Noi magistrati di sorveglianza difendiamo diritti e costituzione di Angela Stella Il Riformista, 9 settembre 2020 Intervista a Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto: “Il nostro lavoro è molto delicato ma viene riscoperto dalla stampa solo a fronte di polemiche, mai per i dati positivi”. Stampa e fonti istituzionali vogliono far passare il messaggio che ci sarebbe una bufera sul Tribunale di Sorveglianza di Sassari: ad aprile il caso Zagaria, ora quello dell’evasione di Giuseppe Mastini. Il Fatto Quotidiano ha titolato ieri “Lo Zingaro evade: i soliti giudici di Sassari”, lo stesso pensiero di qualcuno a via Arenula. Perché semplificare in questo modo situazioni che sono diverse e complesse? Johnny lo Zingaro non è tornato dopo un permesso premio. A Pasquale Zagaria invece è stata concessa la detenzione domiciliare per motivi di salute e sul caso pende un ricorso in Corte Costituzionale. Pochi giorni fa era stata Repubblica a buttarla in caciara con la questione dei “boss e mezzi boss”. Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto, rifiuta questa lettura e rivendica il lavoro fatto insieme ai suoi colleghi. “La magistratura di sorveglianza - spiega al Riformista - svolge un ruolo particolarmente delicato e, come quasi sempre accade a chi opera nel mondo penitenziario, nascosto all’opinione pubblica. Viene riscoperto dalla stampa soprattutto a fronte di polemiche che, per toni e argomenti, spesso impediscono di decodificare la complessità dei temi, dei diritti sottesi e delle valutazioni conformi a Costituzione, che siamo chiamati quotidianamente a operare”. “Anche nel recente caso di evasione - continua - non ho però letto una sottolineatura sufficiente sui numeri elevatissimi di permessi premio che annualmente si svolgono con esiti positivi. A questo riguardo la Corte Costituzionale ne ha più volte sottolineato la funzione pedagogico-propulsiva”. Nonostante le polemiche e gli attacchi privi di fondamento “la magistratura di sorveglianza continua a fare il suo dovere: vigilare affinché i diritti fondamentali dei detenuti siano rispettati”. Stampa e fonti istituzionali vogliono far passare il messaggio che ci sarebbe una bufera sul Tribunale di Sorveglianza di Sassari: ad aprile il caso Zagaria, ora quello dell’evasione di Giuseppe Mastini. Il Fatto Quotidiano ha titolato ieri “Lo Zingaro evade: i soliti giudici di Sassari”, lo stesso pensiero di qualcuno a via Arenula. Perché semplificare in questo modo situazioni che sono diverse e complesse? Johnny lo Zingaro non è tornato dopo un permesso premio. A Pasquale Zagaria invece è stata concessa la detenzione domiciliare per motivi di salute e sul caso pende un ricorso in Corte Costituzionale. Pochi giorni fa era stata Repubblica a buttarla in caciara con la questione dei “bossi e mezzi boss”. Cerchiamo invece oggi di fare una seria riflessione con il dottor Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto: anche lui ha sollevato un dubbio di legittimità costituzionale sul decreto-legge 10 maggio 2020 n. 29 relativo alle scarcerazioni durante l’emergenza covid. Dottor Gianfilippi il non ritorno in carcere di Johnny Lo Zingaro ha riacceso la polemica sui magistrati di sorveglianza. Che ne pensa di questa polemica? La magistratura di sorveglianza svolge un ruolo particolarmente delicato e, come quasi sempre accade a chi opera nel mondo penitenziario, nascosto all’opinione pubblica. Viene riscoperto dalla stampa soprattutto a fronte di polemiche che, per toni e argomenti, spesso impediscono di decodificare la complessità dei temi, dei diritti sottesi e delle valutazioni conformi a Costituzione, che siamo chiamati quotidianamente a operare. Anche nel recente caso di evasione da un permesso premio, di cui conosco solo elementi giornalistici, viene portato alla ribalta un caso, sicuramente grave, in cui il beneficio concesso è stato utilizzato per sottrarsi all’esecuzione della pena. Non ho però letto una sottolineatura sufficiente sui numeri elevatissimi di permessi premio che annualmente si svolgono con esiti positivi. A questo riguardo la Corte Costituzionale ha più volte sottolineato la funzione pedagogico-propulsiva del permesso premio quale momento di sperimentazione preliminare alla concessione delle misure alternative, in grado di fornirci elementi essenziali circa la capacità di gestione responsabile delle prescrizioni imposte, e quindi in ordine al pericolo di recidiva nel delitto. Neppure per una persona già evasa in passato questo cammino può dirsi assolutamente precluso a tempo indeterminato perché, in una lettura costituzionalmente orientata delle norme (sent. 189/2010), è necessaria una valutazione in concreto approfondita e rigorosa della personalità del condannato e delle sue condotte. Nonostante tutto ciò, il rischio di un esito negativo è tenuto in considerazione dal legislatore, che però lo ritiene, giustamente, compensato dai vantaggi che ci fa ottenere in termini di sperimentazione. In questi anni sul campo ho potuto tante volte apprezzare il valore centrale dei permessi premio, anche per approfondire i percorsi di riflessione critica sui reati commessi e per rinsaldare i legami familiari, entrambi elementi che giocano un ruolo decisivo nell’ abbattere il pericolo di recidiva. Bonafede ha inviato gli ispettori a Sassari. Non sarebbe giusto anche mandarli per capire come mai in carcere ci sono tanti suicidi? Certo. Il mondo penitenziario affronta endemiche criticità, tra le quali il sovraffollamento e una carenza non sporadica di assistenza sanitaria adeguata, specialmente se si parla di salute psichica. È dunque necessario che l’attenzione dell’amministrazione resti sempre alta e ci si interroghi a fondo sul contesto in cui il disagio raggiunge livelli così drammatici. Un maggior numero di operatori penitenziari: di educatori, di psicologi, ove serva di psichiatri, potrebbero in tal senso costituire una risorsa fondamentale per fare la differenza. Ove i percorsi di risocializzazione funzionano, è perché c’è una osservazione corale sulla persona, anche grazie al contributo della polizia penitenziaria, che ogni giorno condivide la quotidianità con le persone detenute. Si possono così intercettare, prima che avvengano, molte criticità e forse anche prevenire fatti gravi come l’evasione di cui si parla in questi giorni. Si tende molto a semplificare le questioni e puntare il dito contro la magistratura di sorveglianza, ormai da troppi mesi. Ma probabilmente nessuno conosce bene il vostro lavoro, forse neanche al Ministero... È un lavoro che ci pone ogni giorno di fronte a scelte difficili. Si parte dalle responsabilità accertate con la commissione del reato, per poi muovere da quella fotografia all’analisi di ciò che la persona nel tempo è diventata. Certo, è più facile parlarne quando si possono mettere in evidenza gli ottimi risultati che, chi fa il mio mestiere, ha nei suoi ricordi: percorsi di riscatto e di restituzione alla società di persone in grado di dare un proprio positivo contributo. Bisogna avere però il coraggio di ricordarlo anche quando qualcosa non va, perché la ricerca di un responsabile, in chi ha concesso il permesso, non è in grado di rendere la complessità di un giudizio che, in ultima analisi, chiede al detenuto di assumersi una responsabilità e che affronta, con prudenza, scienza e attraverso il supporto di molte professionalità, anche il rischio che qualcosa vada storto, con la prospettiva di un risultato finale più utile per la sicurezza di tutti. Qual è il suo pensiero sulla polemica sollevata da “Repubblica” sui “boss” ancora fuori? Non si tratta di una narrazione propagandistica e priva di approfondimento? Non conosco le posizioni di tutti i detenuti. Posso solo ribadire che in questi mesi la magistratura di sorveglianza ha continuato a fare il suo dovere. Ciò significa innanzitutto vigilare affinché i diritti fondamentali, tra i quali la salute, siano rispettati, e lo siano anche per i detenuti più pericolosi. Naturalmente, per questi ultimi, la detenzione domiciliare per motivi di salute avviene quando ogni altra strada non è più percorribile, senza che per difetto di cure sia travolta la dignità della persona. Proprio il riferimento alla dignità imporrebbe di non trattare queste situazioni facendo riferimento a dei numeri, ma leggendoli caso per caso. (Anche noi avremmo voluto conoscere le posizioni di tutti i detenuti rimasti fuori, come ci dice il dottor Gianfilippi nell’ultima risposta. Per non cedere alla retorica, per scrivere consapevolmente. Non ci interessavano i loro nomi: avremmo solo voluto fare una mini inchiesta per sapere quando sarebbe giunto il loro fine pena, per quali reati sono detenuti e quando e perché si è aperto il fascicolo con la richiesta di detenzione domiciliare. Abbiamo chiesto questi dati al Ministero della Giustizia ma ci hanno detto che è un lavoro immane per loro. Per la pubblica opinione e per scongiurare una narrazione populista, crediamo invece che varrebbe la pena farlo). La polemica gratuita di Nando dalla Chiesa sul Garante dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2020 “Garante dei detenuti”, oppure delle “persone private della libertà”? Il sociologo Nando dalla Chiesa ha un po’ polemizzato sul fatto che ultimamente non si dica più “Garante dei detenuti”, come se fosse una sorta di travestimento semantico. In realtà la questione è molto più semplice. In particolare, sia il garante nazionale che quello regionale, ha diversi ambiti e funzioni che non si riduce ai soli detenuti, ma a tutte quelle persone sottoposte alla restrizione della libertà sia di “fatto” che di “diritto”. Non c’è quindi nessuna intenzione di rendere tabù l’aggettivo “detenuto”. Con nota verbale 1105 del 25 aprile 2014 indirizzata al Sottocomitato per la prevenzione della tortura delle Nazioni unite, la Rappresentanza permanente italiana presso le Nazioni Unite, a Ginevra, ha indicato il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale quale Meccanismo nazionale di prevenzione ai sensi del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 18 dicembre 2002 e in vigore per l’Italia dal 3 maggio 2013, a seguito dell’approvazione della legge di ratifica 9 novembre 2012, n. 195. Alla luce di quanto dichiarato dalla Rappresentanza italiana, i Garanti regionali e locali sono parte del Meccanismo nazionale di prevenzione sotto il coordinamento del Garante nazionale. A tal fine il Garante nazionale, con nota prot. 3704 del 8.6.2017, ha chiesto ai Garanti regionali di manifestare il proprio interesse ad aderire formalmente alla Rete del Meccanismo nazionale di prevenzione. Quindi, di che cosa si devono occupare i garanti? Osservare e rilevare i contesti nei quali vengono violati i diritti delle persone private della libertà personale. Ad esempio, il Garante nazionale, tra il marzo del 2019 e i primi mesi del 2020 ha visitato 70 luoghi di privazione della libertà in 15 regioni. Ovvero non solo le carceri, ma anche gli Istituti minorili, Centri per il rimpatrio, Residenze per anziani, Residenze per le misure di sicurezza psichiatriche, Hotspot, Servizi ospedalieri psichiatrici di diagnosi e cura, camere di sicurezza e luoghi di interrogatorio delle Forze dell’ordine. Oltre a ciò l’autorità del Garante ha monitorato più di 46 voli di rimpatrio forzato. Come detto, anche i garanti regionali hanno diversi ambiti da monitorare. Non solo, appunto quello carcerario. Con la legge 17 febbraio 2012, n. 9, di conversione del decreto- legge 22 dicembre 2011, n. 211, il potere di accesso nelle strutture penitenziarie è stato esteso anche alle camere di sicurezza delle Questure, delle caserme dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Polizia Municipale, secondo quanto disposto dall’art. 67bis dell’Ordinamento penitenziario. Infine, ai sensi dell’art. 19, comma 3, del decreto-legge 17 febbraio 2017, n. 13, come modificato dalla legge di conversione 13 aprile 2017, n. 46, le disposizioni di cui all’articolo 67 dell’Ordinamento penitenziario si applicano anche nei Centri di permanenza per il rimpatrio degli stranieri presenti sul territorio nazionale privi di titolo di soggiorno, e quindi il Garante ha potere di accesso senza necessità di autorizzazione anche in tali strutture. Quindi, ecco svelato perché sempre più spesso finalmente si parla di “garante delle persone private della libertà”. “L’isolamento è illegittimo”. Cesare Battisti protesta ed è polemica di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 9 settembre 2020 Cesare Battisti avvia uno sciopero della fame e delle cure per le patologie di cui soffre per chiedere che al debito che sta pagando in carcere non continui a sommarsi l’isolamento forzato che nessuna sentenza gli ha inflitto ma che, a suo parere, sa di una subdola vendetta per i gravissimi crimini che ha commesso negli anni di piombo. L’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo, 65 anni, condannato all’ergastolo per quattro omicidi, è rinchiuso nel carcere di Massama (Oristano) da gennaio 2019, quando arrivò dalla Bolivia dopo 37 anni di latitanza trascorsa tra Francia e Brasile grazie alle protezioni di chi lo considerava un perseguitato politico e non un terrorista, come gli ambienti della sinistra francese nei quali ha indossato sfacciatamente i panni della vittima professandosi innocente. L’insofferenza nei suoi confronti è aumenta dopo che, una volta in carcere, ha ammesso al pm milanese Alberto Nobili le sue responsabilità, una iniziativa che ha sollevato il sospetto di un calcolo opportunistico per avere qualche beneficio. Battisti è in regime di Alta sicurezza 2. Può incontrare solo detenuti nel suo stato. Teoricamente, perché a Massama c’è solo lui. Da maggio il suo legale, l’avvocato Davide Steccanella, chiede che venga trasferito in un istituto dove possa avere un minimo di socialità e dove possano visitarlo i familiari che non sono in grado di raggiungere la Sardegna, con il risultato che l’ex Pac da 21 mesi vede solo agenti e avvocati. Battisti accusa il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di aver “resistito a tutti i miei tentativi di far ripristinare la legalità”, scrive in una lettera in cui chiede di essere trattato come un “qualsiasi altro detenuto”. “Il suo atteggiamento è uno sfregio all’Italia”, commenta il vice presidente della Camera Mara Carfagna (Fi). “Lo Stato non si pieghi alle richieste di questo criminale”, ammonisce il leader di FdI Giorgia Meloni mentre Roberto Della Rocca, presidente dell’Associazione vittime terrorismo, si chiede: “Ha dimenticato gli omicidi che ha sulle spalle?”. Il digiuno di Battisti contro la giustizia-vendetta di Tiziana Maiolo Il Riformista, 9 settembre 2020 Contro di lui un vero e proprio accanimento. Bonafede dovrebbe fare solo una cosa: trasferirlo nel luogo del suo giudice naturale, declassificarlo dalla categoria di terrorista a quello di normale prigioniero. Questa volta ci mette il suo corpo. Quello di un uomo di sessantacinque anni con qualche problema di epatite e di prostata. Da ieri Cesare Battisti rifiuta il cibo e le medicine. La notizia diffusa dall’avvocato Davide Steccanella con una lettera dello stesso ex terrorista, ha suscitato la solita valanga di commenti negativi, anche da quegli ambienti politici che ostentano il proprio “garantismo”. Uno solo sembra aver capito, il regista Marco Bellocchio, che vede l’aspetto positivo nella scelta non violenta, definendola “protesta legittima”, soprattutto perché “penso che contraddica la condotta violenta della sua militanza terroristica. Per questo ha una sua nobiltà, in quanto non violenta”. Una tenue eco delle parole di Marco Pannella, cui purtroppo si è sottratta Dacia Maraini, che ha preferito chiedersi “chissà se ha pensato alle vittime”. Quel che colpisce, soprattutto nei commenti degli esponenti politici, è l’ignoranza. Cioè il disinteresse per i fatti, per le ragioni di una decisione così estrema. Come se, una volta catturata la preda, la persona non esistesse più, sprofondata in un buco nero, una sorta di piccola Guantánamo ad hoc. Eppure, non occorre essere avvocati per fare il punto della situazione. Cesare Battisti ha commesso reati molto gravi, ha ucciso, ha ferito, ha rapinato. Inoltre è rimasto latitante, lontano dall’Italia per circa quarant’anni. Per questo è stato condannato all’ergastolo, unico tra i suoi ex compagni. Non solo, ma la corte d’appello di Milano, quando nel 1993 ha emesso l’ultima sentenza di merito, gli ha inflitto come pena anche l’isolamento diurno per sei mesi. Ora, ci vuole una laurea in ingegneria per calcolare che dal giorno del suo arresto, il 14 febbraio 2019, si arriva più o meno a ferragosto dello stesso anno, data oltre la quale l’isolamento avrebbe dovuto cessare? Non è così, Cesare Battisti è sempre solo, a Oristano, in Sardegna. È passato oltre un anno e mezzo, e nessuno ufficialmente ha ancora risposto alle diverse istanze dei suoi difensori. Lui stesso ha addirittura presentato una denuncia per abuso d’ufficio alla procura della repubblica di Roma. Nei confronti di ignoti, o forse, tra le righe, degli ultra noti ministro di giustizia o capi del Dap. L’altro punto su cui basterebbe informarsi, per capire, è la scelta della collocazione della sua detenzione. Perché in Sardegna? Per punire lui oppure i suoi parenti e soprattutto i suoi difensori? Il suo giudice naturale, quello davanti al quale si sono celebrati i processi che lo hanno giudicato e condannato, è a Milano, dove ci sono tre carceri. Tutti questi “garantisti” che urlano e protestano, perché hanno tanta difficoltà a capire che non c’è bisogno di queste (di fatto) pene accessorie per fare scontare il giusto a chi ha commesso reati tanto gravi e li ha anche ammessi? A Milano esiste il carcere di Opera, dove sono detenute altre persone con condanne gravi. Non sarebbe un privilegio per l’ex terrorista essere trasferito lì. È un istituto ad alta sorveglianza. Invece no. Se vogliamo farne una questione formale infine, potremmo ricordare che l’arresto di Cesare Battisti è avvenuto in un aeroporto romano, dopo la sua estradizione. Se la memoria non ci inganna anche nella capitale ci sono un paio di carceri, Rebibbia e Regina Coeli, che non sono certo degli hotel. C’è un’altra questione infine, che dovrebbe suscitare qualche curiosità. Siamo sicuri che un anno e mezzo fa sia stato arrestato un terrorista? In Italia la lotta armata degli anni Settanta non esiste più, sono passati decenni, tutti sono cambiati e tutti i protagonisti di quei tempi sono più o meno liberi, compresi coloro che hanno rapito e ucciso Aldo Moro. Battisti ha indubbiamente goduto il privilegio della latitanza e ora deve scontare la sua pena, più che giusto. Ma è un terrorista? Ovviamente no, e anche se lo fosse, non avrebbe più la possibilità di avere relazioni con altre persone con le armi in pugno. Non ci sono altri come lui, nelle carceri italiane. Forse anche per questo (ma non è un buon motivo) lo lasciano così solo. Ma ci domandiamo per quale motivo debba restare in un reparto di massima sicurezza (AS2), quello riservato appunto ai terroristi. È una situazione insensata, che puzza troppo di vendetta, per poter passare inosservata. Mostra una volta di più la debolezza dello Stato e anche di questo governo. Il premier Conte vuol fare il piccolo Erdogan e portare un detenuto a mettere in discussione il proprio corpo, la propria salute e la propria vita, solo per intestardirsi a non applicare tre semplici regole? Glielo spieghiamo noi, ministro Bonafede, che cosa bisogna fare, per ristabilire la legalità: togliere il detenuto dall’isolamento, trasferirlo nel luogo del suo giudice naturale, declassificarlo dalla categoria di terrorista a quello di normale prigioniero. Lasciategli scontare in pace, se possibile, la sua pena. Non continuate a renderlo protagonista, ancora una volta, suo malgrado, di qualcosa di forte, di scandaloso, forse di tragico. Non commettiamo un doppio errore su Battisti di Renato Farina Libero, 9 settembre 2020 Prima è stato lasciato libero per 25 anni, ora che è in prigione si accaniscono e lui si mette in sciopero della fame: non è il caso. Che si fa con Cesare Battisti? Ancora prima di sentire in quali condizioni stia scontando i suoi due ergastoli, sembra a tutti, destra e sinistra, sempre troppo poco quel che sta patendo, qualunque cosa stia patendo, a prescindere da qualsiasi notizia filtri dalle mura del carcere, rispetto a quattro omicidi e innumerevoli rapine commessi. Se saltasse fuori, e non è questo il caso, che una goccia d’acqua gli cade ostinatamente in testa, e nessuno intende fermarla, si direbbe: sta zitto, bestia. Soffri e taci, mostro. In realtà - siamo sinceri - non gli si imputano da parte di noi opinione pubblica e dai vari organi della Repubblica soprattutto i delitti, ma ha da scontare la maledetta astuzia e la velenosa superbia con cui ha ridicolizzato lo Stato e i suoi apparati, e alla fine tutto il popolo italiano, consegnandosi a una latitanza di prima classe, immerso nel mito adorabile della primula rossa colta e fascinosa. Questo sottrarsi alla cattura però - lo diciamo sommessamente - non è un reato, ma è prova semmai dell’inettitudine degli apparati istituzionali e della incapacità dei nostri governanti per quasi quarant’anni di far valere presso i colleghi di Paesi persino amici, se non la propria dignità offesa, almeno la considerazione della forza (figuriamoci), così da consegnarci per un destino carcerario arci-meritato quel pluriassassino. Una volta arrestato e restituito al nostro Paese dal Brasile e dalla Bolivia, dovrebbe bastare così: si applichino le sentenze, e sia sottoposto al trattamento previsto da leggi e regolamenti, che in nessun caso possono essere modulate “ad personam” ed anzi - dice la Costituzione, art. 27 - devono garantire l’umanità della pena. Che c’è di nuovo? Ieri Cesare Battisti, detenuto nel carcere di Oristano in regime di massima sicurezza, ha cominciato lo sciopero della fame ad oltranza, fino a lasciarsi morire cioè. Piuttosto la morte che la tortura fisica e mentale da cui è schiacciato giorno per giorno, ora dopo ora, senza sosta, con decisioni enormi come l’isolamento, o microscopiche ma ossessive. Nessun pestaggio notturno o catena alle caviglie, non siamo in Cina o in Corea del Nord. Tutto dentro l’apparente legalità. Non c’è un solo particolare della sua detenzione, da quando è stato estradato il 14 gennaio del 2018, che tra due alternative possibili, quella dell’umanità e quella il più possibile vicina a una spina ficcata nel mignolino, non abbia prevalso con logica meticolosa la seconda soluzione. Ah, purché soffra. Dal carcere più sperduto - quello naturale sarebbe stato Rebibbia (Roma), il più vicino al luogo del suo arrivo in Italia; oppure Opera (Milano), dove è stato condannato - per rendere difficilissima e carissima la visita della sua famiglia e del suo difensore. Isolamento assoluto? Certo. Totale boicottaggio di qualsiasi minima richiesta con una concertazione che scende dall’alto e tocca la direzione del carcere e di conseguenza gli agenti di polizia penitenziaria e persino le cure mediche. Il ministro Bonafede con la sua Direzione amministrazione penitenziaria (Dap) deve considerarlo forse la sua personale bambolina voo-doo, dove il suo forcaiolismo si può sfogare con gli spilloni trovando pure il consenso universale. Chi vuoi che difenda un simile mascalzone? Qualsiasi privazione, la sbobba appositamente troppo salata, ho bisogno di un cachet, ma non sente nessuno: è sempre un’inezia rispetto al dolore inflitto alle vittime e perdurante nei sopravvissuti. Tranquilli. Questa protesta è destinata a ricadere in testa all’assassino (non si è mai ex-assassini; ma si resta sempre e comunque uomini). Non mi fa pena lui. Mi faccio pena io come italiano e come persona che per tutti questi mesi (almeno dal maggio di quest’anno) so e taccio. Perché so da allora dell’isolamento totale e fuori legge, adottato con un criterio di discrezionalità che non c’entra con il suo comportamento e finalmente con la sua confessione, che sarà tardiva ma gli ha fatto il vuoto intorno dei finti amici parigini che lo avevano eletto a mito. Non è un mito. Battisti è un disgraziato qualsiasi, il più debole di tutti, come sono i detenuti ergastolani senza prospettiva di uscirne. Battisti protesta per i particolari: il cibo volutamente cattivo che gli viene fornito, la malizia dei giudici di sorveglianza cui scrive che vorrebbe riso in bianco per ragioni di salute e almeno possa cucinarselo da sé, e invece lo sputtanano pubblicamente facendo credere che è incazzato per il menu senza caviale, gli negano l’ora d’aria con ogni pretesto, le domandine che compila con le richieste per avere strumenti per scrivere non hanno mai risposta, gli portano via i libri con una forma di censura inusitata. Il problema non è questo o quel dettaglio, ma la somma, l’algoritmo della vendetta, che si trasforma in cupola d’acciaio. Una tortura spalmata come la Nutella, non prevista dalla legge ma che ogni autorità - sostiene lui - gli ha spiegato essere inevitabile perché lui è Battisti, e per lui non valgono le regole di umanità valevoli per gli altri reclusi. Lui è Hannibal. Sto riassumendo la lettera che ha inviato al suo difensore, il quale l’ha resa pubblica aggiungendo che a quanto gli consta è tutto vero. E che i giudici di sorveglianza, pur constatando la sua condotta irreprensibile e il riconoscimento delle sue colpe, si ostinano a lasciarlo illegalmente in isolamento. Battisti l’avrebbe dovuto scontare soltanto per sei mesi secondo la sentenza passata in giudicato. Invece, lui è Battisti, e stia zitto. Tutto questo somiglia tanto alla voglia inesausta dell’Italia di farsi del male da sola. Prima sputtanati internazionalmente come Paese che prima lascia scappare un assassino all’estero e che poi consente a costui di fargli marameo per 37 anni. Adesso se insistiamo nel dedicare al nostro carcerato, ahi noi più famoso nel mondo, meschini trattamenti di vendetta, finiremo per essere considerati come uno Stato inferiore: stavolta per l’incapacità di trattare un detenuto secondo la civiltà giuridica occidentale, infierendo su di lui perché è riuscito a farla franca, come i bambini, o come i barbari. “La giustizia ripartirà: è una priorità del governo e di tutto il Parlamento” di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 9 settembre 2020 Intervista a Anna Rossomando (Pd). Secondo la vicepresidente del Senato “il contradditorio in aula è il perno del processo penale che deve tenersi in presenza”. “Il funzionamento della giustizia sarà un tema cruciale per la ripartenza post Covid e posso assicurare fin da ora che sarà massimo l’impegno al riguardo da parte del Parlamento e del governo”, afferma la dem Anna Rossomando, vice presidente del Senato. Presidente Rossomando, come vede la ripartenza dell’attività giudiziaria? Premesso che sul punto abbiamo votato un provvedimento che anticipava la ripresa, inizialmente prevista al 31 luglio, al 30 giugno, credo che in questo momento sia importante superare alcuni ostacoli e timori. A cosa si riferisce? Il Covid ha messo in evidenza i ritardi storici della giustizia. Ora al netto dell’esigenza di tenere alta la guardia sull’emergenza sanitaria, urge riprendere il percorso relativo agli interventi strutturali nel processo penale e civile. Di riforma della giustizia si discute da anni... Dopo essere stati impegnati giorno e notte sull’ emergenza Covid adesso dobbiamo concentrarci per far ripartire le riforme. Il metodo di lavoro dovrà però essere diverso. Discontinuità con il precedente esecutivo gialloverde? Esatto. E come si realizza questa discontinuità? Prima esisteva una sorta di forma di baratto fra gli alleati di governo: “io ti voto la legittima difesa e tu mi voti lo Spazza-corrotti o il blocco prescrizione”. Ecco, questo tipo di approccio deve essere superato. Le “regole d’ingaggio” sono diverse. Comunque se il precedente governo aveva posizioni molto distanti sulla giustizia anche l’attuale non è da meno... È innegabile una sensibilità diversa con il partner di governo ma è questa la scommessa. L’impegno principale di un governo di coalizione è trovare le soluzioni con il metodo del confronto, senza risparmiarsi. Che ruolo avranno le opposizioni? Sono certa che daranno un contributo significativo. Da dove partire? Nel civile dall’esperienza Covid traiamo la convinzione che l’uso della digitalizzazione e dei sistemi telematici possa essere utilizzata con benefici sul servizio giustizia. La riforma sarà articolata e complessa, dovrà essere di aiuto al sistema economico e all’altezza degli standard europei, come ha dichiarato recentemente il commissario Gentiloni. Sul penale? Il contradditorio è il perno del processo penale, pertanto il processo deve tenersi in presenza. Su questo aspetto il Pd ha una posizione molto chiara. La riforma, già incardinata alla Camera, ha l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi, proseguendo sulla differenziazione delle risposte, a seconda delle differenti domande di giustizia. Il Pd ha una grande incompiuta, la riforma dell’ordinamento penitenziario. Uno dei primi provvedimenti del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede fu quello di mandare in archivio tutto il lavoro fatto dal predecessore Andrea Orlando... Sbagliò. Si pensò che le pene alternative al carcere significassero “impunità”. Invece era un diverso modo di rendere effettiva la pena. E anche più efficace. Mi riferisco alla riduzione della recidiva. Un modo diverso di affrontare la sicurezza? Certo. Ricordo che venne predisposto un monitoraggio da parte del ministro Orlando. E sulla riforma della prescrizione? Sono fiduciosa che l’attuale impianto possa essere rivisto con la riforma del processo penale. Veniamo alla riforma del Csm. Il Consiglio dei ministri ha approvato ad agosto un ddl al riguardo. I punti salienti? Mi convincono diversi aspetti. È stato archiviato definitivamente il sorteggio dei componenti. Era una battaglia del Pd. Poi la separazione fra chi nomina e chi giudica, una proposta che risale al 2014 da parte del ministro Orlando. Infine il contributo dell’avvocatura, seppur timido rispetto alle aspettative. Si riferisce al voto degli avvocati nei Consigli giudiziari? Avrei voluto un maggior ruolo per gli avvocati. Si parla sempre di cultura comune della giurisdizione. Gli avvocati ne fanno parte a pieno titolo. Al momento non è previsto che possano esprimere un voto. Però faranno parte dell’Ufficio studi del Csm... Insieme ai professori. E poi c’è la tutela della parità di genere. Finiranno le degenerazioni del correntismo? La riforma non è risolutiva. Però punta a scoraggiare meccanismi di potere e comunque non si può più attendere. Sul resto lavoreremo in Parlamento, approfondendo anche le criticità che alcuni hanno sollevato. Sul gratuito patrocinio? È un istituto importante. Deve essere garantito a tutela del diritto di difesa. Si risolveranno i problemi dei tempi lunghi per la liquidazione del compenso? Il ministro ha mostrato sensibilità. C’è un ddl incardinato alla Camera proposto dal Governo. Nel dl Semplificazioni, per ridurre i tempi, un emendamento a mia prima firma prevede anche un metodo d’inoltro delle richieste di liquidazione uniforme su tutto il territorio nazionale per via telematica. E i fondi? L’ impegno del governo, assunto con l’approvazione di un ordine del giorno al Dl Semplificazioni, è quello di reperire risorse economiche per incrementare l’apposito fondo. Per quanto riguarda l’equo compenso? Deve essere vietata la possibilità, per la pubblica amministrazione, di stipulare contratti a titolo gratuito. Assolutamente. “Le intercettazioni a strascico a rischio incostituzionalità” di Simona Musco Il Dubbio, 9 settembre 2020 Parla il magistrato Alfonso Sabella: “Viene meno il vincolo con l’autorizzazione originaria del Gip”. La nuova norma sulle intercettazioni? Buona, ma il pericolo di pesca a strascico c’è e rischia anche di essere incostituzionale. A dirlo al Dubbio è Alfonso Sabella, oggi giudice del Tribunale di Napoli e sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli. Una materia delicatissima, sottolinea, che impone un’attenzione ancora maggiore da parte del magistrato, che, soprattutto, dovrà ricordare “di stare all’interno della cultura della giurisdizione”, evitando atteggiamenti da plenipotenziario. Il punto più difficile riguarda, infatti, la modifica al primo comma dell’articolo 270 del codice di procedura penale sull’utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le stesse, che risente di un vero e proprio vulnus, secondo il magistrato: “legalizzando le intercettazioni a strascico”, infatti, viene meno il “vincolo con l’originaria autorizzazione data dal gip alle intercettazioni”. Una possibilità alla quale già le Sezioni Unite della Cassazione avevano posto un limite, con la sentenza Cavallo, secondo cui “il divieto di utilizzazione dei risultati di intercettazioni di conversazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali siano state autorizzate le intercettazioni - salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza - non opera con riferimento ai risultati relativi a reati che risultino connessi ex art. 12 cod. proc. pen. a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge”. Un freno, forse, eccessivo secondo Sabella, che ha visto diverse misure cautelari sfaldarsi sotto il peso di quella decisione. “Ma ciò non toglie che se il pm fa il suo lavoro da magistrato della Repubblica e non da poliziotto che cerca a tutti i costi di coinvolgere l’indagato, allora probabilmente la riforma darà più spazio e più possibilità di accertamento della verità”, spiega. Il vero anello mancante del sistema, dunque, è quello che riguarda il gip, un vuoto sotto certi profili normativo, ma, soprattutto, organizzativo. “I giudici delle indagini preliminari sono sommersi di lavoro - sottolinea Sabella -, sono loro quelli più schiacciati dall’enorme quantità di procedimenti trattati, molto più dei pubblici ministeri, dei giudici del dibattimento e del Riesame. Quindi il filtro serio sulle intercettazioni andrebbe messo sulle autorizzazioni”. Il che, tradotto, è semplice: l’eccessivo carico di lavoro dei giudici riduce la possibilità di un’analisi seria del fascicolo, “non per sciatteria, ma perché non si è nelle condizioni materiali di farlo”. La soluzione, secondo Sabella, sarebbe quella di recuperare un maggior numero di gip, in grado, dunque, di creare un vero e proprio filtro alle richieste di intercettazioni, “che sono mutuate troppo spesso tali e quali dalle ipotesi della polizia giudiziaria”. Se tale filtro venisse potenziato, probabilmente, il fenomeno delle intercettazioni inutili “sarebbe riconducibile a numeri accettabili”, in quanto il gip avrebbe il tempo materiale per verificare, fino in fondo, la bontà di una pista investigativa. “Questo è un problema fondamentale - continua Sabella - perché il giudice, così, si assumerebbe direttamente la responsabilità di scartare ipotesi investigative non fondate. Oggi si lavora schiacciati da questa angoscia, con tempi strettissimi. E quelle che sulla carta sono 24 ore si riducono, nella pratica, in pochi minuti, considerati tempi di trasmissione da un ufficio all’altro”. La norma avrebbe avuto dunque bisogno di un “capitolo” dedicato a tale aspetto, che avrebbe costituito “il vero punto di equilibrio” della norma, continua Sabella. Ma stando così le cose, l’unico ad avere in mano la faccenda è il pm, che “deve ricordare non solo l’obbligo di accertare le responsabilità, ma anche quello di cercare prove a discarico, non cedendo ad un certo manicheismo giustizialista”. Sulle intercettazioni a strascico, infatti, il dubbio di una possibile incostituzionalità non è secondario: “La mia perplessità - sottolinea Sabella - riguarda la possibile violazione della libertà di comunicazione, libertà prevista dalla Costituzione. Utilizzare conversazioni non attinenti al reato per le quali sono state autorizzate, purché riguardino un reato per cui possano essere disposte, fa perdere il collegamento con l’autorizzazione disposta originariamente dal gip”. La soluzione? “Che la Procura faccia la Procura, soprattutto nella fase di pubblicazione e selezione delle intercettazioni”. Il rischio che il potere del pm diventi eccessivo, secondo il magistrato, c’è. “Ma sono fiducioso che i miei colleghi sappiano fare un ottimo uso di questo potere e dovere”, spiega, anche se i casi contrari, nella storia della Giustizia italiana, non sono mancati. “Ma attenzione, non è più come una volta - conclude. Se il pm oggi non fa il suo lavoro non potrà più dare la colpa alla polizia giudiziaria”. Consulta, l’ultima udienza di Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 9 settembre 2020 “In tempi di Covid abbiamo garantito una giustizia senza cedimenti né interruzioni”. Marta Cartabia presiede, alla Consulta, la sua ultima udienza. Parla per pochi minuti, ma lancia il suo messaggio. “Anche durante il Covid la Corte ha assicurato il pieno funzionamento della giustizia costituzionale, che è garanzia dei rapporti tra poteri, senza cedimenti e senza interruzioni”. Nella grande sala Belvedere, all’ultimo piano del palazzo della Consulta, al top del suo fascino con la vista di Roma sotto il sole, ecco tutti i giudici in carica. Davanti a lei gli ex presidenti Giorgio Lattanzi, Cesare Mirabelli, Franco Gallo, Ugo De Siervo, Gaetano Silvestri, Francesco Amirante, Cesare Ruperto, Franco Bile. E poi Gabriella Palmieri, un’altra donna a capo dell’Avvocatura dello Stato. C’è il costituzionalista e avvocato di tante udienze qui alla Corte Massimo Luciani. E il consigliere laico del Csm Filippo Donati. Poche parole da Marta Cartabia per salutare i colleghi: “Per me sono stati anni di grandissimo arricchimento umano e professionale” dice subito. Poi parla del Covid, l’emergenza sanitaria che ha attraversato, ma senza travolgerlo, il suo mandato di presidente alla Corte. E che ha coinvolto anche lei personalmente, quando ha scoperto di avere la febbre. Ma il suo lavoro e quello della Corte sono proseguiti. Pur se il coronavirus ha imposto un’altra vita anche alla Consulta: A cominciare dalla necessità di “ripensare gli spazi per assicurare la giustizia costituzionale”. Oggi Cartabia può vantarne i risultati: “Sotto la spinta dell’emergenza c’è stata una grande innovazione. Poi si valuterà cosa deve rimanere e cosa no, speriamo non per future emergenze”. Cartabia cita anche l’udienza del 12 agosto - la prima e unica volta di una riunione delle alte toghe in pieno periodo di ferie - “per risolvere un nodo importante, quello dei referendum, e non lasciare incertezze sulla scadenza elettorale che ci sarà tra breve”. Il giudice Giancarlo Coraggio, per la Corte, Massimo Luciani per il foro, Gabriella Palmieri per l’Avvocatura, salutano Aldo Carosi, l’altro componente della Consulta che chiude i suoi nove anni e torna alla Corte dei conti. Poi tocca al giudice più anziano di nomina Mario Rosario Morelli la “laudatio” per Cartabia. Il saluto “cum laude” è tradizione della Corte, spiega Morelli, ma non è solo formale. Eccolo definire Carosi “il mago della contabilità”, perché “ci ha insegnato il bilancio”, “rigoroso, appassionato, leale in camera di consiglio, un amico prezioso che certo non perderò”. Parole forti per Cartabia, “il cui profilo anche internazionale è noto”. Ricorda quando conobbe la allora trentenne Cartabia, giovane ricercatrice, che nel 1996 presentò uno studio sui diritti fondamentali nel rapporto con la Corte. Sulla linea “dell’amarcord”, dice Morelli, ecco l’approfondimento sul lavoro dei consiglieri regionali e nazionali. Con un tocco di galanteria, Morelli rammenta quando arrivò alla Consulta e ritrovò Cartabia, “uguale a vent’anni prima”, pronta a portare nello storico palazzo la sua teoria di una giustizia costituzionale “senza frontiere”, a tutela di chi ha meno diritti. Morelli cita alcune delle tante sentenze scritte da Cartabia - ne conta oltre 175, “di certo più di tutti noi” - proprio su questo tema, come quelle sulle madri detenute, ma anche sugli immigrati, sull’Ilva, sul referendum, sulla proporzionalità della pena, sulla libertà di religione, infine quella del 2015 sulla Robin tax. Morelli definisce “storica” la presidenza di Cartabia, “per il suo peso internazionale, per la rottura del dominio maschile, per l’emergenza Covid che non ti ha piegato, visto che hai garantito comunque la continuità del lavoro della Corte, aprendo la via al processo telematico”. Le dice: “Auguri, Marta, per i tuoi secondi 50 anni”. Un’allusione, neppure tanto velata, a possibili futuri incarichi che Cartabia potrebbe ricoprire, ricordando che il suo nome è già stato fatto come possibile presidente della Repubblica e come primo inquilino di palazzo Chigi. Gli imprenditori e gli aiuti chiesti alla mafia: “Otto volte su dieci è loro la prima mossa” di Francesco Grignetti e Paolo Colonnello La Stampa, 9 settembre 2020 I magistrati: “La ministra Lamorgese ha ragione, riduttivo parlare di infiltrazioni”. Ora preoccupano i porti. Tempi di lockdown, qualche mese fa. A Milano un gruppo di investigatori fa il lavoro di sempre: intercettano i mafiosi calabresi che si sono insediati al Nord. Scoprono così una delle operazioni sporche della ‘ndrangheta. Gli indagati hanno appena comprato una società uninominale e immediatamente dopo hanno deliberato un aumento di capitale: da 500 euro si passa a 1 milione di euro. Hanno una gran fretta perché un Dpcm ha appena stabilito che gli aumenti di capitale godono di sgravi fiscali: in pratica, la nuova società parte con un ricco credito d’imposta che poi verrà ceduto a terzi. Per farla ancora più sporca, non vengono versati soldi freschi ma titoli obbligazionari di una società statunitense, quotati su un mercato secondario. Titolo farlocco, ma riciclaggio vero. Verissimo. “In tutta evidenza è un imbroglio - racconta Alessandra Dolci, coordinatrice della Distrettuale antimafia della procura di Milano - che ci racconta quanto siano fulminei i clan nel cogliere le opportunità. Hanno avuto l’aiuto di abili commercialisti e di un notaio compiacente”. Dei bravi professionisti stanno con loro. È riduttivo, insomma, parlare di “infiltrazione” mafiosa nell’economia. È molto peggio. Denuncia sempre Dolci: “Infiltrazione dà l’idea di qualcosa di malvagio che si inserisce in un tessuto sano. Bene, non è così. Purtroppo abbiamo avuto modo di constatare che il tessuto sano lombardo non esiste più. Parlo del sistema delle imprese, e dei professionisti. In parte, anche del mondo politico. Devo dire che 8 volte su 10 è l’imprenditore lombardo che va a chiedere il servizio della ‘ndrangheta”. E come diceva due giorni fa la ministra Luciana Lamorgese, “molte aziende, anche medio-grandi, tendono a sfruttare questo momento, ricorrendo ai fondi distribuiti dalla mafia, anche per far fuori aziende antagoniste e creando però incidenti gravi di percorso, perché alla fine si grava sull’economia legale di mercato”. All’altro capo della penisola annuisce Nicola Gratteri, procuratore a Catanzaro: “Ciò che dice il ministro Lamorgese è serio e sensato, ed è credibile ciò che emerge dal loro monitoraggio”. È una storia vecchia. “Le mafie sono presenti dove c’è da gestire denaro e potere, quindi perché questa volta non dovrebbero essere interessate ai soldi pubblici? Occorre una modifica seria alle norme per far sì che diventi non conveniente delinquere”. L’arrembaggio delle mafie al Nord è documentato da almeno 10 anni. Secondo l’ultimo rapporto della Direzione investigativa Antimafia, la ‘ndrangheta calabrese ha ormai colonizzato le regioni settentrionali: sono 25 le “locali”, cioè i sotto clan autonomi, in Lombardia; 14 in Piemonte; 3 in Liguria; 1 in Valle d’Aosta. Il 25 gennaio 2020, la prima sentenza del Tribunale di Venezia ha condannato per associazione mafiosa e estorsione cinque appartenenti ad una stessa famiglia affiliata alla cosca di ‘ndrangheta Dragone. È una prima volta per le province di Verona e Vicenza. E poche settimane fa, una nuova operazione di polizia, “Isola scaligera”, ha fatto scoprire l’esistenza di un’altra “locale” a Verona. Nessuna regione è indenne. In Liguria, in un anno, l’eroina sequestrata è cresciuta del +2.298%. Per i clan calabresi non c’è più solo Gioia Tauro; anche i porti liguri sono usati ora per importare stupefacenti. E si tiene d’occhio il porto di Trieste. Secondo il professor Antonio Nicaso, considerato uno dei massimi esperti di criminalità organizzata, il fatturato della ‘ndrangheta sarebbe pari a 55 miliardi di euro all’anno solo in Italia di cui 44 miliardi realizzati “al Nord”. E questa montagna di soldi fa gola anche a imprenditori insospettabili. “L’obiettivo primario al Nord - conclude Alessandra Dolci - è mostrare una mafia buona che dà lavoro e fa girare il contante. E questo è un aspetto molto appetibile per molti “imprenditori” nostrani. Alcuni ci vanno a cena. Non sarà reato, ma permettetemi di dire che è davvero disdicevole”. Possibilità del carcere per i giornalisti, assurdità da superare di Bruno Ferraro* Libero, 9 settembre 2020 Il problema del carcere per i giornalisti, ovvero della condanna a pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa, è antico. Celebre nella storia fu la detenzione espiata dallo scrittore Giovanni Guareschi, divenuto poi famoso per le storie di Peppone e Don Camillo. Altrettanto note sono le disavventure capitate anche in tempi recenti ai direttori di testata che, per il solo fatto di essere direttori responsabili, sono andati incontro alla condanna per le “colpe” assunte da giornalisti collaboratori, sotto il profilo dell’omesso doveroso controllo su quanto riportato nell’articolo ritenuto diffamatorio (vedi Belpietro, Bossi, Tonelli, Travaglio). Il problema è stato oggetto di iniziative riformistiche volte a ridurre e, qualche volta, aggravare la pesantezza della sanzione che mette in discussione una delle libertà primarie di ogni sistema democratico: quella della libera manifestazione del pensiero con specifico riferimento alla libertà di stampa (art. 21 Costituzione). Così una proposta del 2013 che intendeva abolire la pena detentiva per i giornalisti. Così un Ddl approvato in Commissione Senato nel 2016, che in controtendenza prevedeva l’aumento da un terzo alla metà se la diffamazione è commessa in danno di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario (parlamentari e magistrati). Così una proposta del Pd del 2017 che vietava le fake news, le notizie false, come se sia facile stabilirne il confine. Nella contraddittorietà del quadro parlamentare, diretta conseguenza degli ondivaghi umori delle forze politiche, si sono di recente inseriti due organi che, per la loro autorevolezza, potrebbero dare una spinta decisiva per indurre a più miti consigli il legislatore. La prima spinta proviene dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale la sanzione detentiva si giustifica solo in presenza di circostanze eccezionali perché di norma essa è invece sproporzionata e contraria all’articolo 10 della Convenzione europea. Non serve, aggiungo io, la possibilità per il condannato di accedere ad una misura alternativa al carcere, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare o la semi libertà. Un segnale di ravvedimento ancora più forte è stato ora lanciato dalla Corte Costituzionale che, con una ordinanza del 26 giugno 2020, ha assegnato al Parlamento il termine di un anno per ridisciplinare la materia conciliando libertà di pensiero e tutela della reputazione “tanto più alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione”: e ciò anche al fine di “non dissuadere i media dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri” e di tener conto degli “effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social network e dai motori di ricerca in internet”. Le possibilità operative per il legislatore possono spaziare tra una gamma di variazioni dell’attuale rigida disciplina: esempio sanzioni penali non detentive, rimedi civilistici riparatori adeguati, obbligo di rettifica senza commenti, scuse pubbliche, misure disciplinari, tariffario per la liquidazione dei danni a favore del diffamato o per l’irrogazione di sanzioni per lite temeraria, esclusione dell’interdizione dalla professione giornalistica per il direttore non autore dell’articolo. Speriamo che non si verifichi un nuovo caso Cappato, quando, decorso il termine di un anno, la Corte è intervenuta disciplinando a modo suo la delicata materia dell’eutanasia non attiva e dell’omicidio del consenziente. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Inviare foto hard a un minore via chat può essere violenza sessuale Il Dubbio, 9 settembre 2020 Sentenza della cassazione: respinto il ricorso del 32enne indagato. È legittimo contestare il reato di violenza sessuale a chi invia foto hard tramite WhatsApp ad un minore. A stabilirlo è la Terza sezione penale della Cassazione che, con una sentenza depositata ieri, ha respinto il ricorso di un 32enne, indagato per aver inviato una serie di messaggi “allusivi e sessualmente espliciti” a una minorenne, accompagnata da una foto hard. Avrebbe inoltre intimato alla ragazza di inviare un’immagine dello stesso genere con “la minaccia di pubblicare la conversazione” su un altro social e siti hot. Il tribunale del Riesame di Milano aveva confermato la custodia in carcere disposta dal gip per l’indagato, e la difesa, quindi, si era rivolta alla Suprema Corte sostenendo che, nel caso in esame, non fosse contestabile il reato di violenza sessuale, ma, al limite, quella di adescamento di minore, perché, rilevava il difensore, “mancava l’atto sessuale”, non essendo “avvenuto alcun incontro” tra i due, così come era da escludersi il “child grooming”, cioè la pratica di adescamento di un minorenne in Internet, “tramite tecniche psicologiche volte a superarne le resistenze ed ottenerne la fiducia per abusarne sessualmente”. Secondo la difesa, quindi, “la condotta tenuta dall’indagato non aveva intaccato la sfera sessuale della minore per assenza di una qualsivoglia richiesta di rapporto sessuale volta al soddisfacimento dei propri impulsi”. La Suprema Corte, invece, ha ritenuto “solida e ben motivata” la decisione del Riesame, secondo cui la “violenza sessuale risultava pienamente integrata, pur in assenza di contatto fisico con la vittima, quando gli atti sessuali coinvolgessero la corporeità sessuale della persona offesa e fossero finalizzati e idonei a compromettere il bene primario della libertà individuale nella prospettiva di soddisfare o eccitare il proprio istinto sessuale”. In particolare, i “gravi indizi di colpevolezza” erano stati ravvisati “nell’induzione allo scambio di foto erotiche, nella conversazione sulle pregresse esperienze sessuali ed i gusti erotici, nella crescente minaccia a divulgare in pubblico la chat”, spiegano gli ermellini. Infine, la Corte ha ritenuto corretta la decisione di disporre la custodia in carcere per l’indagato - il quale, nel frattempo, ha ottenuto i domiciliari - sulla base del fatto che ha “perpetrato le stesse condotte nei confronti di altre minori, dimostrando di non saper controllare le proprie pulsioni”, potendo “continuare a minacciare le vittime nonché reiterare le condotte delittuose a mezzo l’uso di strumenti informatici”. La “trasportabilità” non esclude il legittimo impedimento dell’imputato di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2020 Corte di cassazione - Sentenza 8 settembre 2020 n. 25424. Il legittimo impedimento dell’imputato a comparire nel processo per motivi di salute, deve essere esteso a quei casi in cui il soggetto pur essendo trasportabile non è di fatto in grado di partecipare attivamente. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 25424 dell’8 settembre, accogliendo (con rinvio) il ricorso di una donna indagata per peculato. La ricorrente, affetta da neoplasia, aveva ottenuto due rinvii in quanto bisognosa di assoluto riposo a seguito in un nuovo intervento per fronteggiare la recidiva della malattia e del successivo trattamento chemioterapico. Disposto un accertamento, il medico della Polizia attestò che l’imputata presentava una “condizione clinica che consente il trasporto a mezzo ambulanza”. Sulla base di tale presupposto la Corte di appello rigettò la richiesta di rinvio e celebrò il processo. Di diverso parere la VI Sezione penale che ricorda come “l’assoluta impossibilità a comparire derivante da infermità fisica non va intesa in senso esclusivamente meccanicistico, come impedimento materiale che risulti superiore a qualsiasi sforzo umano, prescindendo cioè dalle condizioni psico-fisiche in cui versa l’imputato, in quanto la garanzia sottesa all’esercizio del diritto di difesa comporta che l’imputato sia in grado di presenziare al processo a suo carico come parte attiva della vicenda che lo coinvolge”. Inoltre, argomenta la Corte, “non è chiaro perché la stessa situazione che aveva giustificato il rinvio delle udienze dell’1/04/2019 e del 6/06/2019 fu ritenuta non idonea a configurare il legittimo impedimento per la successiva udienza del 12/06/2019”. Sotto altro profilo, prosegue la decisione, “in una situazione ampiamente comprovata documentalmente, non è stato spiegato perché il mero fatto che l’imputata potesse raggiungere in ambulanza il Tribunale, circostanza, questa, già di per sé rivelatrice del precario stato di salute della stessa - potesse garantire, nonostante la perdurante e obiettivamente grave situazione psicofisica, che l’imputata fosse in condizioni di partecipare attivamente al processo”. Lo “sforzo” che alla donna fu “ingiustificatamente” richiesto di compiere, dunque, “era inesigibile perché in contrasto con due principi fondamentali del nostro ordinamento: quello del diritto alla salute, che implica la impossibilità di imporre al malato stress psico-fisici tali da poter aggravare le condizioni di salute o provocare sofferenze apprezzabili, quello del diritto di difesa, esplicabile solo in condizioni di lucidità mentale che non siano compromesse da patologie rilevanti”. Del resto, conclude la Corte, la nozione di “intervento dell’imputato” non può essere restrittivamente intesa nel senso di mera presenza fisica nel procedimento, ma come partecipazione attiva e cosciente alla vicenda processuale dell’imputato, al quale deve garantirsi l’effettivo esercizio dei diritti e delle facoltà di cui lo stesso è titolare. Ne consegue che il processo avrebbe dovuto essere rinviato. Sul conto cointestato sequestro non sempre integrale di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2020 Corte di cassazione, Sesta sezione penale, sentenza 8 settembre 2020 n. 25427. Va superato l’orientamento che permette di sequestrare l’intero importo di un conto corrente cointestato all’indagato e a persona estranea al reato. Questa la conclusione della Corte di cassazione, che in questo modo di discosta da suoi precedenti, con la sentenza della sesta sezione penale 25427, depositata ieri. La Corte ha così accolto il ricorso, contro l’ordinanza di sequestro finalizzato alla confisca, presentato dalla difesa di una dottoressa indagata per i reati di peculato, truffa aggravata ai danni dello Stato, abuso d’ufficio e false attestazioni. Parte della misura cautelare era stata effettuata su un conto intestato alla dottoressa e al suo ex marito, del tutto estraneo al reato. La sentenza ricorda che in precedenza è stata la stessa Cassazione ad avvalorare una lettura delle norme favore a un estremo allargamento del perimetro della misura cautelare, sino a comprendere l’intero importo di un conto cointestato, senza dare alcuna rilevanza a presunzioni o vincoli disposti dal Codice civile sui rapporti tra creditore e debitore, lasciando poi al terzo estraneo di dimostrare di essere l’esclusivo titolare delle somme e quindi l’illegittimità della misura stessa. Ora però la Cassazione mette in evidenza che a dovere essere accertata non è la materiale disponibilità da parte dell’indagato del denaro versato sul conto corrente cointestato, “quanto piuttosto il fatto che il denaro sia causalmente riconducibile allo stesso indagato, provenga cioè da questi, perché solo ciò consente di affermare, in ragione della sua fungibilità, che quel bene sia profitto o prezzo del reato”. L’analisi cioè deve essere spostata al momento precedente la costituzione della comunione sul denaro; in caso contrario verrebbe ammessa, in maniera generalizzata, la possibilità del sequestro finalizzato alla confisca diretta del prezzo o profitto del reato anche di beni che possono essere di proprietà di soggetti diversi dall’indagato. La comproprietà del denaro che si realizza successivamente al versamento di questo sul conto corrente cointestato con un soggetto “terzo estraneo”, chiarisce la sentenza, non rende cioè irrilevante l’accertamento della provenienza del denaro su quel conto. Il sequestro totalitario finalizzato alla confisca diretta del denaro in giacenza sul conto corrente cointestato può allora essere disposta non sulla base di presunzione ma di una verifica, anche solo indiziaria, che il conto stesso è alimentato solo da somme dell’indagato. In mancanza di questa verifica, la misura cautelare può essere eseguita solo sulle somme direttamente riconducibili all’indagato. “In Umbria i detenuti non residenti sono in maggioranza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2020 Passata, per ora, l’emergenza Covid-19 nelle carceri, rimangono però le problematicità che persistevano già prima della pandemia. È il caso dei penitenziari della regione Umbria, in particolar modo il carcere di Capanne e quello di Spoleto, che diventano i contenitori di tutti quei detenuti provenienti dagli istituti toscani trasferiti perché “problematici”. A fotografare la situazione, nella relazione annuale, è il garante regionale delle persone private della libertà Stefano Anastasìa. Ad esempio c’è il carcere di Perugia “Capanne”, dove - si legge nella relazione- “la nuova configurazione territoriale dell’Amministrazione penitenziaria risalente al 2015 ha infatti dato vita a una discutibile pratica per la quale, alla concezione unitaria del bacino territoriale riferibile al Provveditorato di Umbria e Toscana, consegue un ricorso frequente del trasferimento di detenuti fuori Regione, ma all’interno dei confini del Provveditorato”. Anastasìa aggiunge che la destinazione in luoghi geograficamente lontani dagli affetti e dalla rete sociale di riferimento “si traduce spesso in un ingiustificato carico di sofferenza (di fatto estesa ai familiari del detenuto, non responsabili della stessa condanna, ma ugualmente sottoposti alla pena), contrario, in termini costituzionali, alla finalità rieducativa della pena e a una specifica previsione delle Regole penitenziarie europee”. A questo poi si aggiunge un problema sanitario non di poco conto, perché è stato segnalato più volte all’ufficio del garante regionale “la mancata attuazione della continuità terapeutica, in particolar modo a seguito dei trasferimenti da un carcere all’altro”. D’altronde, come si legge nella relazione, la tutela del diritto alla salute rappresenta una delle preoccupazioni principali per i detenuti e le detenute che si rivolgono al Garante. Infatti, “permangono delle difficoltà nella prestazione delle visite specialistiche, riabilitative e nella diagnostica quando risulti necessario avvalersi di specialisti e strumentazioni esterne all’istituto penitenziario, con evidenti ritardi nelle prestazioni di assistenza sanitaria”. Anche l’istituto penitenziario di Spoleto ha il problema di dover ospitare detenuti trasferiti dalla Toscana. Come sottolinea Anastasìa nella relazione, spesso i detenuti trasferiti, definiti “problematici”, “sono stati destinatari di un numero elevato di provvedimenti disciplinari”. Il Garante, nel 2019, ha preso in carico 145 persone private o sottoposte a misure restrittive della libertà personale per il 56% ospiti della casa circondariale di Perugia, per il 19% detenute a Spoleto, nel 22% dei casi ristrette a Terni e in solo 3 casi detenute a Orvieto. Le principali problematiche sottoposte all’attenzione di Anastasìa riguardano ciò che concerne le condizioni di detenzione. In generale, è stata frequentemente segnalata la scarsa conoscenza del regolamento interno all’istituto penitenziario e in alcuni casi l’inadeguatezza del vitto rispetto alle problematiche di salute, la mancanza di acqua calda e del riscaldamento nelle camere di pernottamento, la non idoneità di queste ultime dal punto di vista igienico- sanitario e situazioni di sovraffollamento soprattutto nei periodi estivi, l’impossibilità di detenere oggetti particolari in camera (crocifisso al collo, personal computer, radio, dispositivi mp3 e fotografie dei familiari in 41bis), nonché il contrasto delle disposizioni dei singoli istituti relative al materiale che il detenuto può avere con sé in occasione del trasferimento da uno all’altro. Gli istituti penitenziari della Regione Umbria sono caratterizzati dalla presenza di detenuti che per la maggior parte sono non residenti. “Ciò - si legge nella relazione - determina notevoli disagi per i detenuti e per le loro famiglie che, spesso, non riescono a far fronte ai continui spostamenti per i colloqui mensili”. Tutto questo in barba al principio della territorialità della esecuzione penale. Ravenna. Progetti di socializzazione e inserimento lavorativo per i detenuti ravenna24ore.it, 9 settembre 2020 Il programma è parte integrante del Piano di zona per la salute e il benessere sociale del distretto di Ravenna, Cervia e Russi. Migliorare le condizioni di salute e di vita delle persone sottoposte alla pena detentiva, con attività socio educative, di socializzazione e interrelazione e per l’inserimento lavorativo, questi gli obiettivi degli undici progetti presenti nella graduatoria realizzata nell’ambito del programma “Promozione della salute in carcere, umanizzazione della pena e reinserimento delle persone in esecuzione penale. Piano distrettuale per la salute e il benessere sociale 2020. Programma interventi rivolti alle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale”. Il programma si inserisce nel quadro delle azioni realizzate a livello di Comitato locale per l’esecuzione penale adulti di Ravenna ed è parte integrante del Piano di zona per la salute e il benessere sociale del distretto di Ravenna, Cervia e Russi, in collaborazione tra l’assessorato alle Politiche sociali, la direzione della Casa Circondariale di Ravenna e l’UIEPE (Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna), insieme alle associazioni, cooperative sociali, società sportive e altri enti che presentano progetti di vario tipo: teatro, sport, cultura, gastronomia, informatica. Si rinnova anche quest’anno la proficua collaborazione con la direzione carceraria e con le realtà sociali, culturali e sportive della città per dare risposte concrete in tema di riabilitazione della pena per le persone detenute. Le risorse investite nel programma di promozione derivano dal fondo regionale che viene ripartito fra i comuni sede di carcere (diversi gli indicatori tenuti in considerazione per la ripartizione di fondi: popolazione detenuta, detenuti stranieri e numero di soggetti sottoposti a misure esterne di esecuzione penale). Per il 2020 sono stati assegnati al Comune di Ravenna 50.146,50 euro dalla Regione; ai quali il Comune aggiunge una quota di cofinanziamento, in misura non inferiore al 30%, per il costo di un dipendente con il ruolo di educatore per lo sportello informativo e per la gestione delle dimissioni con l’obiettivo di valutare il percorso più opportuno di reinserimento e di un funzionario per il coordinamento del progetto (22.191,87 euro); per un costo complessivo del progetto di 72.338,37 euro. I progetti di intervento si dividono in realizzati all’interno della casa circondariale e realizzati all’esterno, in altre aree e/o con misure alternative alla detenzione e di comunità. Lo Sportello informativo all’interno del carcere (gestito da Life Onlus) è una delle azioni portate avanti, con particolare attenzione verso gli stranieri e le persone prive di risorse familiari e relazionali al di fuori del carcere. Le attività sono programmate di concerto con la direzione carceraria e in collaborazione con tutte le realtà operanti all’interno della struttura con il coinvolgimento delle associazioni di volontariato. Napoli. Scabbia nel carcere di Poggioreale: detenuti infetti e isolati di Andrea Aversa vocedinapoli.it, 9 settembre 2020 Individuati tre casi circoscritti. Il Garante Ciambriello: “La Direzione sanitaria ha sottoposto tali detenuti ad un trattamento specifico”. Adesso è ufficiale, La Direzione sanitaria del carcere di Poggioreale ha confermato che nel padiglione Milano alcuni detenuti hanno contratto la scabbia. Dunque nel “Mostro di cemento” napoletano non è solo il Covid-19 a far paura. Nel penitenziario dove vi è il maggior numero di detenuti affetti da Hiv, ci sono - dunque - anche tre reclusi malati di scabbia. “Avevo segnalato la cosa già a luglio e ad agosto. - ha dichiarato il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello. Anche in merito alle malattie sessualmente trasmissibili”. “La Direzione sanitaria del carcere ha confermato i casi circoscritti al padiglione Milano - ha continuato Ciambriello contattato da VocediNapoli.it. Adesso i detenuti in questione sono stati isolati e trasferiti in reparti specifici. Queste persone sono oggi sottoposta a particolari trattamenti farmacologici”. Salerno. In otto in una cella di Fuorni: indennizzo all’ex detenuto La Città di Salerno, 9 settembre 2020 L’indennizzo per l’assenza di condizioni idonee di detenzione non è compensabile con le spese di mantenimento in carcere. La Cassazione (Sesta sezione civile) accoglie il ricorso di un ex detenuto del carcere di Fuorni, L.D., 39 anni, di Salerno, finito dietro le sbarre per reati legati al mondo degli stupefacenti, che si era visto sfumare il risarcimento perché il giudice di primo grado del tribunale di Salerno, Giorgio Jachia, nel riconoscergli la somma di circa 2400 euro, aveva applicato il principio del “maggior credito” verso lo Stato. E così il salernitano, assistito dall’avvocato Michele Capano, invece di incassare la somma decisa in sentenza, si era ritrovato a dare di 600 euro. La differenza. La Cassazione ha ribaltato la sentenza, cassandola. Per gli ermellini, “il Ministero della giustizia, chiamato in causa per il risarcimento dei danni patiti per le condizioni non idonee della detenzione, non può opporre in compensazione il credito maturato verso il detenuto per le spese di mantenimento in carcere, fintanto che non sia consumata la facoltà dell’interessato di chiedere la remissione del debito”. Su questo principio sancito dalla Cassazione, il Tribunale di Salerno è chiamato a ridiscutere il caso delle condizioni di detenzione del detenuto salernitano che, tra il mese di luglio del 2011 e quello di novembre di due anni dopo, si è ritrovato ristretto, per periodi diversi, insieme ad altri sette carcerati, facendo venire meno così il limite di tre metri quadrati stabilito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Il giudice di primo grado, nell’accogliere la domanda di riparazione del danno, ha quantificato in 299 i giorni trascorsi in “condizioni disumane”. il verdetto della cassazione rispecchia quello già deciso per altri casi di sovraffollamento nelle carceri italiane. Cuneo. L’esperienza trasformativa del carcere: se ne parla a Crocevia46 targatocn.it, 9 settembre 2020 Evento pubblico nell’ambito del progetto “Comuni-care”. La rete di partenariato del progetto Comuni-care (Percorsi di reinserimento sociale delle persone sottoposte a misure penali sui territori delle Città di Torino e della Provincia di Cuneo) organizza per il 18 settembre 2020, a partire dalle 17.30 presso Crocevia46, Corso Dante 46/C Cuneo, un incontro pubblico di presentazione del libro “La coscienza dell’ombra”, di cui è autore Fabrizio Pellegrino. Nel volume, l’Autore racconta la lotta interiore di un uomo privato della libertà, che cerca tra le rovine della sua vita le motivazioni per ricostruirla. Condizione indispensabile per innescare questa lotta è la conoscenza di sé, che passa attraverso l’esplorazione delle proprie ombre, delle pulsioni istintive, di solito ben chiuse in una camera blindata della mente. La coscienza dell’ombra è il viatico del cammino di liberazione di Fabrizio Pellegrino. Un cammino che ha trovato nella scrittura non soltanto uno strumento di espressione, ma anche e soprattutto una compagna disposta ad ascoltare, a spronare, a richiamare, a sventare fughe e scorciatoie: la scrittura è stata la zattera che mi ha permesso di attraversare la tempesta. Dialogherà con l’autore Enrico Santero, counselor della cooperativa sociale Emmanuele. Il progetto Comuni-care è il risultato di una collaborazione tra enti pubblici (Città di Torino, Uiepe Torino, garante dei diritti dei detenuti Comune di Cuneo, Provincia di Cuneo, Uepe Cuneo) e soggetti del terzo settore coordinati dalla cooperativa sociale Animazione Valdocco. Sul territorio della provincia di Cuneo il progetto vede da ormai due anni la collaborazione di Uepe Cuneo, Comune e provincia di Cuneo, cooperativa Emmanuele e Consorzio Iniziative Sociali (Cis) di Alba. “Notturno”. La vita dopo le guerre di Paolo Mereghetti Corriere della Sera, 9 settembre 2020 I bambini sopravvissuti all’Isis, l’Imam, le soldatesse. Rosi: “Un lavoro lungo tre anni, ho rischiato ma voglio offrire sguardi diversi sul Medio Oriente”. È lo stesso Gianfranco Rosi che offre le chiavi per interpretare “Notturno”, presentato ieri in concorso alla Mostra: un film che è “un’esplorazione dentro una regione e le sue genti, intrappolate all’interno di vetusti e coloniali conflitti che hanno diviso popoli ed etnie”, un viaggio durato tre anni che in certi momenti ha messo a rischio anche la sua incolumità mentre filmava tra il Kurdistan, la Siria e l’Iraq e che “inizia dove finiscono le notizie da consumare”. Propositi condivisibili, probabilmente alla base dei lavori di molti altri documentaristi che si sono confrontati con queste aree geografiche, ma che Rosi ha saputo declinare in un modo personalissimo, lasciando la guerra e la violenza alle spalle e cercando invece delle persone con cui in qualche modo identificarsi, verso cui poter entrare in sintonia. Ancora lui: “Sono rimasto lontano dalla linea del fronte e non ho seguito l’esodo dei profughi, ma sono andato loro incontro, là dove tentavano di ricucire le loro esistenze”, cercando di “raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno”. Ecco allora le madri curde che alzano le loro geremiadi nelle carceri vuote dove sono stati torturati e uccisi i loro figli; ecco l’imam (o forse solo un fedele) che attraversa di notte le strade della sua città alzando le preghiere al cielo; ecco le città che non smettono di essere animate anche al buio, dove un asino sembra essersi smarrito e interroga coi suoi occhi la macchina da presa; ecco le soldatesse che tornano dai loro turni di guardia e si scaldano mani e piedi intorno ai fornelli dove cuoce il rancio; ecco i ricoverati di un centro psichiatrico che cercano di mettere in scena uno spettacolo dove affrontare ed esorcizzare le scelte politiche di chi sta sopra le loro teste… Rosi non spiega dove ha filmato quelle scene, non ci dice a che esercito appartengano quelle soldatesse o quelli che abbiamo visto allenarsi nella prima scena. Non dice niente neanche dei ragazzi che danno l’impressione di squarciare con la loro umanità il resoconto di un mondo ferito e dolente: il giovane Alì che si adatta a mille lavori per aiutare i suoi fratellini; i piccoli sopravvissuti alla furia dell’Isis che caritatevoli maestre cercano di aiutare a liberarsi dai loro incubi. Né di quel cacciatore di frodo che sfida il coprifuoco per avventurarsi tra le paludi a caccia di anitre. Nelle sue scene sembra voler rispondere solo al “rigore cinematografico dell’inquadratura” e alla “complicità della luce” (ipse dixit), come alla ricerca di quella sintonia umana che gli ha fatto individuare le persone da filmare e che poi si è sforzato di riproporre sullo schermo. Ecco allora una prima possibile risposta al rischio che un’attenzione troppo forte verso la componente estetica rischi di snaturare quello che viene visto. È vero che alcune inquadrature, che alcune scene sembrano rispondere a un’esigenza di bellezza più che a un bisogno di “verità” ma è proprio dietro lo sforzo di restituire ai suoi protagonisti la fascinazione che aveva spinto Rosi a filmarli che si può leggere l’affetto (e quindi la preoccupazione, l’attenzione) del regista per i suoi soggetti. Restituirli sullo schermo con la forza e lo splendore con cui l’avevano colpito e affascinato, equivale per il regista a una specie di dichiarazione d’amore fatta arrivare al pubblico attraverso le immagini e non le parole (cosa di cui anche nei film precedenti era stato molto parco). Più che un documentario, allora, “Notturno”, assomiglia al diario di uno di quei viaggiatori dell’Ottocento che cercavano di riportare in patria il fascino e la bellezza dei luoghi visitati, poco interessati a leggere il significato politico e sociale di quello che avevano sotto gli occhi. Anche se questa accusa mi sembra alla fine ingenerosa per Rosi. Perché un film come questo possiede un suo indubbio significato “politico”, che è proprio quello di rifiutarsi di dare risposte. Quante volte abbiamo scosso la testa di fronte a chi proponeva analisi partigiane o errate? Quante volte abbiamo dovuto fare i conti con le sicurezze di chi (vero Bernard Henry Levy?) sapeva tutto di tutto per poi dover fare i conti con una realtà che non voleva essere ingabbiata in quelle certezze? Ecco, Gianfranco Rosi assume su di sé questa ignoranza e questa oscurità (non a caso il titolo è Notturno), la fa sua e arriva ad aggiungerne dell’altra, togliendo indicazioni geografiche, riferimenti razziali, coordinate politiche. Non solo non ha risposte, ma vuole ricordarci che quelle che pensiamo di avere spiegano poco o niente. Così è meglio aprire gli occhi e guardare. I diritti hanno le loro pretese e non dipendono dalla volontà dei titolari di Adriano Sofri Il Foglio, 9 settembre 2020 Ogni tanto le parole che usiamo ogni giorno, molte volte al giorno, ci paiono d’un tratto nuove e strane, come se fosse la prima volta. La parola “diritti”, a me ieri. Prima per la notizia su Cesare Battisti, in carcere a Oristano, che ha deciso di ricorrere allo sciopero della fame e della terapia perché ritiene violati i suoi diritti. Che questo Cesare Battisti abbia dei diritti è un’idea che suona assurda e oltraggiosa a moltissime persone, prima ancora che abbiano avuto il tempo di riflettere, e a molte anche dopo aver riflettuto. Tutto il suo comportamento sembra loro aver metodicamente bruciato la quota di diritti di cui ciascuno dispone all’origine, amministrandoli ragionevolmente o giocandoli d’azzardo fino alla bancarotta. Sentono che lui, Battisti, la sua parte l’ha dilapidata senza resto e ora il nome di diritto non può più pretendere di associarsi al suo nome. C’è un problema: che “i diritti” non sono una manifestazione, o addirittura la manifestazione principale, della proprietà privata. “I diritti” hanno le loro pretese, la prima delle quali è di rifiutarsi di dipendere dalla volontà e dagli atti dei loro singoli titolari. Qualunque cosa facciano, alcuni diritti restano attaccati loro addosso. Meglio ripassare sommariamente la cosa, ho pensato. Ho aperto la lunga voce “Diritti umani” di Wikipedia, la premessa dice: “Diritti umani (o diritti dell’uomo) rappresentano i diritti inalienabili che ogni essere umano possiede”. Prima di continuare, mi dico che “inalienabili” vuol dire che nessuno può toglierglieli, a “ogni essere umano”. E che la menzione del possesso - “che ogni essere umano possiede” - è forse anch’essa affrettata, perché i “diritti umani” sono inalienabili dallo stesso loro titolare, quando pretenda che a violarli sia un altro, persona o istituzione. Sono padrone di me stesso, ma non posso pretendere di essere torturato, o che lo Stato mi metta a morte, poiché la pena capitale è bandita. (Possiamo ignorare, in questo contesto, la distinzione fra possesso e proprietà). Continua la premessa generale: “Tra i diritti fondamentali dell’essere umano si possono ricordare: il diritto alla libertà individuale, il diritto alla vita, il diritto all’autodeterminazione, il diritto a un giusto processo, il diritto a un’esistenza dignitosa, il diritto alla libertà religiosa…, oltre che il diritto alla protezione dei propri dati personali (privacy) e il diritto di voto”. Il fondamentale diritto all’habeas corpus tutela contro gli abusi del sistema giudiziario, compreso “l’eccesso di punizione”. Cesare Battisti (con lui il suo difensore) lamenta di essere recluso in isolamento diurno da un anno e mezzo, quando la pena ulteriore che gli era stata inflitta prevedeva che l’isolamento diurno durasse 6 mesi, sicché è stata scontata interamente da oltre un anno. A questa protrazione, denunciata come illegittima, Battisti associa “una contesa continua, estenuante e che coinvolge gli atti più ordinari del mio quotidiano: l’ora d’aria; l’isolamento forzato e ingiustificato; l’insufficiente attendimento medico; la ritenzione arbitraria di testi letterari; le domandine sistematicamente ignorate; oggetti di varia utilità e strumenti di lavoro negati, anche se previsti dall’ordinamento penitenziario, ecc.”. Battisti richiama “i diritti previsti in legge ma sempre ostinatamente negati”. Ora, qualunque percorso abbia portato Battisti alla cattura e alla galera, ciò che lo stato può e deve fare nei suoi confronti è di detenerlo a norma di legge finché non si dichiari matura un’alternativa, non di vendicarsene, per conto proprio o, peggio, della “società”. La situazione ha già dei tratti paradossali, perché la magistrata di sorveglianza competente a valutare la detenzione di Battisti ha constatato che “nel corso della carcerazione subita ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, facendo, inoltre, registrare una condotta regolare”, concedendogli di conseguenza i 45 giorni di riduzione della pena per semestre previsti dalla legge. Per concludere: i diritti che Battisti rivendica, salvo prova contraria, gli appartengono, ma dovrebbero impegnare altrettanto le autorità incaricate della sua reclusione, per così dire indipendentemente dalla sua stessa volontà. E anche i cittadini, qualunque sentimento provino. Non si ricorderà mai abbastanza quanto la violazione della legge compiuta da chi è investito dell’autorità per farla rispettare sia incomparabilmente più grave di quella compiuta da soggetti privati. I “diritti umani” seguono, e perfino perseguitano, chiunque, qualunque sia il suo passato e la sua intenzione: è l’unica persecuzione consentita e anzi obbligata. Ho un’appendice, sempre dalle cronache di ieri. Su Repubblica due autori a me cari come Francesco Merlo e Michele Serra hanno sostenuto due posizioni, o due stati d’animo, opposti a proposito del cittadino francese, Alain Cocq, 57 anni, malato senza speranza di guarigione da quando ne aveva 23, cattolico e militante per il diritto a morire dignitosamente. Respinte tutte le richieste di assisterlo nel metter fine a una vita attaccata a cannule e morfina, Cocq aveva deciso di mostrare la propria agonia attraverso Facebook, che glielo ha impedito. La posizione di Merlo, solidale e nostalgica di un “giovane Pannella” capace di andare a tenere la mano di Cocq e servirgli da portavoce pubblico, e quella di Serra, spaventata da “una crescita esponenziale dell’esposizione pubblica volontaria della propria vita, del proprio corpo, dei propri spazi interni (domestici e psichici)”, hanno ambedue buonissime ragioni. Ho un’obiezione di fondo a Serra, dove ha scritto: “Perfino alla politica, che è cosa pubblica per eccellenza, non riconosco il diritto di mettere in piazza tutto ma proprio tutto. Dunque neppure ad Alain Cocq”. L’obiezione riguarda quella famosa paroletta: diritto. Serra l’ha impiegata in un’accezione morale e, per così dire, estetica nel migliore dei sensi, credo, quanto alla politica, ma non può fare altrettanto nei confronti di Alain Cocq. Non può “non riconoscergli il diritto”. Ce l’ha, riguarda la sua vita, il suo corpo - lui - la sua autodeterminazione. Tutto, ma proprio tutto. Dai soliti sospetti (dei buoni maestri) al complottismo di Marco Rovelli Il Manifesto, 9 settembre 2020 Qual è il discrimine tra il sospetto doveroso che abbiamo diffuso e questo? La risposta più ovvia è la competenza per giudicare, certo, lo studio da applicare alle cose, dove il culto dell’individuo-sovrano fondato nell’era neoliberista invece pensa di poterne fare a meno in maniera del tutto legittima, e i social network sono evidentemente il diffusore principe e perfetto per questo trionfo di un sé che vive permanentemente allo specchio. Non immaginavo certo che il “sospetto” che abbiamo appreso a mettere in atto dai “maestri”, e che abbiamo a nostra volta diffuso, insegnato, sarebbe divenuta una cifra così devastante del nostro presente. Sospettate delle verità del potere, dicevamo, non credetegli, guardate oltre le apparenze. Pensate con la vostra testa. Seguite i soldi, per capire a chi giova. Le multinazionali sono i poteri forti a livello planetario, dicevamo (fino agli esiti imper-semplificatori dello Stato Imperialista delle Multinazionali, il SIM, che le Brigate Rosse indicavano come il nemico). E via dicendo, ci siamo capiti immagino, stiamo parlando di un lessico e di una sintassi che appartengono alle nostre cornici concettuali. Ed eccolo, questo spirito del tempo, è dominato dal sospetto. Nessuno crede più a niente. E ognuno pensa con la propria testa (così credono), e si fa giudice di tutto. Delle big pharma con i loro vaccini, dei virus che sono una truffa per manipolarci, della tecnologia 5G e microchip idem, dei poteri forti Bill Gates e Soros che controllano il tutto, delle migrazioni governate dal piano Kalergi, e via straparlando. Il sospetto ha vinto. E dunque: abbiamo vinto? Non si direbbe. Qual è il discrimine tra il sospetto doveroso che abbiamo diffuso e questo? La risposta più ovvia è la competenza per giudicare, certo, lo studio da applicare alle cose, dove il culto dell’individuo-sovrano fondato nell’era neoliberista invece pensa di poterne fare a meno in maniera del tutto legittima, e i social network sono evidentemente il diffusore principe e perfetto per questo trionfo di un sé che vive permanentemente allo specchio. A un livello più profondo, c’è che quel sospetto non può vivere se non affonda la propria pratica nel pensiero della complessità, e invece la semplificazione domina. Senza la complessità e l’astrazione del pensiero, il sospetto si incarna in puerili elaborazioni mitologiche, che vivono di ipostasi inconsapevoli, dei cattivi Soros e Gates che tessono una tela di ragno attorno al mondo. Non è certo colpa di Marx, Nietzsche e Freud, dunque, quelli che Ricoeur aveva appunto chiamato “i maestri del sospetto”, perché il loro sospetto viveva in una complessità profonda. Marx, per esempio, ci ha insegnato che occorre guardare alla struttura del funzionamento del capitale, al suo meccanismo, non ai soggetti che incarnano quel meccanismo. E lo stesso vale per i cosiddetti poststrutturalisti, da Foucault a Deleuze, quando parlavano di “morte del soggetto”: guardiamo alle pratiche, ai dispositivi, al divenire in cui ogni individuo è immerso e da cui ogni individuo è trasceso. Deleuze non parlava di SIM. (Certo, sto ipersemplificando). Se si smarrisce questo pensiero complesso, ci si perde in fantasmagorie che, partendo dal dubbio del sospetto, arrivano in realtà a frantumare ogni forma di dubbio, e risolvono ogni contraddizione. E invece la contraddizione è la legge del pensiero di cui non si può fare a meno, se non si vuole cadere in queste forme embrionali e mitologiche di pensiero con cui siamo a fare i conti, che si incardinano nella credenza di entità stabili, individuali, in un piano ordito come una trama di un film, nei Soggetti che sono il fondamento metafisico di ogni realtà (Ed è qui, in ultima analisi, la differenza tra i complottismi odierni e la controinformazione su “piani” specifici, spaziotemporalmente connotati, dalla strategia della tensione al Watergate). E del resto il concetto metafisico correlato a queste fantasmagorie mitologiche è quello di Identità, la parola chiave dell’epoca del sovranismo. Basti vedere, ad esempio, i soggetti che hanno organizzato la manifestazione di Roma di novax, nomask e compagnia brutta, che sono gli stessi che organizzano il convegno “Identità”, con relatori quali Dugin, Fusaro, Cunial, Meluzzi. Personaggi poco seri, certo, sui quali potremmo pure farci solo due risate, se non fosse che sono il sintomo di tendenze ben più profonde che determinano il senso comune. Come diffondere il pensiero della complessità e delle contraddizioni nell’epoca di un pensiero ipersemplificato, ecco la vera questione politica. Che certo, se la pensi nel contesto dato, induce alla disperazione. Confidiamo sempre nell’ottimismo della volontà, quella non deve mancarci. Migranti. Il ministro Lamorgese promette più soldati ai confini di Marinella Salvi Il Manifesto, 9 settembre 2020 Sono stati 3.059 i migranti arrivati in Friuli Venezia Giulia nel 2020 e certo la pandemia ha complicato tutto. Problemi da gestire, non pochi. Da qui la visita ieri a Trieste della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che ha incontrato i vertici delle istituzioni regionali ed una ventina di sindaci. Impressionante il commento del Presidente leghista della Regione Fedriga all’uscita dell’incontro: “Abbiamo comunicato al ministro che non si tratta di discutere come e dove organizzare l’accoglienza: i migranti irregolari non devono più presentarsi ai nostri confini. Non ci sono caserme o navi dove tenerli in albergo, di questo non ci mettiamo neanche a discutere”. Chissà se si riferiva al trattamento alberghiero nella ex caserma Cavarzerani o nel Cpr di Gradisca. Zero diritti e nemmeno la parvenza di rispetto della dignità. La sindaca di Gradisca ha ribadito anche davanti al ministro la sua annosa richiesta di chiusura del Cpr ma nessuno ha raccolto e Fedriga non ha apprezzato: “Con la stragrande maggioranza dei sindaci mi sono trovato in perfetta sintonia. Solo qualche sindaco di sinistra ha tirato fuori discorsi sull’accoglienza diffusa e cose così. È una follia. Evidentemente non c’è cognizione della situazione”, ha scandito. Il nodo più aggrovigliato resta quello dei minori non accompagnati e non sembra proprio ci sia stata una divisione tra i sindaci presenti: chi vive quotidianamente lungo la fascia confinaria conosce bene i problemi e vede le possibili soluzioni. I sindaci, unitariamente, hanno chiesto un tavolo di concertazione per chiarire chi e come debba intervenire soprattutto nella fase acuta, quando si rintracciano i migranti e scatta l’obbligo di quarantena. Regione, Comuni, Ausl, prefetti, forze di polizia, tutti devono partecipare perché è necessario un protocollo preciso, l’organizzazione dell’accoglienza deve essere strutturata Un problema sui minori? Secondo la Regione va cambiata la legge: basta tutele, anche loro se ne devono andare via da qui. E Lamorgese? Non ha accolto la richiesta della Regione di chiudere i valichi minori con la Slovenia (e i lavoratori transfrontalieri o i bimbi che frequentano scuole al di là del confine, possono tirare un sospiro di sollievo). La protezione civile regionale è disposta a fornire droni e foto-trappole? Grazie, vedremo, per adesso basta un serio dispiegamento di uomini che verrà rapidamente incrementato e, soprattutto, continuare a combattere i passeur perché resta questo, secondo la ministra, il problema più drammatico. Rivedere la normativa sui minori non accompagnati? Ci si può pensare, perché no, ma è anche vero che il Friuli Venezia Giulia è l’unica regione che non ha presentato alcun progetto per affrontare le necessità peculiari di questa tipologia di accoglienza. Ci sarebbero anche fondi a disposizione, volendo, ha precisato il ministro. Scontate le conclusioni di Fedriga: “Se tutti i governatori di centro-destra firmassero un atto come quello di Musumeci, allora sì che metteremmo in crisi il governo”. Migranti. Amnesty accusa Malta: “Nel Mediterraneo abusi e illegalità” di Giansandro Merli Il Manifesto, 9 settembre 2020 Il rapporto presentato ieri documenta numerosi episodi accaduti nei primi sei mesi dell’anno. La Valletta è responsabile, ma l’Unione Europea non è assolta. “Serve un meccanismo automatico di redistribuzione di chi sbarca”. Dodici persone potrebbero essere ancora vive se non fossero state abbandonate per sei giorni in mare. Viaggiavano con altri 51 esseri umani su un barcone partito dalla Libia il 9 aprile scorso. Avevano raggiunto la zona Sar maltese, ma il 15 sono state ricondotte illegalmente a Tripoli. Il “respingimento di Pasquetta” lo ha condotto da un peschereccio libico che però era ancorato a Malta. Quando è giunto sulle coste nordafricane trasportava cinque cadaveri. Altri sette erano rimasti in mare. Secondo i sopravvissuti, poi rinchiusi nei centri di detenzione, qualcuno aveva a raggiungere a nuoto una nave portoghese, la Ivan. Questo episodio, già denunciato da inchieste giornalistiche e Alarm Phone (Ap), è il più grave di quelli raccolti nel rapporto “Malta: onde di impunità”, pubblicato ieri da Amnesty International. Il più grave, ma non l’unico. Al contrario il dossier descrive un sistema articolato e molteplice di contrasto dei flussi migratori. Amnesty ha registrato nei primi sei mesi del 2020 quattro tipi di eventi che comportano violazioni dei diritti di rifugiati e migranti. Oltre a quello menzionato, ci sono i respingimenti del 14 marzo di 49 e 110. E poi gli episodi in cui Malta ha negato il soccorso e reindirizzato le barche verso l’Italia. La procura di Ragusa ha aperto un’inchiesta sul caso di 101 sopravvissuti partiti dalla Libia tra il 9 e il 10 aprile e arrivati a Pozzallo il 12. Video mostrano le forze armate maltesi indicare loro la direzione verso cui proseguire e addirittura rifornirli di benzina e cambiare il motore. Le coste sullo sfondo rendono altamente probabile che l’episodio si sia svolto in acque territoriali. Il quarto comportamento lesivo dei diritti è il trattenimento dal 30 aprile al 6 giugno di 425 persone su quattro navi ancorate a 13 miglia dall’isola. La motivazione ufficiale è una (prolungata) quarantena, ma per Amnesty è stata una forma di detenzione. Tra l’1 gennaio e il 31 agosto sono sbarcati a Malta 2.161 migranti, un numero limitato ma “considerevole” per un paese con una popolazione inferiore a 500mila abitanti (nello stesso periodo in Italia ne sono giunti 19.194, cioè quasi nove volte tanti a fronte di un numero di abitanti 120 volte superiore). Il rapporto di Amnesty, dunque, sottolinea le responsabilità europee e soprattutto l’urgenza di stabilire un sistema automatico di redistribuzione dei migranti. “L’assenza di questo meccanismo però - precisa il rapporto - non solleva Malta dalla responsabilità di indicare un porto sicuro per lo sbarco delle persone salvate sotto il suo coordinamento”. Come i 27 naufraghi che da 35 giorni si trovano a bordo della petroliera Etienne e su cui il governo di La Valletta sta conducendo una prova di forza. Nonostante le condizioni a bordo si siano deteriorate, nonostante gli appelli di Unchr, Oim, Ics e Commissione europea la nave è ancora bloccata. La Etienne ha salvato i naufraghi il 4 agosto. Erano stati avvistati dall’aereo Moonbird, di Sea-Watch e Humanitarian Pilots Initiative. Ieri le due Ong hanno comunicato che da venerdì il velivolo non può decollare da Lampedusa a causa di un divieto emesso dall’Ente nazionale per l’aviazione civile (Enac) su segnalazione del ministero dell’Interno. L’accusa è una “intensissima attività di volo” che rappresenta “ricerca e soccorso (Sar, ndr) non autorizzata e non coordinata”. Dopo le navi bloccate in porto per i troppi salvagenti, è il turno degli aerei tenuti a terra perché testimoni scomodi. “Moonbird non svolge attività Sar ma una intensa e importante attività di monitoraggio dei diritti umani in un tratto di mare dove questi vengono quotidianamente violati”, replicano da Sea-Watch. Sentenze da manuale: dittatori buoni e dittatori cattivi di Alberto Negri Il Manifesto, 9 settembre 2020 Ci sono dittatori buoni e dittatori cattivi e noi, popoli etero-diretti ed etero-determinati, come spiegava ieri Tommaso Di Francesco sul manifesto, sappiamo bene come fare la lista. Cinque persone senza nome sono state condannate a 20 anni di prigione a Riad per l’omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi, torturato e fatto a pezzi il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita a Istanbul. Un processo farsa del principe Mohammed bin Salman mandante dell’assassinio, al quale Usa e Occidente vendono armi a tutto spiano e stringono la mano sorridenti. I dittatori buoni - è semplice - sono quelli che ci pagano. Della nostra ipocrisia e insipienza diamo prova ogni giorno. Certo tutti vorremmo sapere come e da chi è stato avvelenato Navalny e che fine ha fatto Maria Kolesnikova, l’ultima leader anti-Lukashenko. L’Occidente e l’Europa sono già pronti a cadere nella trappola e a mettere sanzioni a Mosca e a Minsk, regimi opachi e autocratici. Sulla nostra stampa è un coro di peana contro le dittature. Ma non si legge mai un articolo che si proponga di sanzionare l’Arabia saudita, Paese che vìola sistematicamente i diritti umani, o gli Emirati arabi uniti che con Riad hanno portato la guerra in Yemen uccidendo migliaia di persone con i loro caccia acquistati dagli Usa e armati da bombe micidiali di marca tedesca fabbricate in Sardegna. Anzi i monarchi assoluti di questi Paesi, dove quando vai a lavorare ti ritirano subito il passaporto per farti capire che non solo ti pagano profumatamente ma posseggono anche la tua vita, vengono adulati e coccolati. Sono pieni di petrolio e i loro miliardi viaggiano per il mondo, oltre che per acquistare armamenti e razzi spaziali, per sponsorizzare mostre e fiere d’arte: comprano la nostra cultura pur di avere una buona stampa. I sauditi hanno regalato agli Emirati per 450 milioni di dollari il Salvator Mundi di Leonardo, opera di assai dubbia attribuzione che doveva essere esposta in pompa magna al Louvre di Abu Dhabi. Pare che da qualche tempo sia sparito, forse per intervento di Macron avvertito che stavano per screditare anche il Louvre. Gli Emirati si sono comprati pure l’isola di Socotra, hanno saccheggiato il patrimonio archeologico dello Yemen e lo mettono in mostra come prova delle antiche origini della loro civilizzazione. Per di più a Socotra, rimasta intatta per secoli, ci vogliono portare i loro nuovi amici, gli israeliani, per insediare una base militare e sorvegliare i cieli e i mari dell’Oceano. Queste monarchie sanguinarie e anti-democratiche sono adesso i nostri migliori amici anche perché hanno fatto o si preparano a fare la pace con Israele e a costituire con l’Egitto un’alleanza tra Stato ebraico e arabi che deve mettere ordine in Medio Oriente. Una sorta di Nato araba che deve tenere a bada l’Iran degli ayatollah e la Turchia di Erdogan che infastidiscono assai i padroni del vapore. Loro, i nostri cari monarchi assoluti, ci mettono i soldi, gli americani e gli israeliani la tecnologia e l’intelligence, gli egiziani la carne da cannone per le truppe. E noi europei e italiani vendiamo la nostra quota di armamenti facendo pure finta di lodare i risultati dell’industria aerospaziale degli Emirati, che mandano razzi nello spazio, ma dove a terra non si trova neppure un meccanico d’automobile. Insomma balle spaziali cui diamo credito perché, come al solito, ci pagano. Ma i veleni corrono anche dalle loro parti, non soltanto in Siberia. Il notiziario online Middle East Eye ci informa che il figlio dell’ex presidente Morsi, abbattuto nel 2013 dal generale al-Sisi con un golpe sanguinoso, è stato avvelenato. Abdullah Morsi, 25 anni è deceduto il 4 settembre 2019 in un ospedale del Cairo a Giza: ufficialmente per un attacco di cuore, in realtà perché gli è stata iniettata una dose di veleno. Ma nessuno chiederà il conto di questo omicidio ad al-Sisi, i cui poliziotti hanno torturato e ucciso Giulio Regeni insieme a migliaia di oppositori egiziani. Morsi era uno dei capi dei Fratelli Musulmani detestati dalle monarchie del Golfo che a loro volta pagano l’Egitto, gli comprano armi e tengono in piedi le finanze del Cairo. E poi pagano anche noi per stare zitti. Ecco con che gente stiamo e chi siamo. Grecia. Vasto incendio nel mega campo profughi di Lesbo, migranti in fuga La Repubblica, 9 settembre 2020 La struttura ospita 12.700 rifugiati, in migliaia fuggono dai roghi. Sull’isola era scattato il lockdown a causa di alcuni casi di Covid-19. Il campo profughi di Moria, a Lesbo, viene evacuato in seguito a un incendio che, dicono i vigili del fuoco locali, sarebbe divampato in più punti per ragioni ancora da chiarire. Il campo sull’isola greca, crocevia dei flussi migratori, è stato parzialmente evacuato. La struttura al momento accoglie 12.700 richiedenti asilo (quattro volte la sua capienza teorica) ed è la più grande d’Europa. In un primo momento sembrava che i roghi fossero frutto di una protesta contro il lockdown imposto per ridurre le possibilità di contagio da Covid-19, ma le autorità greche hanno smentito questa ipotesi sollevata dai media locali. I vigili del fuoco avrebbero però incontrato resistenze durante i soccorsi. Nessuno, al momento, risulta rimasto ferito, ma sarebbero migliaia i migranti in fuga dalla struttura. Le restrizioni sono state imposte dopo che un rifugiato somalo è risultato positivo al virus. I casi finora rilevati sono stati 35 e ora le autorità sanitarie dell’isola hanno programmato una batteria di test su un numero più alto di persone che risiedono nel campo. Repressione in Bielorussia: l’Ue prepara le sanzioni, ma Lukashenko non sarà nella lista di Alberto D’Argenio La Repubblica, 9 settembre 2020 Bruxelles chiede il rilascio dei dissidenti politici, a partire da Kolesnikova. Sherpa al lavoro sui 31 nomi da colpire. Polonia e Paesi baltici premono per l’inclusione del presidente, ma il resto della Ue (Italia compresa) vogliono tenere una porta aperta per il dialogo. L’Europa chiede il rilascio immediato dei dissidenti politici arrestati in Bielorussia a partire da quello di Maria Kolesnikova, l’oppositrice rapita dalle forze di sicurezza di Aleksandr Lukashenko e secondo i suoi compagni detenuta nella regione di Gomel. Bruxelles schiera i massimi livelli dei suoi vertici politici e intanto lavora a un set di sanzioni che andranno dal divieto di ingresso nell’Unione al congelamento dei beni e colpiranno i vertici del regime di Minsk. L’impianto sanzionatorio dovrebbe essere approvato il 21 settembre dai ministri degli Esteri europei per diventare operativo entro poche settimane. Gli sherpa al lavoro sulle ritorsioni al momento hanno messo nel mirino 31 persone ritenute responsabili dei brogli e della repressione. Gli europei sono pronti a colpire anche i massimi livelli politici di Minsk, tanto che nella lista delle personalità che saranno oggetto di sanzioni al momento risulta anche il ministro dell’Interno bielorusso. Nella lista non dovrebbe però entrare Lukashenko, sebbene alcuni paesi dell’Unione, come Polonia e soprattutto i baltici, spingono affinché anche “l’ultimo dittatore d’Europa” venga sanzionato. Tuttavia gli altri governi, tra i quali anche quello italiano, al momento non vogliono colpire il presidente per non precludere le residue speranze di una soluzione negoziata della crisi bielorussa. “Siamo profondamente preoccupati per l’arresto di Maria Kolesnikova - ha affermato ieri in giornata il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli - chiediamo piena chiarezza sul suo caso e il rilascio immediato di tutti i prigionieri politici in Bielorussia. Siamo al fianco del popolo bielorusso nella sua lotta per la democrazia”. A nome dei governi invece si è espresso l’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell: “L’Ue si aspetta che le autorità bielorusse garantiscano il rilascio immediato di tutti i detenuti per motivi politici prima e dopo le elezioni presidenziali fraudolente del 9 agosto”. Per Bruxelles “la repressione da parte della autorità nei confronti della società civile, dei manifestanti pacifici e di attivisti politici è inspiegabile, arbitraria e totalmente inaccettabile”.