Giustizia riparativa: l’esperienza di Ristretti Orizzonti di Luca Cereda vita.it, 10 agosto 2021 Inauguriamo una serie di 4 approfondimenti sulle esperienze di giustizia riparative più avanzate in Italia. Un modello che la riforma del ministro della Giustizia Marta Cartabia promette di espandere e sviluppare così come ci chiede l’Europa. Il nostro viaggio parte da Padova e dalla redazione del sito di informazione curato dai detenuti. Prima di iniziare un percorso per capire come funziona la giustizia riparativa è necessario spiegare in cosa consiste questo approccio. Si tratta di una pratica che considera il reato principalmente in termini di danno alle persone, prendendo in carico la lacerazione del reato nella vittima, nel reo e nella società civile. Questo approccio non vuole in alcun modo far sì che l’autore del reato rimedi alle conseguenze della sua condotta. Ma punta sul risanamento dello strappo creato dal reato, attraverso forme di incontro e di dialogo. In Italia la giustizia riparativa è stata finora portata avanti in modo informale, solo da alcune realtà del Terzo Settore, associazioni e gruppi di cittadini, raramente supportati dalle amministrazioni penitenziarie. Ad oggi infatti il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che fa capo al Ministero della Giustizia, il Ministero stesso, e il Forum Europeo per la Giustizia Riparativa - tutti interpellati da Vita - non dispongono di alcun tipo di censimento: né di quante realtà si occupino nel Paese di percorsi di giustizia riparativa, né di quante persone - detenuti, vittime di reato ed esponenti della società civile - siano coinvolte attivamente in queste pratiche. In questa serie di approfondimenti abbiamo scelto di raccontare alcune esperienze di giustizia riparativa: dentro e fuori dal carcere, tra detenuti di mafia e di terrorismo, e le loro vittime. Così come con le vittime di reati cosiddetti “ordinari. La riforma Cartabia, cosa prevede sulla giustizia riparativa - Prima di raccontare pratiche reali e vissute di giustizia riparativa, è fondamentale capire la rivoluzione che la riforma della Ministra della giustizia Marta Cartabia potrebbe inaugurare, e con cui la giustizia riparativa possa diventare in Italia “sistematica”, e non più “solo” una risposta marginale a una direttiva europea (la “Direttiva 2012/29/UE”). Se il capitolo della riforma che riguarda la giustizia riparativa passerà al Senato così com’è passata alla Camera (e quasi certamente sarà così) è previsto l’accesso ai programmi di giustizia riparativa ai detenuti in ogni fase del procedimento, su base volontaria, con il consenso libero e informato anche della vittima e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Inoltre sarà possibile la ritrattabilità del consenso a questi percorsi in qualsiasi momento, ed è ribadito quanto espresso nella direttiva europea del 2012: la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso delle pratiche di giustizia riparativa le rende inutilizzabile nel procedimento penale. La giustizia riparativa per “spezzare la catena del male” - La giustizia riparativa non riguarda soltanto le dinamiche a rilevanza penale, ma i diversi conflitti che possono generarsi nella comunità, dalla famiglia, alla scuola, al lavoro. Questa forma di giustizia è infatti un orizzonte culturale che appoggia sui pilastri del rispetto, dell’equità, dell’inclusione e della partecipazione. È per questo il tipo di approccio che ha seguito nelle esperienze riparative l’Associazione di volontariato Granello di Senape di Padova, che cura nella Casa di Reclusione “Due Palazzi” il sito d’informazione Ristretti Orizzonti - la cui redazione è composta da alcuni detenuti coordinati da Ornella Favero. Con i loro percorsi dentro e fuori dal carcere, hanno scelto di mettere al centro il “grande escluso” della giustizia penale: le vittime. Queste pratiche sono iniziate nel 2004 nel carcere di Padova, e sono state la base per approdare nel 2017 alla creazione di un Centro per la Mediazione Sociale e dei Conflitti del Comune di Padova. Un centro di giustizia riparativa gestito dall’associazione aperto sia dentro che fuori il carcere. L’inizio della storia: le vittime prendono voce - Un giorno di quasi vent’anni fa, racconta la redazione di Ristretti Orizzonti, hanno ricevuto la seguente lettera firmata da Alberto V.: “Egregio signor ladro, permettimi di darti del tu, anche perché dopo quattro visite che tu hai fatto a casa mia sei quasi uno di famiglia. Vorrei proporti alcune riflessioni che ho fatto in merito alla tua attività. Senza dubbio alcune volte ti sarà andata bene, avrai guadagnato qualche cosa, ma poi lo avrai dilapidato in fretta. Forse oggi che ti devi sudare la libertà potrai capire meglio il valore delle cose. Tu mi dirai che sei stato sfortunato, che la vita ti ha portato su delle strade che ti hanno travolto, ma sai le scuse sono come le dita, tutti ne abbiamo almeno dieci. Ognuno di noi ha le sue ragioni per interpretare il ruolo di vittima, ma se tu potessi vedere gli effetti che questi “banali” furti in casa hanno sulle vittime sono sicuro non le prenderesti più. Non scaglierò mai né la prima né l’ultima pietra, poiché non sono senza peccato, e cercherò per quel che posso di reinserirti tra i fessi lavoratori, ma per favore cerca anche tu di essere un fesso autentico come me”. É leggendo questa lettera arrivata nel 2004, che è scaturita una riflessione tra i detenuti in redazione e la risposta di uno di loro, autodefinitosi un “ex ladrone fornito di coscienza”. Nasce il primo dialogo “a distanza” riparativo: un incontro tra due persone, un ladro e un derubato, che cercano di costruire un vocabolario comune con cui riconoscersi reciprocamente: un percorso riparativa tra la vittima di un reato, e un reo. La riparazione tra vittime e rei trova terreno fertile là dove si forma la società civile: a scuola - Un aspetto che caratterizza i percorsi riparativi che Ristretti Orizzonti ha avviato, parte da una richiesta delle vittime, come testimonia la lettera di Alberto alla redazione. È proprio grazie a esperienze come quelle nate da quello spunto che le vittime possono avere una voce, essendo invece solo un “effetto collaterale” all’interno del processo penale che al centro mette il reo. Sono infatti le persone che hanno subito reati o le conseguenze di essi, ad aver sollecitato la redazione di Ristretti Orizzonti ad un confronto, a volte in modo meditato e ironico, come nel caso della lettera di Alberto V., altre volte in modo emotivo, ma sempre mettendosi in gioco in prima persona, con le proprie fragilità e anche la propria rabbia e il proprio dolore, davanti a persone sconosciute. Questo è accaduto anche quando Ristretti Orizzonti ha portato la giustizia riparativa là dove la società civile - il terzo elemento delle pratiche riparative - prende forma, in classe. Questo avviene con il progetto “Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere”. Una studentessa durante un incontro - raccontano da Ristretti Orizzonti - ha preso la parola ha raccontato come sia cambiata la propria vita dopo aver subito un furto in casa. È successo tutto quando avevo circa dieci anni e fuori dalla mia camera c’erano due carabinieri, pronti a portarmi in ospedale per capire quale strana sostanza avevano usato per farci addormentare. A 18 anni e non resta ancora a casa da sola, e non dorme mai da sola e di notte. Non esce più nemmeno in giardino da allora, perché loro si sono nascosti nel suo giardino. La giustizia riparativa può riparare la giustizia italiana? Questo racconto reso istintivamente e inaspettatamente durante un incontro di giustizia riparativa con la redazione di Ristretti Orizzonti ha spiazzato i redattori, che erano lì per raccontare la propria condizione di vita in carcere e venivano invece richiamati alle proprie responsabilità da una ragazza che per età avrebbe potuto essere la figlia di molti di loro. I percorsi di giustizia riparativa realizzati a Padova, e da tante associazioni in tutta Italia, operano con la spinta di una diversa visione della giustizia, ma al di fuori di un ordinamento costituito. A questo la riforma Cartabia potrebbe porre fine, mettendo a “sistema” pratiche riparative come quelle che da anni portano avanti a Ristretti Orizzonti. Prima la sicurezza, poi la vita di Tiziana Maiolo Il Riformista, 10 agosto 2021 La stagione del riformismo carcerario degli anni 70 segnò un’inversione di rotta, ma poi si tornò alla mortificazione del corpo. Cartabia riuscirà a cambiare le cose? Forse, ma serve una scossa al Dap. Il suicidio di L. aggiorna a 32 la contabilità dei morti dall’inizio dell’anno. Anastasia e le Camere penali lanciano l’allarme: “Penitenziari del Lazio disumani. Le Rems sono un miraggio, tanti muoiono in attesa di un posto”. Una scritta sul muro “Io ci sono riuscito, voi non ci riuscirete”, lasciata interrotta, poi completata dai suoi compagni, poi la testa nel sacchetto di plastica colmo del gas del fornelletto da cucina. Così se ne è andato, dopo esser stato “curato” con il codice Rocco del ventennio, nel carcere di Rebibbia L., di cui si ricorderà che doveva scontare ancora “solo” sette anni e che era un malato psichico. Entrerà nella statistica dell’anno come uno dei 32 morti suicidi in carcere del 2021. La pratica sarà archiviata così. E c’è la speranza, viste le tante sollecitazioni di tanti soggetti del “riformismo carcerario”, da Antigone fin all’ordine degli avvocati del Lazio e agli stessi agenti di polizia penitenziaria, oltre che ai detenuti, che la ministra Marta Cartabia intervenga a mettere un po’ di ordine nella situazione carceraria, dal sovraffollamento alle carenze sanitarie. Ma anche all’insensatezza del ricorso alla detenzione per tossicodipendenti e malati psichici. La Guardasigilli ha da tempo sollecitato al Dap una relazione sullo stato delle carceri italiane, soprattutto dopo che sono venuti alla luce i gravissimi episodi di violenza sui detenuti di S. Maria Capua Vetere e di altri istituti. Ma si aprono due questioni. La prima l’abbiamo sollevata dal giorno in cui si è reso palese il fatto che la ministra non intendesse avviare un rinnovamento del vertice del Dap. Lasciare una dirigenza composta da ex pm “antimafia” è una scelta politica, perché significa privilegiare la cultura della sicurezza nelle carceri come prioritaria rispetto a programmi riformatori che mettano al centro la persona del detenuto e il percorso individuale che porti al suo reinserimento. Significa continuare a “curare” con il codice Rocco del ventennio fascista, invece che con la riforma del 1975 e con la legge Gozzini. Il secondo problema è quello di capire se anche un blando e generico “riformismo carcerario” abbia la forza di un bisturi, o la potenza di un’assoluzione in chiesa, per eliminare dal mondo della pena la privazione della libertà come unica soluzione, come fu un tempo per la pena di morte o le punizioni corporali. Non risolvevano, con la loro violenza, i sistemi medievali, non risolve oggi quella privazione d’osche è la cattività. Quando lo strappo con il patto sociale è avviato, solo una paziente ricucitura può ricomporre la persona, rimettere insieme la mano che ha colpito, sparato, ucciso, con il resto del corpo cui il carcere ha nel frattempo sottratto la coscienza del tempo e dello spazio. In fondo la scelta di L., e dei tanti che prima di lui - torna alla memoria Gabriele Cagliari - si sono sottratti alla mortificazione del corpo e della personalità con il suicidio, è un gesto rivoluzionario. Perché togliersi la vita in carcere non è la stessa cosa che farlo all’aria aperta della libertà. Non c’è bisogno di scomodare (ma è bene non dimenticarlo) i discorsi di Montesquieu e di tutto l’illuminismo settecentesco, fino al Novecento di Foucault per ricordare la violenza della pena, prima ancora della violenza del carcere. Per non dimenticare mai che mettere la persona in vuol dire avere la presunzione di poter disporre del suo corpo e della sua mente. L’esigenza è la stessa che ispira il ricorso alla pena di morte o all’ergastolo: mortificare il corpo, asservire la persona. La fuga nella follia, il disturbo psichico che coglie una percentuale altissima di prigionieri, è una forma di sopravvivenza, di straniamento da una situazione assurda e insensata. Che andrebbe osservata e “trattata” in luoghi diversi, secondo le indicazioni di Basaglia, oltre che di Gozzini e di quei pochi direttori del Dap del passato e dei tanti giudici di sorveglianza, di ieri e di oggi, che antepongono la vita alla sicurezza. Il “riformismo carcerario” degli anni Settanta del Novecento aveva segnato una vera inversione di rotta rispetto al concetto di certezza del diritto come certezza della pena e quindi certezza del carcere. Prima di tutto con l’introduzione delle pene alternative e la dimostrazione di che balsamo sia l’abbattimento delle mura della prigionia, rispetto alle recidive dei reati come rispetto alla salute fisica e mentale del condannato. E poi con il trattamento individuale del detenuto, con lo studio, i corsi di formazione professionale e il lavoro come medicine che racchiudono in sé la magia della speranza nel futuro. La ricomposizione della persona, la forza di riempire spazi e luoghi, piuttosto che subire quel furto di tempo e di libertà che è il carcere quando diventa puro contenitore di disagi, di trasgressioni. “Sorvegliare e punire”, ha scritto Michel Foucault quarant’anni fa, forse sperando che i movimenti degli anni Settanta avrebbero portato a qualche ricucitura degli strappi e quindi a maggiore libertà “dal” carcere, più che “nel” carcere. Qualche secolo fa anche persone di specchiata vita accettarono che esistesse la schiavitù, e molti non si scandalizzarono per la pena capitale. Cose che oggi non sarebbero accettate dai più. Il fatto di buttare persone in un buco nero a vegetare, e riempirle di psicofarmaci perché sopravvivano, non è molto diverso dal cancellarle come persone (quindi ridurle alla schiavitù della follia) o ucciderle, quindi condannarle a morte. Saprà la ministra Cartabia fare un buon uso del proprio sincero “riformismo carcerario”? Noi speriamo di sì. Ma ha bisogno di avere vicino a sé le persone giuste (richiami dalla pensione uno come l’ex direttore di San Vittore Luigi Pagano, per esempio), ha bisogno di esplicitare che cosa vuol dire per lei “sicurezza” (vuol dire rinchiudere o ricucire?), ha bisogno di fantasia e di un piccone per cominciare a rompere qualche muro. Ne avrà la forza? E soprattutto: glielo lasceranno fare? Rapporto Istat: “Processi troppo lunghi e carceri sovraffollate” Il Dubbio, 10 agosto 2021 Se lo Stato condanna il Sud: la questione meridionale ridotta a questione criminale. Al 31 dicembre 2020 i detenuti in attesa di primo giudizio sono 8.685, pari al 16,3% della popolazione carceraria. Al 31 dicembre 2020 i detenuti in attesa di primo giudizio sono 8.685, pari al 16,3% della popolazione carceraria. Il numero di detenuti presenti in istituti di detenzione è superiore al numero di posti disponibili definiti dalla capienza regolamentare (105,5 per cento posti disponibili). Nel 2020 la durata dei procedimenti civili nei tribunali ordinari rimane elevata (in media 419 giorni), anche se in diminuzione di due giorni rispetto all’anno precedente. Nel 2019 in Italia sono stati commessi 0,5 omicidi volontari per 100mila abitanti. Il tasso di omicidi diminuisce significativamente nel corso degli anni per gli uomini mentre rimane stabile per le donne. Lo rileva il Rapporto Sdgs 2021 di Istat, dedicato al monitoraggio dei Sustainable Development Goals, i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, per il nostro Paese, in particolare per quanto riguarda il Goal 16 (pace giustizia e istituzioni solide). E dei 17 obiettivi prefissati in tutto, l’Italia è ancora lontana dal centrare il primo: “Sconfiggere la povertà”. Secondo il Rapporto, nel 2020, oltre 2 milioni di famiglie (pari al 7,7%), per un totale di oltre 5,6 milioni di individui (9,4%), risultano in condizioni di povertà assoluta. Rispetto allo scorso anno, l’incidenza della povertà cresce soprattutto nel Nord-ovest (10,1% individui in povertà assoluta; +3,3 punti percentuali rispetto al 2019) e nel Nord-est (8,2%, +1,6 p.p.). L’incidenza della povertà assoluta aumenta in misura significativa in tutte le fasce di età, tranne per gli over 65. Nel 2020 l’appartenenza a famiglie composte da soli anziani o nelle quali è presente un anziano - spesso titolare di un reddito da pensione - riduce il rischio di trovarsi in condizione di povertà assoluta. L’Istat sottolinea poi che la diffusione dei contagi ha avuto un impatto significativo sulla mancata richiesta di prestazioni sanitarie. La quota di persone che dichiarano di aver rinunciato a una visita medica pur avendone bisogno è salita al 9,6% nel 2020 dal 6,3% del 2019 e tra questi circa la metà ha segnalato come causa un problema legato al Covid-19. Sono più di ottomila i detenuti in carcere che sono in attesa del primo giudizio di Gianni Alati Il Dubbio, 10 agosto 2021 Il 31 dicembre 2020 i detenuti in attesa di primo giudizio sono 8.685, pari al 16,3% della popolazione carceraria. Il numero di detenuti presenti in istituti di detenzione è superiore al numero di posti disponibili definiti dalla capienza regolamentare (105,5 per cento posti disponibili). Nel 2020 la durata dei procedimenti civili nei tribunali ordinari rimane elevata (in media 419 giorni), anche se in diminuzione di due giorni rispetto all’anno precedente. Nel 2019 in Italia sono stati commessi 0,5 omicidi volontari per 100mila abitanti. Il tasso di omicidi diminuisce significativamente nel corso degli anni per gli uomini mentre rimane stabile per le donne. Lo rileva il Rapporto Sdgs 2021 di Istat, dedicato al monitoraggio dei Sustainable Development Goals, i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030, per il nostro Paese, in particolare per quanto riguarda il Goal 16 (pace giustizia e istituzioni solide). La ministra Cartabia ha chiesto al Dap un rapporto sui suicidi in carcere negli ultimi anni. C’è un indirizzo chiaro: migliorare le condizioni di vita in carcere, per prevenire gesti estremi”. Lo ha detto Massimo Parisi, direttore generale del personale e delle risorse del Dap, intervistato da Euronews nei giorni scorsi. “Stiamo già lavorando, per applicare in maniera rigorosa i protocolli con il servizio sanitario, per prevenire gesti autolesionistici - ha aggiunto - e poi nuovi concorsi in atto, per aumentare gli educatori”. L’oggetto della richiesta ai vertici Dap da parte della Ministra è quella di “un rapporto approfondito sui suicidi in carcere negli ultimi cinque anni per comprenderne le cause e individuare quali interventi possono essere implementati per prevenire i gesti estremi tanto delle persone ristrette quanto del personale di Polizia penitenziaria.” L’ultimo suicidio in carcere è quello del 6 agosto scorso: un cittadino di origini romene si è infatti ucciso a Benevento. L’uomo, un 30enne, si è impiccato nella sezione dell’articolazione psichiatrica. A darne notizia è il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Era arrivato a maggio 2019 nel carcere di Benevento, accusato di furto, ricettazione e oltraggio. È il quarto detenuto suicida in Campania quest’anno, dopo i casi avvenuti a Santa Maria Capua Vetere, Avellino e Poggioreale, oltre il sedicenne agli arresti domiciliari che si suicidò in una comunità di accoglienza. “Così il ddl penale nega l’appello per gli stranieri in difficoltà” di Errico Novi Il Dubbio, 10 agosto 2021 Colloquio con la consigliera Cnf Giovanna Ollà. Che, a fronte di “tante aperture positive contenute nel testo Cartabia”, fa notare una chiusura finora sottovalutata: “Si impedisce all’avvocato di ricorrere in secondo grado finché l’assistito non invia una dichiarazione di domicilio: vuol dire che tanti difensori d’ufficio non potranno chiedere giustizia per chi è stato condannato e si rende irreperibile. Parliamo del 30 per cento della popolazione imputata. Quasi sempre, dei più deboli”. Difficile negare i tanti sforzi di modernizzare il processo contenuti nella riforma. “Difficile negarli anche perché i passi avanti compiuti rispetto al testo Bonafede sono evidenti e numerosi”, nota Giovanna Ollà, consigliera Cnf che, nella massima istituzione dell’avvocatura, è anche coordinatrice della commissione Diritto penale. “Intanto è positivo che sia stato accantonato il fine processo mai, seppur tra alcune deroghe e con un meccanismo pieno di insidie come quello dell’improcedibilità. Ma a parte il superamento della norma sulla prescrizione voluta da Bonafede, dobbiamo ricordare per esempio l’estensione dei procedimenti che s’instaurano solo a querela, un modo corretto di rimettere il processo penale nella disponibilità delle parti. Altrettanto importante è la previsione di sanzioni sostitutive del carcere per pene fino a 4 anni”, fa notare Ollà, “con accesso a lavori di pubblica utilità per i reati puniti fino a 3 anni, laddove tale espiazione è prevista, a normativa vigente, solo per la guida in stato d’ebbrezza e gli illeciti di competenza del giudice di pace”. Ancora, ricorda la componente del Consiglio nazionale forense, “sono reali i miglioramenti nel penale telematico”. Ma proprio perché il quadro d’insieme è apprezzabile, risalta una forzatura di cui finora si è parlato poco, e che riguarda la facoltà di impugnare in appello. All’articolo 7 del disegno di legge — che la Camera ha licenziato in via definitiva solo mercoledì scorso e di cui il Senato si occuperà da settembre — trova posto uno strano obbligo che rischia di impedire ai difensori d’ufficio molti ricorsi in secondo grado: “Con l’atto di impugnazione”, recita la norma voluta dalla ministra della Giustizia, deve essere depositata “a pena di inammissibilità”, una “dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio”. La misura ha sostituito una previsione, inserita l’anno scorso da Bonafede, secondo la quale il difensore avrebbe dovuto ottenere dall’assistito un nuovo specifico mandato per ricorrere in appello. Misura che già nell’autunno 2020, in fase di audizione, proprio Ollà aveva definito “sostanzialmente offensiva verso gli avvocati”. Come riportato nella relazione tecnica del ddl, il presupposto della norma veniva indicato in un presunto “abuso del diritto” da parte dei penalisti. Si è rinunciato a un vincolo formale che riguardasse direttamente il difensore, ma come spiega ora Ollà al Dubbio, “il meccanismo fatto uscire dalla porta è di fatto rientrato dalla finestra. È vero che la dichiarazione o elezione di domicilio può essere trasmessa dall’imputato in autonomia, ma è anche vero che con un meccanismo del genere si produce sempre lo stesso effetto della previsione iniziale: vengono tagliati fuori molti appelli provenienti dai difensori d’ufficio. Viene esclusa dal diritto di difesa, e soprattutto dalla possibilità di rimediare a errori nelle condanne in primo grado, una notevolissima quantità di casi. Ci sono persone imputate che, colpevolmente o incolpevolmente, perdono il contatto con il difensore. A volte l’irreperibilità è una scelta compiuta da chi non ha pagato o pensa di non poter pagare il difensore. Ma se l’avvocato è nominato d’ufficio dallo Stato, dovrebbe prevalere oggettivamente il diritto a veder sanato un errore giudiziario. Così invece si taglia fuori un 30 per cento della popolazione imputata”, osserva Ollà. “Non si ha idea di quanto numerosi siano i casi di persone accusate che non hanno fissa dimora, non sono reperibili, o sono stranieri con difficoltà di comunicazione”. La modifica trova posto all’articolo 7, comma 1 lettera a) della riforma penale. Secondo Ollà il paradosso è anche nel fatto che, secondo una delle previsioni caratterizzanti del ddl, “tutte le notifiche successive alla prima vengono indirizzate all’avvocato: e proprio considerato che il difensore diventa suo malgrado notificatario di tutti gli atti rivolti all’imputato, fin dalla fase preliminare, è davvero strano che poi l’imputato stesso debba inviare una dichiarazione o elezione di domicilio prima che il difensore stesso possa proporre appello. Ripeto: se lo Stato nomina un avvocato d’ufficio, la funzione a quel punto ha a che vedere con il diritto di difesa in termini di principio, non subordinabile alle condotte della persona accusata”. Ma la consigliera Cnf ribadisce che “pur in presenza di simili forzature, è difficile scagliarsi contro la guardasigilli Marta Cartabia rispetto al contenuto generale della riforma: aveva interlocutori politici in conflitto tra loro, su molti aspetti ha dovuto fare sforzi di mediazione complicatissimi e alla fine ne viene fuori un ddl che fa compiere progressi alla disciplina processuale. In ogni caso, il giudizio va dato nell’insieme e con equilibrio”. Bettini (Pd): “Sì ai referendum sulla giustizia. So che c’è la Lega ma li firmo lo stesso” di Maria Teresa Meli Corriere della Sera, 10 agosto 2021 L’esponente del Partito democratico firmerà tre dei sei quesiti proposti da Partito Radicale e Lega: “Dopo la riforma Cartabia c’è ancora molto da fare. Io fuori linea? Letta parla di un Pd plurale”. Goffredo Bettini, lei firmerà tre referendum sulla giustizia. Quindi ritiene che non si sia fatto ancora abbastanza in materia? “Il Pd sulla giustizia ha lavorato in Parlamento con competenza e lealtà per approvare la legge Cartabia; che per le garanzie e le regole del processo penale è un netto passo in avanti. Tuttavia, c’è ancora molto da fare per una riforma organica della giustizia civile e penale. Credo, che la mia posizione sul referendum possa aiutare un cambiamento profondo della nostra giustizia “malata”. La linea del Pd non è comunque quella dei referendum... “Vede, sto apprezzando sempre di più la sobrietà, ma anche il coraggio su tanti temi, del segretario Enrico Letta. Sul fisco, i giovani, la legge Zan. E condivido la sua idea di un partito plurale e aperto al confronto. Purché sia sincero. I referendum sono il terreno privilegiato per esprimere un orientamento fondato principalmente sulle convinzioni più profonde che guidano la tua coscienza. Mio padre è stato un grande avvocato penalista. Repubblicano e libertario. Ho conosciuto tanti suoi colleghi con diverse opinioni politiche ma con la medesima passione umana nel contrastare possibili errori o irrimediabili ferite. Nicola Madia, Luciano Revel, Franco De Cataldo, Enzo Trapani. E molti altri. Quel clima mi è rimasto nell’animo così come il terribile momento della “sentenza”, quando degli esseri umani hanno in mano il destino di altri esseri umani”. Perché firma solo alcuni quesiti referendari? “Non firmerò i referendum che riguardano direttamente i magistrati in quanto persone. Alla magistratura la Repubblica deve tantissimo. Hanno versato il loro sangue e taluni si sono comportati da eroi. Per questo non condivido una rivalsa diretta verso di loro quando sono accertati errori o danni. Si potrebbe creare una condizione di intimidazione che rende più incerto l’accertamento delle responsabilità. Il risarcimento va garantito in altre forme”. Lei è un ultrà del garantismo? “Non sono affatto per l’impunità. Sono, tuttavia, per arrivare alla verità processuale nel rispetto più totale delle regole e di una prospettiva profondamente umana. La condizione delle carceri è in troppi casi terribile. La carcerazione preventiva spesso ingiustificata. La prescrizione sine die, ora corretta in Parlamento, è angosciante per gli imputati e per le vittime. Se lo Stato in un arco lungo ma ragionevole di anni non riesce ad arrivare ad una sentenza definitiva, non possono pagare le singole persone. Devastate nelle loro esistenze”. Non teme che il suo sia un assist a Matteo Salvini? “È assurdo pensare di rinunciare alle proprie idee perché Salvini strumentalizza il referendum. Lui e il suo partito hanno inneggiato al cappio nelle aule parlamentari. La sinistra deve essere critica, innovativa, moderna, ma anche libertaria. Si: libertaria. Non per una libertà egoista e priva di responsabilità. Ma per tutelare gli esseri umani in qualsiasi condizione essi si trovino. Uguaglianza e libertà: dentro tali confini si deve muovere il Pd”. Ed è un assist anche a Renzi... “Non mi preoccupa affatto se talvolta sono d’accordo con Renzi. Mi dispiace, al contrario, quando egli polemizza pregiudizialmente con il Partito democratico e manovra in modo confuso ammiccando anche alla destra”. Con la destra ci governate anche voi... “Ritengo Draghi il punto irrinunciabile di coesione nazionale per l’oggi e per il domani. Qualsiasi ruolo intenderà svolgere. Sta dimostrando autorevolezza indiscussa e sapienza politica. Ma Draghi non va strattonato. Rappresenta una coalizione di emergenza, sostenuta da partiti molto distanti tra di loro. Si tornerà in futuro all’alternativa chiara tra centrosinistra e centrodestra. E ognuno dovrà dire da che parte sta”. Lei è il più grande sostenitore dell’intesa con Giuseppe Conte, ma sulla giustizia non la pensa come i 5 Stelle. Non è una contraddizione? “Ho difeso fino all’ultimo il governo Conte II perché ha fatto bene al Paese; preparando anche una prospettiva politica e di alleanze competitive rispetto ai nostri avversari. Non mi pento affatto di quella mia scelta politica. Ha fermato la destra e diviso il populismo. Anzi: osservo che al di là delle chiacchiere, il nostro rapporto con il movimento di Conte è inevitabile ancora oggi. Non ci sono alternative credibili. Ma non ho mai inteso questa linea come subalternità e rinuncia del Pd ad alzare le proprie bandiere. Lo abbiamo fatto sull’Europa. Sulla scienza. Sull’impostazione delle politiche economiche e sociali, grazie a Gualtieri. Sull’autonomia del nostro pensiero garantita dalla direzione di Nicola Zingaretti. Se ci sono ora forti differenze tra me e il Movimento 5 stelle sul tema della giustizia avremo modo di confrontarci. Con lealtà ma senza sconti. Non ho mai creduto alla propaganda. Amo il dialogo che cambia reciprocamente chi lo accetta. Siamo vicini all e elezioni amministrative delle grandi città, un appuntamento importantissimo. A Napoli e a Bologna andiamo insieme al Movimento 5 Stelle. Su candidati di estremo valore: Manfredi e Lepore. A Roma non si è riusciti per un nostro giudizio negativo sulla sindaca uscente Virginia Raggi. Ma Gualtieri si sta muovendo con un’autorevolezza e una competenza che davvero parlano all’insieme dell’elettorato romano, al di là degli steccati partitici”. Cartabia: “Il giudice Scopelliti sia punto di riferimento per il Paese” Corriere della Calabria, 10 agosto 2021 Messaggio del ministro della Giustizia letto nel corso della cerimonia a Villa a 30 anni dall’assassinio: “Necessario tenere vivo il suo stile”. “Un uomo e un magistrato, alla cui memoria tutti noi - oggi - sentiamo il bisogno di rendere omaggio”, “un punto di riferimento” non solo per “tutti gli operatori della giustizia”, ma “per l’intera comunità nazionale”. Così la ministra della Giustizia Marta Cartabia ricorda Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte di Cassazione, che 30 anni fa in Calabria “veniva barbaramente assassinato da quanti identificarono nella sua rettitudine e nella sua lungimiranza un ostacolo al loro potere criminale”. “Sulla scrivania di Antonino Scopelliti erano arrivate le indagini sulle pagine più buie della Repubblica - dal terrorismo, alle stragi, alla mafia. E fu ucciso prima che potesse rappresentare in Cassazione l’accusa nel maxi processo alla Cosa Nostra siciliana”, sottolinea Cartabia nel messaggio letto alla commemorazione in corso a Villa San Giovanni. Ricordare oggi Scopelliti “è un invito, rivolto soprattutto alle giovani generazioni a mantenere vivo il suo stile nel nostro agire. Abbiamo bisogno della dedizione, del talento, della lungimiranza e dell’onestà intellettuale di uomini come Antonino Scopelliti, che mai sottovalutò l’enorme responsabilità affidata ad un magistrato”. Cartabia richiama in particolare uno scritto in cui il magistrato si interrogava “sul delicato equilibrio dei rapporti tra magistratura e stampa”. E dice: “Scopelliti ricordava sia ai suoi colleghi, sia ai giornalisti come avessero nelle mani il potere di “distruggere l’immagine di chiunque, con una frettolosa comunicazione giudiziaria”. Per questo, invitava sia gli uni che gli altri a non essere “troppo protagonisti della straordinarietà”. Il cittadino infatti “ha il diritto di attendersi dal suo giudice l’uso della massima prudenza; ha il diritto - scriveva ancora Antonino Scopelliti - di non tollerare inchieste fondate sul poco o sul niente; ha il diritto di vedere il suo giudice ‘con la testa stretta fra le mani”, nel momento del decidere”. “Sono parole e immagini che meritano di essere conosciute da tutti - osserva Cartabia - ricordate e meditate”. Storia tragicamente ordinaria di un giornalista sotto scorta di Enrico Fierro Il Domani, 10 agosto 2021 Michele Albanese vive sotto protezione da sette anni: la ‘ndrangheta progettava un attentato contro di lui. La sua vita non ci racconta solo una storia individuale, ma ci parla di tanto altro. Di cos’è ancora oggi il sud, dell’esistenza di quei piccoli “stati” che si contrappongono allo stato vero. Si chiamano ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra. Ma il dramma non sono solo le minacce. Le querele temerarie rischiano di spazzare via la stampa libera al sud. “Sette anni. Ottantaquattro mesi. Per tutto questo tempo non sono andato al cinema, a teatro, ad un concerto. Vivo in un posto da veri privilegiati dove ho a disposizione due mari, il Tirreno e lo Jonio. Posso scegliere tra spiagge bianche e solitarie e la scogliera. Una benedizione del Padreterno. Ma neppure quest’anno mi stenderò a prendere il sole e a fare tuffi…”. Potremmo fermarci qui, perché la storia di una vita così è già molto triste, invece andiamo avanti nel racconto, perché la vita di Michele Albanese non ci racconta solo una storia individuale, ma ci parla di tanto altro. Di cos’è ancora oggi il sud, cosa sa essere questo paradiso che dicono abitato da diavoli, con le sue violenze, l’esistenza di quei piccoli “stati” che si contrappongono allo stato vero. Si chiamano ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra, dominano pezzi di territorio, stabiliscono (proprio come piccoli o grandi governi locali) il rispetto di proprie leggi e regole. Spesso si intrecciano con pezzi della politica e dello stato vero, quello con lo stemma della Repubblica italiana. E in quel momento diventano potentissimi. Potere vero. E come tutti i poteri degni di questo nome, non sopportano di essere osservati, analizzati, raccontati. Insomma, dove comandano loro i giornalisti si devono adeguare. Abbassare la testa. Girare gli occhi da un’altra parte. Far finta di non vedere. Che è meglio. Michele Albanese, 60 anni, sposato, due figlie, la testa non l’ha mai girata dalla parte più comoda e tranquilla della realtà. È un giornalista, cronista locale, e racconta i fatti della sua terra: la Calabria. “Quel giorno di sette anni fa non potrò mai dimenticarlo. Era il 16 luglio del 2014. Giornata di fuoco, e non solo per il caldo torrido. Avevano ammazzato un mafioso di terza fila. Di cognome faceva Alvaro (uno dei casati più importanti della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, ndr), ma era un personaggio minore. Ero lì per Il Quotidiano del Sud, il giornale dove scrivo. Armato di taccuino e pazienza, aspettavo i rilievi della scientifica. Insomma, le solte cose da cronista qui da noi. All’improvviso mi arriva una telefonata…”. Michele si racconta, perché da quel giorno cambia la vita sua e quella dei suoi familiari. “Era un commissario di polizia, il capo della “catturandi”, la sezione più delicata, quella che si occupa della caccia ai latitanti. Ci salutiamo brevemente, poi il dottore mi dice con tono secco: devi venire in Questura, il capo della Mobile ti vuole parlare. Rispondo che sono impegnato, c’è stato un omicidio e devo scrivere un pezzo. La risposta è un chi se ne fotte. Vieni subito. Ovviamente in quei momenti pensi a un articolo che hai scritto e che forse non è stato di gradimento del funzionario. Qui da noi il cazziatone da parte di magistrati e investigatori è sempre in agguato. Non è una vita facile quella del cronista di provincia. Comunque lascio tutto e vado in Questura. Piano e uffici nobili. Trovo il capo della Mobile e una brava magistrata, la dottoressa Alessandra Cerreti. Chiedo spiegazioni. Che arrivano, con la forza della doccia gelata”. L’aria condizionata a palla dell’ufficio porta refrigerio a tutti, i due funzionari e la giovane pm, a sudare è solo Michele. Parla la magistrata: “Dottore, durante una attività di intercettazione abbiamo sentito due tizi che parlavano di lei. Stiamo parlando di due pezzi da novanta di una famiglia potente”. La dottoressa Cerreti fa il nome e Michele rabbrividisce. “Parlavano dei suoi articoli, di come lei descrive la cosca e racconta il potere dei boss. I toni erano duri. Dopo le consuete offese…”. Michele interrompe la magistrata, cerca di alleggerire il clima. “Sì, lo so, figlio di qua, figlio di là, cornuto…”. La pm lo interrompe e prosegue. “Albanese, questi parlavano di bombe da piazzare sotto la sua macchina, progettavano un attentato. Stiamo parlando di una cosa seria, questi hanno a disposizione latitanti che non hanno nulla da perdere”. Ancora una volta, Michele tenta di minimizzare. “Dottoressa, la ringrazio e ringrazio tutti per l’attenzione, ma quelli che avete raccolto possono essere gli sfoghi di qualche uomo di panza, la ‘ndrangheta non ha mai ucciso un giornalista, i boss sanno che non gli conviene, capiscono bene che un omicidio del genere attirerebbe l’attenzione dell’opinione pubblica. Televisioni, giornali, manifestazioni, appelli, troppi fari accesi. La ‘ndrangheta non li sopporta, ama l’oscurità…”. Nessun giornalista ucciso - Ed è vero, i Tribunali speciali della Santa (queto è il nome dell’organizzazione dagli anni Novanta del secolo scorso, ndr) non hanno mai sentenziato l’uccisione di un giornalista. La Calabria non è la Sicilia, dove l’elenco dei cronisti uccisi è lunghissimo e senza distinzione di “testata”. Certo, non mancano le auto bruciate, i colpi di pistola sparati sul portone di casa, le lettere minatorie. Tutte “attenzioni” che, ancora oggi, i boss riservano ai cronisti locali. Ma uccidere mai. Quando è stato necessario (tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), la ‘ndrangheta ha ucciso militanti politici, con particolare attenzione ad attivisti e dirigenti del Partito comunista italiano. Ciccio Vinci, 18 anni, ucciso la sera del 10 dicembre 1976. La sua colpa: aver parlato in pubblico contro le cosche di Cittanova, Rocco Gatto, mugnaio, ucciso il 12 marzo del 1977. Peppe Valarioti, freddato a colpi di lupara l’11 giugno del 1980…I loro nomi sono spesso dimenticati. In Calabria non esiste un Pantheon delle vittime di mafia. La ‘ndrangheta ha eliminato un magistrato, Antonino Scopelliti, ma per fare un favore a Cosa nostra e ai corleonesi, l’ultimo omicidio politico è quello che ha visto come vittima Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale, ucciso nel 2005 in pieno giorno a un seggio per le elezioni primarie dell’Ulivo di Prodi. Ma giornalisti mai. Michele Albanese fa un rapido riepilogo storico-sociologico per dimostrare come la ‘ndrangheta non uccide mai a caso, ma solo per “utilità”. Non convince nessuno dei presenti. Il funzionario di polizia lo accompagna in Prefettura, dove è in corso la riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Hanno deciso: da quel giorno (16 luglio 2014) Michele sarà un uomo sotto scorta. La sua vita sarà blindata. Non potrà mai più uscire da solo con la sua auto, andare dove gli pare. “Fare il mio lavoro. Tu pensa alle mie fonti, persone che mi parlavano, mi davano notizie. Ma chi vuoi che si avvicini più ad un cronista seguito da due poliziotti di scorta? Ovviamente non finirò mai di ringraziare questi uomini che rischiano la loro vita per tutelare la mia. Per questa ragione, per il rispetto che devo allo stato e a queste persone, da sette anni vivo un mio personale e anticipato lockdown. Esco solo per motivi di lavoro. Ma voi mi immaginate su una spiaggia con due agenti?”. Immaginiamo la scena e ridiamo di gusto. Querele temerarie - “Vedi, qui al sud, le intimidazioni non sono solo le minacce. La querela temeraria, la richiesta di danni abnorme è all’ordine del giorno. Pensa ai precari di un quotidiano, di un sito, una tv privata, che si vedono arrivare una richiesta da centinaia di migliaia di euro. A me è capitato: un noto avvocato, oggi esponente di rilievo di un partito politico, mi chiedeva 500mila euro. Quando capita e non hai un grosso editore alle spalle pensi alla tua casa, alla famiglia, a quello che può succedere. E spesso decidi che non ne vale più la pena. Che è meglio andar via”. Michele è anche consigliere nazionale della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. “La verità è che siamo deboli, su 175mila iscritti all’ordine dei giornalisti, quelli che aderiscono al sindacato sono appena 6mila. In queste condizioni come la vinciamo la battaglia per una legge contro le querele temerarie? Il sindacato ha poca forza, spesso rappresenta i supergarantiti, ma lo sanno come si lavora al sud? Chi sono gli editori, quali e quanti ricatti si subiscono, i cronisti pagati 5 euro a pezzo? Se piccoli quotidiani, blog e siti del sud soccombono alle querele temerarie, muore un pezzo di libertà. Calabria, Campania, Sicilia, rischiano di piombare nell’oscurità, o di essere raccontate solo da chi ha mezzi e potere. La verità è che qui ci vorrebbe una giornata di sciopero nazionale, un blocco totale dell’informazione per un giorno. Per difendere il diritto di tutti ad una informazione libera e non intimidita”. Affidi. “Se me l’aggiustate me la riprendo” di Ludovica Jona La Repubblica, 10 agosto 2021 La frase shock di una mamma nel riconsegnare la figlia ai servizi sociali. Lo racconta un’educatrice che lavora in una cooperativa che si occupa di sostenere famiglie con bambini in difficoltà. “Spesso i genitori affidatari o non sono aiutati dalle istituzioni o non vogliono farsi aiutare”. Secondo molti operatori sociali ci sarebbe una scarsa preparazione dei genitori acquisiti alla base del dramma dei bambini “restituiti”. Ma per l’Anfaa i minori dati in affido hanno “situazioni troppo compromesse”. “Il Tribunale mi ha dato una bambina con una tara”, “Se me l’aggiustate me la riprendo”. Due madri, una adottiva l’altra affidataria, hanno pronunciato queste parole nel riconsegnare due bambine ai servizi sociali. Lo racconta a Repubblica.it un’educatrice che lavora in una cooperativa che si occupa di sostenere famiglie con bambini in difficoltà. “Valutazioni e abbinamenti sbagliati”. “Perché non ci sono studi su chi sono i genitori affidatari?” Si chiede Vittoria Quondamatteo, psicoterapeuta, responsabile della casa-famiglia “Il Fiore nel Deserto” di Roma che ha accolto diversi adolescenti reduci da due diversi abbandoni, quello dei genitori biologici e poi di quelli acquisiti. “Nella mia esperienza ci sono stati errori di valutazione e abbinamenti sbagliati”, dice. “I bambini e adolescenti che vengono dati in affido sono persone ferite - sottolinea Quondamatteo - ci sono problemi complessi di aggressività e conflittualità e spesso gli affidatari non hanno strumenti”. “Inoltre spesso i genitori affidatari o non sono abbastanza aiutati dalle istituzioni oppure non vogliono farsi aiutare”. Necessari tre colloqui conoscitivi. La responsabilità del procedimento di affido per i Comuni o i municipi è dei servizi sociali: sono loro che, su richiesta del Tribunale per i minorenni, devono trovare una famiglia affidataria. Per l’inserimento di una famiglia o un single nella banca dati per l’affido del Comune di Roma sono necessari tre colloqui conoscitivi con assistenti sociali e psicologi (l’ultimo dei quali effettuato nel corso una visita domiciliare con visita della casa dove il bambino alloggerà) e un percorso di formazione costituito da 4-5 incontri di gruppo. “A differenza dell’adozione - fanno sapere dal Centro per l’Affido di Roma - non vi sono dei criteri per la selezione dei genitori affidatari determinati per legge”. I potenziali mamme e papà vengono dichiarati “non idonei” a prendere bambini in affido, quando loro stessi maturano, - nei due incontri con gli operatori del Centro Affido - la consapevolezza di non essere pronti a questa esperienza. Ad oggi non ci sono dati sui fallimenti degli abbinamenti ma una recente delibera del Comune di Roma (aprile 2021) prevede l’istituzione di un osservatorio sugli affidi. Promuovere affidi “consensuali”. L’Associazione nazionale famiglie adottive e affidatarie (Anfaa) pone l’accento sulle conseguenze del ritardo con cui vengono fatti gli affidi. “Sono i servizi che mandano in affido i bambini solo come ultima opzione, con situazioni ormai deteriorate”, denuncia la presidente di Anfaa, Donata Micucci, parlando di “bambini piccolissimi anche di 2-3 anni che sono tenuti in case famiglia”: “Manca un sostegno finanziario alle famiglie affidatarie che é importante - spiega - perché l’affido è un intervento sociale”. “Questo supporto manca soprattutto nel centro-sud Italia - aggiunge - perché le Regioni non sono obbligate a darlo, dipende dal bilancio”. Micucci sottolinea come la situazione sia ulteriormente peggiorata a causa del Covid: “Ci sono stati vuoti di intervento e mancati incontri in presenza da parte dei servizi che dovrebbero essere d’aiuto, sia alle famiglie affidatarie che a quelle d’origine e - soprattutto - ai bambini”. Per la presidente dell’Anfaa è fondamentale promuovere, quando possibile, affidi “consensuali”, ovvero in accordo con la famiglia d’origine, piuttosto che quelli “obbligatori” stabiliti dal Tribunale. Servizi di supporto ai minori. Mariangela Costa, è educatrice presso la cooperativa sociale Eureka I Onlus - che per il Comune di Roma realizza diversi servizi di supporto ai minori in affido ma è anche una mamma adottiva: “I servizi sociali lamentano aspettative molto alte da parte dei genitori affidatari e il fatto che l’istituto dell’affido sia considerato dalle famiglie una scorciatoia per l’adozione - dice - ma le famiglie che siano disponibili a ad accompagnare nelle difficoltà un bambino, le devono formare e valutare loro”. La totale mancanza formazione. “Abbiamo raccolto denunce di associazioni - come quella delle “Mammematte” - sull’esistenza di una totale mancanza formazione, competenza, empatia e sensibilità da parte di alcune famiglie affidatarie, cui sono seguiti abbandoni e traumi per minori che oggi sono fragilissimi”, ammette Stefania Ascari, deputata del M5S che nel 2019 ha depositato una legge delega per la riforma del sistema dell’affido oggi all’esame della Commissione giustizia della Camera. “Per questo abbiamo aggiunto l’obbligo di un anno di formazione specifica post laurea con tirocinio, per gli operatori dei servizi sociali che vogliono occuparsi di minori e di fragilità - afferma Ascari - molte famiglie affidatarie, che spesso hanno anche figli propri, fanno un lavoro sociale straordinario, ma vanno aiutate” Alcoltest, confermata l’ebbrezza anche se l’apparecchio rileva “volume d’aria insufficiente” di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 10 agosto 2021 L’accertamento, invece, è irregolare se oltre al messaggio ricorra altro errore strutturale dell’apparecchio. Regolare l’esito dell’alcoltest anche se - oltre al tasso sangue-alcool - dall’apparecchio esca uno scontrino con la dicitura “volume insufficiente”. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 30801/21. La vicenda - Venendo ai fatti un soggetto era stato condannato alla pena di cinque mesi e dieci giorni di arresto ed euro 4mila di ammenda in relazione al reato di cui all’articolo 186, commi 2), lettera c), 2-bis e 2-sexies del Cds perché si era posto alla guida di un’auto in stato di ebbrezza conseguente all’uso di bevande alcoliche, con tasso alcolemiche accertato mediante etilometro di 1,81/1,95 g/l. Nella vicenda l’auto era andata a urtare un palo della luce con il conducente che si presentava in evidente stato confusionale. Il ricorrente ha appellato la precedente sentenza di merito evidenziando come la misurazione del tasso alcolemico era viziata e inattendibile in quanto l’apparecchio impiegato aveva emesso due scontrini contenenti l’annotazione “volume d’aria insufficiente”. Secondo l’orientamento più recente della Corte, il reato di guida in stato di ebbrezza è configurabile anche quando lo scontrino dell’alcoltest, oltre a riportare l’indicazione del tasso alcolemico in misura superiore alle previste soglie di punibilità contenga la dicitura “volume insufficiente”, qualora l’apparecchio non segnali espressamente l’avvenuto errore. Tale principio è evincibile dall’esame della disciplina relativa al funzionamento degli strumenti di misura della concentrazione di alcol nel sangue. In particolare il Dm 196/1990 precisa che qualora l’apparato non dia un inequivocabile messaggio di errore, la misurazione deve ritenersi correttamente effettuata, anche nell’ipotesi in cui compaia un “messaggio di servizio” teso a evidenziare che l’espirazione è stata effettuata con ridotto volume d’aria. Ne consegue che la mera indicazione di “volume insufficiente” in assenza di ulteriori elementi di errore dell’apparecchio rendono corretta la misurazione. Sicilia. Carceri d’inferno: la doccia è lusso e si vive in due metri quadri di Francesco Patanè, Alessandro Puglia e Claudio Reale La Repubblica, 10 agosto 2021 Dodici penitenziari su 23 sono troppo pieni. E fra rivolte e suicidi l’assistenza è insufficiente. Il Garante: “Troppi ferimenti sospetti”. La bomba a orologeria è una polveriera fatta di 5.891 vite. Uomini e donne, non figure senza volto e neanche sempre colpevoli: perché nelle carceri siciliane che ribollono di rabbia e di caldo più di un detenuto su tre aspetta ancora la sentenza definitiva e intanto vive dietro le sbarre, in condizioni che in estate diventano spesso estreme. E in uno spazio che la legge prevedrebbe più grande: 12 dei 23 penitenziari dell’Isola ospitano infatti più persone di quante potrebbero contenerne, e le rivolte come quelle dell’anno scorso a Palermo-Pagliarelli (che secondo le statistiche del ministero della Giustizia aggiornate al 31 luglio custodisce 1.199 detenuti a fronte di una capienza teorica di 1.182) o le aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria come quella di fine luglio a Caltagirone fotografano una situazione in cui il sovraffollamento è la scintilla che fa scoppiare un incendio di sofferenza. Contro le regole - Le regole, del resto, sono solo teoriche. Il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria considera accettabile uno spazio di tre metri per tre a testa, e su questo dato calcola la capienza delle carceri: i detenuti realmente presenti, però, secondo le statistiche dello stesso ministero della Giustizia aggiornate al 31 luglio, la superano ad Agrigento, Caltanissetta, Gela, Catania-Bicocca e Catania-Piazza Lanza, Enna, Piazza Armerina, appunto Palermo-Pagliarelli, Termini Imerese, Augusta, Siracusa e Castelvetrano. Da sempre il problema è la distribuzione: la capienza teorica di tutte le carceri siciliane è infatti di 6.443 detenuti, 452 in più, ma ci sono istituti pieni come un uovo e altri semivuoti. I dati, però, in alcuni penitenziari sono più gravi di quanto appaia dalle mere statistiche: “A Caltagirone - osserva Domenico Nicotra, segretario generale aggiunto del sindacato della polizia penitenziaria Osapp - ci sono 398 detenuti su una capienza teorica di 542 posti, ma non è agibile un’intera parte della struttura e quindi il numero si abbassa. Lo stesso vale a Giarre: a fronte di una capienza di 58 persone ci sono al momento 37 detenuti, ma in realtà un’intera area è stata chiusa proprio per carenza di personale”. Il dato peggiore, comunque sia, è quello di Bicocca: dovrebbero starci in 135, ma in questi giorni caldissimi i detenuti sono 201: quasi il 60 per cento in più del limite che lo Stato ritiene accettabile. Il calcolo, quindi, è presto fatto: ciascuno di loro ha a disposizione meno di 2 metri per tre. Ma il quadro descritto dal Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, è ancora peggiore: “Su 201 persone presenti - dice - 183 si trovano nella zona di alta sicurezza, che ospita più del doppio delle persone previste”. In queste condizioni la polizia penitenziaria finisce per essere in difficoltà, soprattutto numerica: “A fronte di un organico previsto di 200 unità - calcola Nicotra - ce ne sono effettivamente 170. Di queste 55 sono distaccate al nucleo Traduzioni e piantonamenti che di fatto non opera su Bicocca: il numero, quindi, si riduce a 115. Noi la sicurezza la garantiamo sempre, ma gli errori e le carenze di organico significano inevitabilmente avere conseguenze sul piano dei servizi alla persona”. Una questione di civiltà - Perché i servizi non sono un concetto astratto. “Dalle condizioni delle carceri - avvisa Pino Apprendi, referente in Sicilia dell’associazione Antigone, che vigila sui penitenziari di tutta Italia - si può dedurre la civiltà di un Paese”. Quella italiana, e siciliana in particolare, non è elevatissima: “Nell’ultima visita a Trapani - racconta Apprendi - ho trovato celle di isolamento con un buco per terra come bagno. Si dormiva nello stesso ambiente in cui si facevano i bisogni. Il lockdown, in queste condizioni, è stato ancora più duro. Ad Agrigento ci sono infiltrazioni d’acqua in vari reparti e stanze anche con tre letti a castello. Ma poi in generale ci sono carceri in cui non si può fare la doccia ogni giorno e strutture come Pagliarelli dove è stata interrotta tutta la didattica”. Il caldo di Pagliarelli - Su quest’ultimo fronte, in realtà, la neo-direttrice del carcere palermitano, Maria Luisa Malato, ha le idee abbastanza chiare: “A settembre - anticipa - proveremo a far ricominciare la didattica sia a distanza che in presenza. Non avevamo finito il cablaggio”. Nel più grande penitenziario palermitano, dove fra febbraio e aprile c’è stato un grande focolaio di contagi Covid con un’ottantina di casi complessivi, secondo la stessa direttrice i problemi riguardano semmai i funzionari pedagogici: “Sono fortemente sotto organico”, ammette Malato, che invece rivendica la disponibilità di tre psichiatri. Chiamati, però, a far fronte a una popolazione di quasi 1.200 detenuti contro una capienza teorica di 1.182. E questo rimane il tema principale: “Il sovraffollamento - riflette la direttrice - non sarebbe enorme, viste le dimensioni del carcere. Bisogna dire però che con il caldo diventa un grande problema”. Prigionieri della mente - Un problema ancora più complicato da gestire quando le condizioni psichiatriche di partenza non sono buone. Questo, in realtà, è l’altro enorme bubbone: sulla carta l’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto è stato riconvertito in casa circondariale dal 2018 e da allora i detenuti sarebbero dovuti passare nelle Rems, le residenze assistite. Per il Garante, però, non è andata così, a partire dalla struttura della provincia di Messina: “I soggetti presenti nell’istituto di Panzera a Reggio Calabria, struttura di cui abbiamo chiesto la chiusura - accusa Palma - venivano trasferiti proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, che di fatto sta diventando un grosso agglomerato di disagio mentale”. Non solo: sulla carta le Rems in Sicilia dovrebbero essere quattro, ma in realtà sono solo due, a Naso (nel Messinese) e a Caltagirone (in provincia di Catania). “Così - attacca Nicotra - in tutte le carceri siciliane ci ritroviamo una grande parte del personale di polizia coinvolto in episodi con detenuti che hanno problemi psichiatrici. Quelle persone avrebbero bisogno di strutture e personale adatto”. Quegli strani infortuni - Il rovescio di questa medaglia è l’autolesionismo. “In quest’ultimo anno - prosegue Palma - a Bicocca sono stati segnalati solo quattro casi di autolesionismo, contro i 98 di piazza Lanza. Anche questo è un numero che va interpretato: c’è stata una maggiore segnalazione a piazza Lanza oppure c’era una situazione più tesa? E poi emerge che a Bicocca nell’ultimo anno ci sono stati oltre 65 infortuni accidentali”. Gli infortuni che avvengono nelle carceri vengono catalogati come infortuni sul lavoro, incidenti a seguito di attività fisiche o sportive o in maniera più generica come “infortuni accidentali”. Per il Garante, però, rappresentano una “categoria opaca”: “Quando troppo frequentemente si scivola nella doccia o si sbatte la testa - annota Palma - è qualcosa che mi lascia sempre dubbioso”. Fine pena mai - Anche perché nelle celle si muore tanto. Il 2021 è stato un anno peggiore del precedente: secondo il dossier “Morire di carcere” dell’associazione Ristretti, che tiene traccia di tutti i detenuti defunti dietro le sbarre, fino al 5 agosto i decessi sono stati quattro contro i due dello stesso periodo del 2020. Nomi, non numeri: il 29enne Chibeb Hamrouni, morto il 24 gennaio per cause da accertare a Termini Imerese, il 52enne Massimo Bottino, deceduto per malattia a Pagliarelli lo stesso giorno, il 37enne Paolo Chiofalo, defunto a Pagliarelli in circostanze da chiarire il 28 marzo e il 40enne Giovanni Puzzanghera, che si è suicidato ad Augusta il 15 maggio. “L’unica contromisura possibile - commenta Apprendi - è consentire almeno condizioni di vita migliori nelle carceri. Chiediamo poi che per reati minori si creino pene alternative come gli arresti domiciliari”. Fino a prova contraria - Tanto più che i detenuti non sono sempre condannati in via definitiva. Anzi: lo sono in poco più di un caso su due, visto che ancora secondo i dati del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (aggiornati in questo caso al 30 giugno) solo 2.208 detenuti su 5.817 sono dietro le sbarre per effetto di una sentenza passata in giudicato. Per una sorte che nell’attesa costringe a stare in celle caldissime e troppo strette. Per un’ingiustizia, quella sì, certificata al di là di ogni ragionevole dubbio. E che la Sicilia, come tutto il Paese, continua a dimenticare. Campania: Il Garante dei detenuti: “Garantire spazi per l’intimità nelle carceri” di Antonio Sabbatino internapoli.it, 10 agosto 2021 Consentire ai detenuti di ricevere visite in carcere in spazi non necessariamente controllati da sistemi audiovisivi. È quanto la necessità ravvisata dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. L’occasione per parlarne, la pubblicazione del secondo numero della raccolta Quaderni di Ricerca dal titolo “Habitat e Affettività” in rispetto della dignità umana. Le legislazioni degli altri Paesi - Spagna, Portogallo, Francia, Svezia, Croazia, Austria, Danimarca, Olanda e ancora Norvegia, il Belgio, la Svizzera i detenuti possono ricevere visite dei familiari in spazi senza controllo audiovisivo. Non solo: anche il numero delle telefonate è altro. In Italia, invece, ricorda Ciambriello, “le dotazioni igienico sanitarie insufficienti nelle celle, i ritardi burocratici impediscono un Habitat in grado di tutelare la dignità del detenuto e delle loro famiglie” Tutto ciò, nonostante una condanna nel 2013 dalla Corte europea dei diritti umani sul sovraffollamento delle celle. La mancanza di spazi intimi - Il garante regionale dei detenuti afferma: “Mancano ulteriori spazi per colloqui più intimi. A ogni persona, e ancor di più al detenuto, non si può negare il diritto di amare ed essere amato”. Ciambriello cita la legge della Francia sui “piccoli appartamenti separati in cui i detenuti possono ricevere l’intera famiglia per un periodo di tempo che va dalle 6 alle 72 ore”. La costruzione del carcere di Nola - Il Coronavirus ha palesemente mostrato le contraddizioni di un sistema carcerario in cui la piaga del sovraffollamento continua a essere profonda. La pandemia ha inoltre costretto i detenuti a colloquiare a distanza con i parenti. Per tutte queste ragioni, appare ancora più urgente la costruzione di nuove carceri. In Campania sarà costruito a Nola. Problemi strutturali ai terreni, rendono incerti i tempi. Secondo il progetto le celle saranno senza sbarre e i detenuti potranno svolgere attività lavorative, sociali, sportive grazie all’utilizzo di campi di calcio, laboratori, un teatro, spazi verdi a cui s’aggiungerà un sistema di videosorveglianza sofisticato. Roma. Detenuto si è tolto la vita con il gas, Rebibbia è una polveriera di Angela Stella Il Riformista, 10 agosto 2021 Il suicidio di L. aggiorna a 32 la contabilità dei detenuti suicidi dall’inizio dell’anno. Anastasia e le Camere penali lanciano l’allarme: “Penitenziari del Lazio disumani. Le Rems sono un miraggio, tanti muoiono in attesa di un posto”. Qualche giorno fa nel carcere romano di Rebibbia L., un detenuto italiano di 52 anni con problemi psichiatrici, si è suicidato dopo essersi coperto la testa con una busta e aver inalato del gas, proprio nella data del suo compleanno. A rendere nota la notizia è stato Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria. Un episodio che restituisce alla mente il ricordo di un altro tragico suicidio: quello di Marco Prato, il giovane pierre capitolino arrestato insieme con Manuel Foffo per l’atroce delitto di Luca Varani. Nel 2017 il ragazzo, con precedenti tentativi di suicidio alle spalle, si era recato nel bagno della sua cella di Velletri, aveva infilato la testa in un sacchetto di plastica e aveva respirato il gas contenuto nella bombola per cucinare che è in dotazione ai detenuti. Questo tragico evento riporta all’attenzione, dunque, due problemi: quello dei suicidi in carcere e quello della salute mentale negli istituti di pena. Sul primo fronte il ministro della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto al Dap un rapporto sulle cause del fenomeno - già 32 suicidi dall’inizio dell’anno, 62 nel 2020 - decisa a migliorare le condizioni di vita dei detenuti e di chi nelle carceri ci lavora. Ma tornando al drammatico episodio di cronaca penitenziaria, uno sguardo più da vicino lo ha fornito Stefano Anastasia, Garante dei detenuti del Lazio, che sabato scorso si è recato a Rebibbia a parlare con i detenuti che insieme ad altre decine di reclusi “hanno inviato al sottoscritto, alla Garante comunale, al Garante nazionale, e poi al Tribunale di sorveglianza, alla Direzione del carcere, al Provveditorato, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alla Ministra Cartabia un reclamo, in cui - sgomenti per la morte di L. - denunciano lo stato di trascuratezza in cui versa quell’Istituto, che pure fu fiore all’occhiello della riforma penitenziaria, della legge Gozzini e della illuminata gestione dell’Amministrazione penitenziaria da parte del compianto Nicolò Amato”. Prosegue Anastasia: “Sono in corso le indagini della Procura sulle circostanze della morte, e la Asl sta ricostruendo l’assistenza che gli era prestata in questi anni nella sezione dei cd. “minorati psichici”, secondo la terminologia pre-basagliana ancora in uso nell’amministrazione penitenziaria, ma - fughiamo subito il campo dagli equivoci - Luciano non doveva stare in Rems, o almeno non ancora: riconosciuto semi-infermo di mente, aveva da fare ancora sette anni in carcere, prima di essere destinato in una Residenza per le misure di sicurezza. Forse avrebbe potuto essere ammesso a un’alternativa terapeutica, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza 99/2019, redatta dall’allora giudice costituzionale Marta Cartabia, ma non ho notizie che un’istanza in tal senso sia mai stata fatta ai giudici di sorveglianza”. Per l’avvocato Vincenzo Comi, Presidente della Camera Penale di Roma: “È inaccettabile e sconvolge (ma non stupisce più purtroppo)” questo suicidio. “Noi avvocati romani - prosegue viviamo sulla nostra pelle la situazione delle carceri nel Lazio. Le condizioni sono disumane per il sovraffollamene le strutture sono insufficienti a tutelare le persone malate che vengono abbandonate nelle celle in attesa di quel miraggio delle Rems che, se ha sopito la coscienza di qualcuno, ha solo creato aspettative di un posto che non ci sarà mai. Intervenga subito la Ministra Cartabia per fermare questa tragedia affinché venga assicurata una adeguata assistenza sanitaria in carcere e ripristinata la legalità della pena”. Il problema dei malati psichiatrici in carcere è al centro di un appello lanciato dal Partito Radicale proprio negli ultimi mesi, in quanto circa quattro detenuti su dieci hanno problemi psichiatrici: “Nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica. Dall’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone del 2020 risulta che, nei 98 istituti visitati, il 27% dei detenuti è in terapia psichiatrica (Spoleto il 97%, a Lucca il 90%, a Vercelli l’86%) e il 14% dei detenuti è in trattamento per dipendenze. La normativa italiana è ferma a quanto prescritto dal Codice Rocco del regime fascista, risalente a ben 91 anni fa; le norme relative alla imputabilità, alla pericolosità sociale, sono del 1930 e sono ancora in vigore, nonostante siano profondamente mutate le conoscenze scientifiche in ambito psichiatrico”. Ad esempio, secondo gli articoli del Codice Rocco tuttora vigenti, e altamente criticati, nel caso di totale incapacità di intendere e volere, definita attraverso perizia, il giudice stabilisce che la persona non è imputabile e la proscioglie: non si riconosce alla stessa una responsabilità personale ma è la malattia che ha condizionato e determinato il reato. La persona viene sottoposta alla misura di sicurezza detentiva nell’Opg a tempo indeterminato, vanificando il fine rieducativo della pena e il reinserimento sociale. I cosiddetti ergastoli bianchi. Su questo tema giace in Parlamento una proposta di legge presentata dall’onorevole Riccardo Magi di +Europa. Sanremo (Im). Suicidio in carcere, presentata un’interrogazione alla Camera 104news.it, 10 agosto 2021 Su richiesta del Partito Radicale l’Onorevole Roberto Giachetti ha presentato una interrogazione alla Camera sul suicidio avvenuto nei giorni scorsi nella Casa di Reclusione di Sanremo Valle Armea. Giachetti chiede di conoscere le circostanze in cui il tragico episodio è avvenuto, le ragioni per cui VS fosse stato spostato nel Padiglione C e se sia stato o meno sottoposto ad attenzioni e adeguata sorveglianza dopo un precedente tentativo di togliersi la vita avvenuto poco giorni prima. Chiede inoltre di verificare le condizioni di abbandono e di trascuratezza in cui versa lo stesso Padiglione C (che ospita detenuti sex-offenders e protetti) in particolare riguardo la mancanza di attività interna, lavorativa e di specifici percorsi terapeutici e riabilitativi rivolti ai sex offenders, di attivare lo strumento dei mediatori culturali (non ancora presente a Sanremo dove il 60% dei detenuti sono stranieri), di incrementare l’assistenza psichiatrica e verificare le possibilità di aumentare l’attività lavorativa e trattamentale nell’istituto. Non è la prima volta in cui ci troviamo a constatare come il Carcere di Valle Armea soffra di isolamento dalla città a cui appartiene, per cui è stato per molti anni quasi un corpo estraneo. Le ragioni sono numerose, ma la più evidente è la scelta infelice del luogo in cui è stato realizzato, molto lontano dall’abitato e disagevole da raggiungere, la stessa purtroppo che si vorrebbe seguire per il nuovo Carcere di Savona che qualcuno sta proponendo di realizzare in Val Bormida. Le soluzioni possibili una maggiore attenzione della politica ligure (quanti consiglieri regionali e deputati hanno visitato l’istituto?), la nomina da molto tempo attesa del Garante Regionale e l’attivazione di Garanti Comunali o Provinciali, ancora assenti in Liguria. A Sanremo potrebbe essere un utile strumento per colmare la distanza che da troppo tempo separa Valle Armea dalla città, avvicinare al carcere quelle realtà associative e di volontariato interessate ad operarvi e creare opportunità di lavoro per i detenuti, contribuendo anche a diminuire quel clima di conflittualità interna spesso denunciato e alimentato proprio dall’ozio forzato a cui sono costretti. Bologna. Si laurea in carcere per cambiare vita, ma per giudici studiare è un “pericolo” di Giorgia Costa Il Dubbio, 10 agosto 2021 Il tribunale di sorveglianza nega i domiciliari a un detenuto perché l’istruzione ottenuta espone a “condotte illecite”. Studiare può rivelarsi pericoloso. Soprattutto per chi si serve dei libri come strumento di rieducazione in carcere. È il caso di un detenuto condannato a una pena di 18 anni per associazione mafiosa e sequestro di persona che con l’obiettivo di cambiare vita si è laureato in carcere due volte, in giurisprudenza ed economia. Conseguendo anche un master per giuristi di impresa. Una scelta che non ha convinto il Tribunale di sorveglianza di Bologna che ha negato la detenzione domiciliare all’uomo perché “la laurea conseguita in carcere e la frequentazione di un master per giurista di impresa si ritiene possano affinare le indiscusse capacità del ricorrente e dunque gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”. A darne notizia è il Corriere della Sera, in un corsivo a firma di Luigi Ferrarella che riporta anche le ragioni dei due legali, il professor Giovanni Maria Flick e l’avvocato Francesca Cancellare, i quali porteranno il caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo. “Così l’istruzione passa da primario strumento del trattamento penitenziario e volano di emancipazione per un futuro oltre la pena (come previsto dalla nostra Costituzione e dalle fonti sovranazionali) a sintomo di pericolosità sociale dei detenuti”, spiegano i difensori con riferimento all’articolo 27 della Carta che sancisce in modo chiaro il fine della pena: “la rieducazione del condannato”. Anche in considerazione del fatto che, stando a quanto riporta il Corsera, il detenuto ha avuto accesso agli studi grazie al parere favorevole dell’Antimafia Veneziana che ne aveva decretato l’allontanamento dall’organizzazione mafiosa di appartenenza (il clan dei “Casalesi”). Dopo aver investito tempo e speranza nello studio, l’uomo ha quindi richiesto i domiciliari per motivi di salute. Niente da fare. Per i giudici le sue condizioni di salute sono compatibili con il regime carcerario, mentre gli studi, quelli sì che sono un rischio: lo rendono un soggetto pericoloso. Il caso tutt’altro che isolato riporta alla memoria un’altra storia assai “bizzarra” che Damiano Aliprandi ha raccontato qualche mese fa sul Dubbio. Il protagonista in quella circostanza era un detenuto ristretto al 41 bis di Viterbo al quale l’autorità giudiziaria - dietro richiesta dell’istituto penitenziario - aveva negato l’acquisto di un libro ritenuto altrettanto pericoloso perché, motivava il magistrato, “metterebbe il detenuto in posizione di privilegio agli occhi degli altri detenuti, aumenterebbe il carisma criminale”. Il volume in questione è “Un’altra storia inizia qui”, scritto nientemeno che dall’attuale guardasigilli ed ex presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, assieme al professore di Criminologia Adolfo Ceretti, sulla scorta della lezione dell’arcivescovo Carlo Maria Martini. Un libro, che tanto per citare un passo, recita: “Chi sbaglia può sempre correggersi: sicché come esigono i principi costituzionali, la pena deve guardare sempre al futuro”. In quel caso fu lo stesso detenuto - al quale venne impedito l’acquisto di un altro libro, “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”, di Luigi Manconi e Federica Graziani - a denunciare i fatti inviando la documentazione al parlamentare di Italia Viva Roberto Giachetti. Che quindi presentò un’interrogazione parlamentare a risposta scritta per chiedere al ministro della Giustizia di adottare interventi di chiarimento normativo, “al fine di evitare interpretazioni palesemente arbitrarie, che si traducano nella negazione del diritto all’informazione dei detenuti”. Per Giachetti infatti il divieto avveniva in violazione del dettato costituzionale laddove la stessa Corte - nella sentenza n. 122 del 2017 - ha stabilito che il divieto per i detenuti sottoposti al regime speciale del 41 bis (che possono ricevere libri solo attraverso l’amministrazione penitenziaria) “non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto”. Bologna. No ai domiciliari perché in carcere ha preso due lauree di Antonio Lamorte Il Riformista, 10 agosto 2021 “Ha affinato gli strumenti per reiterare illeciti”. Ha studiato in carcere, ha preso due lauree, ha investito il tempo della detenzione come tempo della riabilitazione. Sarebbe potuto diventare un simbolo, un monumento ai percorsi riabilitativi dietro le sbarre, alla risocializzazione che il carcere dovrebbe avere come causa e scopo. E invece: niente arresti domiciliari, e per motivi di salute, anche in virtù degli studi che avrebbero potuto affinare le sue capacità e possibilità criminali. La storia, tra l’incredibile e l’assurdo, l’ha raccontata Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera. Una specie di condanna a prescindere, una recidiva data per scontata se non per aggravata dal percorso intrapreso in cella dal detenuto. Il Tribunale di Sorveglianza seppellisce in una manciata di righe il concetto di riabilitazione in carcere. Il detenuto era legato al clan dei Casalesi, Camorra, egemone nel casertano e con interessi nazionali e internazionali. Condannato a 18 anni per associazione mafiosa e sequestro di persona. La Procura distrettuale antimafia di Venezia ha riconosciuto il suo distacco dall’organizzazione e quindi l’uomo ha usufruito di permessi e investito il tempo in carcere alla formazione, allo studio, all’istruzione. Giurisprudenza: 110 e lode. Economia: anche lì 110 e lode. E quindi un master per giuristi di impresa. Quando lo stesso detenuto ha fatto richiesta, per motivi di salute, della detenzione domiciliare è arrivato il “niet” del Tribunale di Sorveglianza di Bologna. E non solo perché la sua salute sarebbe compatibile con la permanenza dietro le sbarre ma anche in virtù di una psicologia che sarebbe incline a ostentare superiorità e quindi per “la laurea conseguita in carcere e la frequentazione di un master per giurista di imprese si ritiene possano affinare le indiscusse capacità del ricorrente e dunque gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico”. Ferrarella, nell’articolo sul quotidiano di via Solferino, riporta le parole del professor Giovanni Maria Flick e dell’avvocato Francesca Cancellare: “Ma così l’istruzione passa da primario strumento del trattamento penitenziario e volano di emancipazione per un futuro oltre la pena (come previsto dalla nostra Costituzione e dalle fonti sovranazionali) a sintomo di pericolosità sociale dei detenuti”. Tutto il contrario di quanto viene propagandato e promesso insomma. La Cassazione, come nel 68% dei casi, ha dichiarato il ricorso inammissibile. L’esperienza dei Poli penitenziari universitari, lo scorso maggio, dopo il primo triennio di vita della Conferenza nazionale universitaria dei poli penitenziari, ha riportato i dati nei quali gli atenei aderenti con studenti attivi sono passati da 27 nel 2018-’19 a 32 nel 2020-’21 (con un incremento del 18,5%); gli istituti penitenziari che hanno aderito al progetto di rendere i detenuti studenti sono passati da 70 a 82 (+17,1%); il numero di studenti iscritti è passato da 796 a 1.034 (+29,9%). Buone notizie per quanto riguarda la componente femminile: le detenute studentesse erano appena 28 nel 2018-’19 e sono 64 attualmente (con un incremento del 128,6%). Quanto potrebbe incitare allo studio, alla formazione dietro le sbarre questa storia è invece un enigma. Intanto il 68% dei detenuti italiani che espia la propria pena in carcere incorre nella recidiva; il 19% di chi invece accedere a misure alternative della pena. Dei 154 euro che si spendono al giorno per un detenuto, alla rieducazione sono dedicati appena 35 centesimi. Alla faccia della riabilitazione. Torino. Visita al carcere delle Vallette, i Radicali: “Assistenza sanitaria inesistente” torinoggi.it, 10 agosto 2021 Lo scorso 2 agosto una delegazione del Partito Radicale, guidata da Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, Mario Barbaro, delle Segreteria del Partito Radicale e Sergio Rovasio, Presidente dell’Associazione Marco Pannella di Torino, insieme ai Garanti dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano e del Comune di Torino, Monica Gallo, hanno inviato una lettera urgente al Presidente della Regione Alberto Cirio e all’Assessore alla Sanità della Regione Luigi Icardi per chiedere interventi urgenti riguardo l’assistenza sanitaria quasi del tutto inesistente nel Carcere Lorusso-Cotugno delle Vallette di Torino. Nella lettera si fa riferimento a dati oggettivi e dettagliati riguardo gravi carenze sanitarie riscontrate all’interno del carcere, in particolare vengono sollecitati interventi urgenti di competenza regionale che negli ultimi due-tre anni si sono acuiti. E’ stata segnalata l’assenza quasi totale di medici specialisti con gravi carenze di tipo strutturale, tra tutte la cardiologia. Persone detenute con gravi problemi psichiatrici in reparti non adeguati, in aree in comune con altre detenute nel reparto femminile. Viene inoltre segnalata la mancanza di un referente regionale che possa con celerità riscontrare le varie disposizioni in materia di prevenzione di diffusione del Virus Covid-19 che consenta alla popolazione detenuta di poter incontrare in sicurezza e in appositi spazi all’aperto (Aree Verdi) i parenti, così come previsto recentemente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la totale mancanza di adeguata informazione tra la popolazione detenuta e il personale penitenziario sui benefici del vaccino anti-Covid con percentuali piuttosto elevate di persone. Il personale adibito alla sicurezza (solo il 60% degli agenti del corpo della polizia penitenziaria si è sottoposto a vaccinazione) - che lo rifiutano e che si trovano in situazione di promiscuità con rischi elevati di diffusione del virus all’interno del carcere. Le condizioni igieniche carenti dovute a scarsa/inesistente manutenzione, in particolare per mancanza di adeguata disinfestazione di tutte le aree con ambienti degradati e spazi inadeguati sotto il profilo igienico-sanitario e conseguente presenza costante di blatte, scarafaggi e topi e gravi ritardi sulla consegna dei medicinali di cui necessitano i detenuti (attesa anche di oltre un mese dalla richiesta); Nella lettera viene sottolineato che tali problematiche si riversano gravemente sulle condizioni di detenzione dei detenuti e riguardano direttamente anche il personale che opera all’interno del Carcere delle Vallette della Casa circondariale Lorusso-Cotugno (Polizia Penitenziaria, dirigenti, educatori, assistenti, insegnanti, volontari e personale amministrativo). Oristano. Detenuti oltre il limite di capienza del carcere e caldo afoso cagliaripad.it, 10 agosto 2021 L’Istituto oristanese, secondo i dati ministeriali, ha fatto registrare il 31 luglio un numero di presenze di 262 reclusi per 259 posti. “Il caldo afoso di questi giorni, reso ancora più insopportabile dagli incendi che hanno favorito un innalzamento delle temperature, insieme alla convivenza di tre o quattro persone in celle progettate per due, stanno creando disagio tra i ristretti della Casa di Reclusione Salvatore Soro di Oristano Massama”. Lo rivela Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo Diritti Riforme facendosi interprete dei disagi segnalati dai familiari dei detenuti. “L’Istituto oristanese - precisa Caligaris - ha fatto registrare il 31 luglio (dati del Ministero della Giustizia) un numero di presenze di 262 reclusi per 259 posti. Si tratta solo apparentemente di un’eccedenza insignificante. In realtà non tutti i posti nella Casa di Reclusione sono sempre disponibili per necessità inerenti ristrutturazioni e/o adeguamenti e ciò costringe alcuni detenuti a condividere le celle con più persone. Occorre altresì ricordare che la maggior parte dei cittadini privati della libertà di Massama sono ergastolani e dovrebbero poter usufruire di celle singole”. A confermare le affermazioni di Caligarsi sono i dati ministeriali, secondo cui quello di Oristano è l’unico Istituto sardo oltre il limite regolamentare. “Gli altri invece - prosegue Caligaris -, pur con situazioni di oggettiva difficoltà dovute alla presenza di stranieri, tossicodipendenti e malati con gravi disturbi psichici sono nella norma. Quel che emerge con sempre maggiore evidenza dal resoconto ministeriale è però il fatto che la Sardegna primeggia a livello nazionale per il numero delle Case di Reclusione all’aperto semi-vuote (208 presenze per 613 posti), per la concentrazione di detenuti in Alta Sicurezza e 41 bis (circa 750), per la gravissima carenza di Direttori (4 su 10). Senza dimenticare le problematiche legate alla inadeguatezza del numero del personale della Polizia Penitenziaria, dei funzionari giuridico-pedagogici (Educatori) e degli amministrativi”. “L’auspicio - conclude Caligaris - che la Ministra Cartabia intervenga personalmente per garantire almeno i Direttori degli Istituti”. Trieste. Dalle fragilità alle carceri: il lavoro della Comunità San Martino al Campo di Michela Porta triesteallnews.it, 10 agosto 2021 La Comunità di San Martino al Campo nasce agli inizi degli anni Settanta a Trieste grazie a don Mario Vatta per aiutare le persone più fragili. Inizialmente comincia ad occuparsi dei giovani tossicodipendenti. Nel 1972, assieme ad un gruppo di amici, fonda poi la Comunità vera e propria che da allora continua a crescere grazie ai volontari presenti e differenziando le sue attività verso il territorio. Nello specifico, dal 2008 la Comunità ha formato il “Gruppo Carcere” dove i volontari, in gruppi di due, effettuano degli incontri due volte a settimana con i detenuti della Casa Circondariale del Coroneo. “Incontriamo le persone per fare un pezzo di strada insieme” afferma uno dei volontari. Il progetto si basa su “Ascolto-Accoglienza-Condivisione”: incontrare persone in contatto con l’esterno, scambiare qualche parola, aver la possibilità di richiedere consigli o esigenze particolari sono cose molto importanti anche se di solito sottovalutate. Oltre a ciò, l’associazione si occupa di aiutare anche materialmente il singolo o le famiglie che si trovano in un periodo di difficoltà economica, tramite l’offerta di vestiario o contributi economici o contatti con assistenti sociali del comune. Le famiglie sono invitate allo “Sportello d’ascolto” in via Gregorutti 2, Trieste. Lì, si valuta la situazione e si decide il tipo di aiuto a seconda delle esigenze. Lo sportello è valido anche per coloro che non hanno problemi detentivi, bensì anche per chi vive situazioni di disagio sociale e povertà. “Unità di strada” è invece rivolto a persone fragili ed emarginate, in un percorso orientato ad un’autonomia abitativa ed economica. Altri progetti rivolti ai più giovani sono “Centro Smac” (spazio di aggregazione giovanile), “Non uno di meno” (o “Scuola Smac”, che sostiene i ragazzi fino al conseguimento del diploma di terza media) e “Qualcuno con cui correre” (per sostenere i ragazzi in difficoltà durante il percorso delle scuole superiori). Un altro progetto interno alle carceri è stato “Interpares”, rivolto alla rieducazione degli uomini che hanno effettuato maltrattamenti sulle donne. L’approfondimento delle realtà carcerarie viene fatto conoscere anche all’esterno, ad esempio attraverso incontri di approfondimento e testimonianze nelle scuole. Durante il periodo Covid le modalità del “Gruppo Carcere” sono state comunque diversificate ed effettuate “in corrispondenza” ma ciò non apportava quel ‘calore’ e senso di vicinanza che servono per effettuare in modo esaustivo questo scambio. Principalmente il progetto si attua nella sezione maschile, in quanto la femminile è seguita dalla Caritas ma da circa un anno è attivo anche lì. Su un totale di 145 detenuti al Coroneo, solo 15 (4%) sono donne. A Trieste, tra l’altro, c’è l’unica sezione femminile di tutta la regione. La struttura, pensata inizialmente per soli uomini, ‘penalizza’ un po’ la parte femminile perché le attività non possono essere condivise. “Qui, però, non ci sono bambini” sottolineano i volontari. Sono in totale cinque gli istituti su territorio nazionale che ospitano donne con bambini: “Il numero si è molto dimezzato, al 30 luglio risultano esserci 29 bambini in totale ma erano sulla cinquantina pochi mesi prima”. La situazione è delicata in quanto in questo modo si rispetta il diritto alla maternità ma non quello dell’infanzia. La legge marzo 2001, n. 40, sostenuta dall’ex Ministro per le pari opportunità Anna Finocchiaro parla di misure alternative alla detenzione per le donne con figli minori di dieci anni ma molto spesso non è applicabile (sia perché applicabile solo a donne con condanna definitiva, sia perché molte non hanno domicilio ecc.). In via alternativa ci sono gli ICAM (Istituti di Custodia attenuata per le madri): il più vicino a noi è la Giudecca, a Venezia. Nel 2020 in totale la Comunità San Martino al Campo ha effettuato 41 colloqui con detenute donne e 208 con detenuti maschi. In totale, sono stati donati 143 capi di vestiari ed effettuati 52 interventi economici. Si ricorda, infine, che l’associazione fa parte della Conferenza Nazionale Volontariato di Giustizia, che riunisce le associazioni regionali che si occupano delle realtà carcerarie incontrandosi mensilmente assieme ad altre realtà di volontariato - tranne di quella del carcere di massima sicurezza di Tolmezzo - per confrontarsi sulle problematiche comuni. Ragusa. Racconti di una rinascita che parte dal lavoro della terra di Giada Aquilino vaticannews.va, 10 agosto 2021 Grazie al progetto “Libere Tenerezze”, dalla primavera 2020 nei terreni del carcere italiano di Ragusa è nato un orto dedicato alla Laudato si’ di Papa Francesco. A portarlo avanti gli operatori sociali dell’Associazione “Ci Ridiamo Sù”, assieme ai detenuti dell’istituto penitenziario, secondo tecniche di agricoltura biodinamica: iniziate coi semi di zucchine ‘tinniruma’, tipiche della Sicilia, le coltivazioni ora si concentrano anche su piante tropicali e subtropicali. Un orto Laudato si’ nato dall’idea di un detenuto del carcere di Ragusa, Bruno, che dopo aver ricevuto in dono dei semi di ‘tenerezze’, le zucchine lunghe tipiche della Sicilia chiamate in dialetto tinniruma, riporta alla mente gli insegnamenti del padre contadino e chiede di piantarli nei terreni della casa circondariale. A donargli quei semi, con l’autorizzazione delle autorità carcerarie, è stata nella primavera 2020 l’Associazione “Ci Ridiamo Sù”, il cui nome, con un accento di troppo, vuole indicare l’eclettismo della comico-terapia che gli operatori sociali portano avanti dal 2007 in ambito ospedaliero, oncologico e pediatrico, con disabili, con anziani e in missioni umanitarie, realizzando progetti educativi anche nelle scuole e nei centri ricreativi. “Da aprile dello scorso anno, con la pandemia, a Ragusa abbiamo iniziato un progetto per realizzare mascherine per la comunità, da destinare a ospedali e centri per la disabilità, coinvolgendo pure il carcere locale”, racconta a Vatican News Fabio Ferrito, operatore sociale specializzato in arti espressive e performative, presidente dell’Associazione “Ci Ridiamo Sù”. Con l’aiuto del collega Alessandro Vitrano e di altri operatori, “abbiamo regalato una macchina per cucire ai 180 detenuti del penitenziario, assieme a del materiale utile alla produzione. Sono state ottenute circa mille mascherine e, per ringraziare i detenuti del loro impegno, abbiamo donato loro dei semi di tinniruma, un segno di delicatezza come quella che loro avevano avuto nel produrre le mascherine”. Il resto è venuto da sé: con l’aiuto di Bruno, in alcuni terreni del carcere fino ad allora inutilizzati, “i semi sono stati piantati a mo’ di gioco ed è nato - spiega Ferrito - un orto di queste tenerezze, di queste zucchine: stiamo parlando di quasi 100 piante. Quindi, d’accordo con la direttrice dell’istituto penitenziario maschile, Giovanna Maltese, abbiamo suggerito di piantare altro verde, anche degli alberi e, con l’aiuto di sponsor, abbiamo fatto arrivare 1500 piante. Da lì, abbiamo capito che si poteva realizzare un orto ed è partito il progetto che ha preso il nome di ‘Libere Tenerezze’, intitolando poi l’orto all’enciclica di Papa Francesco del 2015”. L’obiettivo, aggiunge il presidente di “Ci Ridiamo Sù”, rimane quello di dare la possibilità ai detenuti “di esprimersi, di poter uscire dal senso di isolamento, di frustrazione, da tensioni personali e collettive. Lo abbiamo definito ‘orto umoristico’, perché la nostra connotazione è quella di essere degli operatori clown, con lo scopo di favorire nuove modalità relazionali basate sullo scambio, il confronto, l’apertura alla comunità, dando anche a queste persone la possibilità di acquisire delle competenze professionali”: lì in carcere, più che altrove, non si dimentica che “il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale”, come evidenzia il Pontefice nella Laudato si’ (128). Durante la pandemia si è inoltre fermata “ogni attività progettuale”, osserva l’operatore sociale. “I contatti esterni dei detenuti, soprattutto con i loro familiari, si erano annullati, l’unico momento di aggregazione era quello della Messa domenicale”, celebrata dal cappellano, padre Carmelo Mollica. Il progetto dell’orto si è evoluto nel tempo, assumendo una connotazione molto particolare: “con l’aiuto di un agronomo, Alessandro Scrofani, abbiamo previsto l’utilizzo di probiotici e tecniche di agricoltura biodinamica, puntando ad un orto che assicura la qualità dei prodotti e il rispetto della terra. Nella Laudato si’ - evidenzia Ferrito - ci rispecchiamo: il nostro è un orto a ciclo chiuso perché utilizza gli scarti della cucina, gli scarti organici del terreno, non vengono usate sostanze chimiche o anticrittogamici, né antibiotici, ma viene tutto realizzato attraverso una compostiera in modo da evitare la dispersione nel terreno di minerali aggressivi, che possono essere fonti inquinanti delle falde acquifere. Vengono inoltre utilizzati dei macerati di ortica, di aglio, concimazioni di natura organica, stallatica, che permettono di rendere stabile la coltivazione, impedendo l’aggressione di batteri o funghi”. In poco più di un anno nei tre appezzamenti di terreno concessi dalle autorità della casa circondariale, si coltivano ortaggi di stagione, dai pomodori alle insalate, dalle melanzane ai finocchi. Nel più grande dei tre, in 2.500 mq, “è stata avviata una sperimentazione, con legumi, carciofi, piante tropicali e subtropicali, quali mango, papaya, avocado, oltre a kiwi e uva spina”. Motivo di orgoglio, per l’associazione e per i detenuti, è anche la realizzazione di una serra “per le fragole, a coltivazione idroponica, con l’uso di musica quantica: è stato osservato che determinate frequenze influiscono positivamente sulla salute delle piante, permettendo di facilitarne la germinazione, la crescita, una maggiore resistenza agli agenti patogeni. È un’iniziativa molto affascinante anche per i ragazzi, perché si trasmette loro un messaggio di equilibrio dell’uomo con la natura. E tra l’altro stanno acquisendo una competenza veramente molto alta che può servire anche per un dopo, per un momento di riqualificazione personale”, nell’ottica di offrire loro quella “vita degna mediante il lavoro” che il Papa richiama nell’enciclica sulla cura della casa comune (128). Nel mondo dell’agricoltura la fatica non manca, ma servono anche una profonda conoscenza e una capacità di innovazione non comune. Con i detenuti - non tutti ovviamente, quelli che hanno ricevuto un’autorizzazione specifica: a Bruno si è aggiunto più recentemente Antonino - gli operatori di “Ci Ridiamo Sù” lavorano fianco a fianco, senza riserve perché, ricordano citando la Laudato si’, “qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé” (125). “Facciamo tutto insieme: con loro - evidenzia Ferrito - progettiamo l’orto, scegliamo le piante da mettere a dimora, realizziamo impianti di irrigazione, lavoriamo la terra, la concimiamo, facciamo le semine e i raccolti”. Sono uomini che “apprezzano il lavorare insieme, il fatto che li guardiamo senza filtri, scherziamo sinceramente con loro”: e quando “scoppia un sorriso”, magari sotto il sole, trafitti dalla stanchezza di una giornata sui campi, “emerge la parte umana, vera e naturale di ognuno”. “Sono persone che - riflette il presidente dell’associazione - non vedono i figli da tanto tempo, ci sono pene molto lunghe. Quindi chi, come Bruno, ha lasciato magari i figli a 2 anni adesso si ritrova che ne hanno 12, 13. Una cosa che ha colpito me, che faccio il clown, è la poeticità di questo uomo che riesce a mantenere un rapporto costante e continuo con i quattro figli, anche se li vede pochissimo. Oserei dire più di un padre che vede il figlio 24 ore su 24. Scrive loro una lettera ogni giorno, i figli si confidano con lui e chiedono consiglio al padre come se fosse a casa quotidianamente. E questi sono racconti spontanei che nascono dal lavoro giornaliero”, fatto appunto di fatica, impegno e soprattutto fiducia. Quella che i detenuti hanno trovato nell’istituto di pena di Ragusa, un carcere - ci tiene a precisare Ferrito - “a marcia completamente femminile, con la direttrice Maltese, la comandante della Polizia Penitenziaria Chiara Morales, Rosetta Noto e Maria Iurato dell’Area trattamentale”. La direttrice Giovanna Maltese è rimasta colpita dal risvolto assunto dal progetto dell’orto “Libere Tenerezze - Laudato si’” nel periodo di lockdown per la pandemia, perché i detenuti hanno così potuto avere una “continuità di contatto con la terra e con i suoi valori”, un’opportunità - dice - “di sottrarsi all’ozio” e di avere “la concretezza del risultato, ogni volta che una piantina andava a buon fine”, producendo il proprio frutto. Il progetto è stato inserito nella programmazione triennale del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) della Sicilia 2021-2023. Rosetta Noto, capo di quella che una volta si chiamava Area educativa della casa circondariale di Ragusa, quel settore cioè che si occupa del ricupero e del reinserimento sociale dei detenuti, auspica “che prosegua e diventi un progetto strutturale per la casa circondariale, in modo che anche altri detenuti possano in futuro avere questa opportunità”. Trasmettere le conoscenze in materia di agricoltura biodinamica “è importantissimo - ci tiene a sottolineare la Noto - soprattutto per quei detenuti che non hanno un buon livello di istruzione: siamo noi così che diamo loro formazione in modo che, quando usciranno dal carcere, possano trovare più facilmente” un’opportunità d’impiego. Lo stesso Bruno, osserva, ripone “grandi speranze nel progetto, ne capisce il valore e spera, una volta scontata la pena, con la professionalità che avrà acquisito, di poter trovare un’attività lavorativa” e un nuovo sbocco professionale, magari - aggiunge la direttrice Maltese - con un inserimento “in imprese o aziende agricole” o avviando “un’azienda propria, con i contributi della legge ‘Smuraglia’”, che nel 2000 ha introdotto un’agevolazione in favore dei datori di lavoro che impiegano persone detenute. È il sogno di Bruno, come di tanti ospiti del carcere di Ragusa. Insieme ne hanno anche un altro, che hanno confidato agli operatori dell’Associazione “Ci Ridiamo Sù”, quello - sussurra Fabio Ferrito - “di poter far assaggiare o consegnare quanto prima, se possibile, una cassetta dei loro prodotti a Papa Francesco”. Modena, Riparte Sognalib(e)ro, che spinge i detenuti a diventare scrittori e critici letterari Gazzetta di Modena, 10 agosto 2021 Sono 17 gli istituti coinvolti nel concorso. Tema: “Ho fatto una promessa a me stesso”. Con l’ufficializzazione della giuria e la scelta dei libri che le persone detenute dovranno “votare”, prende ufficialmente il via per il quarto anno di fila il premio nazionale per le carceri “Sognalib(e)ro”, la rassegna che mira a promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari e di reclusione come strumento di riabilitazione sociale. Dopo l’annuncio del tema di quest’anno, “Ho fatto una promessa a me stesso”, nei giorni scorsi la giunta ha approvato il progetto della kermesse promossa dal Comune col ministero della Giustizia, e Bper Banca. Di particolare rilievo il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata dai detenuti, il cui autore indicherà poi alcuni titoli dei libri che hanno segnato la sua vita, che gli organizzatori doneranno alle biblioteche delle strutture carcerarie partecipanti al Premio; l’altro a un elaborato prodotto dagli stessi reclusi, che potrà essere pubblicato, da solo o in antologia con altri, in ebook dal Dondolo, la casa civica editrice digitale del Comune di Modena. Per la nuova edizione di “Sognalib(e)ro”, iniziativa ideata e diretta dal direttore di “TuttoLibri - La Stampa” Bruno Ventavoli sono stati individuati dal ministero della Giustizia 17 istituti: la casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, la casa di reclusione di Milano Opera, quelle di Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza, Saluzzo, Pescara, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna, e Castelfranco Emilia; e quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Come già nelle precedenti edizioni, il concorso si articola in due sezioni. Nella sezione Narrativa italiana (Premio speciale Bper Banca), una giuria popolare composta dagli aderenti ai gruppi di lettura delle carceri attribuisce il premio valutando il migliore di una rosa di tre romanzi: “E verrà un altro inverno” di Massimo Carlotto (Rizzoli, 2021); “L’uomo e il maestro” di Paolo Cangelosi (E/o, 2021); “L’anno che a Roma fu due volte Natale” di Roberto Venturini (Sem, 2021). Nella sezione Inedito, invece, una giuria di esperti presieduta da Ventavoli e composta dagli scrittori Barbara Baraldi, Andrea Marcolongo e Simona Sparaco attribuirà il premio a un’opera inedita prodotta da detenuti o detenute sul tema “Ho fatto una promessa a me stesso”. Il riconoscimento consiste nella pubblicazione in un ebook, a cura del Dondolo. Una spinta sociale europea di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 10 agosto 2021 Uno dei cambiamenti indotti dalla pandemia è stato il rafforzamento del ruolo dell’Unione. Secondo le stime della Banca mondiale, a livello globale la pandemia ha bruciato circa 250 milioni di posti di lavoro e creato più di 150 milioni di nuovi poveri. I Paesi più colpiti sono quelli del Sud-Est asiatico e dell’Africa sub-sahariana. Quelli che hanno retto meglio sono invece i Paesi della Ue. Il merito va in larga parte attribuito al cosiddetto “modello sociale europeo”, ossia alla presenza di sistemi di welfare (compresa la sanità) generosi e inclusivi, ai quali nell’ultimo anno si sono aggiunte misure straordinarie di sostegno alle categorie più vulnerabili. Il Covid 19 ha drammaticamente confermato la tesi del sociologo Ulrich Beck: oggi viviamo in una “società del rischio”, più ricca di opportunità ma anche più esposta agli effetti di una mondializzazione molto difficile da gestire e controllare. Per restare all’avanguardia nel mondo, il welfare europeo va aggiornato. Alcuni dei rischi tradizionali (pensiamo alla vecchiaia, definita come “età superiore ai 67 anni”) non generano più, automaticamente, bisogni, mentre i bisogni collegati ai nuovi rischi di salute pubblica o quelli legati al cambiamento climatico e tecnologico non sono ancora adeguatamente protetti. Prima del Covid 19, il modello sociale europeo era una somma di modelli nazionali caratterizzati da principi e pratiche simili, entro un quadro comune sovranazionale. Uno dei cambiamenti indotti dalla pandemia è stato il rafforzamento del ruolo della Ue: dalla semplice regolazione del “sociale” in Europa, si è passati alla presenza diretta dell’”Europa” nel sociale, tramite spesa pubblica finanziata da debito comune. Nella primavera del 2020 è stato introdotto lo schema Sure, per il co-finanziamento delle casse integrazioni nazionali. Poi è arrivato il pacchetto Next Generation Eu, che per un quarto è volto a sostenere la modernizzazione delle infrastrutture sociali dei Paesi membri: sanità, istruzione e formazione, servizi sociali. Non sappiamo se questa svolta sarà provvisoria o permanente. Secondo i Paesi cosiddetti “frugali” (Austria, Olanda, Danimarca e Svezia), i nuovi schemi devono restare un’eccezione, appena possibile occorre ripristinare lo status quo. Francia, Italia e Spagna si sono invece già espresse per renderli permanenti. Come sempre, l’ago della bilancia è la Germania, attualmente divisa: l’esito delle elezioni di settembre sarà importante anche su questo versante. I leader frugali osteggiano l’idea di “più Europa nel sociale” in base a due argomenti. Il primo è che i loro elettori sono contrari. Ma i sondaggi segnalano che non è più così: la pandemia ha rafforzato lo spirito comunitario anche fra gli olandesi, gli austriaci, gli scandinavi e soprattutto i tedeschi. In secondo luogo, i frugali invocano il principio di sussidiarietà: inutile assegnare a Bruxelles compiti che possono essere svolti dai governi nazionali. Si tratta tuttavia di un’arma spuntata, anzi di un boomerang. La pandemia ha dimostrato che la Ue è diventata un’unica, grande società del rischio, nessun Paese può farcela da solo. L’integrazione economica in quanto tale è diventata essa stessa una fonte di destabilizzazione, che può avvantaggiare alcuni Paesi a scapito di altri (pensiamo alla concorrenza fiscale). La logica della sussidiarietà impone oggi il contrario di ciò che vorrebbero i Paesi frugali: l’accentramento di alcune funzioni che non possono più essere efficacemente gestite a livello nazionale. Federico Fubini ha ben descritto sul Corriere di domenica scorsa i possibili costi sociali della transizione verde. Ridurre le emissioni è diventata una priorità della Ue. I vantaggi della de-carbonizzazione (o i danni del non-aggiustamento) travalicheranno i confini fra Paesi, nessuno potrà difendersi costruendo barriere. È dunque interesse comune condividere il rischio: che non è solo economico e sociale, ma anche politico. Gli inevitabili sacrifici occupazionali o il maggior costo di alcuni consumi potrebbero infatti generare aspre proteste sociali (come è già avvenuto in Francia con i gilets jaunes) e alimentare nuove ondate di euroscetticismo. In buona misura, la sfida da affrontare oggi è simile a quella che accompagnò il passaggio dalla società agraria a quella industriale. La principale differenza è che la conciliazione fra le esigenze dell’economia e quelle di protezione sociale deve oggi essere cercata a livello paneuropeo. Dobbiamo costruire un “modello sociale Ue”, basato su un duplice equilibrio: fra sfera del mercato e sfera del welfare, da un lato, e fra livello nazionale e sovranazionale, dall’altro lato. Nella sua drammaticità, la pandemia ha creato le condizioni favorevoli per questo salto di scala. Come ha iniziato a fare, il governo italiano deve impegnarsi a fondo sia in Italia sia in Europa affinché l’occasione non venga sprecata. Morire di lavoro, civiltà sconfitta di Paolo Griseri La Stampa, 10 agosto 2021 Restano a terra una bottiglia di plastica e un guanto. Di Alessandro, del suo mondo, del suo lavoro, non abbiamo altro. Nelle immagini non c’è nemmeno la grande lastra che lo ha ucciso. La cronaca consuma in fretta le vittime del lavoro insicuro. Non abbiamo più il tempo di stare dietro alla sua macabra e inesorabile contabilità. Quanti sono i morti di lavoro negli ultimi giorni? Quanti da quando Laila è stata mangiata dalla macchina fustellatrice a Modena? Quante omelie come quella che questa mattina ascolteranno i suoi parenti al funerale, nella chiesa di Camposanto? E chi ricorda ancora Luana, la ragazza morta a Prato, anche lei incastrata nella macchina che doveva garantirle il reddito per vivere? Quanto ci dovremo ancora indignare fino al giorno in cui ci stuferemo perché la forza di questo stillicidio di morte prevarrà sull’indignazione per la nuova vita perduta? Il ministro Orlando studia premi per le aziende più sicure e punizioni fino alla chiusura per chi mette a rischio la vita dei dipendenti. Sarà una buona legge? E, soprattutto, servirà? Non dovremo aspettare molto per capirlo. Dovremo avere pazienza però. Seguire con attenzione, con pedanteria forse, il dibattito parlamentare, i documenti di sindacati e imprenditori, i commenti degli intellettuali. Capire così come si troverà un equilibrio migliore tra le esigenze della sicurezza del lavoro e il profitto dell’impresa. Non scandalizzi l’idea di un compromesso: sempre la politica è compromesso tra interessi diversi. E sempre le riforme sono il frutto di equilibri nuovi, più avanzati, come si diceva nel Novecento. L’unica certezza è che le norme e i controlli di oggi sono frutto di un compromesso inaccettabile perché non difende la vita, la divora. L’esito peggiore sarebbe che anche questa riforma, ancora una volta, si impantani: un sostanziale blocco della discussione in Parlamento con il tempo che passa e lo statu quo che resiste. A questo stallo farebbe da contraltare la retorica inconcludente della condanna pubblica per ogni nuova morte. Sarebbero altri guanti lasciati a terra. Finiti a terra invano. Ius soli, Letta ci riprova; “Dai Giochi un segnale”. Match Viminale-Salvini di Giovanna Casadio La Repubblica, 10 agosto 2021 Oggi dal segretario Pd un appello per la legge Lamorgese: il tema c’è, serve una sintesi politica. Siamo un’Italia multietnica e perciò vincente. Enrico Letta non lascia cadere nel nulla la “photo opportunity” delle Olimpiadi. E fa un appello a tutte le forze politiche, perché finalmente lo ius soli, cioè la nuova legge sulla cittadinanza per i figli di immigrati che abbiano completato un ciclo di studi nel nostro Paese, diventi realtà. Nonostante la Lega annunci barricate, criticando anche il presidente del Coni, Giovanni Malagò per la richiesta di uno “ius soli sportivo”, il segretario del Pd rilancia: “Dopo le Olimpiadi la consapevolezza credo sia divenuta più generale. Per questo rivolgo un appello a tutte le forze politiche ad aprire una discussione in Parlamento e a trovare una soluzione sullo ius soli”. Oggi alla Versiliana, dove presenterà il suo libro “Anima e cacciavite”, parlerà dei nuovi italiani e della lezione che arriva dalle Olimpiadi. Ma lo scontro sullo ius soli si accende tra la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese e Matteo Salvini. Lamorgese raccoglie la sfida sui nuovi italiani: “È un tema che si pone, di cui dobbiamo ricordarci non solo quando gli atleti vincono le medaglie. La politica dovrà fare i suoi riscontri e spero si arrivi a una sintesi politica: dobbiamo aiutare le seconde generazioni a farle sentire parte integrante della società”. Ma Salvini la attacca. Per il leader leghista la ministra “invece di vaneggiare sullo ius soli, visto che siamo il Paese europeo che negli ultimi anni ha concesso più cittadinanze in assoluto, dovrebbe controllare chi entra illegalmente in Italia. Ci sono decine di migliaia di sbarchi organizzati dagli scafisti, senza che il Viminale muova un dito”. A difesa del Viminale interviene però la ministra forzista Mariastella Gelmini: “Lamorgese è sempre sul pezzo. Non credo ci saranno scontri sull’immigrazione “. Anche il Pd reagisce: non si confondano gli sbarchi con il diritto alla cittadinanza dei ragazzi italiani di fatto ma non di diritto (circa un milione e 100 mila). “Lo Ius soli è già nei fatti, la politica e le istituzioni hanno il dovere di adeguarsi” dicono dal Nazareno. E “non è materia di governo ma parlamentare”. E Mauro Berruto, il popolare ex ct della nazionale di pallavolo maschile, che Letta ha voluto nella segreteria dem come responsabile per lo Sport, osserva: “Sono felice che si riparli di ius soli con una percezione diversa grazie allo sport. Il tema prescinde dal contesto sportivo, ma le Olimpiadi ce lo hanno fatto ricordare, perché lo sport anticipa. Chiunque si trovi in un campo di pallavolo, di calcio, di basket e di qualsiasi altra disciplina sportiva soprattutto nei settori giovanile, vede la società di domani che è già oggi, e non guarda certo al colore della pelle, alla provenienza geografica, all’appartenenza religiosa”. Per tornare alle parole di Malagò sullo “ius soli sportivo”, Berruto replica: “La questione ius soli è antecedente, non da acquisire in virtù di un talento o di una prestazione”. Il presidente del Coni aveva indicato un nodo da sciogliere: la possibilità che giovani atleti, italiani di fatto, gareggino con la maglia azzurra a 18 anni e un giorno, senza snervanti trafile per la cittadinanza. Se minorenni, possono essere tesserati presso le federazioni sportive. Iscritti ai club sì, però non in gara per l’Italia, non con la maglia azzurra, non essendo italiani. Ma ora le Olimpiadi hanno mostrato l’Italia multietnica e quanto vale. Matteo Mauri (Pd), che ha nelle mani il dossier sulla legge, denuncia: “Chi si oppone alla realtà è già perdente. La maggioranza giallo-rossa può approvare la legge”. Lo ius soli, o meglio lo ius scholae, è fermo in commissione Affari costituzionali di Montecitorio e il relatore è il presidente della commissione, il grillino Giuseppe Brescia. Che si dice pronto a fare ripartire l’iter. Lamorgese: “L’emergenza migranti c’è ma Salvini non la capisce. Sono pronta a incontrarlo” di Davide Lessi La Stampa, 10 agosto 2021 La ministra dell’Interno: “Giusto l’obbligo di vaccino per i professori. Flussi migratori in crescita ma nessuna invasione: l’Europa ci aiuti a stabilizzare Libia e Tunisia”. Dice di essere pronta a sedersi al tavolo con Matteo Salvini. E non sembra troppo intimorita dagli ultimatum del segretario leghista sul tema sbarchi. “L’immigrazione è un problema complesso - scandisce la ministra dell’Interno -. Non c’è nessuna invasione ma i numeri sono in crescita. È facile parlare, poi bisogna fare un bagno di realtà”. Toni moderati, messaggi decisi. Luciana Lamorgese, intervistata ieri pomeriggio dal direttore de La Stampa Massimo Giannini nella rubrica “30 Minuti al Massimo” (la versione integrale su www.lastampa.it), lancia una doppia sfida alla Lega, il partito di governo che l’ha messa in discussione. Prima apre a un confronto con il leader del Carroccio (“che non ha ben chiare le difficoltà di gestire i flussi migratori”). Poi, senza nemmeno citarlo, sconfessa il “suo” sottosegretario al Viminale, il leghista Nicola Molteni contrario a ogni discussione sullo Ius soli. “Quello che ha detto Malagò è un tema vero, dobbiamo ricordarcene non solo quando i nostri atleti vincono le medaglie”. E ancora: “È importante pensare all’inclusione per questi ragazzi. Loro si sentono già italiani”. Lamorgese si augura una “sintesi politica” sul tema dei nuovi italiani. Ma non si sbilancia sulla proposta targata Pd di dare la cittadinanza a Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna incarcerato da un anno e mezzo in Egitto. “Dobbiamo essere cauti per cercare di farlo uscire da lì”. Un’intervista a tutto campo che tocca i tre dossier fondamentali (pandemia, lavoro e immigrazione), alla vigilia dell’appuntamento di Ferragosto con il Comitato nazionale di ordine e sicurezza pubblica che quest’anno si svolgerà in Sicilia. Ministra Lamorgese, qual è il motivo della sua visita a Torino? “Con le autorità e le istituzioni torinesi abbiamo fatto il punto sulla Tav. Nelle scorse settimane ci sono stati dei poliziotti feriti e ho sentito il dovere di ringraziare di persona le forze di polizia. È importante far capire che lo Stato c’è”. Siete preoccupati per una recrudescenza degli scontri al cantiere Tav? “Con gli ultimi scontri e l’ingrandimento del cantiere a San Didero un po’ di preoccupazione c’è. Ma la situazione è sotto controllo: l’importante è dimostrare fermezza ma essere moderati nell’approccio”. No Tav e No Pass, sbarchi e sicurezza sul lavoro: il direttore Giannini intervista il ministro Lamorgese I lavori si fermeranno? “No”. A proposito di proteste: in tutta Italia ci sono state mobilitazioni contro il Green Pass. Una delle ultime è avvenuta fuori dalla redazione de La Stampa. Sta salendo il livello di allerta? “Nel corso della pandemia abbiamo assistito a diverse proteste, anche violente, che hanno interessato anche Torino. Ma in generale la situazione sta migliorando, anche grazie alle vaccinazioni”. C’è chi osteggia e manifesta contro l’obbligo di avere il “certificato verde”. “Guardi, è come andare al cinema: entri solo se hai un biglietto che ti consente di farlo. La stessa cosa vale per il Green Pass al ristorante”. Chi controlla? “Il ristoratore deve chiedere il Green Pass, ma non spetta a lui controllare i documenti dei clienti”. I ristoratori non saranno “poliziotti”, dunque. “Esatto, non sono tenuti a chiedere patente o carta d’identità. La nostra polizia amministrativa, oltre a continuare a presidiare il territorio, farà dei controlli a campione a supporto dei pubblici esercizi. Vista la confusione che c’è stata, ci sarà una circolare del Viminale per fare chiarezza”. 30 minuti al Massimo, Lamorgese su Green Pass: “I ristoratori non dovranno controllare i documenti” Il dibattito sul Green Pass va avanti. Secondo i filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Aganben c’è un problema democratico. I più estremisti dicono che in Italia c’è una “dittatura sanitaria”. “Non c’è nessuna dittatura. Stiamo soltanto chiedendo, in determinati contesti, di attestare l’avvenuta vaccinazione con un documento che tutela la salute pubblica come bene primario”. La democrazia non è in pericolo? “No. Parliamo della salute, un principio costituzionale”. Cosa pensa dell’obbligo vaccinale? “Per alcune professioni, come per medici e insegnanti, è necessario che ci sia”. Condivide anche l’obbligo per gli insegnanti? “Sì, è un’ulteriore tutela per i ragazzi che devono poter rientrare a scuola in presenza: dobbiamo favorire la loro tenuta psicologica. I rapporti sociali e umani, tante volte, sono più importanti della lezione che si può apprendere da remoto”. Il prossimo anno scolastico non avremo la Dad, quindi? “Lo spero. Stiamo lavorando con i prefetti per i trasporti e anche il ministro Bianchi sta facendo molto. Rispetto a un anno fa sono più fiduciosa”. Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, sostiene che i lavoratori non dovrebbero essere sanzionati in azienda se sprovvisti di Green Pass. Lei condivide? “Faccio appello al senso di responsabilità di ognuno. Appena è toccato a me, ho fatto la vaccinazione. Non vedevo l’ora: sentivo che era una forma di libertà per me e per gli altri che mi stavano vicini”. Cosa pensa dell’obbligo di Green Pass nelle fabbriche? “Valuterà il governo con i sindacati e le parti sociali”. Da Embraco a Whirlpool c’è il rischio di un autunno caldo? Qualcuno, anche nei palazzi, era preoccupato per lo sblocco dei licenziamenti. “Il pericolo mi sembra un po’ ridimensionato. Il ministro Orlando sta mettendo in atto tutte le misure necessarie per evitare scontri sociali. L’economia sta andando bene: il Pil è in risalita e dato in crescita anche del 5%. Sono tutti indicatori che dovrebbero disinnescare bombe sociali. Siamo fiduciosi”. L’altro dramma è quello dei morti sul lavoro. Una media di tre morti al giorno, una tragedia infinita. “Domenica era il 65esimo anniversario della strage dei minatori di Marcinelle, morirono più di 130 italiani. Pensare che a distanza di tanti anni ci siano ancora tante vittime sul lavoro vuol dire che non è stato fatto abbastanza”. 30 minuti al Massimo, Lamorgese apre allo Ius soli: “Dobbiamo darlo a tutti non solo a chi vince medaglie” E veniamo al dossier più divisivo, quello dei migranti. Il 2 agosto Salvini ha dichiarato: “Ho scritto a Draghi, se Lamorgese non sa fare il suo lavoro ne tragga le conseguenze”. Come si lavora con un partner di maggioranza così? “Allora, il problema dell’immigrazione è complesso e va avanti da anni. Richiede innanzitutto interventi a livello europeo, determinazione e senso di responsabilità nell’affrontare la situazione”. La situazione è seria? “Va tutto contestualizzato. I numeri sono aumentati ma non parlerei di invasione. Da gennaio ad agosto abbiamo contato più di 30 mila arrivi. Luglio e agosto sono tradizionalmente mesi con dei flussi maggiori. È facile parlare ma bisogna portare le cose alla realtà. I Paesi da cui provengono i migranti sono in crisi: in Tunisia non c’è più né governo né parlamento, lo Stato è in ginocchio e rischiano di non pagare gli stipendi statali. Poi c’è la Libia...”. Dove è andata di recente. “Sì, la situazione è seria. Non si sa ancora se riusciranno a organizzare le elezioni per fine dicembre. Abbiamo avuto degli incontri a Palazzo Chigi e al ministero degli Esteri con tutti i ministri libici che hanno posto delle richieste specifiche. Su questo anche il premier Draghi, quando è andato a Bruxelles, ha chiesto un impegno per i finanziamenti dei Paesi terzi. L’immigrazione illegale sulla rotta mediterranea non la risolviamo mettendo i militari in mare. Nei Balcani è diverso”. A proposito la rotta balcanica non si è mai fermata. L’abbiamo raccontata anche sul nostro giornale con un reportage alle porte di Trieste. “Lì abbiamo iniziato i pattugliamenti congiunti con la Slovenia. I numeri sono quelli dell’anno scorso. Ma l’Italia non può garantire sui migranti per tutta l’Europa. L’ho ribadito anche alla commissaria europea agli Affari Interni Johansson”. Tornando nel Mediterraneo, Giorgia Meloni continua a chiedere il blocco navale. “È un atto di guerra, lo sa anche l’onorevole Meloni. Si possono fare delle intese con quei Paesi ma in questo momento è molto difficile”. 30 minuti al Massimo, Lamorgese sui migranti: “Salvini non ha chiare le difficoltà che affrontiamo tutti i giorni” Un suo predecessore al Viminale, Marco Minniti, prese accordi con la Libia. I flussi si erano ridotti, salvo poi scoprire l’orrore dei campi di prigionia. Abbiamo pure finanziato la guardia costiera libica che poi ha anche speronato i barconi dei migranti in difficoltà. È questa la linea del governo? “Il ministro Minniti faceva riferimento ai corridori umanitari. Su quello lo stiamo seguendo, organizzando un viaggio anche per 500 persone provenienti dalla Libia con la Comunità di Sant’Egidio e la Chiesa Valdese. Vogliamo che l’immigrazione da irregolare diventi regolare”. Su questo potrebbe aiutare il decreto flussi. “Ho spinto molto affinché il decreto flussi anziché 30 mila persone all’anno riesca a regolarizzarne un numero più alto. Serve un sistema di immigrazione più integrato”. L’Europa ci ha lasciato soli sull’immigrazione? Pensiamo alla rivisitazione del Trattato di Dublino, attualmente il peso dell’accoglienza è soprattutto sugli Stati di primo approdo. “L’Europa è in difficoltà. Nonostante il semestre tedesco, il patto asilo e immigrazione non ha trovato l’unanimità dei 27 Paesi. E nemmeno adesso, con il semestre di presidenza slovena, c’è accordo. Bisogna lavorare per trovare un compromesso che non penalizzi i Paesi del Mediterraneo”. Così Salvini continuerà a dire che non si fa niente. “Eh...che le devo dire? Il senatore Salvini non ha ben chiare le difficoltà che noi viviamo quotidianamente”. Eppure è stato anche lui al Viminale prima di lei. “Adesso sono circa due anni che sono lì...e una quarantina d’anni che sono al servizio dello Stato. L’impegno richiesto è tanto. Anzi, dico al senatore Salvini che se ci sono delle iniziative che non abbiamo adottato e che lui ci può suggerire per bloccare gli arrivi via mare, io li raccolgo volentieri”. Ma non ci doveva essere un incontro tra di voi? “Ancora non c’è stato”. Non lo vuole lei? O lui? “Ma no. Sono pronta a mettermi al tavolo con Salvini”. In queste ore stiamo festeggiando i campioni delle Olimpiadi di Tokyo. Il presidente del Coni Giovanni Malagò ha parlato di vittoria “dell’Italia multietnica e multiculturale”. Non sarà il momento di riprendere in mano il tema dello Ius soli? “Prima di tutto ringrazio gli atleti che hanno reso onore all’Italia. E anche i poliziotti, a partire da Marcell Jacobs. Per quanto riguarda la domanda specifica, quello sollevato dal presidente del Coni Malagò è un problema che c’è e di cui dobbiamo ricordarci non solo quando i nostri atleti vincono delle medaglie. Spero che si arrivi a una sintesi delle varie posizioni politiche”. Il tema non riguarda solo gli sportivi, ma le seconde generazioni che stanno aspettando da tanto tempo. “Se ne parla da tanto. Io dico che la cosa importante è che per questi ragazzi dobbiamo pensare all’inclusione sociale. Devono sentirsi parte integrante della società. Una volta, in un incontro con le seconde generazioni, mi hanno detto che non vogliono sentire parlare di “integrazione” ma di “interazione”. Si considerano già italiani nei fatti”. Alla vigilia del Comitato nazionale di Ferragosto può dirci come sta andando la lotta alla criminalità organizzata in Italia? “Guardi, la pandemia ha peggiorato le cose. Un esempio: qui a Torino ci sono state ben 16 interdittive antimafia da gennaio a oggi. L’anno scorso furono 19 in tutto. Le infiltrazioni nell’economia sono aumentate perché le mafie si adattano alle nuove condizioni. E dobbiamo stare attenti ai cambi di proprietà anche di grandi patrimoni immobiliari. Serve contrastare le infiltrazioni criminali dei colletti bianchi”. Il generale accusato di torture che punta alla guida dell’Interpol di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 10 agosto 2021 Senegal, Gambia, Guinea Bissau, Niger, Burkina Faso e Sierra Leone. Il tour africano del generale degli Emirati Arabi Uniti Ahmed Nasser Al Raisi è giunto al termine. Tra gli uomini più importanti dell’apparato poliziesco del piccolo stato del golfo Persico, Al Raisi punta alla carica di presidente dell’Interpol (la scelta verrà fatta nei prossimi mesi). Durante il suo viaggio nei nove stati africani ha incontrato presidenti, ministri e uomini dei servizi segreti con l’obiettivo di discutere di cooperazione poliziesca e costruire una fitta rete di relazioni per ottenere i voti necessari a essere eletto a capo dell’organizzazione internazionale della polizia criminale. Il generale Al Raisi ha un curriculum singolare: è entrato a far parte delle forze di polizia di Abu Dhabi nel 1980 e ha scalato le gerarchie fino a occupare la posizione di Ispettore generale del ministero dell’Interno nel 2015, diventando uno degli uomini più importanti della sicurezza interna emiratina. Nel 2018 è diventato membro del Comitato esecutivo dell’Interpol ricoprendo la posizione di delegato per l’Asia e ora punta a succedere all’attuale presidente, il sudcoreano Kim Jong-Yang. Sulla candidatura di Al Raisi molte ong, tra cui l’Organizzazione mondiale contro la tortura, hanno espresso preoccupazione e hanno firmato un appello per chiedere che non diventi presidente. A giugno il Gulf Centre for Human Rights (Gchr) ha presentato una denuncia in un tribunale parigino proprio contro il generale Al Raisi con l’accusa di essere il responsabile di “torture e atti barbarici” nei confronti di Ahmed Mansoor, il noto dissidente politico detenuto da quattro anni in un carcere di Abu Dhabi. Mansoor è stato arrestato nel 2017 e condannato a 10 anni di prigione per aver macchiato l’immagine del paese con dei post pubblicati sui social media. Secondo il Gchr Mansoor è detenuto in “condizioni medievali” e “senza accesso a un medico, all’acqua e ai servizi igienici”. Ma questo non è l’unico caso. Il ricercatore britannico Matthew Hedges ha accusato Al Raisi di aver assistito alle torture subite durante i nove mesi passati in custodia negli Emirati. Hedges si era recato nel paese arabo per completare la ricerca della sua tesi universitaria ma è stato arrestato all’aeroporto di Dubai e accusato di svolgere attività di spionaggio per conto del governo britannico. Repressione dei diritti umani, trattamenti degradanti, sorveglianza e controllo sono i tratti distintivi degli apparati di sicurezza degli Emirati Arabi Uniti. A rimarcarlo è anche la recente inchiesta giornalistica sul software Pegasus che ha coinvolto tra gli altri Ungheria, Ruanda, Marocco e, per l’appunto, gli Emirati Arabi Uniti. Questi stati avrebbero usato il software spia israeliano, prodotto dalla Nso group, per sorvegliare gli smartphone di giornalisti, imprenditori, avvocati e personaggi non graditi ai governi. Ad aprile un gruppo di parlamentari europei ha presentato un’interrogazione all’Alto rappresentante dell’Ue per gli Affari esteri e la politica di sicurezza esprimendo la propria preoccupazione riguardo a una possibile presidenza emiratina dell’Interpol. La risposta di Joseph Borrel è arrivata il 2 luglio ed è stata categorica: “L’Ue non è membro dell’Interpol e di conseguenza né la Commissione né le altre istituzioni europee hanno la capacità di intervenire nelle elezioni della sua presidenza”. Se all’estero il generale arabo viene criticato dalle organizzazioni che si battono per difesa dei diritti umani, in Italia Al Raisi ha ricevuto una prestigiosa onorificenza della Repubblica. Nel 2018, infatti, il Quirinale gli ha consegnato la medaglia di Commendatore dell’ordine della stella d’Italia che viene concessa dal capo dello stato su proposta del ministro degli Affari esteri dopo aver sentito il Consiglio dell’ordine. Con la medaglia, si legge sul sito del Quirinale, “si vuole ricompensare quanti abbiano acquisito particolari benemerenze nella promozione dei rapporti di amicizia e di collaborazione tra l’Italia e gli altri paesi e nella promozione dei legami con l’Italia”. Un rapporto pubblicato ad aprile da David Calvert-Smith, ex giudice dell’Alta corte di giustizia del Regno Unito, e scritto insieme all’International Human Rights Advisors ha portato alla luce alcune strategie adottate dagli Emirati Arabi Uniti sia per influenzare la governance dell’Interpol sia per usare i mezzi dell’agenzia di sicurezza per perseguire le proprie politiche repressive interne. Infatti, secondo il rapporto, gli Emirati Arabi Uniti così come altri stati tra cui la Russia, usano in maniera spropositata le cosiddette red notice, ovvero gli avvisi di richiesta di arresto che possono essere emanati ed eseguiti dai 194 stati membri dell’Interpol. Si tratta di una sorta di richiesta di estradizione non vincolante che gli altri paesi possono eseguire nel momento in cui un cittadino inserito in una red notice venga fermato e identificato durante un posto di blocco o in altre occasioni. Negli anni i vari stati, soprattutto i più autoritari, hanno fatto sempre più ricorso a questo sistema con l’intento di arrestare ed estradare oppositori politici. Non è un caso se spesso le red notice degli Emirati Arabi Uniti vengono rimosse in seguito a verifiche e controlli più approfonditi da parte dell’Interpol. A confermarlo è anche Michelle Estlund, avvocato specializzato nella difesa di chi è destinatario di misure restrittive emanate dall’Interpol, che a Foreign Policy ha spiegato come il paese usi l’Interpol quasi fosse un’agenzia privata di recupero crediti internazionale. Finanziamenti - Nel rapporto dell’ex giudice inglese Calvert-Smith è presente anche un focus sulle donazioni economiche che gli Emirati hanno effettuato a favore dell’Interpol. Ogni anno il paese paga circa 230mila dollari (il budget complessivo dell’Interpol nel 2020 è stato di circa 136 milioni di euro diviso tra tutti gli stati membri che, come deciso dalle Nazioni unite, contribuiscono con una quota fissa e una volontaria). È una cifra che non salta all’occhio a differenza della cospicua donazione di 50 milioni di euro eseguita nel 2017 all’Interpol foundation for a safer world. L’obiettivo della fondazione è quello di “coinvolgere i governi e le aziende per sostenere il lavoro di Interpol nella costruzione di un mondo più sicuro” incentrandosi su quattro assi fondamentali: terrorismo, crimine organizzato, capacità della polizia e stati fragili. Ma la donazione emiratina è stata vista da altri stati membri come un tentativo di influenzare le politiche interne dell’agenzia internazionale. L’elezione - Analisti ed esperti del settore evidenziano varie criticità attorno al sistema di elezione presidenziale dell’Interpol. Tra queste c’è la mancata conoscenza dei nomi dei candidati che non vengono resi pubblici prima del voto deciso dell’Assemblea. Questo impedisce alla stampa e a esponenti della società civile di analizzare i vari profili prima di una loro eventuale elezione. Negli anni sono stati diversi i presidenti dell’Interpol che sono stati arrestati per corruzione o reati simili. L’attuale presidente Kim Jong-Yang, nel 2018, è subentrato a metà mandato a Meng Hongwei, ex viceministro della Pubblica sicurezza in Cina per oltre dieci anni. Hongwei è stato arrestato con l’accusa di aver ricevuto una tangente di oltre 2 milioni di dollari e condannato a gennaio del 2020 a circa 13 anni di prigione. Sorte simile è toccata a un altro ex presidente dell’Interpol: il sudafricano Jackie Selebi, accusato di aver ricevuto circa 150mila dollari da un trafficante di droga e per questo condannato a 15 anni di prigione nel 2010. Tra pochi mesi conosceremo il prossimo presidente dell’Interpol e il generale Al Raisi crede veramente di potercela fare. È tornato dal suo tour africano con nove possibili voti in più, ne mancano ancora tanti, ma le organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani cominciano a temere che la sua elezione a capo dell’agenzia di sicurezza internazionale non sia più solo un’ipotesi. Bielorussia. Così Lukashenko fa di tutto per soffocare la libertà di stampa di Marika Ikonomu Il Domani, 10 agosto 2021 Nell’ultimo anno sono aumentate le violenze nei confronti dei giornalisti. L’obiettivo è bloccare l’informazione indipendente. A un anno dall’ennesima vittoria di Aleksandr Lukashenko alle elezioni del 9 agosto 2020, la repressione delle opposizioni e della libertà di stampa in Bielorussia non si è mai fermata. Le manifestazioni di un anno fa contro l’autoritarismo di Lukashenko e i brogli elettorali avevano richiamato l’attenzione dei paesi europei e delle organizzazioni internazionali. Ma la persecuzione sistematica di giornalisti e media, che coinvolge anche le testate straniere, rende difficile mantenere quel livello di attenzione. “Dopo le elezioni presidenziali del 9 agosto 2020, i media indipendenti bielorussi hanno vissuto le più brutali repressioni dall’indipendenza della Bielorussia nel 1991”, si legge in un rapporto di Reporter senza frontiere (Rsf). La battaglia contro la libertà di stampa è parte integrante della politica del governo che mira a eliminare qualsiasi spazio di informazione al fine di monopolizzare tutti i contenuti. L’obiettivo è quello di impedire un’informazione libera, plurale e indipendente che racconti la reale situazione del paese, mettendo in atto una repressione che Rsf definisce “massiva, sistemica e duratura”. Il numero di violazioni, secondo i dati raccolti dall’Associazione bielorussa di giornalisti nel 2020, risulta 8 volte superiore rispetto alla media del decennio 2010-2019. Un totale di 856 casi di arresto, detenzione, cause amministrative e penali, contro una media di 104,8. Nello specifico l’associazione parla di 447 detenzioni nel 2020: 97 i giornalisti in carcere nell’ambito di un processo amministrativo, almeno 62 hanno subito violenze da parte delle forze di sicurezza e 15 rappresentanti della stampa sono stati incriminati nell’ambito di un procedimento penale. Nel 2021 la situazione non è cambiata, anzi si può dire peggiorata poiché le autorità hanno iniziato a perseguire i giornalisti con accuse formali e procedimenti penali. Le modalità di repressione - La repressione della libertà di stampa ha assunto diverse forme, dalle più manifeste alle più subdole. Restrizioni di accesso a internet, blackout della connessione, censura, licenziamenti, sono alcuni degli strumenti con cui le autorità limitano la libertà dei giornalisti. Già nei giorni successivi alle elezioni il governo aveva impedito la circolazione di notizie, attraverso il blocco della rete dati dei cellulari. È stato poi bloccato l’accesso ai siti web di molti media indipendenti (almeno 50 siti di informazione). Sono numerosi i quotidiani indipendenti che hanno dovuto sospendere la propria attività a causa dei divieti di stampa e distribuzione e le limitazioni hanno colpito anche i giornalisti stranieri, che si sono visti negare l’accredito. Uno degli strumenti più comuni, con cui sono state esercitate pressioni, è il procedimento penale. Secondo Rsf, è un meccanismo messo in atto dal regime bielorusso da almeno trent’anni. Le detenzioni per accuse infondate sono prolungate e le garanzie dell’equo processo vengono violate. “Nel 2020-2021 i giornalisti sono stati perseguiti penalmente per il solo fatto di svolgere la propria attività professionale”, dice Rsf. Dal 15 luglio 2021 infatti i gli operatori dell’informazione detenuti sono 29: tra questi, 12 sono in carcere nell’ambito del caso tut.by, un sito web indipendente che nel 2019 veniva letto dal 62,58 per cento di tutti gli utenti bielorussi e che si è visto revocare le credenziali giornalistiche. Sono molti i giornalisti, bielorussi e stranieri, che hanno denunciato violenze fisiche, torture e trattamenti inumani durante le manifestazioni. Secondo il rapporto le responsabilità ricadono sul ministero degli Interni e, nello specifico, sulle unità speciali e su cellule non identificate che, con l’ordine di perseguire i giornalisti, hanno commesso violenze nelle strade, nei dipartimenti di polizia e nelle carceri. La repressione non è solo individuale, il regime ha un piano di soffocamento di tutti gli organi di stampa, attraverso la chiusura obbligata dei media, il blocco dei siti, le sanzioni, o il divieto di stampa o di diffusione. Le testimonianze - Iryna Arakhouskaya, una giornalista freelance che collaborava con il canale televisivo The Belsat, è stata ferita alla gamba da una pallottola di gomma. Stava seguendo le manifestazioni del 10 agosto a Minsk ed è stata inseguita da un agente della sicurezza “Quando alcune persone con il volto coperto e uniformi nere si sono avvicinate a un gruppo di giornalisti, ho smesso di filmare e ho iniziato a correre. Due persone con uniformi nere e volto coperto e lunghi fucili ci hanno inseguito. In quel momento, uno dei due mi ha sparato e io ho continuato a correre”, racconta. “Qualcuno mi ha dato un calcio in faccia. Quando sono caduto, due persone hanno iniziato a calciarmi e colpirmi con dei bastoni. Mi hanno dato circa 10 colpi. Gli stessi agenti mi hanno portato su un autobus, continuando a colpirmi nello stesso modo”, dice Yan Roman, un giornalista di Televizija Polska che stava raccontando le manifestazioni a Hrodna l’11 agosto 2020 ed è stato arrestato e portato nel dipartimento di polizia. A causa dei pestaggi ha perso quattro denti, ha avuto un ematoma all’occhio, una frattura al braccio sinistro e numerosi lividi e abrasioni. Bielorussia. Non possiamo abbandonare chi continua a lottare per i diritti di Barbara Pollastrini* Il Domani, 10 agosto 2021 Un anno fa, il 9 agosto 2020, i cittadini bielorussi erano in piazza per protestare contro l’esito delle elezioni che avevano confermato Alexandr Lukashenko alla guida del Paese. Bielorussia, un anno fa, 9 agosto 2020, le ultime elezioni scippate e da allora una dittatura mostra il suo volto crudele. Nel nostro continente, a circa due ore di volo, migliaia di persone sono state minacciate, licenziate, sequestrate, imprigionate. Accade che un programma della televisione di stato sia dedicato ai “traditori” con un conduttore e un cappio mentre sul fondale scorrono i volti degli avversari del regime. Accade che un dissidente sia trovato impiccato a Kiev, dove si era rifugiato dando vita a una associazione per la libertà del proprio paese. Accade che altri oppositori scrivano in questi giorni su Twitter: “Se mi trovate morto, non credete al suicidio!”. Accade che Alexandr Lukashenko faccia dirottare un volo Ryanair per arrestare Roman Protasevich, attivista e giornalista. Accade che la Cnn rimandi le immagini di un gulag circondato da una recinzione elettrificata nel cuore della foresta bielorussa. Accade che a Tokyo, Kristina Timanovskaya chieda l’intervento del Comitato olimpico per evitare il rientro in patria dove ha dichiarato “mi aspettava la prigione o l’ospedale psichiatrico”, e questo solo per aver criticato i dirigenti della squadra. Se posso aggiungere un ricordo, accade che chi meno di un anno fa, accompagnava me e Andrea Orlando in incontri con esponenti dell’opposizione, sia finito arrestato mentre si recava al lavoro in autobus. Ne ho conosciuto la sorella qui a Milano durante un presidio delle associazioni della diaspora che tutte e tutti dovremmo sostenere. La resistenza continua - Nonostante tutto ciò, accade che la resistenza continui. Accade che Maria Kalesnikava, una delle leader dell’opposizione che ha scelto il carcere e rifiutato di espatriare, da dietro le sbarre dell’aula dove viene processata a porte chiuse, accenni una danza e incroci le mani a simbolo di cuore e della libertà per mostrare che lei e le sue ragioni sono più forti dei suoi carcerieri. Il 6 luglio, Viktor Barbariko è stato condannato a 14 anni di reclusione. Da candidato alle elezioni in poco tempo aveva raccolto 450.000 firme al posto delle 100.000 sufficienti. Per il regime era una minaccia e per questo è stato arrestato insieme al figlio Eduard il 18 giugno, a un mese e mezzo dal voto, per presunti reati finanziari. Accuse politiche secondo l’Unione europea e Amnesty International. Il seguito è noto. Sergei Tikhanovsky rischia fino a 15 anni di prigione, Maria Kolesnikova, collaboratrice del banchiere accusato, è incarcerata per cospirazione. Era stata sostenitrice di Svetlana Tikhanovskaya alle presidenziali insieme a Veronika Tsepkalo, moglie di Valerij, altro candidato non ammesso alla corsa. Leadership decapitate, ma nuove nate e ormai affermate. Non a caso Svetlana Tikhanovskaya valorizza l’orizzontalità del movimento di resistenza come rete social, come gruppi dal basso e laboratori di leadership autodeterminate e riconosciute. Accade dunque che la protesta non si pieghi, si reinventi in forme diverse e non rinunci alla scelta del pacifismo anche per evitare che il dittatore arrivi a un bagno di sangue. Le donne protagoniste - Ma quanto potrà durare? Per l’Europa l’orologio corre. Ha mosso dei passi con le sanzioni mirate ma non basta e bene ha fatto il presidente del parlamento europeo David Sassoli a riaccendere i riflettori a sostegno di un movimento partigiano oppresso dal regime, dal Kgb, da una polizia coi suoi reparti speciali, gli Omon. Quel paese a pochi chilometri da noi, soffre. A quel popolo molto è stato tolto, una cosa però non sono riusciti a strappargliela: il coraggio e la speranza. E proprio le donne ne sono protagoniste. Diplomazie, pressioni e azioni devono moltiplicarsi. Come saremo dopo la pandemia e se questo rinascere dell’Europa avrà una storia di civiltà, dipende da due semplici parole: diritti umani. Facile da dirsi e più complicato declinarli, però è la prova che vale sia per Patrick Zaky, per la Bielorussia o per i bambini migranti o morti in Indonesia per la mancanza di vaccino. È la prova se vogliamo contrastare le morti sul lavoro e i caporalati. I diritti camminano insieme, sociali, civili e politici. Sì, anche politici visto che a Minsk il programma fondamentale è liberare i detenuti per reati di opinione, convocare libere elezioni, non dormire più terrorizzati in casa se si è amici di un dissidente. L’Italia può usare la credibilità del governo in modi diversi e uno, per me il più importante, è non girare mai la testa sulle sofferenze in casa nostra e nel mondo. Rimango convinta che non ci si possa riuscire senza il Pd rifondato e senza una sinistra perché il primato della dignità ha sempre trovato da questa parte chi ne ha fatto una missione fino a sacrificare sé stesso. Ecco, non si chiede tanto però il dopo sarà diverso se noi, una nuova sinistra anche in Europa, diventeremo più esigenti e combattivi coi poteri, con lo status quo e con quella logica di profitti che vende le armi e non vede la vita. Per tutto questo non lasciamoli soli, per non lasciare soli anche noi stessi. *Deputata PD Abu Dhabi. Trader in carcere, arriva l’accusa di terrorismo Il Giorno, 10 agosto 2021 Andrea Giuseppe Costantino, l’imprenditore italiano in carcere ad Abu Dhabi, è accusato di riciclaggio di denaro e finanziamento del terrorismo. Nato a Milano il 14 settembre 1972, era stato arrestato il 21 marzo scorso in un hotel di Dubai, dove soggiornava con la famiglia, dopo essere ritornato negli Emirati Arabi Uniti per rinnovare il visto di residenza in scadenza. L’arresto sarebbe stato compiuto da un gruppo di poliziotti in borghese, che lo hanno subito trasferito ad Abu Dhabi. “Ero in spiaggia con la bambina e il concierge - ha ricordato Stefania Giudice all’Ansa - mi chiede di seguirlo in albergo, mi porta in una stanzina dove vedo Andrea circondato da 8 persone, alcune con la divisa bianca, la bimba gli salta addosso e lui dice ‘mi portano ad Abu Dhabi e non so perché, chiama l’ambasciata’. Di lì è sparito in un buco nero come se fosse stato rapito dagli alieni, io ho subito chiamato l’ambasciata e l’avvocato che segue Andrea da anni, poi ho trovato la stanza completamente rivoltata, con i materassi rigirati, vestiti sparsi ovunque, blister di medicine aperti, una cosa delirante che ha fatto scoppiare a piangere mia figlia”. Il trader 49enne lavora da dieci anni negli Emirati, ha la residenza a Dubai e secondo quanto segnalato sempre dalla moglie negli ultimi mesi di detenzione ha perso diversi chili. Dal giorno dell’arresto ha avuto ben pochi contatti con la famiglia una telefonata a casa il 27 maggio “durata pochissimo, dove mi ha ripetuto che non sa perché sta lì ed è stanco e di fare il possibile per riportarlo a casa”, aveva raccontato ancora la moglie. È invece dell’8 giugno una visita consolare “dove lo hanno trovato dimagrito diciotto chili”. La famiglia sta con l’imprenditore. “Noi non abbiamo dubbi che non ci sia nulla contro di lui - dice ancora la moglie - c’è qualcosa che non torna, è contro ogni regola del diritto internazionale e anche contro il diritto emiratino”. Nel frattempo Costantino ha avuto modo di incontrare anche l’avvocato Cinzia Fuggetti, sempre nei primi giorni di luglio. A lei ha chiesto di poter essere sottoposto a esami clinici e a una risonanza magnetica per i controlli di routine necessari a seguito di un intervento chirurgico effettuato in Italia lo scorso dicembre. Negli stessi giorni la legale si diceva certa che “in capo al Costantino non sia pendente alcun procedimento penale né come persona fisica né come rappresentante legale di una persona giuridica. Fosse stato il contrario, anche la più mite accusa sarebbe stata ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno come residente”, ottenuto pochi giorni prima dell’arresto. Cina. Confermata la condanna a morte per traffico droga a cittadino canadese La Repubblica, 10 agosto 2021 Un tribunale cinese ha respinto la richiesta d’appello del cittadino canadese Robert Schellenberg, condannato a morte per traffico di droga. Schellenberg era stato arrestato nel dicembre 2014 e accusato di traffico di droga nel gennaio 2015 per il contrabbando di 225 chilogrammi di metanfetamine, reato per il quale si è sempre dichiarato innocente. Nel 2018, Schellenberg era stato inizialmente condannato a 15 anni di carcere, ma nel 2019, dopo il ricorso in appello, il suo caso è stato riaperto sulla base di nuove prove e il canadese e’ stato condannato alla pena di morte. L’Alta Corte del Popolo della provincia del Liaoning, nel confermare la condanna a morte a Schellenberg ha aggiunto che “i fatti nel processo originale erano chiari e le prove affidabili e sufficienti”. Il suo caso e’ stato rinviato alla Corte Suprema per la revisione, come avviene nei casi di condanne a morte. Il riesame del caso di Schellenberg, ma soprattutto gli arresti di altri due cittadini canadesi in Cina accusati di spionaggio - l’ex diplomatico Michael Kovrig e l’uomo d’affari Michael Spavor - hanno contribuito al deterioramento delle relazioni tra Canada e Cina. L’arresto dei “due Michael”, a dicembre 2018, è avvenuto a pochi giorni dall’arresto a Vancouver della direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, su richiesta degli Stati Uniti, che ne chiedono l’estradizione. Meng è oggi sotto processo in Canada e non può lasciare il Paese, mentre Kovrig e Spavor sono finiti a processo, a porte chiuse, a marzo scorso, in Cina. Secondo quanto riporta l’emittente canadese Cbc, un verdetto su Spavor e’ atteso entro la fine di questa settimana, forse già domani, mentre non ci sono ancora indicazioni chiare riguardanti un verdetto per Kovrig. Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, e il presidente Usa, Joe Biden, hanno condannato la detenzione in Cina di Kovrig e Spavor nel corso di una telefonata la settimana scorsa, e Biden ha promesso il sostegno degli Stati Uniti al Canada per assicurarne il rilascio.