente Rocco Schiavone. Perciò penso che quella di Filomena non sia solo una frase. In realtà è un vero e proprio programma politico. La politica dei divieti è la risposta della destra reazionaria su scala europea alla crisi della democrazia: l’unico potere residuo della politica divenuta ancella dell’economia, schiava del tempo breve dei social, lontana dai problemi quotidiani delle persone reali, consiste nella lunghissima serie di divieti e assurde pretese di intervenire persino nella vita intima. Uno stato impotente che si riscopre invece potente solo nel divieto, una puzza insopportabile di stato etico, mascherato di buone intenzioni. Un lungo elenco contenuto nel prezioso volumetto curato da Filomena Gallo e Marco Cappato: “Proibisco Ergo Sum. Dall’embrione al digitale, divieti e proibizioni made in Italy”. Quella di cui mi parla Filomena è proprio un’altra idea della politica: “Un conto è limitare la libertà personale per far sì che questa non confligga con quella altrui, diverso è ritenere di sapere quale sia il modo corretto d’intendere la vita e cosa sia necessario per il benessere della persona e le relazioni umane. Il Parlamento è lontano dalla scienza e dal diritto. Pensi che l’articolo 1 della Legge 40 sulla fecondazione assistita dice “è consentito ricorrere…”, ma cosa vuol dire? Che lo stato concede quel diritto? Da questa concezione dei diritti “octroyé” nasce una legislazione fatta di divieti assurdi che limitano la libertà di ricerca. Basta pensare al divieto sugli embrioni crioconservati che non possono essere né utilizzati per altre coppie infertili né per le cellule staminali, che si stanno rivelando preziose per curare il Parkinson, il diabete e altre malattie gravi. Così l’Italia, a causa di quel divieto, è fuori dalla ricerca internazionale”. Non è contraddittorio battersi per il diritto ad avere un figlio e il referendum sull’eutanasia? In un caso è una scelta di vita, nell’altro di morte, domando. “Non c’è alcuna contraddizione”, replica Filomena Gallo, “tra il battersi per la libertà di ricerca e il diritto alla cura e il diritto di scegliere come morire. Chi sceglie di morire lo fa perché si sente prigioniero del suo corpo. Tutte le persone che ho accompagnato fino alla fine non erano abbandonate. Prima di arrivare a quel momento c’è da assistere e prendersi cura della persona che per esempio non può avere dal servizio sanitario la sedia a rotelle che le serve perché ha già un materasso ambulatoriale. È il risultato dei tagli alla spesa sanitaria, delle gare al ribasso. E proprio noi che ci battiamo per il diritto all’eutanasia, purchè frutto di una consapevole decisione, vogliamo cura e assistenza per chi è alla fine della vita. Poi vogliamo che ci sia la libertà di scelta”. Filomena sa accogliere il dolore degli altri, come sanno fare solo le donne meridionali, ma rispetto all’iconografia tradizionale di manifestazione del dolore lei ha una levitas tutta sua. Formatasi in una vita fatta di incontri importanti: “Ho conosciuto Luca Coscioni nel 2004, quando mobilitò cento premi Nobel contro il divieto all’utilizzo degli embrioni nella ricerca, vidi quest’uomo che parlava con un modulatore vocale, e udii le sue parole: “Non abbiamo tempo e non possiamo aspettare le scuse dei prossimi papi”. Luca era dirompente, con il suo stesso corpo ci diceva che ognuno di noi ha una responsabilità nel mondo. Devo quello che sono oggi a Luca Coscioni, a Marco Pannella, Poi Emma Bonino, Welby attraverso la moglie Mina, Marco Cappato: da tutti loro ho imparato che dal corpo del malato si arriva al cuore della politica. Con le azioni giuridiche e la disobbedienza civile il corpo della persona diventa il centro dell’azione. Ho sentito persone dire: “Non voglio essere stordito dalla morfina, voglio salutare le persone che amo, dire che sto partendo per il mio viaggio”. La sentenza Cappato emessa dalla Corte costituzionale non garantisce il diritto al suicidio ma alla libertà di scelta. E difatti il quesito referendario che proponiamo abroga le norme del codice Rocco ma qualora l’eutanasia sia commessa contro una persona incapace o il cui consenso sia stato estorto con violenza o minaccia o contro un minore di diciotto anni, resta un reato”. E con la fede come la mettiamo? “Sono andata a scuola dalle suore, sono cattolica, ero amica di un prete straordinario come Don Gallo, non vedo alcuna contraddizione tra la mia fede e l’impegno per i diritti. In fondo non fu Papa Wojtyla a dire: “Lasciatemi andare nella casa del padre”?”. Il Covid-19 ha forse aperto un’era in cui si dà più valore alla salute e alla scienza?, azzardo. “In un certo senso sì”, replica la segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, “perché è evidente ormai a tutti che lasciare deperire il welfare sanitario con i tagli dissennati ha fatto sì che durante l’emergenza siano state lasciate indietro tutte le altre patologie. Sono stati rallentati gli screening dei centri oncologici; si è fermata l’assistenza per le persone autistiche, per le persone con gravi disabilità; l’obiezione di coscienza rischia di bloccare il diritto all’aborto; i centri per la fecondazione assistita sono stati fermi per mesi; buone leggi come quella del 1987 sulle barriere architettoniche sono restate lettera morta e il ministero per le disabilità è senza portafoglio. È l’altra faccia della pandemia della quale nessuno si occupa, sembra una battaglia dei soliti pazzi dei Radicali. Eppure riguarda tutti perché ciascuno di noi ha un parente, un amico, una persona cara che soffre per questo. Ora i soldi ci sono: non ci sono più alibi”. Filomena Gallo di quale partito è? “Sono stata iscritta al Partito Radicale finché c’era Marco Pannella, con il quale avevo un bellissimo rapporto: era l’unico al quale concedevo di usare un vezzeggiativo, perché odio quando mi storpiano il nome in Mena, e infatti lui mi chiamava Minuccia. E poi c’è l’amicizia con Emma Bonino. Sì, mi sento una persona di sinistra, ma è la sinistra che ha smesso di fare la sinistra perché non mette al centro di tutto i diritti, che sono per tutti o per nessuno. La Costituzione mette la persona e dunque il suo corpo al centro. Per questo diventa essenziale garantire in ogni campo il diritto alla scelta: di avere o non avere un figlio, di curarsi, di porre fine alla propria vita in certe condizioni. Tuttavia, per ottenere questi diritti sono state e saranno necessarie le battaglie: per avere la legge sulle unioni civili abbiamo dovuto attendere una sentenza della Corte costituzionale e abbiamo una legge sul fine vita solo grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato, e sulla legge Zan subiamo l’ingerenza della segreteria di Stato del Vaticano. Se ho paura? Mi arrivano tanti insulti: mi dicono che sono un’assassina, mi augurano un tumore alla gola in modo che smetta di parlare, ma sono di più quelli che mi incoraggiano e che sostengono l’Associazione”. Potete dirmi che si tratta come sempre di quei pazzi dei radicali, dei soliti salotti intellettuali, di eterne minoranze che non capiscono che i problemi del popolo sono ben altri. E tuttavia sono le tante Filomena Gallo che danno corpo all’indicazione dei nostri padri costituenti, non a “concedere”, bensì a “riconoscere e garantire” quei diritti della persona che vengono prima dello Stato. Quest’idea è oggi magistralmente incarnata dal presidente Mattarella, ma non sembra vivere nei grandi partiti. Il partito dei diritti è invece in tante minoranze politiche, in tante forme di autorganizzazione sociale e civile. Se vuole davvero ricostruire l’identità di quella cosa senz’anima né cuore che ci ostiniamo a chiamare sinistra, rimasta senza popolo e senza politica, forse Enrico Letta troverà più compagni di strada nei militanti dei banchetti dove si firma per il diritto a una morte degna, negli attivisti che tutelano le persone più fragili, in quelli che non rimangono indifferenti dinnanzi alle stragi dei migranti nel Mediterraneo, che nel Palazzo. Se non loro, chi? Le armi atomiche e il rischio sanitario che tutti dimenticano di Angelo Baracca Il Manifesto, 11 agosto 2021 L’editoriale della rivista Lancet dedicato all’analisi della più grande minaccia globale. È di grande rilevanza l’editoriale dell’autorevole rivista The Lancet che, nella ricorrenza dei crimini su Hiroshima e Nagasaki, prende posizione senza riserve sulla necessità assoluta di liberarci delle armi nucleari: “Occuparsi della minaccia delle armi nucleari”. Se lo scorso anno la ricorrenza passò ampiamente inosservata a causa della “tuttora presente minaccia del Covid-19”, e “la guerra nucleare non è fra le massime priorità della gente”, “secondo il report Global Risk 2021 del World Economic Forum le armi di distruzione di massa sono ancora la più grande minaccia esistenziale a lungo termine per il mondo”. L’editoriale ci ricorda che i medici sono sempre stati “in una posizione unica” per denunciare i rischi capitali delle armi nucleari, perché più dei fisici - per non parlare dei politici - conoscono i pericoli delle radiazioni ionizzanti: fu l’Ippnw (International Physicians for the Prevention of Nuclear War) a lanciare la campagna Ican (International Campaign to Abolish Nuclear Weapons) suscitando la tenace volontà di associazioni della società civile in tutto il mondo che quattro anni fa raggiunse un risultato fino ad allora impensabile, con l’approvazione il 7 luglio 2017 nel negoziato delle Nazioni Unite del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (Tpan). Il manifesto si è sempre distinto per la costante attenzione a questo tema, ma è una conferma gratificante l’affermazione perentoria di Lancet che “solo il genuino impegno politico per il disarmo nucleare potrà prevenire futuri disastri nucleari”. Risuona con quanto scrivevamo pochi giorni fa su queste pagine che “le armi nucleari sono un problema sanitario. … Gli effetti sanitari delle radiazioni dalle bombe nucleari persistono nei sopravvissuti, compresi i lavoratori di emergenza e recupero, per molti anni.” Proprio ieri è stato reso noto il rapporto del’Ipcc sulle drammatiche condizioni della crisi climatica, che peraltro sono sotto gli occhi di tutti. Il rapporto non fa però menzione dei rischi incombenti di una guerra nucleare, d’altra parte l’Ipcc è un’istituzione finanziata dai governi e non può interferire con le loro politiche, tanto più è opportuna l’affermazione di Lancet, non certo per rincarare la dose ma per rimarcare l’indifferibile necessità di un cambiamento radicale: “Una guerra nucleare potrebbe fare impallidire una pandemia in termini di impatti sulla salute, pressione sui servizi sanitari, difficoltà a proteggere i lavoratori essenziali, effetti sociali, e schiaccianti ripercussioni sociali”. Detto dalla più autorevole rivista medica è davvero agghiacciante: va al di là di ogni immaginazione cosa accadrebbe dei nostri servizi sanitari se vi fosse un’emergenza sanitaria radiologica. L’editoriale del prestigioso giornale, dopo avere succintamente ricordato le conseguenze dei test nucleari e gli inascoltati allarmi del Doomsday Clock dell’incombere della catastrofe globale, conclude sottolineando la rilevanza di un prossimo, cruciale appuntamento, ricordando, contro la sordità degli Stati nucleari e della Nato, che “nel gennaio del 2022 (incontro posticipato a marzo, ndr) avrà luogo a Vienna il primo incontro degli stati aderenti al Tpan, dove gli stati e le società civili si incontreranno insieme per discutere come implementare il trattato e valutare il progresso verso il suo scopo, in particolare per stabilire un termine per l’eliminazione delle armi nucleari per gli stati nucleari che aderiscano. L’incontro offre un’ulteriore opportunità per la comunità medica per premere sui leader mondiali perché prendano provvedimenti urgenti contro la proliferazione delle armi nucleari e si preparino nel caso di disastro nucleare”. È di importanza fondamentale fare in modo che il governo italiano vi partecipi ufficialmente, a dispetto delle fortissime pressioni contrarie che si eserciteranno. Battaglia sullo Ius soli. Sì da Italia viva, dem e Leu. Netta chiusura da destra di Giacomo Puletti Il Dubbio, 11 agosto 2021 La ministra Lamorgese dice sì alla cittadinanza per i nati in Italia. Le Olimpiadi di Tokyo 2020 sono alle spalle, l’Italia è tornata con il proprio carico di 40 medaglie, il bottino più ampio di sempre, ma con esso è tornata anche la discussione sullo Ius Soli, dopo le parole del presidente del Coni, Gianni Malagò, che ritiene “necessaria” la cittadinanza italiana per meriti sportivi agli atleti nati in Italia che non abbiano ancora compiuto 18 anni. Ben presto, tuttavia, dalla questione Ius soli “sportivo” si è passati al dibattito sullo Ius soli a tutto tondo, con i partiti di area centrosinistra che spingono per la sua approvazione, sostenuta anche dalla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Dall’altro, tutto il centrodestra, dalla Lega a Fratelli d’Italia, passando per Forza Italia, respingono al mittente la proposta, spingendo sul fatto che il governo Draghi è nato per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica e non per redimere questione divisive come, ad esempio, il ddl Zan o lo stesso Ius soli. “Siamo il paese europeo che concede più cittadinanze con la normativa vigente - ha commentato il leader della Lega, Matteo Salvini - Non si capisce perché il Pd abbia questa priorità: le mie priorità sono la salute, il lavoro e la scuola, sicuramente non lo ius soli o la legge elettorale”. Ma dopo che il segretario del Pd, Enrico Letta, ha chiesto che si apra la discussione in Parlamento, la porta è stata sbarrata dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che di cittadinanza per i figli di stranieri nati in Italia proprio non vuol sentire parlare. “Dopo le Olimpiadi, la sinistra torna alla carica sullo Ius soli ma per Fratelli d’Italia non esiste alcun margine di trattativa su questa proposta insensata e puramente ideologica, che nulla ha a che fare con i reali problemi dell’Italia e degli italiani - commenta Meloni sui social - Trovo anzi surreale e vergognoso che in una fase così delicata e complicata per cittadini e imprese, la sinistra al governo abbia queste priorità. Torneranno mai in contatto con la realtà?”. Sulla stessa lunghezza d’onda Forza Italia, che con il senatore Maurizi Gasparri anzi rilancia. “Se la legge dovesse essere rivista è in senso più restrittivo, non per introdurre in qualsiasi forma diretta o surrettizia lo Ius soli - spiega l’esponente azzurro - È davvero incredibile e sorprendente questa inutile e fuorviante discussione estiva e non c’è nessuna possibilità di avviare una discussione di questo tipo nel prossimo Parlamento, certamente a maggioranza di centrodestra”. Ma la discussione si annuncia rovente, con un Parlamento spaccato e Iv, Movimento 5 Stelle, Pd e sinistra decise a portare in Aula un qualche tipo di testo sul tema. “I ragazzi nati in Italia, cresciuti in Italia, che hanno studiato e vissuto in Italia sono italiani - spinge Gennaro Migliore, deputato di Italia Viva - Noi lo diciamo da tempo e oggi (ieri, ndr) sono contento che Lamorgese lo rilanci”. La ministra è stata pesantemente criticata da Salvini, che l’ha giudicata “assente e confusa” e da Fratelli d’Italia, per bocca della vice capogruppo alla Camera, Wanda Ferro, che l’ha definita “perfetta per un governo incapace”. Il governo si è schierato in sua difesa, con il sottosegretario agli Esteri, il renziano Ivan Scalfarotto, che parla di “spiccata sensibilità” e di “capacità non comune di cogliere il necessario punto di caduta”. Ma a dimostrazione della diversità di veduta anche in senza all’esecutivo ci sono le parole del leghista Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno e di fatto numero due di Lamorgese. “Marcell Jacobs, vincitore alle Olimpiadi, è la negazione vivente dello Ius soli: è nato in Texas da una madre italiana, si tratta di Ius sanguinis non Ius soli - ragiona l’esponente del carroccio - Le medaglie delle Olimpiadi ci confermano che siamo nel giusto e la Lega è garanzia che la legge sulla cittadinanza non si cambia”. Al contrario, convinti della necessaria approvazione dello Ius soli è la sinistra dem, con l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini che chiede di purare il testo in Parlamento. “Nascono qui, studiano con i nostri figli, condividono la cultura italiana: perché non possono essere cittadini? - si chiede Boldrini. La legge sulla cittadinanza del 1992 è anacronistica, la società è cambiata e il Parlamento ne tenga conto”. D’accordo anche Sinistra italiana, per bocca del segretario Nicola Fratoianni., che spiega però di “volere i fatti”. M5S, Taverna: “Lo Ius soli non è una priorità, ora lotta al virus e ripresa” di Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 11 agosto 2021 La vicepresidente del Senato: “Su integrazione e sicurezza con Conte sapremo trovare una sintesi, ma spesso questi temi sono trattati in modo pretestuoso” Vicepresidente Paola Taverna, le vittorie alle Olimpiadi e le parole del presidente del Coni Malagò, che chiede lo ius soli per meriti sportivi, hanno rilanciato il dibattito sulla cittadinanza. Lamorgese, Letta, allargano il tema a una nuova legge per tutti. Lei cosa pensa? “Se legge la Carta dei valori del nuovo Movimento vedrà che al centro c’è l’individuo, c’è la persona. Penso che con il presidente Conte sapremo trovare una sintesi che tenga conto sia del multiculturalismo, sia di corrette politiche di integrazione e del diffuso bisogno di sicurezza, ma questo argomento ogni tanto è usato in maniera pretestuosa e credo che nell’attuale situazione politica ci siano altre priorità”. La sicurezza non c’entra, anzi, una maggiore integrazione la rafforza. Ci sono sempre altre priorità quando una cosa non la si vuol fare... “C’è un lavoro enorme che ci aspetta per la lotta alla pandemia e per sostenere la ripresa”. Nel momento di crisi tra Conte e Grillo, quando tutto sembrava perduto e l’ex premier già pensava a un suo partito, non ha esitato a mettersi dalla parte dell’avvocato. Come mai? “Perché guardavo all’obiettivo. Oggi abbiamo realizzato la rifondazione del Movimento con Conte presidente e Grillo garante. È per questo che abbiamo lavorato. Il risultato plebiscitario di questi giorni conferma la bontà del progetto. Sono sempre stata convinta che la sintesi tra i due fosse il miglior risultato per il Movimento”. I fuoriusciti M5S accusano lei e altri dirigenti al secondo mandato di aver fatto questa scelta perché intenzionati a restare in politica. È così? “Alcuni ex del Movimento, che hanno fondato un altro partito, accusano noi di voler fare carriera politica. È buffo non trova? Dopo di che mi sembra ingeneroso parlare di un progetto così importante facendo riferimento alla permanenza di singoli. Voliamo alto. Per come lo vivo io, il Movimento è un patrimonio dei cittadini, non appartiene a nessuno”. Ma tra le nuove regole c’è qualche indicazione sui mandati? “No, niente”. È soddisfatta di come sta funzionando la nuova piattaforma Sky Vote, dopo il divorzio da Rousseau? “Voglio ringraziare Vito Crimi: ha fatto un lavoro incredibile, ha gestito una fase complessa. Il nuovo sistema ci ha permesso di fare tre votazioni che hanno visto una partecipazione immensa di attivisti. Un ottimo risultato”. Non avete usato il voto on line per fare le liste alle comunali, però. “Abbiamo presentato uno statuto in cui i territori sono coinvolti in modo democratico e trasparente. Il loro ruolo sarà centrale. Semplicemente adesso non c’era il tempo”. Avete chiesto le dimissioni del sottosegretario leghista Claudio Durigon. Pensate che la vostra mozione avrà la maggioranza? “L’abbiamo presentata a maggio, vedo che altri partiti ora la appoggiano. Sono sbalordita che un rappresentante dello Stato possa chiedere che un parco non sia più intitolato a due uomini che per lo Stato hanno dato la vita, come Falcone e Borsellino, per intestarlo al fratello di Mussolini. È assurdo non abbia ancora fatto un passo indietro”. È d’accordo con il Green Pass? “In un momento così difficile avere uno strumento che ha portato 20 milioni di persone a scaricarlo, e che ha convinto molti a vaccinarsi, è totalmente legittimo”. In passato è stata attaccata per aver assunto posizioni scettiche sui vaccini. Da allora il M5S ha fatto un lungo percorso. Lei? “Parlare di politiche sanitarie e di farmacovigilanza non significa essere scettici”. Tra di voi c’erano accesi no vax come Sara Cunial, Davide Barillari, poi allontanati. Non era un malinteso. “Sì, ma quello che ho sempre sostenuto è che servono campagne comunicative chiare e trasparenti, altrimenti i più scettici si irrigidiscono. E che l’obbligo fosse per questo controproducente”. Lei si è vaccinata? “Certo. Consapevolmente e responsabilmente”. Conta che la legge Zan a settembre passi anche senza aprire a modifiche? “È una legge sulla quale si è lavorato molto. Dover di nuovo discutere su una cosa che gà aveva trovato ampio consenso non serve a niente”. Italia Viva non è d’accordo... “Renzi fa Renzi. Un distruttore seriale”. Lui e Salvini attaccano il reddito di cittadinanza. Fico e Di Maio, come del resto lo stesso Draghi, lo hanno difeso, ma aprendo a modifiche sulle politiche attive. “Qualunque intervento migliorativo mi trova a favore, ma stiamo parlando di una misura che si è rivelata salvifica in pandemia. È vergognosa la posizione di chi chiede sacrifici agli italiani senza aver mai lavorato un giorno, o di chi fa politica a buon mercato dal Papeete Beach”. Che ruolo ricoprirà nel nuovo Movimento? “Non ne abbiamo ancora parlato, farò quello per cui sarò chiamata”. Così Frontex sorveglierà i migranti dallo spazio di Andrea Palladino Il Domani, 11 agosto 2021 L’aiuto ai libici per respingere i migranti questa volta arriva direttamente dallo spazio. Chiunque abbia con sé un cellulare nell’area del Mediterraneo potrebbe essere presto individuato dall’agenzia europea, che però condividerà le sue informazioni anche con la Guardia costiera libica. Nel 2019 Frontex ha firmato un contratto con la statunitense HawkEye360 per un progetto pilota di sorveglianza del Mediterraneo. La Guardia costiera libica opera con soldi, mezzi e tecnologie gentilmente fornite da Bruxelles e da Roma. Ma soprattutto con informazioni preziose che arrivano direttamente dal cielo. Dati preziosi per Tripoli: “Queste informazioni sembrano essere particolarmente favorevoli a ulteriori intercettazioni e rimpatri da parte della guardia costiera libica verso porti non sicuri, contrariamente al diritto marittimo internazionale e ai diritti umani”, spiega il rapporto del Consiglio di Europa. Fotografie sgranate, un insieme di punti grigi. Tre strisce più chiare, su un fondo scuro, con forme affusolate. Erano dei gommoni cinesi carichi di migranti, partiti poche ore prima dalle coste libiche, trecentosettanta persone, tra queste nove bambini e quattro donne incinte. Il 10 ottobre del 2015 Frontex aveva annunciato in pompa magna l’ultimo salvataggio nel Mediterraneo centrale in coordinamento con le autorità italiane. Non era una delle tante operazioni di routine: quei barconi erano stati individuati analizzando le immagini dei satelliti, che scansionano le acque tra la Libia e l’Italia. Un flusso di dati inarrestabile, immagini e coordinate che entrano nella piattaforma Eurosur Fusion Service. La tecnologia che salva vite, annunciava con un certo orgoglio l’agenzia europea di controllo delle frontiere. Sono passati sei anni, la strategia è cambiata, gli obiettivi - politici e operativi - sono altri. In quelle acque opera la Guardia costiera libica, con un’unica regola d’ingaggio: riportare tutti i migranti naufraghi nei centri di detenzione. Operano con soldi, mezzi e tecnologie gentilmente fornite da Bruxelles e da Roma. Ma soprattutto con informazioni preziose che arrivano direttamente dal cielo. È una vera e propria Nsa del Mediterraneo, qualcosa di molto simile alla potentissima agenzia di spionaggio statunitense, specializzata in “sigint”, ovvero intelligence dei segnali. Intercettazioni, scansione di onde radio, fotografie ad altissima precisione, ascolto di conversazioni telefoniche, posizionamenti gps, tracciamento, con precisione millimetrica, di rotte. È la quantità enorme di informazioni che ogni secondo entra nel sistema “Fusion service” gestito da Frontex, in grado di rilasciare rapporti di intelligence. Non più con l’obiettivo di salvare i migranti. Il grande occhio sul Mediterraneo è la lunga mano dell’Europa in grado, silenziosamente, di respingere chi tenta di fuggire dalla Libia. La Nsa del Mediterraneo funziona soprattutto grazie alla partnership con l’industria militare e della sicurezza. Le grandi imprese specializzate in intelligence hanno trovato una miniera d’oro nella gestione dei dati da fornire agli stati impegnati a blindare le frontiere. Puntano allo spazio, chiedendo un passaggio per i propri satelliti ai missili dei miliardari Bezos e Musk. Hanno in mente un business enorme, la “sorveglianza come servizio”, ovvero la vendita dei dati raccolti con lo spionaggio dallo spazio. Non solo agli stati, ma anche ai privati se sono disposti a pagare. Nel 2019 Frontex ha firmato un contratto con la statunitense HawkEye360 per un progetto pilota di sorveglianza del Mediterraneo. Il servizio richiesto prevede “l’intercettazione delle onde radio emesse dai radar marittimi, dai transponder Ais, dai telefoni satellitari e potenzialmente da altri asset, con la geolocalizzazione degli apparati”, si legge nella documentazione pubblicata sulla gazzetta ufficiale europea. Un affidamento diretto e senza gara, per un milione e mezzo di euro. La HawkEye360 è finanziata - secondo le informazioni reperibili sul sito istituzionale - dalle società Advance, specializzata in media e tecnologia, Airbus, la compagnia aerospaziale, Esri, gruppo internazionale di analisi di dati, e da altre holding attive nella cybersecurity, nell’industria spaziale e nei servizi di intelligence (Raytheon, Razor’s Edge, Night Dragon, Sumitomo, Space Angels e Shield). All’inizio di luglio HawkEye360 ha completato il lancio degli ultimi microsatelliti specializzati in intercettazione di radiofrequenze e può contare oggi con una rete di 20 satelliti attivi. Nel video promozionale dei sistemi di intercettazione di segnali radio della società americana è possibile vedere i target: oltre ai canali Vhf marittimi e alle emissioni radar, i satelliti sono in grado di scansionare la banda L, ovvero le frequenze radio utilizzate dai telefoni cellulari, dai satellitari e dal sistema di posizionamento Galileo. In sostanza tutti i dispositivi che emettono onde: “I dati consentirebbero a Frontex, ad esempio, di tracciare navi nel Mediterraneo - si legge in un rapporto di fine luglio della ong americana Privacy International - o potenzialmente persone in movimento che utilizzano telefoni satellitari”. In sostanza chiunque abbia con se un telefono cellulare nell’area del Mediterraneo verrebbe tracciato. Frontex, rispondendo a una richiesta di informazioni di Privacy International, afferma che il sistema al momento è solo in una fase di “progetto pilota” e che l’agenzia “non sta intercettando nessuna comunicazione”. Ma l’intero progetto è sottoposto a vincoli di segretezza: “Rivelare informazioni sulle tecnologie impiegate nell’area operativa da Frontex e dagli stati membri - scrive l’agenzia europea a Privacy International - (…) potrebbe beneficiare le reti criminali”. Informazioni condivise - Le informazioni che entrano nella piattaforma Eurosur utilizzata da Frontex per il monitoraggio del Mediterraneo sono condivise non solo con i paesi membri della Ue; la regolamentazione del sistema prevede l’accesso anche da parte dei paesi nordafricani, e tra questi la Libia. Come già detto, l’agenzia europea per le frontiere fornisce informazioni preziose alla Guardia costiera di Tripoli per individuare i gommoni con i migranti. È solo la punta dell’iceberg. Il rapporto del Commissario per i diritti umani del consiglio d’Europa del 2019 ha rivelato come “le informazioni raccolte dagli aerei, dai droni e dai satelliti degli stati membri e delle agenzie dell’Ue sono condivise con tutte le autorità competenti, comprese quelle in Libia”. Dati preziosi per i Guardacoste di Tripoli: “Queste informazioni sembrano essere particolarmente favorevoli a ulteriori intercettazioni e rimpatri da parte della guardia costiera libica verso porti non sicuri, contrariamente al diritto marittimo internazionale e ai diritti umani”, spiega il rapporto del Consiglio di Europa. Droghe, la prova decisiva per il Parlamento di Riccardo Magi Il Manifesto, 11 agosto 2021 La proposta per modificare le parti peggiori della legge antidroga del 1990. Nell’ultima seduta prima della pausa estiva la commissione Giustizia della Camera avrebbe dovuto adottare un testo base per modificare alcune parti della legge antidroga del 1990. Il testo del relatore Perantoni, che è anche il presidente della commissione, recepisce in buona parte i pochi, ma sostanziali interventi contenuti nella proposta di legge a prima firma di chi scrive, sottoscritta da circa trenta deputati di diversi gruppi e che riprende alcuni punti della riforma complessiva elaborata dalla Società della Ragione. I punti qualificanti sono il rafforzamento della fattispecie della “lieve entità” attraverso la formalizzazione di un articolo autonomo e la previsione della depenalizzazione di tali condotte con la distinzione delle sostanze; la legalizzazione della coltivazione domestica di cannabis per uso personale; l’eliminazione delle sanzioni amministrative per i consumatori. Non si tratta di una riforma organica, ma di un intervento che segnerebbe un primo passo deciso nella direzione giusta dopo trent’anni di danni prodotti da una fallimentare guerra alla droga che ha visto il nostro Stato adottare una normativa fortemente repressiva e punitiva, riempire le carceri di consumatori e piccoli spacciatori, senza scalfire minimamente il mercato illegale degli stupefacenti in continua espansione e trasformazione. L’articolo 73 del testo unico degli stupefacenti che si intende modificare è, di fatto, la principale causa di ingresso in carcere nel nostro Paese e in sette casi su dieci anche per “fatti di lieve entità”. Non mi soffermo sull’assurdità di continuare a colpire penalmente chi coltiva poche piantine di marijuana né sulla vergogna che dovremmo provare tutti di fronte a processi che vedono imputati malati bisognosi della sostanza che si auto producono, come nel caso recente di Walter De Benedetto. Il Parlamento, dopo decenni in cui gli unici cambiamenti sono stati decisi dalla Corte Costituzionale o per via giurisprudenziale, ha l’occasione di far vivere la sua tanto invocata, quanto logorata, centralità. Si affermerebbe la responsabilità del legislatore di affrontare un fenomeno sociale che riguarda milioni di cittadini e di mostrarsi consapevole che le leggi ideologiche non hanno garantito affatto giustizia, salute, legalità, lotta alla criminalità. Nel mondo, intanto, assistiamo a importanti cambiamenti, basti pensare agli Stati americani dove si sta affermando un mercato legale della cannabis che sostituisce quello illegale con molteplici e oggettivi benefici. Le istituzioni democratiche sono vive e funzionano se sanno cambiare anche radicalmente politiche fallimentari. Ma torniamo a Montecitorio dove, contrariamente a quanto previsto e auspicato, la Commissione Giustizia ha deciso di non decidere rinviando a settembre il voto sul testo base da adottare. Insieme al centrodestra, anche Italia Viva ha chiesto più tempo motivando la richiesta con la necessità di approfondire il testo e il tema. Ma in oltre un anno e mezzo abbiamo beneficiato di un ciclo di audizioni davvero completo se si considera anche il perimetro circoscritto del provvedimento. Evidentemente qualcuno spera che in autunno le urgenze siano altre e la situazione politica sia tale da far finire tutto su un binario morto. Sulla carta la maggioranza favorevole c’è, ma il rischio da evitare assolutamente è che a settembre non ci sia o non si manifesti. E’ adesso quindi il momento di richiamare tutte le forze politiche alle loro responsabilità: vengano avanti i riformatori nel Pd, nel M5S, in Fi o dovunque siano, tutti coloro che solo pochi giorni fa hanno sostenuto la riforma Cartabia che tra i suoi obiettivi ha proprio quello di limitare l’ingresso in carcere per i fatti di particolare tenuità. Altrimenti sarà inevitabile prepararci a un referendum anche per questa battaglia di civiltà. L’Afghanistan brucia ma l’Europa si blinda: “Rimpatriare i migranti” di Giuliano Battiston Il Manifesto, 11 agosto 2021 L’avanzata talebana non si ferma. La richiesta è di Austria, Grecia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Belgio. In Afghanistan violenza e vittime civili aumentano di mese in mese, ma per i ministri di alcuni Paesi europei “deve essere una priorità per tutti trovare i modi per assicurare i rimpatri in Afghanistan” dei migranti arrivati in Europa. È uno dei passaggi della lettera inviata alla Commissione europea dai ministri degli Interni e delle Migrazioni di Austria, Danimarca, Grecia, Germania, Paesi Bassi e Belgio. La lettera nasce in risposta alla nota verbale con cui l’8 luglio il ministero per i Rifugiati e i rimpatriati di Kabul comunicava all’Ue la sospensione per tre mesi - fino all’8 ottobre 2021 - dell’accettazione dei migranti afghani rimpatriati. Per i ministri europei la sospensione non va bene. Violerebbe infatti gli accordi tra Bruxelles e Kabul, che vanno contestualizzati. Il primo protocollo d’intesa è il Joint Way Forward, firmato nell’ottobre 2016, prima di un’importante conferenza internazionale dei donatori. Allora Kabul accettò il “patto-ricatto”: Bruxelles concedeva sostegno economico a Kabul in cambio dei rimpatri forzati. Il Joint Way Forward è stato aggiornato e ampliato con la firma il 28 aprile 2021 della Joint Declaration on Migration/Cooperation (Jdmc). Come il precedente, il programma prevede anche i rimpatri forzati. Per i ministri firmatari della lettera inviata alla Commissione europea, anche se l’Afghanistan brucia Kabul non può sospendere l’accordo. I principi della Dichiarazione congiunta vanno rispettati. Anzi, c’è un “urgente bisogno di realizzare rimpatri, sia volontari che involontari, in Afghanistan”. In Afghanistan il fallimento politico, da cui deriva una gravissima crisi umanitaria e la spinta migratoria, è di tutti, anche dell’Europa. Ma i ministri firmatari temono soltanto il grande esodo di cui sono responsabili anche i governi che rappresentano. Li preoccupano i numeri passati e quelli futuri. Dal 2015, recita la loro missiva, “i Paesi dell’Ue hanno registrato circa 570.000 richieste di asilo” da parte di migranti afghani; nel 2020 “l’Afghanistan è stato il secondo Paese di origine” degli stranieri richiedenti asilo, “con 44.000 richieste”. Intendono sigillare l’Europa. Impedire che il grande esodo arrivi nei Paesi europei. Pensano di poter scaricare pesi e responsabilità sui Paesi di Asia centrale e Medio Oriente. Visto che ci sono già “circa 4,6 milioni di afghani all’estero, soprattutto nei Paesi confinanti”, occorre “dare il migliore sostegno possibile nei Paesi confinanti” l’Afghanistan, “aumentare la capacità di protezione nella regione, che ridurrà la pressione migratoria lungo la rotta”. Sono “necessarie nuove misure nella regione per prepararsi a un potenziale influsso di afghani”. In poche parole: che se ne occupino Teheran e Islamabad. Semmai Ankara. La data della lettera è significativa: 5 agosto 2021. I firmatari sono dunque ben consapevoli dell’offensiva militare condotta dai Talebani nel Paese; sanno bene che, secondo l’Alto Commissariato per le Nazioni Unite (Unhcr), sono circa 400.000 gli sfollati interni dall’inizio dell’anno (244.000 solo da maggio), i quali si sommano ai circa 3,5 milioni di sfollati già nel Paese. Conoscono le stime dell’Onu, secondo cui metà della popolazione, circa 18,5 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria. Hanno letto l’ultimo rapporto di Unama, la missione dell’Onu a Kabul, secondo cui nei primi sei mesi del 2021 ci sono state 5.183 vittime civili, tra morti (1659) e feriti (3524), il 47 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2020. Eppure quei ministri vogliono continuare i rimpatri. Il portavoce della Commissione, Adalbert Janhz, ha confermato la ricezione della lettera, ricordando che “la decisione è nazionale”. Tanto che la Germania, dopo averlo rimandato per tre volte, tra qualche ora potrebbe dare il via libera al volo di rimpatrio di alcuni afghani. Tornerebbero in un Paese in guerra. Egitto. Nuovi interrogatori nell’inchiesta infinita sulle Ong di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2021 Portavoce di Amnesty International Italia. L’indagine sui “finanziamenti dall’estero” alle organizzazioni non governative operanti in Egitto, nota come “caso 173”, ha ormai raggiunto 10 anni: un periodo nel quale l’assalto ai gruppi della società civile è andato di pari passo col peggioramento della situazione dei diritti umani nel paese. La prima parte dell’indagine avviata nel 2011 aveva riguardato l’operato delle organizzazioni non governative internazionali in Egitto e si era conclusa nel dicembre 2018 con l’assoluzione di 43 imputati, egiziani e non, che nel giugno 2013 erano stati condannati a pene da uno a cinque anni di carcere. Il secondo filone dell’indagine riguarda direttamente le Ong egiziane e coinvolge decine di persone: senza che siano mai state processate, a 31 di loro da anni è vietato viaggiare all’estero mentre a una quindicina sono stati congelati i beni. Nell’ultimo mese sono stati convocati per interrogatori cinque noti difensori dei diritti umani: l’avvocato Negad al-Borai; Gamal Eid, direttore della Rete araba d’informazione per i diritti umani; Mozn Hassan, direttrice del Centro Nazra per gli studi sul femminismo; Azza Soliman, direttrice del Centro di assistenza legale alle donne egiziane; e Hossam Bahgat, fondatore e direttore dell’Iniziativa egiziana per i diritti delle persone, l’Ong con cui collaborava Patrick Zaki, che l’altro ieri ha superato l’anno e mezzo di detenzione preventiva. Dietro a tutto questo c’è, come sempre, lo strumento più opprimente del presidente al-Sisi: l’Agenzia per la sicurezza nazionale, che ritiene le Ong locali “soggetti che incitano l’opinione pubblica contro le istituzioni statali” e che hanno l’obiettivo di “distruggere lo stato”, manovrate da “organizzazioni internazionali ostili all’Egitto”, come ad esempio Human Rights Watch e il Comitato per la protezione dei giornalisti. In questa grafica si possono osservare gli sviluppi del “caso 173” nell’anno 2016. I fascicoli dell’indagine, che hanno superato le 2000 pagine, contengono verbali d’interrogatorio cui sono allegati rapporti, comunicati stampa e altri documenti pubblici redatti dalle Ong locali sulla situazione dei diritti umani in Egitto. L’intento, tutto politico, del “caso 173” è evidente: ridurre al silenzio chi denuncia la repressione del dissenso, la tortura, le sparizioni forzate e la detenzione di migliaia di prigionieri di coscienza. *Portavoce di Amnesty International Italia Canadese condannato a morte in Cina: cosa c’è dietro la sentenza e cosa c’entra “Lady Huawei” di Alessio Lana Corriere della Sera, 11 agosto 2021 Robert Lloyd Schellenberg avrebbe dovuto scontare 15 anni per traffico di droga ma la sentenza si è trasformata in un gioco di forza tra Pechino, Washington e Ottawa. Martedì scorso un tribunale cinese ha respinto il ricorso presentato da un 38enne canadese condannato a morte per traffico internazionale di droga. Dietro alla sentenza però c’è un caso politico che chiama in causa Huawei, una delle più importanti imprese asiatiche, e che si protrae da almeno tre anni. Inizialmente Robert Lloyd Schellenberg avrebbe dovuto scontare 15 anni di prigione per aver contrabbandato di più di 200 chili di metanfetamine ma la sentenza era cambiata quando la figlia del fondatore di Huawei e chief financial officer dell’azienda, Meng Wanzhou, era stata arrestata in Canada nel 2018. Da allora i due Paesi sono ai ferri corti. Meng, meglio conosciuta come “Lady Huawei”, nel dicembre di tre anni fa veniva fermata all’aeroporto di Vancouver su richiesta della giustizia americana. Le accuse erano pesanti, frodi bancarie e violazione dell’embargo sull’Iran, e da allora la donna sta vivendo un esilio dorato in una sontuosa villa. Per gli statunitensi è colpevole di reati economici, per Pechino è una prigioniera politica. Questa vicenda entra direttamente nel caso Schellenberg ma non solo. Subito dopo Meng, la Cina aveva arrestato anche un manager e un ex diplomatico canadesi con l’accusa di spionaggio (Da allora i due sono al carcere duro, una situazione ben diversa dall’esilio della donna) e poi aveva convertito la pena di Schellenberg. Attenzione alle date: arrestato nel 2014, nel 2018 l’uomo era stato condannato a 15 anni di carcere ma poi, nel gennaio del 2019, proprio dopo l’arresto di Meng, aveva visto la sentenza trasformarsi in pena di morte. Così veniamo all’oggi. La decisione del tribunale di Liaoning, nel nordest della Cina, di respingere il ricorso presentato da Schellenberg contro la massima pena arriva ancora una volta con un tempismo perfetto. A due anni e mezzo dall’arresto, il Canada ha aperto le audizioni sulla sorte di Meng, un processo che si protrarrà per settimane in cui deve fare i conti con l’altissima pressione statunitense. Ottawa deve stabilire se estradare Meng negli Usa, dove è vista come una pedina fondamentale delle relazioni Usa-Cina. Trump stesso ne aveva fatto un caso politico: dopo il bando dell’azienda dal suolo americano e il divieto per le aziende Usa di collaborarci (vedi l’uscita di Android dai dispositivi o il blocco nella fornitura di semiconduttori) l’ex presidente sembrava volesse usarla come merce di scambio per ottenere accordi favorevoli con Pechino. La lancetta dell’orologio diplomatico però continua a ticchettare anche per uno degli altri due canadesi arrestati. È Michael Spavor, organizzatore di viaggi per la Corea del Nord, che è stato condannato dal tribunale a 11 anni di carcere. L’accusa è di aver rubato e fornito documenti segreti cinesi ad altre nazioni ma la realtà è che l’ombra di Meng si aggira anche su di lui. Pechino nel gennaio 2020 aveva anche proposto al Canada uno “scambio di ostaggi” con Meng ma il premier Trudeau l’aveva respinto con parole dure: “Il governo non fa commercio di questioni legali”. “Ci opponiamo alla pena di morte in tutti i casi e condanniamo l’arbitrarietà della sentenza del signor Schellenberg”, ha dichiarato il ministro degli Esteri canadese Marc Garneau in una dichiarazione dopo il verdetto. Garneau ha affermato poi che il Canada “condanna fermamente la decisione della Cina” e continuerà a chiedere clemenza per Schellenberg. L’unica possibilità per il condannato è che la sentenza venga rivista dalla Suprema corte del popolo, il massimo tribunale cinese, ma il sospetto è che tutto dipenderà da come verrà trattata “Lady Huawei”.