Giorgis: “Ora diamo piena attuazione alla funzione rieducativa della pena” Il Dubbio, 8 settembre 2020 L’intervento del Sottosegretario alla Giustizia alla festa dell’Unità. “Dare piena ed effettiva attuazione alla funzione rieducativa della pena, come prevede l’articolo 27 della Costituzione, si traduce in beneficio non solo per il condannato ma per l’intera collettività, perché riduce i rischi di recidiva e così aumenta la sicurezza cittadini”. A dirlo è il sottosegretario alla Giustizia, il piddino Andrea Giorgis, intervistato durante la Festa Nazionale dell’Unità a Modena, che ha inserito la Giustizia tra le grandi sfide per il futuro dell’Italia. “Tra i cantieri strategici che il Partito Democratico propone per innescare una crescita che non lasci indietro nessuno - ha infatti spiegato il sottosegretario - c’è anche quello della Giustizia. Laddove la giustizia è assicurata in tempi adeguati e il contenzioso viene ridotto all’essenziale, come dimostrano gli studi economici e comparati, vi è più sicurezza “reale e percepita”, e vi sono più possibilità di sviluppo”. “In questa prospettiva - ha aggiunto il dem il governo è impegnato ad assicurare all’amministrazione della giustizia nuove ed importanti risorse, materiali e di personale, e ha convenuto di presentare diversi disegni di legge volti rispettivamente a riformare il processo civile, il processo penale e il Consiglio superiore della magistratura. Accanto a queste riforme occorrerà intervenire sull’ordinamento penitenziario, dando seguito a quello straordinario lavoro di analisi e di proposte che emerse dagli Stati Generali dell’esecuzione penale voluti dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando. In questa prospettiva - ha proseguito Giorgis - va ricordato come, segnando una netta discontinuità con il precedente governo giallo-verde, nella legge di Bilancio 2020, si sia stabilito, tra l’altro, di procedere all’assunzione di 168 nuove unità di personale destinato all’esecuzione penale esterna e, durante la fase dell’emergenza Covid-19, siano stati predisposti dal Dipartimento per la giustizia minorile di comunità e dalla Cassa delle ammende, progetti per consentire, attraverso il coinvolgimento del terzo settore, l’esecuzione della pena fuori dal carcere anche a chi non dispone di un domicilio idoneo”, ha concluso. Gli rigettano le istanze per i domiciliari, muore dopo 60 giorni di sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2020 Carmelo Caminiti, detenuto con gravi problemi di salute, dopo la richiesta di domiciliari causa Covid aveva iniziato la protesta Il suo avvocato: qualcuno dovrà risponderne in giudizio. Alla fine è morto. Dopo 60 giorni di sciopero della fame, il recluso Carmelo Caminiti è finito in coma e ieri notte ha esalato l’ultimo respiro. Le sue condizioni di salute erano già gravi, tanto da aver chiesto gli arresti domiciliari ma si è visto respingere l’istanza. Una vicenda riportata sulle pagine de Il Dubbio grazie alla denuncia portata avanti dall’associazione Yairaiha Onlus. La gip ha concesso i domiciliari ospedalieri il giorno stesso che è uscito l’articolo, ma oramai è stato troppo tardi. A darne notizia del decesso è la sorella. “Sequestrando la salma - racconta drammaticamente la famigliare a Sandra Berardi, presidente dell’associazione - e sicuramente volendo fare l’autopsia credo che sia scontato il fatto che vogliano verificare quello che non hanno fatto prima: lasciare un uomo alla deriva, indurlo e accompagnarlo alla morte come un agnello al macello”. Poi aggiunge: “Nel 2020 non si lascia un uomo a digiuno per 60 giorni incuranti che tali decisioni erano dettati da uno stato di depressione e mala salute”. Carmelo Caminiti è stato un detenuto in attesa di giudizio presso la casa circondariale di Messina. Come ha segnalato l’associazione Yairaiha, viene arrestato dalla procura di Firenze a novembre 2017. A maggio del 2018 gli vengono concessi gli arresti domiciliari per varie patologie (tra cui diabete, stenosi, canali atrofizzati e altre) per le quali gli è già stata riconosciuta invalidità civile; a novembre del 2018 viene arrestato nuovamente dalla procura di Reggio Calabria. L’ 11 marzo 2019 gli arriva un mandato di cattura dalla procura di Brescia con le stesse accuse di Firenze. Viene infine trasferito al carcere di Messina al centro clinico. Durante l’emergenza Covid 19 gli avvocati presentano istanza in quanto soggetto a rischio. I tribunali di Firenze e Reggio Calabria, vedendo la relazione medica del dirigente sanitario del carcere di Messina riconoscono l’incompatibilità carceraria, ma il gip di Brescia - pur riconoscendo le sue gravi patologie - rigetta l’istanza, non concede gli arresti essendo un “soggetto pericoloso” ai sensi dell’articolo 7, ovvero l’aggravante del metodo mafioso. A dirlo è l’avvocato difensore Italo Palmara, che commenta la vicenda del suo assistito. “Nello stesso momento in cui il Tribunale di Reggio Calabria e quello di Firenze hanno giudicato in due differenti procedimenti il mio assistito incompatibile col regime carcerario per gravi motivi di salute - spiega l’avvocato-, in un terzo procedimento il Tribunale di Brescia, inspiegabilmente e a fronte della medesima documentazione medica, lo ha ritenuto compatibile col regime carcerario ed ha rigettato ogni mia richiesta di scarcerazione”. La situazione però si aggrava. I legali fanno ulteriori istanze per la concessione dei domiciliari. Il 30 maggio Carmelo Caminiti inizia a fare lo sciopero della fame e sete perché si sente vittima di un sopruso. L’ 11 agosto si aggrava e finisce in coma. L’avvocato ha presentato quindi un’altra istanza urgente, ricordando il rigetto delle istanze precedenti nonostante le documentate gravissime patologie che già presentava il detenuto. Ha ricordato come il Gip, motivando il mancato accoglimento dei domiciliari, scrisse che “il pericolo per la salute del detenuto in relazione all’emergenza sanitaria in atto è evocato solo in termini astratti”. L’avvocato Palmara del foro di Reggio Calabria, nell’istanza, ha anche fatto presente di aver conferito con la dottoressa, la quale ha definito la situazione “gravemente compromessa”. Alla fine, come detto, il giorno stesso che è uscito l’articolo, ovvero il 21 agosto scorso, arriva la concessione degli arresti domiciliari. Tempo due settimane, Caminiti muore. In merito alla morte, l’avvocato commenta duramente: “Chi si è reso responsabile di tutto ciò dovrà rispondere giudizialmente del suo operato. Anche se, purtroppo, a giudicarlo sarà qualche suo collega e dunque non nutro grosse speranze che i familiari possano finalmente ottenere giustizia, perché, come si dice, “lupo non mangia lupo”. “Risposte troppo lente della magistratura di sorveglianza” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 settembre 2020 Interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti al Ministro Bonafede. La magistratura di sorveglianza spesso non risponde alle istanze dei detenuti, in particolare alle richieste di concessione dei giorni di liberazione anticipata. A denunciarlo è l’esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini. Si riferisce a una problematica riscontrata al carcere di Rebibbia, ma che sembra riguardare anche i penitenziari di Parma e di Milano-Opera. Di tale situazione si è fatto portavoce il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti con l’interrogazione parlamentare a risposta scritta rivolta al ministro della Giustizia. Tale atto è anche dovuto dal fatto che il parlamentare, insieme a Rita Bernardini, il 15 agosto 2020 ha visitato la casa di reclusione di Rebibbia, nell’ambito dell’iniziativa del Partito Radicale “Ferragosto in carcere”. “Nonostante le difficoltà causate dalla prolungata e persistente emergenza Covid-19 - si legge nell’interrogazione -, è stato riscontrato un clima disteso dovuto innanzitutto alle notevoli capacità organizzative, di presenza e di dialogo della direttrice, dottoressa Nadia Cersosimo”. Ma un problema serio segnalato dai detenuti riguarda i rapporti con la magistratura di sorveglianza che, sottolinea Giachetti nell’interrogazione, “risponde tardivamente e spesso proprio non risponde alle istanze dei detenuti, in modo particolare, alle richieste di concessione dei giorni di liberazione anticipata”. Un problema serio perché, come precisa Giachetti, i ritardi della concessione della liberazione anticipata possono compromettere l’accesso alle misure alternative e, nei casi più gravi, la legittima scarcerazione del detenuto. “L’inefficienza del tribunale e degli uffici di sorveglianza di Roma - prosegue Giachetti - forse dovuta all’enorme carico di lavoro e alla carenza di personale soprattutto di tipo amministrativo, è stata segnalata all’onorevole Rita Bernardini anche da diversi detenuti della casa circondariale di Rebibbia del Nuovo Complesso attraverso email del servizio a disposizione dei reclusi “maidiremail”. Problemi che riguarderebbero anche gli uffici di sorveglianza di riferimento delle carceri di Parma e di Milano- Opera. Poiché lo sconto di pena di 45 giorni ogni semestre, concesso ai detenuti che abbiano tenuto un comportamento detentivo corretto e abbiano partecipato all’opera di rieducazione, raramente viene rigetta-to dagli uffici di sorveglianza, ad avviso di Giachetti “potrebbero prevedersi meccanismi meno farraginosi e complessi”. Per questo propone un meccanismo semi-automatico che investa la direzione del carcere la quale, in stretto contatto con i funzionari dell’area giuridico- pedagogica costantemente informati sulla condotta dei reclusi, potrebbe, in caso di assenza di rilievi disciplinari, concedere senz’altro il beneficio. “Laddove, invece, - spiega Giachetti nell’interrogazione - sussistano a carico del detenuto richiami, rapporti o sanzioni comportamentali, la valutazione dell’istanza resterà di competenza del magistrato di sorveglianza”. Quindi si rivolge al ministro per sapere se sia a conoscenza dei problemi segnalati, se sia stato fatto uno screening delle carenze di organico sia dei magistrati de gli uffici e i tribunali di sorveglianza, sia del personale amministrativo e logistico. Chiede anche se abbia messo in moto delle iniziative per risolvere questi problemi e se “siano allo studio iniziative normative per scongiurare i ritardi nella concessione della liberazione anticipata”. Johnny lo Zingaro, una vita in fuga di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 8 settembre 2020 Era vicino alla semilibertà. Le polemiche sui permessi. Evaso per la settima volta. Nulla di rocambolesco, a Johnny lo Zingaro è bastato non tornare da un permesso. Ad aiutarlo forse una donna. “Fuga inspiegabile”, però: era vicino alla semilibertà. Le prime quattro evasioni le organizzò scappando da riformatori e carceri dov’era stato rinchiuso da minorenne o poco più; per le altre tre gli è bastato non tornare in cella dopo un permesso. L’ultima volta sabato scorso, al termine di dieci giorni di “licenza” dopo la firma in questura. È così che Giuseppe Mastini detto Johnny lo zingaro, sessant’anni compiuti a febbraio, è diventato più noto per le sue fughe che per le gesta criminali (compresi tre omicidi) commesse in gioventù. Delitti ormai sbiaditi dal tempo, ancorché crudeli; gli ultimi risalgono al 1987. L’insofferenza per la prigione e le sue regole, seppure allentate dalle misure alternative, è invece rimasta intatta. Nonostante i magistrati di sorveglianza fossero tornati a dargli fiducia, e dopo tanta galera intravedesse il traguardo della semilibertà, udienza fissata a febbraio. Ha deciso di fare da solo, ma con la polizia alle calcagna. “È una scelta inspiegabile” dicono all’unisono don Gaetano Galia, direttore del Centro salesiano che aveva accolto Johnny nell’ultimo anno e mezzo di permessi, e l’avvocato torinese Enrico Ugolini. “Io non sono deluso per il tradimento della fiducia - aggiunge don Gaetano - ma perché temo che il suo percorso di reinserimento sia definitivamente concluso; ormai il suo destino è la fuga o il carcere, dal punto di vista del recupero è come se fosse morto”. Già, perché se e quando lo riprenderanno, sarà difficile trovare altri giudici che gli consentiranno di uscire. Dopo il mancato rientro in prigione del 1987 al termine del primo permesso - al quale seguirono rapine, sparatorie e due omicidi che gli sono valsi l’ergastolo - Mastini era riuscito a ottenere il lavoro esterno in capo a quasi trent’anni di buona condotta. Era la fine del 2016, ma una sera di giugno 2017 non si ripresentò al penitenziario piemontese di Fossano. Per ritrovarlo la polizia impiegò gli specialisti del Servizio centrale operativo e tecniche d’indagine degne della caccia a un capomafia, con intercettazioni, telecamere e microspie; la spuntarono seguendo le orme di una donna, Giovanna Truzzi, origini nomadi come le sue e piccoli precedenti penali, che Johnny lo zingaro aveva sposato a 14 anni con il rito sinti; poi ognuno aveva preso la sua strada, lei messo al mondo cinque figli con un altro uomo, finché il marito-bambino non è tornato a conquistarla da adulto. Proprio perché l’evasione del 2017 “per quanto assolutamente censurabile, si è risolta in una dimensione esclusivamente intima e privata, senza comportare alcuna condotta illecita verso terzi né atteggiamenti di aggressività del condannato, neppure al momento dell’arresto”, due anni più tardi una magistrata di sorveglianza di Sassari (dove c’è l’istituto di massima sicurezza a cui era stato destinato) gli ha concesso un nuovo permesso. C’erano le relazioni positive degli esperti e il parere favorevole della direzione del carcere, mentre il comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica aveva riferito: “Non si può escludere che Mastini sia ancora pericoloso o abbia legami con la criminalità”. Dopo i primi tre giorni nella casa famiglia di don Gaetano nel febbraio 2019, Johnny ha ottenuto altri 12 permessi durante i quali coltivava l’orto dei salesiani e gli affetti nelle ore di libera uscita. Incontrava regolarmente Giovanna, che aveva affittato una casa in Sardegna per stare vicino al suo uomo e durante l’ultima “licenza” ha potuto dormire con lui nella comunità. “Fa parte del percorso di recupero”, spiega don Gaetano. Al quale Mastini aveva confidato di voler rimanere sull’isola, aprendo una bottega di prodotti agricoli. Ma a volte appariva stanco dell’attesa, e forse all’idea di dover aspettare almeno un paio di mesi per il prossimo permesso, causa dilatazione dei tempi dovuta all’emergenza Covid, ha scelto ancora una volta la scorciatoia dell’evasione. Come per un richiamo irresistibile. Sabato pomeriggio Giovanna ha avvertito don Gaetano che Johnny non era tornato in cella; dopo la firma in questura le aveva chiesto il telefono per chiamare l’amico che doveva riaccompagnarlo al carcere e se n’è andato. Quel telefono risulta spento da due giorni, e dai primi accertamenti sembra che Giovanna si sia imbarcata per il continente nella stessa serata di sabato. Tracce di Mastini non ce ne sono, ma il sospetto di una fuga pianificata in coppia è forte. Lo Sco della polizia è di nuovo in azione, mentre il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha attivato gli ispettori per verificare la regolarità delle procedure nell’ufficio di sorveglianza, lo stesso che a maggio ha concesso gli arresti domiciliari al boss camorrista Pasquale Zagaria; ma si tratta di situazioni e magistrati diversi. L’opposizione politica ha già fatto partire i suoi attacchi, da Salvini in giù, e don Gaetano si rammarica: “In 7 anni abbiamo ospitato 400 detenuti, e finora erano evasi in 3, Johnny è il quarto. Significa che il sistema funziona bene, ma quando c’è di mezzo un nome famoso rischia di travolgere tutto. Lui lo sa, ma ha pensato solo a sé”. Ispettori per la fuga di Johnny. “Basta con i permessi facili” di Cristiana Mangani Il Messaggero, 8 settembre 2020 Dieci giorni di permesso premio, dal 26 agosto al 5 settembre, quando non si è presentato in questura a Sassari, per il consueto controllo dell’obbligo di firma, fissato alle 12,20. Avrebbe dovuto passarli nella casa famiglia Don Giovanni Muntoni, gestita dai salesiani in una borgata vicina alla città, a San Giorgio. Ma Giuseppe Mastini, 60 anni, ergastolano, non ha mai smesso di essere Johnny lo zingaro, nonostante una condotta considerata dal Tribunale di sorveglianza tanto buona da concedergli, dopo due evasioni, altri benefici di legge. E così, come aveva fatto nel 2017, ha approfittato del permesso e ha fatto perdere le sue tracce. Gli investigatori sono certi che abbia già lasciato l’isola proprio in quelle ore in cui non era ancora scattato l’allarme, anche se pensano che difficilmente potrà godere di grandi protezioni. Lo stanno cercando in tutta Italia gli uomini dello Sco, coordinati da Francesco Messina, direttore Dac (Direzione centrale antricrimine), insieme con quelli della Squadra mobile di Sassari e Cagliari. Sulla decisione presa dai giudici è intervenuto il ministero della Giustizia, attivando l’ispettorato. “Ho ritenuto - ha dichiarato il ministro Alfonso Bonafede - che ci fossero i presupposti, vista la gravità del fatto, per verificare quello che è accaduto con la giusta attenzione”. Non è la prima volta, poi, che via Arenula è entrata in contrasto con questo Tribunale di sorveglianza. Dal febbraio 2019 sono stati 13 i permessi premio autorizzati: praticamente uno al mese, a eccezione del periodo di lockdown causa Covid. Ed è lo stesso Tribunale ad avere concesso, ad aprile scorso, i domiciliari per ragioni di salute a Pasquale Zagaria, boss affiliato al clan dei casalesi. Anche allora Bonafede aveva attivato l’Ispettorato, individuando tramite il Dap una struttura detentiva adatta alle visite specialistiche e chiedendo che Zagaria tornasse in carcere. È di questi giorni il parere contrario della procura distrettuale di Napoli alla proroga degli arresti domiciliari del boss. Ma, nonostante ciò, non rientrerà in carcere. Sarà, infatti, la Corte costituzionale a decidere dopo che il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha sollevato una eccezione di illegittimità del decreto (29/2020), varato dal governo per frenare la scarcerazione di malavitosi durante la pandemia. I giudici avevano accolto la questione avanzata dai legali di Zagaria, che sostengono l’incostituzionalità del decreto Bonafede perché limiterebbe l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, e realizzerebbe un’illegittima ingerenza del potere esecutivo-legislativo in quello giurisdizionale. Nel frattempo, lo zingaro non è più tornato nel carcere di massima sicurezza di Bancali, dove sono rinchiusi diversi detenuti al 41 bis. E l’ennesima evasione ha scatenato la reazione dei parenti delle vittime. “Siamo delusi, mortificati, amareggiati da notizie come queste. È la dimostrazione che va rivisto il sistema della giustizia in Italia - ha dichiarato Mirko Schio, presidente dell’associazione Fervicredo, Feriti e vittime della criminalità e del dovere - Sono un ex poliziotto e in un conflitto a fuoco, ci ho rimesso le gambe. So bene cosa si prova e cosa provano i familiari. Tante cose sono da rivedere - ha aggiunto - Abbiamo visto gli scarcerati per il Covid, i detenuti che evadono. E c’è il problema della carenza di personale nelle carceri. I permessi troppo facili. C’è una sensazione di impotenza degli operatori delle forze dell’ordine: loro non si tirano mai indietro e alla fine sono gli unici che ci rimettono”. Non meno amareggiata è Maricetta Tirrito, portavoce del Comitato dei collaboratori di giustizia (Cogi). “Ma come faceva a godere ancora di permessi premio dopo tutte le evasioni fatte, due solo negli ultimi tre anni? - si interroga - È un episodio che squarcia ancora una volta il velo di ipocrisia sull’efficienza della Giustizia, incapace di organizzare la propria filiera di comando. Con quale faccia possiamo guardare negli occhi i parenti delle vittime. Tutto questo non è accettabile”. L’avvocato: “Dopo 40 anni in carcere ha vinto la voglia di libertà” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 settembre 2020 Nel momento in cui scriviamo non si conoscono ancora le sorti di Giuseppe Mastini, detto “Johnny lo Zingaro”, l’ergastolano condannato per una serie di rapine, sparatorie e omicidi che non ha fatto ritorno in carcere dopo un permesso premio. Era rinchiuso dal 2017 nel carcere di massima sicurezza di Sassari, dopo la precedente evasione avvenuta dal penitenziario di Fossano (Cuneo) il 30 giugno 2017. Anche in quella occasione era uscito godendo di un permesso premio e non aveva fatto rientro. Era rimasto latitante per circa un mese, tempo che ha trascorso con in un’alcova con il suo amore di gioventù, Giovanna Truzzi, conosciuta quando avevano solo 11 anni. Lo catturarono le forze dell’ordine coordinate dall’attuale capo della Squadra Mobile di Napoli Alfredo Fabbrocini. Commentando i fatti nella trasmissione “Commissari - Sulle tracce del male” condotta da Giuseppe Rinaldi su Rai 3 Mastini disse: “Quei 25 giorni sono stati i più belli della mia vita, grazie all’affetto della mia famiglia. Sapevo che ci avrebbero trovati e le dicevo: spero che capiranno se sono persone che hanno umanità e sentimenti”. Le forze dell’ordine lo stanno cercando ovunque, ma difficile se non impossibile sarà lasciare l’isola. Intanto è partita la macchina mediatica contro la magistratura di sorveglianza e il ministero della Giustizia, dicono fonti di via Arenula, ha delegato l’ispettorato generale per svolgere accertamenti preliminari e verificare la correttezza dell’iter seguito dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari nella concessione del permesso premio. Il suo legale, l’avvocato Enrico Ugolini che lo assiste dal 2014, si dice preoccupato: “Non so cosa possa essere successo, la notizia mi ha lasciato abbastanza sconcertato anche perché mi aveva telefonato circa dieci giorni fa e non aveva dato alcun segnale. Spero che stia bene e che non gli sia successo nulla”. Sullo stato d’animo del suo assistito ci dice: “Era sereno, peraltro mi aveva comunicato lui stesso che aveva ricevuto la fissazione a febbraio di una udienza al Tribunale di Sorveglianza di Sassari per valutare l’istanza di semi libertà che aveva presentato. Si rammaricava solo per le tempistiche a suo dire lunghe ma gli ho spiegato che a causa del Covid le udienze sarebbero dovute essere riprogrammate”. Chiediamo all’avvocato come sono trascorsi questi tre anni dopo l’ultima evasione: “Ha patteggiato al Tribunale di Cuneo una pena ad otto mesi per quanto accaduto con l’accordo della Procura della Repubblica: infatti era emerso da tutti gli atti che non c’era il rischio di recidiva e che la fuga di fatto era stata compiuta perché era rientrato in contatto con la donna con cui aveva avuto una relazione sentimentale da giovanissimo. Non è andato a fare rapine”. E dopo? “A un anno dall’evasione non gli era stato concesso alcun beneficio. Aveva ripreso i contatti con gli assistenti sociali, con gli educatori e poi aveva ricominciato a godere di diversi permessi premio. Non essendo un ergastolano ostativo il percorso che si pensava di fare era quello di un cospicuo periodo di semi libertà per poi chiederne la sostituzione con la libertà controllata”. Giuseppe Mastini era stato infatti affidato alla Comunità Don Muntoni di don Gaetano Galia, cappellano del Carcere, che ci racconta: “Giuseppe era stato accolto dalla nostra comunità da due anni. Faceva attività di volontariato, agricoltura e giardinaggio. Lo stavamo aiutando a riprendere in mano la sua vita, aveva anche dei progetti futuri qui in Sardegna, voleva aprire una attività gastronomica. Nelle sue ore di libertà coltivava anche la sua relazione affettiva con la compagna che aveva preso una casa in affitto qui sull’isola. Lo abbiamo visto due mattine fa alle 9 perché aveva dormito qui, e poi abbiamo saputo che non ha fatto rientro in carcere a mezzogiorno. Vorrei anche aggiungere una cosa: ora si scateneranno le polemiche contro il magistrato che ha concesso il permesso premio. Scaricare tutta la responsabilità sui magistrati è un discorso populista: quando prendono tali decisioni non lo fanno con superficialità, tengono in considerazione tutte le relazioni delle persone del carcere: criminologi, assistenti sociali, etc. Mi auguro che il ministro Bonafede non trovi in quanto accaduto l’occasione per qualche provvedimento ad hoc”. Dello stesso parere anche l’avvocato Ugolini: “Ribadisco quello che avevo già detto tre anni fa. Tra i vari ruoli giudiziari quello più difficile è quello del magistrato di sorveglianza: ci si basa su una osservazione portata avanti da una equipe di persone all’interno del carcere. Sinceramente l’operato della magistratura mi sembrava limpido e lineare. Giuseppe Mastini in carcere è sempre stato un detenuto modello: è un soggetto che partecipa alle attività, che per quanto mi risulta in anni di detenzione non ha mai ricevuto un rapporto disciplinare, né ha assunto un atteggiamento scorretto con detenuti e agenti”. E allora come mai questo gesto? “L’opinione pubblica deve considerare il fatto che è un soggetto che sta da 40 anni in carcere e ne sono trascorsi oltre 30 dagli episodi gravi per cui è stato condannato. Bisognerebbe invece interrogarsi sul fatto di rimanere così tanto tempo in carcere. Per questo avevamo intrapreso anche il percorso per chiedere la grazia. Lui forse ha questi momenti in cui l’anelito di libertà senza secondi fini prevale sul rispetto delle regole. Bisogna anche tener presente che siamo di fronte ad una persona di 60 anni che ne ha trascorsi 40 o forse più in carcere. Giuseppe Mastini è un uomo che ha vissuto una vita estremamente difficile sotto vari aspetti, iniziando la galera da minorenne”. Infatti l’uomo, figlio di giostrai sinti, già a 14 anni viene accusato del delitto, di cui si è sempre detto innocente, di un tranviere, Vincenzo Bigi, ucciso dopo una rapina: Mastini viene portato nel carcere minorile di Casal del Marmo, da dove però riesce a fuggire, prima di essere nuovamente arrestato. Nel 1987 esce in permesso premio dal carcere, ma non rientra: in quei giorni, secondo le accuse, “il biondino”, altro modo in cui veniva soprannominato, prima entra nella villa dei coniugi Buratti a Sacrofano, uccidendo il marito e ferendo gravemente la moglie, poi ruba un’auto e sequestra una ragazza di 20 anni, Silvia Leonardi. Ancora fughe, inseguimenti, scontri a fuoco. In uno di questi resta ucciso l’agente Michele Girardi. Il 24 marzo del 1987 viene arrestato dopo un’imponente battuta di caccia. Il suo nome riemerge anche nel processo sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, secondo una pista investigativa che però non trovò riscontri. Mirabelli: “Il beneficio non può essere automatico andava negato, ne aveva già approfittato” di Barbara Acquaviti Il Messaggero, 8 settembre 2020 Un principio fondamentale della Costituzione stabilisce che la pena detentiva debba “sempre tendere alla rieducazione del condannato”, ma spazi di libertà o permessi premio non possono essere considerati “un automatismo”, non basta la buona condotta in carcere, va valutato tutto il percorso di riabilitazione. Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale, legge così, in punta di diritto, il caso della nuova evasione dal carcere di Johnny lo Zingaro. Quali sono i principi costituzionali di cui bisogna tenere conto? “Il principio fondamentale della Costituzione è che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Questo sottolinea una finalità molteplice della pena che non è solamente vendicativa ma ha come finalità il possibile reinserimento del condannato nella società. Per questo, il trattamento deve essere in qualche modo individualizzato e rapportato non solamente alla condotta che il detenuto mantiene in carcere. La valutazione è fatta dal giudice di sorveglianza ma non è sufficiente aver tenuto una regolare condotta, non è un calmiere per l’effervescenza che ci può essere in carcere”. Cos’altro serve? “Nell’ipotesi di criminalità organizzata, per esempio, aver preso le distanze dal gruppo criminale, oppure un percorso rieducativo che comprenda anche una forma di ravvedimento per i reati che sono stati commessi. O, ancora, ci sono non infrequenti casi di detenuti che hanno ripreso gli studi, che sono passati dall’analfabetismo anche fino alla laurea. Questo può portare a un reinserimento che sarebbe un beneficio per la stessa società. È ovviamente un percorso che presenta dei pericoli, come questo caso dimostra ma direi che non bisogna generalizzare né in un senso né nell’altro”. Ci sono dei principi costituzionali che fanno da contraltare a quello della rieducazione? “La sanzione è commisurata alla condotta e alla gravità del reato perché è appunto una punizione che serve anche a ristabilire un equilibrio tra l’offesa e chi l’ha subita e chi ha commesso il reato. Ma non può mancare una speranza di rieducazione”. Quindi non esistono reati per i quali è vietato concedere spazi di libertà o permessi? “Non si può escludere in assoluto che permessi premio possano essere concessi in base alla gravità del reato commesso se il percorso rieducativo si è effettivamente compiuto. Questo è un problema che ci si è posti ad esempio per gli ergastoli. È sempre una valutazione che deve essere individualizzata caso per caso, non solamente sulla base della condotta nel penitenziario ma in generale come percorso di rieducazione, perciò non come automatismo. Infatti è possibile solamente dopo un arco di tempo”. Quindi nel caso specifico, il detenuto non avrebbe a suo giudizio dovuto avere diritto al beneficio? “I permessi premio concedono primi spazi di libertà per verificare se il reinserimento è possibile e quali sono gli effetti di questo ritorno temporaneo in libertà. Mi pare che in questo caso le osservazioni precedenti fossero negative, visto che ne aveva approfittato. Direi che può essere un elemento sintomatico del non adeguato percorso di rieducazione, ma questa valutazione la può fare soltanto il giudice di sorveglianza che ha tutti gli elementi per valutare la situazione”. Il ministro della Giustizia ha annunciato l’invio di ispettori. È l’unico strumento a sua disposizione? “In genere queste ispezioni immediate e reattive rispetto a una singola vicenda hanno in prima istanza una finalità placatoria dello sconcerto generato dal fatto stesso”. Cesare Battisti: “Inizio lo sciopero della fame e il rifiuto della terapia” Il Fatto Quotidiano, 8 settembre 2020 È il suo legale a rendere pubblica la sua decisione, spiegando che Battisti da oltre 1 anno e mezzo è in isolamento diurno nel carcere di Oristano, isolamento “di fatto del tutto illegittimo” dal momento che “la pena dell’isolamento diurno a suo tempo inflitta era di sei mesi per cui è stata scontata a giugno 2019” “Avendo esaurito ogni altro mezzo per far valere i miei diritti, mi trovo costretto a ricorrere allo sciopero della fame totale e al rifiuto della terapia”. Così scrive l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo Cesare Battisti in una lettera inoltrata al suo legale, l’avvocato Davide Steccanella. È il suo legale a rendere pubblica la sua decisione, spiegando che Battisti da oltre 1 anno e mezzo è in isolamento diurno nel carcere di Oristano, isolamento “di fatto del tutto illegittimo” dal momento che “la pena dell’isolamento diurno a suo tempo inflitta era di sei mesi per cui è stata scontata a giugno 2019”. Battisti aveva già presentato lo scorso luglio, sempre tramite il suo avvocato, una denuncia alla Procura di Roma per abuso d’ufficio contro il suo “isolamento” in carcere. L’ex terrorista sta scontando in Sardegna, a Oristano, dove è stato recluso dopo l’estrazione in Italia avvenuta poco più di un anno fa, i suoi ergastoli, ma secondo il suo legale “avrebbe dovuto scontare solo 6 mesi di isolamento in base al provvedimento emesso dalla Corte d’assise d’appello di Milano nel 1993?. Uno status che invece starebbe proseguendo oltre i limiti di legge e che “non è sorretto” da alcun “provvedimento giudiziario”. Contagi, aule stracolme e sindacati in fibrillazione: tutti i nodi della Giustizia di Simona Musco Il Dubbio, 8 settembre 2020 Primi casi di Covid nelle aule di Tribunale dopo le ferie. A Pavia il processo diventa cartolare. La giustizia riparte, ma zoppicando. Con gli avvocati infuriati, da un lato, per le lunghe file, gli accessi su prenotazione alle cancellerie e i processi rinviati di anni e i cancellieri, dall’altro, sul piede di guerra per la poca chiarezza sulle modalità di lavoro agile. In mezzo, invece, ci sono i primi casi di contagio nei Tribunali, con la conseguente chiusura dei Palazzi di Giustizia e il miraggio di un pieno ritorno alla normalità. Dopo i casi di Roma (un funzionario) e di Milano (un magistrato), oggi i contagi registrati sono stati due: uno ad Oristano e uno a Terni. Nel tribunale sardo a risultare positivo è stato un dipendente, ora in isolamento domiciliare, con conseguente tampone per tutti i colleghi. E in attesa della sanificazione degli uffici, il presidente del Tribunale ha sospeso le attività, ad esclusione di quelle relative agli atti urgenti. Sempre chiusi anche gli uffici del Giudice di pace, che nei giorni scorsi hanno registrato tre casi di positività. Nel tribunale umbro, invece, a risultare positivo è stato un avvocato civilista. In assenza di informazioni precise sui suoi contatti, il presidente del Tribunale ha sospeso cautelativamente le attività giudiziarie di oggi, escluse quelle urgenti, che verranno gestite “in condizioni di sicurezza fuori dai locali degli uffici giudiziari”, in attesa della sanificazione degli uffici. Ma i problemi della ripresa sono tanti. A Milano, ad esempio, gli avvocati lamentano file immense e udienze affollate, in barba alle misure anti Covid. “Mentre da mesi si discute di classi pollaio e di scaglionare gli ingressi degli studenti - segnala al Dubbio l’avvocato Cinzia Giambruno - sui posti di lavoro e nei negozi anche piccoli ci si organizza per evitare affollamenti, oggi la seconda Sezione Penale del Tribunale monocratica ha pensato bene di fissare ben nove udienze alle 9 e poi un’altra ventina dalle 9.45, a distanza di 15 minuti l’una. L’ovvio risultato è che siamo tutti ammassati in corridoio. E ciò, tralasciando ogni considerazione sul rispetto delle parti, in barba a ogni norma di prudenza. Altra notazione: alle 11.30 (ovviamente) non hanno ancora finito i processi delle 9.30. E poi si parla di riforma della Giustizia”. Ed è proprio di oggi il caso del maxi processo sulle tangenti Atm, celebrato in un’aula bunker che contava la presenza di circa 100 persone tra avvocati, assistenti, imputati, magistrati e cancellieri. Risultato: l’incidente probatorio è slittato ad altra data, in attesa di trovare un’aula più capiente. Dal ministero della Giustizia, intanto, arriva un primo, sommario resoconto dei risultati delle misure applicate durante e dopo il lockdown. La percentuale media di personale in presenza negli uffici, recita la circolare del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del 4 settembre scorso, è passata da 27,02 per cento (periodo dal 24 febbraio al 30 aprile) al 71,33 per cento al 31 luglio. E a luglio il 21 per cento circa del personale è stato incluso nella rotazione dei servizi, mentre oltre il 70 per cento degli uffici ha fatto ricorso all’orario flessibile. Le misure di prevenzione sanitaria e di sicurezza sono costate, attualmente, 20 milioni di euro, utilizzati per l’acquisto di dispositivi di protezione, materiale igienizzante, cartellonistica, paratie e attività di sanificazione. L’auspicio del ministero è ora un ritorno alla normalità, caratterizzato, però, da un ricorso allo smart working che non sia più solo connotato da una logica emergenziale, ma “calato nella concreta realtà operativa dei singoli uffici, previa individuazione della più limitata quota della metà del solo personale impiegato in quelle attività concretamente suscettibili di essere svolte al di fuori della sede di lavoro”. Insomma, il capitolo è ancora aperto e verrà affrontato venerdì, nel corso del tavolo con le sigle sindacali. Le stesse che, venerdì scorso, hanno lamentato come “salvo poche eccezioni la direttiva (sul lavoro agile semplificato, ndr) è stata completamente ignorata, senza che l’amministrazione centrale muovesse un dito, in quanto gli uffici si sono comportati come se la crisi pandemica fosse terminata e come se la normativa, di legge e di regolamento, sulla materia non esistesse. Gli stessi infatti hanno provveduto sic et simpliciter a revocare lo smart working obbligando tutti i lavoratori alla prestazione lavorativa on site”. E mentre i cancellieri invocano sicurezza, a Pavia il Giudice di pace ha pensato di risolvere, laddove possibile, il problema alla radice. Basta processi in presenza, addio anche alle udienze penali da remoto: tutto si svolgerà in modalità cartolare. Giovanni Maria Flick: “Così il trojan dà un’altra picconata alla Costituzione” di Errico Novi Il Dubbio, 8 settembre 2020 Il presidente emerito della Consulta: sfera intima violata pur di assecondare il livore verso i politici. “Un altro colpo a principi cardine della democrazia. Nello specifico, alla riservatezza delle comunicazioni personali sancita dall’articolo 15 della Carta”. A infliggerlo, secondo il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, sono le nuove norme sul trojan, formalmente in vigore dal 1° settembre ma concretamente operative da ieri. “Con le modifiche introdotte dal decreto intercettazioni sarà possibile l’uso del materiale captato anche per l’accertamento di reati diversi da quello per il quale il giudice aveva autorizzato il virus spia, inclusi quelli contro la Pa. Si ingigantisce il peso di uno strumento pervasivo per assecondare l’ansia sociale di veder colpite le categorie coinvolte nelle accuse di corruzione”. “C’è una novità sgradevole, introdotta con le norme sulle intercettazioni da oggi concretamente in vigore. Solo adesso cominceremo a misurarne la portata. Da una parte la spazza-corrotti aveva, indebitamente, già posto i reati di corruzione sullo stesso piano di quelli commessi dai mafiosi. Dall’altro le norme appena operative consentono un uso delle intercettazioni anche al di fuori della rigorosa cornice che in linea di principio dovrebbe regolarle: ossia anche per reati diversi da quello per cui si procede, per i quali dunque manca l’autorizzazione del giudice, e che non sono connessi a quello di partenza. Lungo una via simile rischiamo di mettere ulteriormente in crisi il sistema costituzionale, in una fase in cui, anche per la materia oggetto del referendum, è già assai a rischio”. Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, non parla di taglio dei parlamentari. Ne ha già detto in altri interventi. Si preoccupa invece di intercettazioni, e di come il peso dei trojan, ingigantito dalle norme da oggi operative, concorra all’indebolimento delle istituzioni democratiche. Tanto da poter arrivare a “incidere su principi cardine della nostra democrazia”. Presidente Flick, lei dice che le intercettazioni possono sfuggirci di mano? Vorrei partire da un aspetto centrale: l’emendamento proposto in Senato e, nel febbraio scorso, inserito nel testo definitivo durante la conversione del decreto. Prevede che le intercettazioni realizzate con i trojan possano essere utilizzate anche in procedimenti diversi da quello per il quale erano state autorizzate. Anche senza che vi sia connessione fra il reato incidentalmente emerso e quello per accertare il quale si era chiesta al giudice l’autorizzazione. Già qui si spalanca un rischio rilevante: la conversazione privata diventa un bersaglio vulnerabile. Ed è cosi tanto più se si considera che la flessibilità, per così dire, d’uso del trojan introdotta da quell’emendamento non riguarda solo i reati di criminalità organizzata ma appunto anche quelli legati alla corruzione, che non possono essere equiparati certo alla violenza del crimine organizzato. Molti magistrati non la pensano come lei... Ma molti altri cominciano invece a pensarla come il sottoscritto. Un conto è la cosca che si avvale anche della corruzione. In quel caso il reato contro la Pa viene comunque commesso in un contesto criminale minaccioso, ed è comprensibile anche la pervasività del trojan come di altri strumenti investigativi. Ma la circostanza che anche la mafia si serve della corruzione non può certo giustificare il perseguimento della corruzione addebitata a chi mafioso non è con le stesse regole previste per il primo contesto. Mi scusi: in astratto l’uso del materiale captato col trojan ai fini dell’accertamento di un reato diverso sarà ora consentito anche nel senso che, a partire da un’intercettazione su tutt’altre vicende, ne può derivare l’apertura di un nuovo fascicolo, un nuovo procedimento penale? No, non è esattamente così. Però le norme sono molto complicate e l’ultimo decreto intercettazioni compie il miracolo di esasperare l’intreccio. Ebbene, si possono immaginare i rischi relativi proprio all’incertezza delle possibili interpretazioni che una tale confusione lascia ai magistrati. Già tale indeterminatezza è in sé una minaccia per il rispetto delle garanzie costituzionali. Perché è a rischio la Costituzione? Non è a rischio in sé, ma si è troppo sottovalutato l’articolo 15, posto dai padri costituenti a presidio della comunicazione del singolo con un’altra singola persona o con più persone determinate. Si tratta di una tutela a beneficio della personalità, dell’identità stessa del singolo che deve essere libero del proprio silenzio così come delle proprie parole. È un profilo di libertà parallelo e altrettanto rilevante rispetto alla libertà sancita all’articolo 21, relativa alla comunicazione pubblica. La violazione del perimetro tracciato dall’articolo 15 a me pare ormai evidente, anche in conseguenza dell’ultimo provvedimento. Ad essere spiata non è più la singola persona ma la democrazia stessa? In un certo senso è proprio così. La libertà del singolo riguarda anche il singolo uomo delle istituzioni, esposto alla contestazione di reati relativi al rapporto con la pubblica amministrazione. Altri, tra i quali il direttore dell’Huffington post, si sono soffermati sulla lesione della riservatezza intesa nel suo significato anche nostalgico: prima, il cassetto personale era un limite oltre il quale non ci si poteva spingere. L’ordinamento e la prassi affermavano il rispetto per la sfera privata più intima. Non è più così. Anche perché ci siamo messi in testa di dover conoscere tutto sull’affidabilità, l’integrità personale, morale di una persona che svolge funzioni pubbliche. Non è l’intercettazione lo strumento più adatto ad accertare quei requisiti. Abbiamo a disposizione l’accertamento degli illeciti disciplinari o deontologici. Ma non possiamo spiare nel cassetto dell’uomo pubblico pur di verificarne la credibilità, tanto per restare nella metafora che altri hanno proposto. La trasparenza è un totem che viene prima di tutto? La trasparenza è un principio che concorre con altri all’equilibrio di un sistema democratico, non è l’unico bene assoluto supremo. Adesso rischia di diventarlo. Anzi, lo è già diventato: con le nuove regole sulle intercettazioni e in particolare sul trojan lo sarà ancora di più. Ma attenzione: il riferimento non è solo o soprattutto alla divulgazione delle intercettazioni operata dai media. Non è quello lo snodo decisivo? È un problema, ma non è il solo problema. Prima del comportamento dei media viene la questione strettamente connessa all’attività giudiziaria. Al potere delle indagini e dunque all’equilibrio che viene compromesso attraverso l’indebolimento del principio di segretezza delle comunicazioni personali sancito all’articolo 15. Chiarissimo. Anche perché la sofisticazione degli strumenti tecnologici è incontrollabile... Lo è ed è ancora un ulteriore aspetto, forse centrale, del discorso. Con l’ultimo decreto intercettazioni abbiamo spalancato la breccia nella libertà d’uso del materiale captato, in particolare col trojan. La tecnologia può sfuggire ulteriormente di mano: dovremmo essere noi a controllarla ma rischiamo di finire per essere controllati noi dalla tecnologia. D’altra parte non possiamo escludere negligenza o peggio in chi abbia il compito di interrompere la registrazione e poi di riprenderla di fronte a situazioni non consentite, come pure prevede con buona volontà la legge. Andare a caccia di corrotti col virus spia: c’è proporzione tra i fini e i mezzi? Tra i reati per i quali è consentito in generale l’uso delle intercettazioni, ce ne sono alcuni previsti in virtù del fatto che sono commessi proprio con modalità tecnologiche, e quindi è necessario accertarli anche attraverso la tecnologia. Poi gli altri si individuano in base alla loro gravità. E torniamo all’insostenibile equiparazione fra mafiosi e corrotti, utile solo ad aprire la breccia e mettere alcuni principi cardine a rischio. Il pericolo non è solo di essere messi alla gogna sui giornali ma di essere comunque spiati... Con le nuove intercettazioni rischiamo di avanzare nella erosione di principi essenziali del nostro sistema, dei diritti inviolabili che dovrebbe tutelare. Lo si fa in un contesto che non privilegia la serietà di tali minacce ma l’interesse sociale contingente, l’ansia di assicurare strumenti per il perseguimento dei reati tipici di determinate categorie. Siamo di fronte alla stessa alterazione che anima le campagne contro la concessione dei domiciliari, ai detenuti di mafia, per gravi motivi di salute. I giudici applicano il codice e l’articolo 32 della Costituzione, anche se possono sbagliare, ma è come se per alcuni non debba essere la Carta a stabilire i principi. È un sentiero in cui di principi davvero tutelati rischiamo di non trovarne più molti. Senza gravi indizi niente rinvio a giudizio Ecco la vera riforma di Antonio Mazzone e Nicolino Zaffina* Il Dubbio, 8 settembre 2020 La ragionevole durata del processo e la riservatezza costituiscono beni fondamentali, a tutela dei quali dovrebbe essere finalmente individuata una soluzione condivisa. È alla soddisfazione di tali beni che andrebbero meglio relazionati anche il ruolo e la struttura dell’udienza preliminare, nella prospettiva di una razionalizzazione del processo penale e di recupero di quella che deve essere l’unica sua funzione, quella di accertamento dei fatti secondo le regole previste. Allo stato tale udienza non appare soddisfare l’esigenza di selezionare i processi che meritino davvero di essere sottoposti alla successiva verifica del dibattimento. Non appare essa neanche capace di soddisfare l’esigenza di tendenziale composizione dei suoi esiti (rinvio a giudizio o proscioglimento) con quelli degli (eventuali) procedimenti incidentali attinenti alla situazione di libertà dell’imputato o di quella dei suoi beni. La regola di giudizio dell’udienza preliminare è, oggi, quella che deve essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere “quando risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato” e “quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. La regola di valutazione per l’adozione di una misura cautelare personale è, invece quella, diversa, della sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Non è prevista nel sistema processuale penale vigente alcuna incidenza nel processo degli esiti in ipotesi favorevoli per l’imputato dei procedimenti incidentali riguardanti la sua libertà personale o quella dei suoi beni. Con evidente lesione del principio di non contraddizione. La soluzione va trovata sul piano della modifica della regola di giudizio dell’udienza preliminare, al fine di renderla omogenea a quella prevista per l’emissione di una misura cautelare personale: e, cioè, nella previsione che l’udienza preliminare possa concludersi con il rinvio a giudizio soltanto qualora vi siano a carico dell’imputato gravi indizi di colpevolezza. In questo quadro si potrebbe prevedere che il provvedimento di rigetto di una richiesta di misura cautelare personale, di annullamento della stessa in sede di impugnazione (riguardante l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza), di rigetto o di annullamento di una misura cautelare reale, anche se non definitivo (purché non modificato da un successivo provvedimento emesso in sede di impugnazione cautelare), debba essere necessariamente valutato dal giudice dell’udienza preliminare, insieme con gli altri elementi in atti, al fine dell’emissione di sentenza di non luogo a procedere. La pronuncia cautelare di rigetto non provocherebbe, così, alcun effetto preclusivo, né alcuna restrizione dell’autonomia decisionale del Gup. La definizione della regola della “sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza” non presenterebbe, poi, alcun problema, perché puntualmente già effettuata dalla giurisprudenza, anche per quanto attiene alla distinzione tra tale regola e quella dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”, riguardante l’emissione di una sentenza di condanna. Andrebbe, poi, previsto con riferimento alla precedente fase delle indagini preliminari che, in presenza di un provvedimento che ritenga l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza o del fumus commissi delicti, la loro prosecuzione debba essere autorizzata dal Gip. Dovrebbe essere, anche, recuperata pienamente la funzione di “chiusura del sistema” della norma dell’articolo 129 del codice di procedura penale, che prevede che il giudice deve immediatamente emettere, d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, sentenza di assoluzione quando risulta l’infondatezza delle accuse. In tal modo il procedimento/ processo propriamente detto e i procedimenti incidentali riguardanti lo stato di libertà di una persona o dei suoi beni diverrebbero vasi comunicanti; con evidenti vantaggi in termini di economia processuale (non duplicazione delle valutazioni e conseguente restrizione della durata), di tutela del principio di non contraddizione e di tutela della riservatezza (essendo l’udienza preliminare camerale e non pubblica). *Avvocati Perché nessuno può giudicare un giudice? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 settembre 2020 Da Riccardo Fuzio ad Alfredo Robledo, sono tanti i casi che raccontano come le toghe non rispondano dei loro atti anche quando di mezzo c’è una ipotesi di reato. E quando spetterebbe al Csm intervenire, guarda caso non succede e si dimenticano presto. Che cosa succede se per strada venite derubati del portafoglio? Lo shock per la scoperta della violazione della vostra proprietà (che è un po’ come il vostro corpo), poi una serie di seccature. Attese infinite in qualche stazione di polizia, per sentirvi quasi suggerire di non denunciare lo smarrimento, così loro non sono obbligati a svolgere indagini, che tanto finirebbero in niente. Del resto le statistiche parlano chiaro, il 98% dei furti rimane impunito. A meno che. A meno che non siate un giudice del tribunale di Milano (o di qualsiasi altra città) e magari anche leader di una corrente di magistratura, magari anche di sinistra. Ecco allora che, quasi per magia, nel giro di pochi giorni il portafoglio viene ritrovato e restituito, perfino con i soldi all’interno. Sarà stata sicuramente fortuna. Ma a volte basta far girare un po’ la voce, usare qualche informatore come facevano una volta i bravi poliziotti. Solo che non lo fanno per tutti i cittadini, solo per qualcuno. Qualche anno fa è stata approvata in Italia una legge sul cosiddetto omicidio stradale, una normativa sbagliata e che ha prodotto pochi effetti. Nessuno sulla prevenzione, tanto che i gravi incidenti stradali non sono affatto diminuiti. Ma il risultato d’immagine è stato raggiunto, con annessa un po’ di gogna se ti capita di uccidere una persona mentre sei al volante e magari sei anche una persona conosciuta. Vieni immediatamente sottoposto ai controlli sulla velocità, su assunzione di alcol o sostanze psicotrope e spesso arrestato. Molti finiscono in manette. A meno che. A meno che tu non sia figlio o parente di magistrato, allora vieni immediatamente abbracciato da una cintura protettiva, non vieni sottoposto a nessun controllo né fermo. Nessun giornale (o quasi) si occuperà del tuo caso, al massimo un trafiletto. E qualche tempo dopo potrai patteggiare nove mesi di carcere con la condizionale. Quando si dice la fortuna. Se poi sei un importante esponente istituzionale, e vieni beccato in flagranza di reato mentre sembri quasi istigare un delinquente alla latitanza, ci si aspetterebbe nei tuoi confronti una sanzione immediata e severa. Sono passati quarant’anni, ma rimane indimenticabile il vero processo cui fu sottoposto nel 1980 in Parlamento Francesco Cossiga, presidente del Consiglio in carica che l’opposizione del Pci voleva rinviare all’Alta Corte. Colui che in seguito diventerà anche presidente della repubblica era sospettato sia in sede giudiziaria (procura della repubblica di Torino) che politica di aver rivelato, sulla base di notizie riservate, a Carlo Donat Cattin, vice segretario della Dc, che suo figlio Marco era un terrorista e forse ricercato. Lui negava, ma il processo politico condotto dal Pci e dal relatore Violante fu feroce. I suoi colleghi parlamentari, che pure alla fine lo salvarono a camere riunite con 507 voti assolutori contro 416, non gli risparmiarono nulla. Lui costretto a difendersi, ammettendo di aver incontrato il collega ma non di aver discusso con lui la posizione giudiziaria del figlio, gli altri a credere alle parole del “pentito” Sandalo che lo accusava di favoreggiamento nei confronti di un latitante. Senza avere la pretesa di paragonare la figura di Cossiga a quella dell’ex procuratore generale di cassazione Riccardo Fuzio e scusandoci con Luca Palamara per l’accostamento della vicenda che lo riguarda alla storia di un terrorista, dobbiamo però rilevare come nulla di tragico abbia sfiorato la vita dell’alto magistrato in seguito a un fatto molto grave che lo ha visto protagonista. Mentre il trojan infilato nel cellulare di Palamara faceva il proprio dovere, Fuzio è stato beccato mentre lo informava sulle inchieste aperte nei suoi confronti dalla magistratura di Perugia. Un bel favoreggiamento, forse, oltre alla rivelazione di atti e segreto d’ufficio. E se l’ex presidente del sindacato dei magistrati avesse deciso di scappare come Marco Donat Cattin? Fuzio ha forse rischiato di passare, come quarant’anni fa Cossiga, i cinque giorni più infernali della sua vita, processato del tribunale dei giudici, il Csm? Proprio no. Nessuno mi può giudicare, rimane sempre il principio favorito dai magistrati. Prima di tutto al procuratore Fuzio è stato consentita la pensione anticipata e la conseguente cancellazione di ogni azione disciplinare (converrebbe anche a Palamara, se fosse un po’ più anziano). Quanto all’azione giudiziaria, mentre per Palamara e gli altri indagati venivano chiesti i rinvii a giudizio, la posizione dell’alto magistrato è stata stralciata. E chissà se questo significa che si stia incamminando verso un binario morto. Quello del prepensionamento ad hoc (due anni e mezzo di anticipo) si è rivelato una bella ciambella di salvataggio anche per un altro magistrato molto famoso, l’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo. Finito per caso in intercettazioni a strascico che avevano colpito un suo interlocutore, era stato trasferito e degradato, diventando a Torino un semplice sostituto nella procura guidata da un suo ex collega, Armando Spataro. Una delle accuse che gli erano state rivolte riguardava un suo inspiegabile antico conflitto con Gabriele Albertini che, fin da quando era stato sindaco (il più amato e rimpianto, tanto che ancora oggi in molti gli ripropongono la candidatura) era stato preso di mira dal pm per un’infondata questione di “emendamenti in bianco”. Quando, anni dopo, Albertini, ormai parlamentare europeo, si era esposto con dichiarazioni che non erano piaciute al magistrato, Robledo lo aveva denunciato sia in sede civile che penale, per calunnia aggravata. E poi aveva cercato in qualche modo di interferire nel procedimento sull’immunità aperto al parlamento europeo chiedendo informazioni all’avvocato della Lega, Aiello. Quello coinvolto nelle intercettazioni a strascico. E ancora, di fronte all’assoluzione di Albertini, aveva presentato ricorso alla corte d’appello di Brescia, la quale, essendo nel frattempo l’ex sindaco diventato senato aveva presentato alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione tra organi dello Stato. Non ancora pago, il dottor Robledo aveva indossato le vesti dell’agitatore politico, insultando la Giunta per le immunità del Senato, accusandone i membri di voler “salvare la pelle” ad Albertini e di “sguazzare nei loro privilegi” e di attuare “voto di scambio”. Di conseguenza portandosi a casa una bella denuncia per “vilipendio di corpo legislativo”. Ma nel frattempo Alfredo Robledo si è sottratto a qualunque giudizio, è andato in pensione e ha trovato lavoro come presidente in un’azienda per lo smaltimento dei rifiuti, la Sangalli, che in passato aveva anche avuto problemi giudiziari per fatti di corruzione. Ma che, aveva detto l’ex magistrato per giustificare la propria scelta professionale, aveva avuto la capacità di cambiare rotta. Conclusione? Oggi la nuova vita di Alfredo Robledo dovrebbe essere al riparo da incursioni disciplinari o giudiziarie. Il Csm non si ricorda più di lui, ormai ex magistrato, Il suo processo per abuso d’ufficio a Brescia (conseguenza dei suoi scontri con il procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati) sonnecchia, e quello di Roma per il vilipendio pare avere il rigor mortis. Mentre è ben vivace quello del conflitto di attribuzione che riguarda Gabriele Albertini. Come disse qualcuno, siamo tutti uguali ma qualcuno lo è un po’ più degli altri. Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu. Se sono un magistrato. O anche un ex. La misura di custodia cautelare passa il test di Vincenzo Giannotti Italia Oggi, 8 settembre 2020 Corte costituzionale, sentenza sull’associazione terroristica. La misura di custodia cautelare per associazione terroristica supera il vaglio della Consulta. Con la sentenza n.191/2020 la Corte costituzionale ha infatti giudicato non fondate le questioni di legittimità costituzionali, previste dall’art.275, comma 3 del codice di procedura penale, sollevate dalla Corte di assise di Torino al fine di superare l’adeguatezza della sola custodia cautelare con altra misura alternativa, in presenza di associazioni terroristiche. Le motivazioni sono rintracciabili nell’attuale dimensione che stanno assumendo, come reati di pericolo sociale, queste forme ideologiche del terrorismo tali che, i loro adepti, possono facilmente ricorrere a strumenti largamente diffusi, quale internet e i social media, non solo come mezzo di reclutamento e di indottrinamento degli associati, ma anche come strumento di possibile pianificazione ed organizzazione di futuri attentati. La Corte di assise di Torino ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale nella parte in cui non fa salva l’ipotesi, in cui siano acquisiti elementi specifici dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte anche con altre misure meno afflittive (esempio arresti domiciliari). Il caso concreto ha riguardato un imputato, già oggetto di condanna alla pena di cinque anni di reclusione per il delitto di partecipazione a un’associazione con finalità di terrorismo, il quale ha chiesto una misura meno invasiva della custodia carceraria, considerato che la condanna a suo tempo ricevuta lo vedeva solo come mero ausilio rispetto agli altri associati. A supporto della richiesta, è stato, inoltre, evidenziato come, allo stato, non sussistano elementi che consentano di ritenere ancora in vita e operativa l’associazione, anche in relazione all’avvenuta individuazione e all’attuale stato di detenzione degli altri membri del sodalizio. Le disposizioni del codice di procedura penale, tuttavia, a dire del giudice remittente, non permetterebbero di superare la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare, di qui la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionali prospettate. Ha ricordato, inoltre, il giudice remittente come la Consulta sia già intervenuta (vedi sentenza n. 231/2011) nel dichiarare illegittime analoghe presunzioni assolute di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in relazione a varie figure di reato, anche di natura associativa, sia pure sottolineando sempre come tale presunzione trovi giustificazione, dal punto di vista dei principi costituzionali, in relazione all’associazione di tipo mafioso. La decisione della Consulta Il giudice delle leggi ha, in via principale, rilevato come la misura cautelare in carcere possa essere facilmente superata mediante una velocizzazione dei processi, per chi sia stato riconosciuto responsabile di reati particolarmente gravi in termini di pericolosità sociale. Fermo restando la finalità dell’art. 275 del codice di procedura penale, che non è quella di prevedere automatismi né presunzioni, dovendo il giudice apprezzare e adeguatamente motivare l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale, è stata già a suo tempo ritenuta fondata la misura restrittiva in presenza di fattispecie di partecipazione ad associazioni di tipo mafioso. Rispetto, invece, ad altri reati, la questione dell’obbligo della misura carceraria può estendersi, in modo identico, anche ai reati di pericolo come quelli di stampo terroristico. Quest’ultimo giustificato in ragione dell’attuale offensività sociale delle fattispecie criminose che hanno allargato il perimetro di intervento. In modo particolare, sussiste la pratica impossibilità di impedire che la persona, sottoposta a misura extra-muraria, riprenda i contatti con gli altri associati, ancora in libertà, attraverso l’uso di telefoni, internet o altri strumenti di contatto (social media). In conclusione, secondo il Giudice delle leggi, a fronte della magnitudine dei rischi, la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare, appare sostenuta da una congrua base empirico-fattuale. Umbria. Nelle carceri umbre gli “sfollati” della Toscana di Erika Pontini La Nazione, 8 settembre 2020 Il Garante dei detenuti bacchetta la “pratica discutibile” di mandare nella Regione i reclusi con problemi psichiatrici o disciplinari. Carceri umbre, ghetto dell’Italia centrale, perché vengono utilizzate sempre più per sfollare i detenuti in eccesso della Toscana che abbiano manifestato problemi psichiatrici o disciplinari. Gli ultimi degli ultimi. “Pratica discutibile” che “viola il principio di territorializzazione della pena” e rappresenta un “abuso”. La denuncia arriva dal Garante dei detenuti, il professor Stefano Anastasia nell’annuale relazione sull’Umbria dietro le sbarre. Secondo il Garante se è inevitabile che il carcere di Spoleto, circuito ad Alta sicurezza, con sezione per i 41 bis sia “bacino di destinazione per i condannati all’ergastolo” da fuori regione (e infatti in Umbria il tasso di ergastolani è dell’8,7% molto più alto che altrove), negli anni il fenomeno si è andato accentuando anche per la media-sicurezza e, in particolare alla sezione femminile di Capanne. “A questa nuova tendenza ha contribuito - scrive Anastasia - la nuova configurazione territoriale dell’Amministrazione penitenziaria che ha alimentato una discutibile pratica con conseguente abuso del trasferimento fuori regione, ma all’interno dei confini del Provveditorato, di detenuti che abbiano generato problemi di gestione (psichiatrica co disciplinare) all’interno degli Istituti di prima assegnazione”. Se incendi una cella in Toscana, sconti la pena a Perugia. Quella dei reclusi con problemi psichiatrici conclamati è una criticità evidenziata dal Garante e già emersa nelle quotidiane aggressioni o atti di autolesionismo dietro le sbarre. Un’escalation difficile da interrompere. Sono 140 solo a Capanne i detenuti psichiatrici e sono “sensibilmente aumentati gli eventi critici, anche di notevole gravità, spesso innescati da soggetti affetti da patologie per i quali il carcere non è certamente un luogo consono: dai tentativi di suicidio, alle rivolte, agli scioperi della fame, ai numerosissimi atti di autolesionismo, alle aggressioni al personale fino al baratto dei medicinali”. Nel 2019 si sono registrati tre eventi-morte (uno a Perugia e due a Terni), 35 episodi di autolesionismo a Spoleto, 13 a Orvieto e ben 106 a Perugia. A numeri da brivido corrispondono scarse cure: basti pensare che a Capanne operano psicologi per appena 15 ore a settimana (nel 2018 erano 22 le ore) e psichiatri per 30 ore a settimana. I tagli alla spesa sanitaria si ripercuotono anche lì. “Pesa il mancato adeguamento dell’offerta psichiatrica” e pure “la deterritorializzazione in seguito alla decisione della Regione di “non dotarsi di una Rems, con conseguente trasferimento a Volterra - quando va bene - di persone per cui la legge prevede un lavoro a stretto contatto tra servizi sanitari residenziali e territoriali”. “Un’attenzione certamente maggiore - scrive Anastasia - deve essere riservata alle esigenze di cura e tutela della salute delle persone detenute affette da problematiche di natura psichiatrica e psicologia la cui considerevole presenza è stata più volte segnalata come elemento critico nella gestione della vita detentiva, nonché motivo di stress per il personale che vi opera”. Solo a Capanne dovrebbero esserci 248 agenti e ce ne sono 217 mentre a fronte della capienza di 363 detenuti, ce ne sono 411 (70 donne). Tra i nodi da sciogliere anche l’attivazione del Reparto detentivo al Santa Maria della Misericordia, promesso, annunciato ma mai divenuto operativo. Complessivamente in Umbria ci sono 1.471 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 1324 unità con una percentuale di sovraffollamento che tocca il 110% a Perugia e il 120% a Terni, in linea con la media nazionale. Di questi 533 sono stranieri, concentrati soprattutto nel carcere perugino di Capanne (il 67,2%). La maggior parte dei reclusi tra Perugia, Terni, Spoleto e Orvieto sono condannati in via definitiva (1.091), il 74% del totale, mentre 1.178 sono in attesa del primo giudizio. Caltagirone (Ct). Inchiesta sul suicidio in carcere: stato di agitazione della polizia penitenziaria di Francesco Scollo livesicilia.it, 8 settembre 2020 Gli agenti della Polizia Penitenziaria in servizio nel carcere di Contrada Noce di Caltagirone hanno proclamato lo stato di agitazione. La presa di posizione del sindacato arriva dopo l’iscrizione nel registro degli indagati di quattro agenti a seguito del suicidio in carcere di Giuseppe Randazzo, l’uomo che lo scorso 13 agosto a Caltagirone, dopo una lite ha ucciso la moglie Caterina Di Stefano. Il suicidio non sarebbe ascrivibile secondo il sindaco Sinappe “a condotte omissive nel controllo del detenuto. Su di lui non sarebbe stata prevista alcuna sorveglianza a vista dagli uffici di competenza”. Angelo Allegra segretario provinciale Sinappe è perentorio: “Mancano più di 40 unità sui diversi ruoli, abbiamo turni che vanno da 8 a 10 ore, nonostante l’accordo quadro ne preveda al massimo 6 e gli stessi sono coperti sotto i livelli minimi di sicurezza. L’amministrazione centrale di Roma e anche di Palermo non rispondono alle richieste, c’è un grave rischio di sicurezza e ordine all’interno del carcere. Le condizioni di stress del personale sono elevatissime”. I detenuti ospitati nel carcere di contrada da Noce sono di media sicurezza, sono oltre cinquecento e da circa cinque anni si attende la chiusura dei blocchi 50 e 25, le cui condizioni di vivibilità sono considerate dal sindacato “deplorevoli”, per lavori di ristrutturazione ed ammodernamento, promessi ma ancora non ancora iniziati. Famiglie dei detenuti sotto la pioggia o il sole battente - Le famiglie che vanno in visita ai parenti detenuti in carcere non hanno un luogo dove sostare prima della visita, non esistono locali idonei, ne sale d’attesa ne sevizi igienici. Il carcere ricade in una contrada a 7 km dal centro abitato ed in tutta l’area è impossibile anche comprare una bottiglia d’acqua a meno di risalire nel centro abitato. Oltre cento persone al giorno attendono dentro le auto, sotto la pioggia o sotto il sole battente di poter varcare i cancelli senza alcun supporto esterno. Bambini e neonati seguono la sorte degli adulti anche per ore. Milano. Troppa ressa all’udienza, salta il processo nell’aula bunker di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 8 settembre 2020 La giudice rinvia per le norme Covid. Ma non si trovano spazi per distanziare le parti. Le norme Covid incidono sull’uso degli spazi: in tribunale, come sui mezzi pubblici. Che, però, restano sottoutilizzati: 50% il tasso di riempimento ieri, -49% rispetto al 2019. “Contrattempi” nella ripresa dell’attività giudiziaria in epoca di pandemia. Due avvocati per indagato, giudice, cancelliere, tecnico degli impianti, alcuni indagati: così, ieri mattina, erano oltre 100 le presenze all’udienza per l’incidente probatorio nell’inchiesta tangenti in Atm, nell’aula bunker davanti al carcere di San Vittore. Così la giudice dell’udienza preliminare Lorenza Pasquinelli è stata costretta a un rinvio. Se il buongiorno si vede dal mattino, non sarà facile la ripresa dell’attività giudiziaria milanese nell’autunno del Covid, e soprattutto non sarà troppo diversa dalla farraginosa estate prima delle ferie: cioè con qualche possibilità di fare i processi con pochi imputati, ma con grandissime difficoltà logistiche a celebrare processi che invece siano appena appena di media dimensione per numero di parti presenti. Se ne è avuto un assaggio ieri quando la giudice dell’udienza preliminare Lorenza Pasquinelli si è vista costretta a rinviare, per indisponibilità del “campo di gioco”, una udienza oggettivamente invece extralarge, come l’incidente probatorio dell’inchiesta sulle tangenti in Atm con 48 indagati nell’aula bunker di piazza Filangieri davanti al carcere di San Vittore. Due avvocati per indagato, il giudice, il cancelliere, il tecnico degli impianti di registrazione, alcuni degli indagati, hanno in breve portato sopra quota 100 le presenze in quella che pure è l’aula più grande disponibile in questo momento, ma tarata (con le regole del distanziamento anti contagio) su un totale di 20 detenuti (quando ci sono), 24 avvocati, 5 tra giudici e cancellieri, 15 persone nel pubblico: insomma, a tutto concedere, e prendendo posto anche nelle gabbie dei detenuti (quando essi non ci sono) o sulla gradinata del pubblico, non più di 65 presenze. L’incidente probatorio è una sorta di anticipazione del futuro interrogatorio al dibattimento di alcuni indagati (a cominciare dall’ex capo area delle segnalazioni automatiche nelle metropolitane, Paolo Bellini) che al pm Giovanni Polizzi nelle settimane scorse avevano reso dichiarazioni accusatorie di altre persone, le quali hanno dunque il diritto di partecipare all’udienza con i propri difensori e (se vogliono) controinterrogare i dichiaranti. La giudice ha riconvocato le parti per venerdì 11 settembre, ma ha chiesto agli avvocati (che peraltro ieri lamentavano anche l’insufficiente areazione rapportata al numero di presenti, e persino aree dell’udienza parzialmente allagate dal nubifragio della notte precedente) di accordarsi per mandare solo una delegazione, in quanto quel giorno la giudice spera solo di comunicare in quale situazione logistica alternativa si possa iniziare l’incidente probatorio. La risposta non è però così scontata, in quanto non è affatto sicuro che si possa trovare un’aula più capiente del bunker di San Vittore. Al momento non parrebbero essercene di più spaziose, salvo forse adibire a udienze l’Aula Magna, o addirittura “espatriare” in via Freguglia nel Salone Valente dove gli avvocati fanno spesso i propri corsi di formazione (ma ammesso che la sala convegni sia adattabile ad aula di udienza). E intanto i problemi logistici fanno in fretta a diventare problemi processuali: dei 13 arrestati di giugno nell’inchiesta sulle ipotesi di turbative d’asta e corruzioni, infatti, quasi tutti sono ancora in custodia cautelare (per lo più ai domiciliari), e dunque è concreto il rischio che non si riesca a concludere l’incidente probatorio prima dello scadere dei termini di custodia a ottobre. Nel frattempo, sempre ieri mattina ma a Palazzo di Giustizia in Porta Vittoria, molti avvocati si lamentavano perché si trovavano a dover stazionare in attesa in corridoi del terzo piano, a loro avviso resi troppo affollati dalla non abbastanza scaglionata fissazione di un numero di processi troppo numeroso (anche qui sempre nella valutazione dei legali) nel tentativo dell’organizzazione giudiziaria di recuperare un po’ dell’attività processuale rimasta congelata in primavera durante il confinamento. Piacenza. “Rubavamo per dare i soldi ai pusher. E alla Levante erano tutti d’accordo” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 8 settembre 2020 L’ammissione dell’appuntato Montella. E ora la caserma riapre. Prima nega, schiva le accuse pesanti come macigni che l’hanno trascinato in carcere per le violenze, le torture, le rapine agli spacciatori e il traffico di droga in caserma a Piacenza. Quando capisce che rischia di rimanere con il cerino acceso in mano, l’appuntato Giuseppe Montella vuota il sacco coinvolgendo i colleghi che hanno scaricato le colpe su di lui: “Alla Levante tutti erano d’accordo”. “Ho perso tutto, l’unica cosa che mi porta la coscienza è (…) dire la verità”, esordisce interrogato dai pm Matteo Centini e Antonio Colonna il 5 agosto in carcere, dove sta dal 22 luglio con altri 4 carabinieri. “Ormai ho toccato il fondo”, mette a verbale Montella assistito dagli avvocati Giuseppe Dametti ed Emanuele Solari. Nelle mani della Procura guidata da Grazia Pradella ci sono ore di intercettazioni che hanno registrato in diretta le violenze e gli affari illegali dei carabinieri. Il principale indagato dell’inchiesta che ha ferito l’Arma si difende, come è suo sacrosanto diritto, negando che parte della droga sequestra andava agli spacciatori arrestati per convincerli, dopo averli anche picchiati, a diventare confidenti. Succedeva lo stesso con i soldi presi agli arrestati, che finivano anche nelle sue tasche. Quando il pm Centini gli dice che due pusher hanno confermato e lo invita a ripesarci, il carabiniere si sente con le spalle al muro: “Vi chiedo scusa se ha omesso qualcosa”. Dichiara di aver negato “per un senso di fratellanza”, perché “preferivo prendermi io le colpe per non scaricarle”. Centini rincara la dose: “I suoi colleghi hanno detto che faceva tutto lei”. A questo punto Montella diventa un fiume in piena: “Sì che abbiamo pagato”, ma “quando si dava qualcosa lo sapevano tutti” perché “non ho mai fatto niente di mia iniziativa”; “ammetto tutto, ne ho fatte di cavolate dottore, però se mi devo prendere le colpe degli altri, no!”. Confessa di aver sottratto denaro agli arrestati, ma solo poche decine di euro da dare agli informatori, e giura di non essersi “mai messo soldi in tasca”. Con gli altri ha sì picchiato i fermati, appena “qualche schiaffo”. Per l’accusa, invece, di soldi ne sono spariti tanti, migliaia di euro, e i pestaggi a sangue erano una consuetudine. I superiori non si accorgevano di nulla o forse facevano finta. Volevano “arresti, arresti, arresti”, altrimenti “ci massacravano di altri servizi” come “punizione”, ci “facevano fare notti, pattuglie”. I pm ritengono, invece, che propio grazie alla reputazione guadagnati con gli arresti a raffica, alla Levante potevano trafficare indisturbati. Ora Montella si sente isolato. In carcere gli altri lo evitano, lo escludono dai messaggi che viaggiano tra le celle: “Li sento parlare, sento quello che dicono e lo so che mi hanno buttato tutta la merda” addosso. Ieri il gip Milano ha dissequestrato la caserma. Era stata sigillata dalla Procura per fare accertamenti. Bloccati, però, dalla richiesta di incidente probatorio della difesa di uno dei carabinieri. Istanza che il giudice ha dichiarato inammissibile perché non ha ricevuto le notifiche alle parti carico della stessa difesa. L’immobile torna all’Arma dopo un mese e mezzo: con le ammissioni degli indagati la Procura non ha bisogno di altri accertamenti. Benevento. Situazione nel carcere, “evitiamo strumentalizzazioni” ottopagine.it, 8 settembre 2020 L’intervento del presidente della Camera penale di Benevento, Domenico Russo. È dedicato ai recenti episodi accaduti all’interno del carcere di Benevento l’intervento dell’avvocato Domenico Russo, presidente della Camera penale di Benevento. “Il 2 settembre, giorno della pretesa “rivolta” al Carcere di Benevento-Capodimonte, negli stessi orari in cui essa si sarebbe svolta, il nostro responsabile dell’Osservatorio Carcere (l’avvocato Nico Salomone ndr) - scrive - era lì, per un lungo confronto richiesto al direttore dell’istituto sulle condizioni di detenzione nella fase Covid e in relazione al recente accaduto del drammatico suicidio del giovane marocchino di 34 anni, oltre che per riavviare un progetto trattamentale condiviso, sospeso a causa della pandemia. Confronto franco, che si è sviluppato nel tempo e che ha consentito proficue forme di collaborazione reciproca, nell’interesse primario dei detenuti e della difesa dei loro diritti, ponendo altresì sempre la giusta attenzione alla essenziale opera svolta dai soggetti (agenti e personale civile) protagonisti della vita carceraria. Appare, pertanto, opportuno fare un po’ di chiarezza, detto innanzitutto che va la massima solidarietà agli agenti feriti in occasione dell’ultimo episodio occorso”. Spiace notare - prosegue Russo - “come le vicende relative al carcere vengano strumentalizzate e molto spesso ciò avviene da parte di chi non conosce a fondo la vastità e problematicità della tematica penitenziaria, nonché la complessità delle questioni che, ormai da anni, interessano l’esperienza detentiva nel nostro Paese. Dal confronto con il direttore dell’istituto penitenziario emergeva che in relazione alla rimodulazione della gestione del reparto Alta Sicurezza, avvenuta sulla base di precise indicazioni legislative e del Dap, i detenuti fossero stati messi al corrente delle ragioni che avevano condotto a tale scelta e che alcuna forma di rivolta ne era scaturita. La protesta civile manifestata con la lettera del detenuto degli inizi del mese di agosto incanalava la legittima rivendicazione sui binari della politica, con l’indirizzamento della stessa ad un esponente dei Radicali, sempre attenti a raccogliere tale tipo di richieste e a farne leva per proposte di riforma che sono essenziali in un Paese che voglia dirsi compiutamente democratico”. E ancora: “Emergeva altresì la problematica contingente dei due detenuti che praticavano forme di autolesionismo e che erano tenuti in costante osservazione da parte dei sanitari della struttura e degli operatori giuridico-pedagogici. Episodio totalmente sganciato era stato quello del suicidio del giovane detenuto marocchino, rispetto al quale non erano emersi particolari segni di allarme nelle giornate che avevano preceduto il tragico gesto; drammatico episodio che concerne una serie nota e ben più ampia di problemi collegati alla vita nelle carceri. L’ultimo episodio dell’incendio della cella da parte di due detenuti, con il conseguente ferimento di alcuni agenti di polizia penitenziaria, sarebbe stato determinato - a quanto pare - da un trasferimento interno di cella che avrebbe condotto alla protesta violenta, su cui naturalmente farà luce, come dovuto, l’autorità giudiziaria. Le informazioni raccolte dall’amministrazione della struttura penitenziaria dicono, pertanto, di disordini esclusivamente legati a due detenuti sottoposti a trasferimento interno, peraltro (parrebbe) dagli stessi inizialmente accettato”. Al di là delle “specifiche evenienze e contingenze, su cui come detto farà chiarezza l’autorità giudiziaria, in questa sede tale evento, e quello che mediaticamente ne è scaturito, deve interrogarci e pungolarci sotto un duplice profilo. In nessun campo dell’attività umana è sano e utile porsi al capo di “guerre di religione”, e tantomeno ciò è consigliabile quando ci si avvicina ai temi della detenzione inframuraria. Il disagio della condizione carceraria nel ns. Paese non può e non deve diventare il grimaldello della rivendicazione populista e della politica delle urne: è questo il miglior modo per non affrontare il problema, per non occuparsene, dissimulando, invece, attenzione e impegno. D’altro canto, va prestata la massima attenzione agli accadimenti di questi giorni per supportare gli operatori del settore e rappresentare le giuste rivendicazioni dei detenuti, a patto però di non trasformare ordinari disordini in una rivolta, che la storia lontana e recente delle carceri italiane ci insegna essere ben altro. Ce lo dice, inoltre, la logica, l’esperienza e la conoscenza dei problemi carcerari; ce lo dicono il buon senso e la ragione, non accecata dal fondamentalismo”. Eventi “circoscritti e contingenti come quello accaduto a Benevento dimostrano certamente un disagio e un allarme che non devono essere sottovalutati, ma oggettivamente non assumono le dimensioni abnormi che paiono emergere da alcuni comunicati stampa e dal clamore mediatico di questi giorni. Permane di certo, a Benevento, così come nel resto del territorio nazionale, l’atavica questione della scarsità di risorse e personale di polizia penitenziaria, che svolge un ruolo essenziale nella vicenda inframuraria, aggravata in questo momento storico dall’emergenza Covid con tutte le sue implicazioni sul piano organizzativo e lavorativo. Tuttavia, la struttura residenziale sannita mantiene - soprattutto in rapporto ad altre situazioni penitenziarie - un suo equilibrio ed una consolidata situazione di buona organizzazione e assenza di criticità allarmanti”. La Camera Penale “è impegnata da tempo nel fornire sostegno alle legittime rivendicazioni dei detenuti e al contempo a garantire una proficua collaborazione tra le parti per una migliore gestione del fenomeno carcere e in tal senso intende proseguire, sottovoce e con costanza, e - come adesso - con una presa di posizione pubblica che appare quanto mai opportuna e necessaria. Condividiamo, pertanto, il recente invito del Garante Ciambriello ad andare più a fondo nella lettura dei fenomeni che caratterizzano il mondo carcere, senza dimenticare le legittime richieste degli agenti della Polizia penitenziaria, ma evitando ogni strumentalizzazione tesa a far prevalere interessi esclusivi di parte. Crediamo che il tema della condizione carceraria e della organizzazione penitenziaria vada trattato con equilibrio e serietà, consapevoli che solo un giusto bilanciamento degli interessi in gioco e delle rispettive rivendicazioni possa condurre alla auspicata risposta alle diverse domande che lo contraddistinguono”. Melfi (Pz). Il carcere è una “bomba ad orologeria”, interrogazione parlamentare di Giovanni Gioioso Il Mattino di Foggia, 8 settembre 2020 Oscuri rapporti interni del personale, le carenze emerse dall’ispezione mai consegnata ai Sindacati ed il ruolo dell’ex capo del Dap Francesco Basentini: la situazione arriva in Parlamento con la recente interrogazione a firma dell’On. Ferro (FdI). “Le guardie non si toccano”. È questa la “democratica promessa” e realmente rispettata dei detenuti che lo scorso 9 marzo, presso il carcere di Melfi (PZ), hanno dato vita ad un’iniziativa degna delle romanzate carceri sud americane per protestare contro le restrizioni imposte per il contenimento della diffusione del Covid-19. Durante quella complessa giornata, intorno alle 14:30, dopo il rientro intermedio dal passeggio, i detenuti (tra le settanta e le ottanta unità) si sono riversati, tra urla e schiamazzi, velocemente ed in maniera ben coordinata tutti sullo stesso piano (il primo) dove erano presenti tre agenti ed un ispettore insieme a cinque civili tra personale medico e paramedico, per un totale di nove persone che sono state - di fatto - sequestrate. Le lenzuola annodate al cancello per impedire l’accesso al piano ad altri uomini della polizia penitenziaria accorsa dall’esterno, sono state il simbolo dello Stato che per numerose, lunghe ed interminabili ore, era spettatore impotente. L’azione dei detenuti si è limitata solamente a tutte le sezioni detentive e non all’intero istituto, non riuscendo, fortunatamente, a prendere possesso anche degli uffici che con alcuni e tempestivi sbarramenti sono rimasti sotto il controllo della polizia penitenziaria. Ore concitate: una cancellata che divideva il piano dalla scalinata permetteva di comunicare. Polizia, Polizia Penitenziaria, Carabinieri, Guardia di Finanza, agenti antisommossa, funzionari della Questura di Potenza, commissari. La trattativa “Stato-detenuti” si è protratta sino alla mezzanotte con l’ipotesi estrema di un eventuale atto di forza con l’ingresso di un corpo speciale dall’esterno. Qualche minuto dopo la mezzanotte, nella devastazione totale tra porte divelte e scrivanie distrutte, il personale civile è stato rilasciato per primo e a seguire anche gli uomini della polizia penitenziaria, mentre, nel caos generale, la rivolta proseguiva con l’occupazione di tutte le sezioni detentive. Ad oggi, i protagonisti di questa triste vicenda sono stati abbandonati. Non una congratulazione, non una rassicurazione dal provveditore o dalla direttrice dell’istituto penitenziario: tutti in malattia per un “presunto” stato ansioso e nessuno, da marzo, è stato chiamato dall’ospedale militare per riuscire ad ottenere nuovamente l’idoneità al servizio. Il silenzio dei media e delle istituzioni è stato ed è assordante. Il caso lucano è certamente in buona compagnia, quando il Paese è alle prese con le prime zone rosse tra Lombardia e Veneto ed il lockdown totale è alle porte. All’interno di numerose case circondariali e di detenzione, in maniera coordinata ed organizzata, tra il 7 e il 9 marzo si registrano rivolte, incendi, risse e fughe come mai nella storia dell’Italia repubblicana: 13 decessi tra i detenuti (9 a Modena, 3 a Rieti ed uno a Bologna), 136 agenti feriti e copiosi danni alle strutture stimati tra i 20 ed i 40 milioni di euro. Il 9 marzo a Foggia 77 detenuti si allontanano dal carcere trovando all’esterno numerose auto ad aspettarli. La gravissima situazione del carcere di Melfi, però, ha origini ben più lontane e puntualmente segnalate in primis dalla segreteria generale dell’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. Il 4 ottobre veniva indirizzato al Capo del Dap Francesco Basentini, al Provveditore regionale Giuseppe Martone ed al Direttore Generale del personale Massimo Parisi un comunicato “urgentissimo” avente ad oggetto alcune gravi situazioni riscontrate all’interno della Casa Circondariale di Melfi “dove ci si permette di contravvenire a qualsiasi tipo di norma vigente pattizia con numerose inadempienze: irrazionale distribuzione del lavoro straordinario non convalidato da apposite relazioni di servizio, nè giustificato e talvolta effettuato anche dove non previsto o dove non ve ne sia esigenza, l’ingiustificata e non concordata movimentazione interna fra i vari uffici, effettuazione di lavoro straordinario malgrado le limitazioni imposte dal medico del lavoro ed un doppio incarico di responsabilità (Area Segreteria ed Ufficio Comando) ad un ispettore che è spesso assente in virtù di una sua attribuzione in seno al Dap”. Denunciando, la compromissione palese ed evidente dei requisiti di ordine e di sicurezza interni ed esterni a causa della copertura minima dei posti di servizio su tre quadranti per 48 unità complessive con il rischio, a ragion veduta, di eventuali futuri problemi sia per il personale, sia per la popolazione detenuta. Come ben sappiamo a livello sindacale l’unione e la leale collaborazione fanno la forza ed il 16 giugno le segreterie regionali di Osapp, Uilpa, Sinappe e Uspp a firma dei rispettivi segretari Cappiello, Sabia, Coviello e Messina inviano in forma congiunta al successore del dimissionario Francesco Basentini, travolto dalle scarcerazioni “facili” (nella famosa lista dei detenuti scarcerati perché affetti da gravi patologie emergono i nomi di pericolosi detenuti in alta sicurezza per reati commessi con l’aggravante mafiosa, per quelli che riguardano il traffico internazionale di stupefacenti e detenuti al 41bis), Bernardo Petralia, un nuovo comunicato per denunciare apertamente una “anomala illogicità” circa l’incarico conferito con apposito provvedimento dipartimentale all’attuale comandante di reparto, funzione, questa, al momento svolta da un commissario del concorso interno per titoli ad 80 posti per la nomina alla qualifica iniziale di vice commissario del ruolo ad esaurimento del corpo della Polizia Penitenziaria. Con numerose normative violate visto che il suddetto funzionario è anche il segretario regionale di una nota sigla sindacale in palese violazione con l’art.6 d.lgs n.146/2000 e successive modifiche con il d.lgs n.172/2019. Infine bisogna anche premettere che le funzioni di comandante sono svolte in maniera conflittuale vista la presenza di un commissario capo di Polizia Penitenziaria gerarchicamente superiore. Il commissario con funzioni di vice comandante, Saverio Brienza, ex capo scorta di Francesco Basentini al Dap ed il relativo ruolo conflittuale dal punto di vista sindacale, con il parere positivo del provveditore per la Puglia e la Basilicata, hanno messo in luce conflittuali situazioni che inficiano sul buon funzionamento della struttura e particolari rapporti all’interno dell’istituto melfese al limite dell’attenzione della Corte dei Conti che dovrebbe eventualmente approfondire anche un ipotetico danno erariale in merito all’ispezione effettuata durante la prima settimana del mese di novembre del 2019. Nessuna sigla sindacale ha mai avuto la possibilità di venire a conoscenza del contenuto di tale ispezione e dei riscontri effettuati nella casa circondariale dove da tempo viene denunciata tra le varie cose la carenza di personale nonostante la presenza di detenuti di alta sicurezza ed un sistema antiscavalcamento in condizioni precarie con la soppressione delle sentinelle e della ronda automontata. I fatti di marzo, a questo punto, non devono stupire in quanto la gravità della situazione era ben chiara già da diversi mesi, il casus belli, solo casualmente, è stato quello delle restrizioni per il contenimento del Coronavirus. È stato utilizzato del denaro pubblico per l’ispezione che, ad oggi, nessuno ha potuto visionare, chiusa in chissà quale cassetto? È la domanda posta al segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci, raggiunto telefonicamente: “Di questa ispezione non ne sappiamo molto e vorrei fare un paio di considerazioni: gli esiti di un’ispezione sono necessari anche per giustificare la spesa sostenuta ed in questo caso degli esiti nessuno è a conoscenza. Ad un’ispezione non può corrispondere il nulla. Potrebbe esserci, quindi, inefficienza ed un impiego di denaro pubblico non congruo. In merito alle dinamiche interne e alla gestione del personale nel carcere di Melfi posso affermare che è palese l’incompatibilità dell’attuale comandante facente funzioni ed il direttore generale Massimo Parisi dovrebbe provvedere ad individuare un comandante titolare, questo dato, da un punto di vista sindacale, rappresenta una disfunzione grave: la situazione è stata prolungata ben oltre i limiti ed i tempi giustificati da una situazione emergenziale e di conseguenza transitoria”. Intanto il caso è arrivato in parlamento su iniziativa della deputata calabrese Wanda Ferro (FdI), componente della commissione antimafia, che recentemente ha presentato al ministro della giustizia, Alfonso Bonafede, un’interrogazione parlamentare al fine di comprendere se il ministro sia a conoscenza dei gravi fatti di Melfi e dell’ispezione dello scorso novembre, oltre alle iniziative che intende adottare per sanare le criticità ed evitare, per quanto possibile, futuri problemi. Livorno. Sapori di libertà e riscatto dall’isola-carcere di Gorgona di Erica Balduzzi itinerarieluoghi.it, 8 settembre 2020 Ripartire dalla terra, dal lavoro, dalla professionalizzazione: l’isola di Gorgona è l’ultima “isola carcere” d’Italia, colonia penale agricola dal 1896 e attualmente sezione distaccata della Casa Circondariale di Livorno, e ha scelto la via della dignità per combattere recidiva e favorire il reinsediamento sociale dei suoi detenuti. Agricoltura, allevamento, vinificazione, caseificazione… ma anche falegnameria, idraulica, muratura: lavori a tutti gli effetti, che permettono ai detenuti di imparare un mestiere, mettere da parte risorse per affrontare il reinserimento a fine pena. E che danno vita a progetti dal grande potenziale, “buoni” sotto tutti i profili: sociale, economico, gastronomico. A testimoniarlo, sono soprattutto i sapori: come quello del vino che viene prodotto proprio qui, e che raccoglie profumi e suggestioni di terra, di mare e di riscatto. Il vino Gorgona nasce dalla collaborazione tra la struttura detentiva e Frescobaldi Vini, che ha dato il via nel 2012 al progetto “Frescobaldi per Gorgona”. Agronomi ed enologi dell’azienda vitivinicola toscana lavorano quindi con i detenuti, offrendo loro competenze di viticoltura e vinificazione e permettendo la produzione di due vini gorgonesi doc: il Vino Gorgona Costa Toscana IGT (proveniente da un piccolo vigneto di Vermentino e Ansonica, piantato nel 1999 nell’unica zona riparata dai venti e curato secondo i principi dell’agricoltura biologica, senza diserbanti né prodotti chimici di sintesi, dal colore dorato e dal forte sentore aromatico) e il Gorgona Rosso, che ha visto la luce da alcuni filari di Sangiovese e Vermentino Nero, anch’essi coltivati in agricoltura biologica e affinati poi in orci di terracotta. Quest’altro vino, dal color rubino, è caratterizzato da sentori di frutta e di sottobosco. Dal vino al formaggio, il passo è breve. Anche perché è proprio dal progetto con Frescobaldi che ha preso il via anche la produzione casearia sull’isola, a partire dal latte di mucche, pecore e capre allevate in loco dai detenuti e grazie all’interessamento nel 2013 di Alberto Marcomini, giornalista ed esperto di tecniche casearie. Si tratta di piccole produzioni, entrambe a latte crudo: la prima tipologia è insaporita dalle erbe selvatiche dell’isola, mentre la seconda è bagnata nel vino di Gorgona. Il caseificio è anch’esso luogo di formazione e professionalizzazione e i gustosi formaggi - rigorosamente a chilometro zero - sono apprezzati in molti ristoranti italiani. Altra specialità dell’isola sono gli olivi secolari di cultivar “Bianca di Gorgona”, una varietà di oliva bianca scoperta nel 2012 proprio sull’isola… dove sono stati rinvenuti venti piante residue, probabilmente ciò che restava delle piantumazioni effettuate dai monaci certosini che hanno abitato l’isola nei secoli scorsi. Questa cultivar è stata iscritta nel luglio 2012 nei registri del Repertorio Regionale delle risorse genetiche autoctone toscane. Dalle coltivazioni di ulivi sull’isola, la Sezione Agricola ottiene un buon olio extravergine di oliva. Milano. Un pranzo o una cenetta “al fresco”? Riapre il ristorante InGalera di Roberta Rampini Il Giorno, 8 settembre 2020 I 15 detenuti-addetti tornano al lavoro dopo il lockdown nell’unico ambiente del genere aperto in Italia dentro un carcere. “Scappiamo dalla cella per essere a ristorante e accogliervi con pranzi e cene dal martedì a sabato. Voi portate le mascherine e noi vi garantiamo distanziamento”. Un gioco di parole per annunciare la riapertura del ristorante “InGalera” all’interno del carcere di Bollate, l’unico in Italia dietro le sbarre. Dopo i mesi di lockdown e una riapertura alla fine di maggio, il ristorante gestito dalla cooperativa sociale “Abc La sapienza in Tavola” che dà lavoro a 15 detenuti, riapre oggi. “Allo slogan “andrà tutto bene” noi preferiamo “celafaremo2020” e la scritta senza spazi non è un refuso, ma una scelta come segno di forza e determinazione - scrive sui social Silvia Polleri, presidente della cooperativa - In questi mesi abbiamo ricevuto molte telefonate di incoraggiamento, “mi raccomando, non mollate, forza”. Alcuni clienti poi hanno detto di aver pensato spesso a noi durante il lock down, con questa analogia nella privazione della libertà che, sempre di più si rivela un bene davvero prezioso”. Ora è tempo di tornare InGalera per chi sta fuori “e noi riprendiamo l’attività del ristorante in attesa di poter uscire dal carcere anche con i servizi di catering che rappresentano una parte importante della nostra attività”. Il ristorante in carcere, come molte attività di ristorazione, a causa della chiusura per Covid ha avuto ripercussioni economiche non indifferenti. Ma ora riparte e ha già messo in calendario per mercoledì 23 settembre la prossima cena con delitto, “La nota fatale”, in attesa di definire la nuova cena “Vita in galera: ti racconto il carcere”. Così hanno ucciso il diritto a conoscere di Emma Bonino Il Riformista, 8 settembre 2020 Come è spesso accaduto nella storia italiana, anche nel dibattito sul referendum costituzionale emerge una costante di assoluta gravità: la violazione dei diritti civili e politici dei cittadini, a partire da quello di conoscere per deliberare, non è un fenomeno casuale, legato alla semplice negligenza di quanti dovrebbero salvaguardarne l’effettiva possibilità di esercizio. La violazione dei diritti degli elettori è sempre funzionale a un disegno di potere, cioè all’arruolamento coatto e passivo dell’opinione pubblica in una battaglia dal significato “epocale”, ma dai contenuti indeterminati, quando non manifestamente falsi e in ogni caso incontrollabili. In questi anni abbiamo visto campagne con uno straordinario successo “di pubblico” su fenomeni che nella realtà non esistevano, ma che dilagavano nella rappresentazione mediatica di essa: l’invasione preordinata dell’Italia da parte di milioni di migranti, per un progetto di sostituzione etnica della popolazione indigena; il complotto delle istituzioni internazionali - europee e non solo - per l’asservimento politico e la spoliazione economica dell’Italia; le regole di bilancio e di disciplina finanziaria dell’Ue, per non parlare della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Ue e della Corte europea dei diritti dell’uomo, come dispositivi imperialistici finalizzati a cancellare l’identità e l’interesse nazionale italiano. Il tema del taglio dei parlamentari e dei miracolosi risparmi conseguenti all’abolizione di quelli eccedenti la supposta giusta misura appartiene a pieno titolo a queste “verità alternative” (cioè false), che la vulgata populista e sovranista ha imposto nell’agenda politica nazionale. Oggi sette elettori su dieci non sanno perché e per cosa dovranno votare tra meno di due settimane. E quelli, per così dire, “informati” sanno che devono semplicemente decidere se tagliare il numero di deputati e senatori che in Italia sono comunque troppi rispetto alla media degli altri paesi europei. Come a dire: “Vuoi che l’Italia continui ad avere più eletti di quanti dovrebbe averne e a spendere per essi più di quanto dovrebbe spendere?” L’informazione e la consapevolezza della posta in gioco è, grosso modo, a questo livello di qualità e approssimazione. Che il numero degli eletti in una democrazia parlamentare sia correlato non solo alla popolazione, ma, tra le altre cose, anche alla natura del sistema istituzionale - e nel nostro caso al bicameralismo paritario - e che i risparmi vadano calcolati correttamente, al netto, anche, delle mancate entrate dello Stato, non è mai stato tema di discussione. Non mi risultano ad esempio servizi e approfondimenti giornalistici degni di questo nome sul lavoro pregevole che l’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, diretto dal Prof. Cottarelli, ha svolto su questi temi, sbugiardando sia le stime miracolistiche sui risparmi, sia la denuncia scandalistica dell’anomalo sovrannumero di deputati e senatori italiani. Insomma - a quanto pare - non dobbiamo votare sulle premesse (false) e sulle conseguenze (negative) del taglio lineare di deputati e senatori a Costituzione invariata, ma sul significato ideologico che a questo taglio viene attribuito dal M5S. E nelle discussioni in cui si rischia di svelare il bluff di questa riforma - come nelle tribune elettorali previste dalla par condicio - i favorevoli al Sì spesso lasciano la sedia vuota, non presentandosi in trasmissione, pur di evitare il dibattito e il contraddittorio. È accaduto ripetutamente in queste settimane e la notizia è che questo non abbia fatto notizia. Ma tutto fa brodo, pur di non interrompere la messa cantata sul taglio dei parlamentari, effettuato in questo modo barbaro, come misura necessaria di moralizzazione civile. Nella campagna elettorale, come nella discussione precedente alla riforma, sono stati letteralmente rimossi e propagandisticamente sbianchettati i due punti - il superamento del bicameralismo paritario e il riordino delle competenze legislative tra stato e regioni - che da almeno due decenni sono al centro del dibattito costituzionale (non solo in ambito accademico) e da cui dipendono in larga misura i ritardi, le inefficienze e conflitti del processo legislativo nazionale e dunque, anche, dell’azione di governo. Gli stessi correttivi immaginati a questo taglio lineare di un terzo degli eletti - a partire dalla piena equiparazione di Camera e Senato in termini di elettorato attivo e passivo e di base nazionale di elezione - vanno nella direzione di un ulteriore “perfezionamento” del bicameralismo perfetto e lasciano del tutto impregiudicato il rapporto tra Stato e regioni. Eppure questo buco abbastanza clamoroso non emerge nella discussione e rimane sconosciuto all’opinione pubblica e confinato per lo più nelle diatribe degli addetti ai lavori. Come dico da mesi, dunque, questo non è un referendum su una riforma, che proprio non c’è, ma sulla mutilazione “esemplare” delle camere, come suggello di una campagna di odio della democrazia rappresentativa, di oltraggio al Parlamento e di denigrazione dei parlamentari come parassiti e usurpatori della sovranità popolare. Questa campagna non ha nulla, ma proprio nulla che fare con i temi classicamente antipartitocratici, cui nella mia intera storia politica mi sono sempre sentita e tenuta fedele, ma ha piuttosto una intonazione classicamente antidemocratica, che non a caso è culminata nel successo di un partito politico, il M5S, che ha esplicitamente teorizzato il superamento del Parlamento e l’affermazione di un modello di autogoverno diretto concepito come una sorta di “televoto” permanente. Fare campagna per il No in questo contesto non significa tanto opporre ragioni contrarie a ragioni favorevoli ma ripristinare una discussione sul merito della decisione a cui i cittadini saranno chiamati, in una situazione in cui - quando va bene - si è costretti a parlare d’altro, o di niente. In questo contesto non è facile essere ottimisti, ma è doveroso essere tenaci. Per dare un altro piccolo contributo a questa battaglia controcorrente - e spesso sott’acqua e in apnea - per domani, 9 settembre, +Europa ha organizzato nel pomeriggio una maratona oratoria di parecchie ore, a cui ha convocato molti dei protagonisti della campagna per il No e che passerà in rassegna le varie motivazioni che ci spingono a partecipare a questa competizione manifestamente impari. Ci saranno alcuni tra i deputati e i senatori che hanno firmato per la convocazione del referendum, giuristi e politologi, esponenti dei vari comitati che in questi mesi si sono costituiti e protagonisti della vita politica e civile che, come usa dire, hanno scelto di mettere la faccia su una presumibile sconfitta al referendum, perché sanno che dalla vittoria del Sì conseguirebbe una ben più rovinosa sconfitta per la democrazia italiana. Quei balordi cretini ci somigliano di Daniele Vicari Il Manifesto, 8 settembre 2020 Colleferro. Le povere vittime di questi miseri assassini, sono figli e figlie nostre, ma il problema è che anche loro, i “balordi”, purtroppo lo sono. Anzi quei balordi lo sono ancora di più delle vittime, perché a quasi tutti noi piacciono i vincenti, i bulli, gli spacconi, gli sboroni. Ci piacciono nella politica, in tv, al cinema, nel paese e nel quartiere. Sì, a noi piacciono gli imbecilli che sbraitano, urlano, si atteggiano, comandano, rompono a tutti, noi li ammiriamo anche se sono di cretini integrali. Noi li votiamo, li eleggiamo, li vezzeggiamo, in una parola li alleviamo Willy Monteiro Duarte, un altro splendido ragazzo di vent’anni è stato ucciso da cosiddetti “balordi”, questa volta a Colleferro, pochi chilometri da Alatri dove tre anni fa fu massacrato Emanuele Morganti. È una cosa terribilmente dolorosa, che lascia senza fiato. Però a questo punto dobbiamo guardarci in faccia e dirci le cose come stanno. La categoria di “balordi” è più o meno la stessa: edonisti, cocainomani, fascistelli, impuniti. Le circostanze sono più o meno le stesse, quindi si può parlare di coazione a ripetere. La prima cosa che salta agli occhi leggendo i quotidiani locali e nazionali e frequentando un po’ quei luoghi, è che sul territorio che va dalla periferia sud-est di Roma fino alle porte di Napoli non sembra esserci né legge né morale che tenga. L’assassinio di Emanuele Morganti avvenuto ad Alatri nella notte tra il 24 e il 25 marzo 2017 e il pessimo spettacolo mediatico, sociale, politico e anche quello giudiziario (il processo è stato davvero deludente, non soltanto per la sentenza ma per come si è svolto, credetemi, l’ho seguito tutto) che ne è seguito non è servito a nulla. Il lavoro che va fatto per rendere un po’ più vivibile la nostra società è profondo e complesso, lunghissimo. Queste vicende tragiche travolgono tutto, le istituzioni locali sono disarmate dinanzi a certi fenomeni innanzitutto perché non sanno trattenere i loro giovani subendo una emorragia continua verso altre zone del paese e altre parti del mondo e, quando i giovani restano, non sanno cosa far fare loro. Solo le scuole primarie e secondarie sono un presidio di civiltà, ma soverchiate da talmente tante difficoltà da sembrare fortini assediati. I delinquenti che hanno ammazzato Emanuele e Willy non sono dei morti di fame, attenzione, una volta si sarebbero definiti “piccoloborghesi inferociti”. Sono professionisti, proprietari di locali, fabbrichette di scarpe, smorzi che magari non disdegnano di implementare le loro finanze con piccoli traffici di coca per fare soldi che poi vengono bruciati nei sabati folli. Comprano bottiglie di champagne, offrono a tutti, hanno macchine che costano decine di migliaia di euro, case hollywoodiane. Sono legati ossessivamente agli affetti familiari, trascinano i figli, i fratelli e i nipoti nel gorgo di vite “al di sopra”. Ecco da cosa deriva il “controllo del territorio”, dalla necessità di mantenere quel livello di vita. Ecco perché dobbiamo guardarci in faccia, perché prima o poi noi, noi tutti, dovremo decidere quale società vogliamo, cosa vogliamo essere: un agglomerato di individui l’uno contro l’altro armati o un corpo sociale capace di agire per risolvere conflitti, squilibri sociali, problemi psicologici? Le povere vittime di questi miseri assassini, sono figli e figlie nostre, ma il problema è che anche loro, i “balordi”, purtroppo lo sono. Anzi quei balordi lo sono ancora di più delle vittime, perché a quasi tutti noi piacciono i vincenti, i bulli, gli spacconi, gli sboroni. Ci piacciono nella politica, in tv, al cinema, nel paese e nel quartiere. Sì, a noi piacciono gli imbecilli che sbraitano, urlano, si atteggiano, comandano, rompono a tutti, noi li ammiriamo anche se sono di cretini integrali. Noi li votiamo, li eleggiamo, li vezzeggiamo, in una parola li alleviamo. E, forse, il vero motivo è che anche a noi tutti piace vivere al di sopra delle non solo delle nostre possibilità, ma al di sopra delle nostre stesse aspettative, quindi a questi “balordi” siamo pronti a perdonare tutto, perché ci somigliano, perdoniamo loro anche l’assassinio più efferato, invece non perdoniamo le loro vittime di essersi fatte ammazzare, perché sono “perdenti”. Ok, sono arrabbiato, lo ammetto, sto scrivendo pieno di rinnovato dolore per la morte di Emanuele che riverbera in quella di Willy. Per favore, vorrei essere smentito. Quel male banale: Willy ucciso dal branco di “ragazzi qualunque” di Gilda Maussier Il Manifesto, 8 settembre 2020 I ragazzi della porta accanto. C’è un quinto indagato, oltre ai quattro giovani già in carcere che oggi verranno interrogati dal Gip per l’omicidio di Colleferro. C’è un quinto indagato per l’assassinio di Willy Monteiro Duarte, oltre ai quattro giovani già reclusi nel carcere di Rebibbia, accusati di aver ucciso a calci e pugni il 21enne di origine capoverdiana residente a Paliano che, nella notte tra sabato e domenica a Colleferro, civilissima cittadina a sud di Roma, aveva avuto l’ardire di intervenire in difesa di un suo ex compagno di scuola preso di mira da uno dei bulli del branco. Perché questo sono di sicuro, Mario Pincarelli 22 anni, Francesco Belleggia di 23 anni e i fratelli Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni, ai quali la procura di Velletri contesta per ora l’omicidio preterintenzionale, malgrado le modalità dell’esecuzione lascino pensare ad una, se non premeditata, manifesta e consapevole volontà di uccidere. Stamattina i quattro saranno interrogati dal Gip di Velletri per la convalida dell’arresto e domani l’autopsia sul corpo della giovane vittima farà luce ulteriormente sui particolari di questo terrificante episodio. Ma al momento quello che appare fin qui certo è che si tratti di tutt’altro che di un’aggressione “fascista” e “razzista”, come qualcuno molto sbrigativamente ha voluto etichettarla nel mondo della politica. Sarebbe più facile, più intellegibile perfino, e ci solleverebbe dal peso di riconoscere in quei giovanotti volgari e rozzi, cresciuti nelle palestre e nelle piazze virtuali da migliaia di followers, il ragazzo della porta accanto. Il nulla dell’antipolitica, la superficialità dei buoni sentimenti a basso costo, il vuoto assoluto: semmai, il loro essere di destra è un orientamento dell’anima. Gli inquirenti infatti non ravvisano alcun particolare movente razziale e nessun connotato politico nella violenza di cui i quattro accusati - che siano ritenuti colpevoli o no dell’omicidio - si nutrivano, facendone bella mostra sui social e scegliendo uno stile di vita da gang. Corpi scolpiti dalle Arti marziali miste (Mma, una disciplina sportiva che prevede combattimenti in un ring ma anche il rispetto per l’avversario), facce da Gomorra, sopracciglia trash, tatuaggi tutti cuori e “familia”, pose da guappi sui profili Facebook, armati di tutto punto mentre giocano alla guerra o griffati con colonna sonora trap. Ma anche post sugli “animali e bambini (che) ti scaldano il cuore”, commozione per un bimbo che riceve un regalo dai genitori “non benestanti”, frasi tipo “umiltà e amore non si trovano più ormai”, e “Non cambio per nessuno, ma sarò migliore per chi lo merita”. Non solo: clip simpatizzanti con bambini cinesi e perfino l’immedesimazione con un ragazzino nero insofferente ai richiami materni in un piccolo video dal titolo: “Quando ho già capito ma mia madre continua a parlare”. Insomma, tutto e il contrario di tutto. E le droghe - se c’entrano - sono solo un corollario; lo spaccio - se c’è - un canale di profitto come un altro. Il profilo di Gabriele Bianchi, il bullo più adulto e già padre, è seguito da 3345 persone, che lo apprezzavano per come si presentava e per quello che esprimeva. E ora, con la stessa violenta nonchalance, altre migliaia di persone lo ricoprono di insulti. minacce di morte, promesse di vendetta e auguri di carcere a vita. Sicuri di potersi sedere dalla parte opposta alla loro. La scena che viene descritta dai testimoni diretti del pestaggio avvenuto a Colleferro, a pochi metri dal pub è effettivamente repellente per chiunque: Willy Monteiro Duarte, un ragazzino magro e mansueto, aiuto cuoco e “promessa del calcio”, dicono, figlio di capoverdiani dalla pelle ambrata, era in compagnia di alcuni amici quando dall’altra parte della strada vede un suo conoscente aggredito per futili motivi da uno dei violenti del branco. Si mette in mezzo e viene pestato. Gli altri scappano, lui non riesce e cade subito a terra sotto i colpi dell’uomo che nel frattempo viene raggiunto dalle altre “belve”, come li chiamano ora in città, dove non si parla d’altro che della loro reputazione di violenti, provocatori e spavaldi, “spesso su di giri”, “assuntori di cocaina e picchiatori”. Cinque culturisti contro un calciatore. Lo lasciano a terra, poi risalgono sul Suv mollato con le portiere aperte e vanno via. Willy morirà subito dopo, mentre uno degli assassini posterà su Facebook un video acchiappalike con le scimmiette. La condanna del gesto è stata unanime, e anche il leader della Lega Matteo Salvini ha postato un ricordo del ragazzo ucciso, “morto per un gesto di altruismo”, chiedendo “pene esemplari per i maledetti assassini” (Balotelli ha apprezzato con un like). Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha annunciato che la Regione “si impegna a pagare le spese legali nel procedimento per la morte di Willy”. Ecco i nuovi signori della tratta in Libia. La loro rete finanziaria fra Milano e Udine, 14 fermi di Salvo Palazzolo La Repubblica, 8 settembre 2020 I migranti salvati dalla nave Diciotti hanno svelato i nomi degli ultimi trafficanti, che organizzavano pure i trasferimenti dalla Sicilia verso il nord. Il più autorevole si chiama Abduselam. Il tesoro degli scafisti negli Emirati Arabi, che continuano a non rispondere alle rogatorie. I trafficanti di uomini continuano ad organizzare viaggi nel Canale di Sicilia, i loro soldi passano adesso da Milano e da Udine prima di finire nelle casseforti degli Emirati Arabi. L’ultima indagine della polizia di Stato coordinata dalla procura di Palermo diretta da Francesco Lo Voi svela i nomi dei nuovi signori della tratta che prosperano in Libia, svela soprattutto la loro rete finanziaria: i soldi pagati dai migranti per i viaggi venivano gestiti da alcuni fidati intermediari che vivono nel nostro paese. Questa notte, gli investigatori della squadra mobile di Palermo e del servizio centrale operativo hanno eseguito un provvedimento con 18 fermi. Si tratta perlopiù di cittadini eritrei che operavano nelle “cellule” della Lombardia e del Friuli. Quattro restano latitanti, probabilmente all’estero. Restano liberi anche i nuovi signori della tratta, che operano fra la Libia e il Sudan, i migranti arrivati in Italia hanno fatto cinque nomi, sono legati alle ultime storie di torture e ricatti nei campi di prigionia. Si continua a indagare per dare un’identità certa a questi personaggi. Il più autorevole lo chiamano Abduselam, si sa che un eritreo, ha una trentina d’anni, statura bassa, “voce stridula” hanno detto alcuni migranti salvati da nave Diciotti nell’agosto di due anni fa. “Vive in una grande abitazione in località Ash-Shwayrif - hanno aggiunto - dove ha fatto costruire una moschea”. Alcuni testimoni lo hanno riconosciuto in foto. Le indagini dicono che gestisce tre centri di prigionia: a Cufra (nella parte sud orientale della Libia, nella regione della Cirenaica), a Bani Walid (in Tripolitania, all’interno del distretto di Misurata) e ad Ash-Shwayrif (nel distretto di Al Jabalal Gharbi, in Tripolitania), quest’ultimo è il capo più grande, capace di contenere migliaia di persone. Un pool di magistrati continua a dare la caccia ai signori della tratta. Il provvedimento dei 18 porta le firme dei sostituti procuratori di Palermo Gery Ferrara, Claudio Camilleri, Giorgia Righi e del procuratore aggiunto Marzia Sabella. Una lunga indagine, per tratteggiare la grande rete che continua a gestire i viaggi nel Canale di Sicilia: chi organizza i barconi è in stretto contatto con chi gestisce il sistema dei pagamenti, non solo per le traversate, ma anche per raggiungere il nord Italia, o l’Europa, anche gli Stati Uniti. Per i migranti, pagano amici e parenti. Pagano ai cosiddetti “hawaladar”, gli intermediari che operano in Nord Italia, saranno poi loro a trasferire il denaro agli altri referenti dell’organizzazione, in Nord Africa e in Medio Oriente. A Milano, la base operativa del sistema Hawala era in un bar di via Felice Casati, nella zona di Porta Venezia. “Un tempo - ha spiegato Atta Wehabrebi, il primo pentito della tratta, il metodo hawala era a Roma, ma poi è cambiato tutto. Così, la maggior parte dei migranti che arrivano dalla Libia adesso vanno a Catania e ad Agrigento, poi direttamente a Milano. Prima, i parenti fanno arrivare a Milano 800 euro, per pagare il viaggio fino in Lombardia. Arrivati a Milano, fanno un’altra hawala di 1000-1200 euro”. Il pentito, fino quattro anni fa era un trafficante pure lui, ha spiegato che “la centrale hawala di Roma si era spostata perché c’erano stati degli arresti e tutti avevano paura”. Anche Atta ha parlato di Abduselam, nell’agosto 2018: “Attualmente, è il capo del traffico di uomini a Tripoli per le partenze da Misurata, soprattutto come riferimento per gli eritrei. A Misurata - ha aggiunto - ci sono circa 25mila persone in attesa di partire e vivono all’interno di hangar molto grandi, dove possono trovarsi anche 1000-1500 persone”. I soldi dei trafficanti sono al sicuro a Dubai, negli Emirati Arabi. L’indagine della squadra mobile di Palermo, diretta da Rodolfo Ruperti, dice anche questo. Un’indagine complessa, perché le richieste di rogatoria avanzate dalla procura non hanno avuto risposta. Come tutte le altre, fatte negli ultimi cinque anni. Perché già altre volte erano emerse tracce dei soldi dei trafficanti intercettando i signori della tratta in Libia. Tracce che si sono perse fra conti cifrati e codici hawala. Gran Bretagna. Wikileaks, riparte il processo sull’estradizione negli Usa per Assange di Enrico Franceschini La Repubblica, 8 settembre 2020 Dopo lo stop dovuto alla pandemia di Covid, l’udienza è ripresa tra le contestazioni fuori dal tribunale. I pm americani accusano il 49enne australiano di spionaggio e pubblicazione di documenti militari secretati. Se estradato, rischia fino a 175 anni di carcere. Il verdetto è previsto per i primi di ottobre. Con i suoi sostenitori all’esterno del tribunale Old Bailey che alzano cartelli secondo cui il procedimento in corso è una grave repressione della libertà di stampa, riprende stamane nella capitale britannica il processo per l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. Il fondatore di Wikileaks è stato incriminato lo scorso anno negli Usa per spionaggio a causa delle rivelazioni pubblicate dal “sito delle soffiate” sulla guerra in Afghanistan e in Iraq. Per le autorità americane avrebbe cospirato con l’analista dell’intelligence dell’esercito americano Chelsea Manning per hackerare un computer del Pentagono, oltre che con membri di organizzazioni di hacking, avrebbe anche cercato di reclutare hacker per fornire a WikiLeaks informazioni riservate. Per Assange fu un legittimo scoop giornalistico che è servito a denunciare violazioni dei diritti umani. Se estradato, rischierebbe fino a 175 anni di carcere. Per questo, attraverso i suoi avvocati, rifiuta l’estradizione e chiede di poter rimanere in Gran Bretagna. Assange è stato arrestato nel 2019 quando l’ambasciata dell’Ecuador a Londra lo ha praticamente espulso, dopo sette anni in cui vi si era rifugiato chiedendo asilo politico. Il giornalista di origine australiana affermava di essere vittima di una cospirazione, il cui fine ultimo era appunto la sua estradizione negli Usa, dove a suo parere sarebbe condannato senza possibilità di un’equa difesa. Ma la ragione iniziale della fuga all’interno dell’ambasciata, in violazione della libertà provvisoria che gli era stata concessa, è stata un’altra: non sottoporsi alle richieste della giustizia svedese, che voleva interrogarlo a Stoccolma per una duplice denuncia per stupro da parte di due donne, ex-volontarie di Wikileaks, con cui Assange aveva avuto rapporti sessuali. In seguito, queste accuse sono venute a cadere. A quel punto, tuttavia, il fondatore di Wikileaks era preoccupato per la richiesta di estradizione americana. La querelle diplomatico-giudiziaria si è conclusa quando il governo dell’Ecuador ha deciso di non dargli più ospitalità, citando il suo comportamento “anti sociale” all’interno dell’ambasciata. Una decisione su cui hanno probabilmente pesato anche rivelazioni di Wikileaks sull’Ecuador. Dopo l’arresto da parte di Scotland Yard, un giudice inglese lo ha condannato a un anno di carcere per la violazione dei termini della libertà provvisoria. La condanna a questo punto è stata scontata, ma Assange rimarrà detenuto per tutta la durata del processo di estradizione perché, visti i precedenti, la magistratura ha stabilito che c’è il rischio che provi a dileguarsi un’altra volta. Assange si trova attualmente nella prigione di Belmarsh, un carcere di massima sicurezza londinese, dove i suoi difensori dicono che le sue condizioni psicofisiche sono notevolmente peggiorate. Nei giorni scorsi Stella Morris, l’avvocata con la quale ha una relazione da qualche anno e che lo è andata a trovare spesso nell’ambasciata ecuadoregna, ha rivelato al Times di avere avuto in segreto due figli da Assange. Il processo di estradizione doveva cominciare in primavera, ma è stato rinviato a causa della pandemia. Si prevede un verdetto intorno ai primi di ottobre. Bielorussia, blitz nel centro di Minsk: “sequestrata” la leader dell’opposizione Kolesnikova di Rosalba Castelletti La Repubblica, 8 settembre 2020 È stata prelevata da uomini mascherati e caricata su un van. Le autorità negano l’arresto. L’appello della Ue: “Rilasciatela”. Di Maio chiede “nuove elezioni” e “sanzioni mirate”. Oltre 600 arresti durante le manifestazioni di domenica contro il presidente Lukashenko. Sono venuti a prenderla proprio come ci aveva detto. Con un van pieno di agenti. Incappucciati e senza insegne. Da allora non si hanno più tracce di Maria Kolesnikova, l’unica donna del trio che in campagna elettorale aveva guidato l’opposizione al presidente Aleksandr Lukashenko a non avere lasciato la Bielorussia. “Ho visto Maria. Volevo andare da lei per ringraziarla. Poi ho lasciato perdere e sono passata oltre. Ma ho sentito il tonfo di un telefono sull’asfalto, mi sono girata e ho visto persone in abiti civili e incappucciate che la portavano via su un van”, ha raccontato al sito indipendente Tut.by una testimone della scena nei pressi del Museo d’Arte Nazionale. Un sequestro nel pieno centro di Minsk con “tattiche illegali e metodi terroristici”, ha commentato l’opposizione, mentre le autorità bielorusse - a partire dalla polizia - negano di averla arrestata. Come Kolesnikova, altri due membri del Consiglio di Coordinamento dell’opposizione bielorussa - Anton Rodnenkov e Ivan Kravtsov - risultano dispersi. Un terzo, l’ex ambasciatore e ministro Pavel Latushko che la scorsa settimana era volato in Polonia, ha confessato di essere stato messo davanti a un ultimatum: o lasci il Paese o ti processiamo. Serghej Dylevskij è ancora in carcere. Olga Kovalkova è stata accompagnata dalla prigione al confine polacco. Mentre la Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievich è sotto inchiesta come tutti gli altri membri. Aumenta il pugno duro anche contro il movimento di piazza: almeno 633 manifestanti sono stati detenuti domenica. E non sono mancate le scene di violenza: agenti in borghese che manganellavano dimostranti inermi o rompevano la vetrina di un café dove alcuni manifestanti avevano trovato rifugio. C’è stato chi si è persino tuffato nel fiume per fuggire a manette e bastoni. Davanti a questa nuova escalation della repressione seguita alle contestate presidenziali del 9 agosto, Bruxelles e tutti i Paesi Ue hanno chiesto il rilascio di Kolesnikova. Con il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, che ha ribadito la richiesta di “nuove elezioni” e “sanzioni mirate”. Iran. Amnesty denuncia le torture praticate nelle carceri di Gerry Freda Il Giornale, 8 settembre 2020 Amnesty ha raccolto centinaia di testimonianze di iraniani incarcerati dopo le manifestazioni di protesta andate in scena nel Paese a fine 2019. Le sevizie riportate sarebbero state inflitte a centinaia di prigionieri arrestati nel Paese islamico a partire dal novembre dello scorso anno. In quel periodo, la repubblica sciita era scossa da manifestazioni di protesta contro l’aumento del prezzo della benzina, stroncate allora dal governo mediante arresti di massa e una stretta contro il web. Tali raid della polizia avrebbero determinato l’incarcerazione di, presumibilmente, 7mila persone. Il dossier dell’ong umanitaria riporta quindi, circa le torture praticate dalla repubblica degli ayatollah, delle denunce avanzate da oltre 500 di quelle migliaia di persone imprigionate con l’accusa di avere partecipato alle proteste citate contro il caro-vita. A fornire all’associazione i raccapriccianti racconti sono stati “difensori dei diritti umani, attivisti per i diritti delle minoranze, comuni cittadini tra cui minori di 10 anni, persone prelevate dagli ospedali dove erano state ricoverate, giornalisti e persone che prendevano parte alle commemorazioni funebri dei manifestanti uccisi”. In generale, il documento di Amnesty consiste in un “catalogo di scioccanti violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture e altri maltrattamenti”. Nel dettaglio, i carcerieri iraniani avrebbero sottoposto i detenuti interpellati da Amnesty a trattamenti davvero diabolici: water boarding, percosse, scosse elettriche, spruzzature di pepe sui genitali, violenza sessuale, finte esecuzioni, asportazione delle unghie di mani e piedi e persino la “posizione del pollo arrosto”. Quest’ultima prevede che il prigioniero sia tenuto sospeso a testa in giù, legato polsi e ginocchia a una sbarra e sottoposto a ulteriori sevizie. Una delle vittime di tale trattamento ha rivelato all’ong: “Il dolore era atroce. Il corpo era sotto pressione al punto che urinavo su me stesso. La mia famiglia sa che sono stato torturato, ma non sanno il modo”. L’accanimento, da parte della polizia e degli agenti dell’intelligence iraniani, ai danni dei prigionieri era inteso a costringere gli interrogati a confessare il loro coinvolgimento nei cortei di protesta organizzati nel Paese a partire dal novembre del 2019, classificati dal regime come una grave minaccia all’ordine pubblico. In particolare, i carcerieri torturavano gli arrestati affinché questi ultimi confessassero un loro coinvolgimento nelle proteste, l’appartenenza a gruppi di opposizione o contatti con governi e media stranieri. I soggetti seviziati che hanno denunciato all’ong i maltrattamenti subiti erano stati tutti incriminati da Teheran per “raduni e cospirazioni finalizzati a commettere crimini contro la sicurezza nazionale, diffusione di propaganda contro il sistema, disturbo dell’ordine pubblico e oltraggio alla Guida Suprema”. Per tali capi di imputazione, la legge locale commina condanne che vanno da un mese a 10 anni di carcere. All’indomani della pubblicazione del dossier-choc di Amnesty sulle torture praticate dalle autorità iraniane contro chi protesta, i vertici dell’associazione umanitaria hanno rincarato la dose contro la repubblica islamica. Diana Eltahawy, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa, ha infatti tuonato: “Invece di indagare sulle accuse di sparizione forzata, tortura, maltrattamenti e altri reati contro i detenuti, i pubblici ministeri iraniani sono diventati complici della campagna di repressione accusando centinaia di persone”. Egitto. Ministero Salute nega cattive condizioni sanitarie dei detenuti di Borg el Arab agenzianova.com, 8 settembre 2020 Il ministero della Salute egiziano ha negato il deterioramento delle condizioni di salute dei detenuti nel carcere di Borg al Arab, sostenendo che si tratterebbe di “accuse dei Fratelli musulmani”, gruppo messo al bando in Egitto. Lo ha riferito un funzionario della sicurezza egiziana all’agenzia di stampa statale “Mena”. “Il governo egiziano vuole fornire a tutti i detenuti nel paese le cure mediche necessarie attraverso ospedali affiliati al sistema dei penitenziari nel paese, sostenendo che sono dotati dei più recenti dispositivi medici e di squadre mediche qualificate”, ha spiegato il funzionario. In precedenza, attraverso i media i Fratelli musulmani hanno annunciato che dei detenuti nel carcere di Borg el Arab sono in cattive condizioni di salute a causa della mancanza di cure mediche adeguate presso l’ospedale della prigione. Il funzionario del ministero della Salute ha accusato il gruppo di istigazione. La diffusione di questo genere di notizie “è in continuità con l’approccio ostile dei Fratelli musulmani adottato contro le istituzioni egiziane a rientra in una strategia mediatica di istigazione che il gruppo perpetra attraverso i suoi media”. Alla fine del 2013 il governo egiziano ha designato i Fratelli musulmani come “gruppo terroristico”, sequestrando tutte le sedi. Egitto. Zaki da 7 mesi in carcere: 150mila firme per la liberazione Avvenire, 8 settembre 2020 Il ricercatore egiziano dell’Università di Bologna è accusato di propaganda sovversiva. Sconosciuta la data della prossima udienza. In occasione dei 7 mesi dall’arresto di Patrick George Zaky, una delegazione di Amnesty International Italia ha raccolto 150mila firme per chiedere che sia restituita la libertà allo studente egiziano dell’Università di Bologna, nonché attivista per i diritti umani, arrestato in patria per propaganda sovversiva. Le firme raccolte saranno consegnate da Amnesty in forma privata all’ambasciata d’Egitto a Roma. Ad anticiparlo è l’Ansa, che ha raccolto l’appello di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia. “Siamo preoccupati per la salute fisica e mentale di Patrick”, spiega Noury. “Nella prigione di Tora nella quale è detenuto, si continua a morire di Covid-19. A questo si aggiungono la frammentarietà delle comunicazioni con l’esterno e l’incertezza sul futuro”, ha aggiunto il portavoce che ci tiene a sottolineare come l’alto numero di firme siano la prova della grande mobilitazione che c’è stata in Italia nel corso dei molti mesi in cui il ricercatore è stato tenuto in carcere. “Confidiamo che le firme verranno prese in consegna dall’ambasciata e che di questa consegna ne venga data comunicazione al governo del Cairo”, è l’auspicio di Amnesty. Con questo gesto simbolico la Ong chiederà nuovamente che le accuse verso Zaky siano annullate e che il giovane venga scarcerato dopo oltre 200 giorni di prigionia. Oltre alle preoccupazioni legate alla salute del ricercatore, soprattutto dopo l’ultima scarna comunicazione fatta avere alla famiglia (“Sono in buona salute e spero che tu sia in buona salute” c’era scritto sul messaggio), c’è anche ansia sul futuro. Noury ricorda infatti come ad oggi “non si sappia neanche in che data si terrà la prossima udienza. “Speriamo davvero che tutto questo si concluda presto”, ha concluso il portavoce. Arabia Saudita. Khashoggi, 8 condanne. La fidanzata: “Parodia di giustizia” di Marta Serafini Corriere della Sera, 8 settembre 2020 Abolite cinque condanne a morte. Le critiche a Riad: nessun funzionario o mandante tra le persone punite. “Una totale derisione della giustizia”. Con queste parole ieri Hatice Cengiz, la fidanzata di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita dissidente ucciso alla fine del 2018, ha commentato la sentenza della corte saudita che ha condannato otto persone a pene che vanno dai 7 ai 20 anni rivedendo un precedente verdetto che prevedeva cinque condanne a morte. La sentenza è stata ferocemente criticata anche dalle organizzazioni per i diritti umani e da Agnes Callamard, la relatrice speciale per le esecuzioni extragiudiziali dell’Onu, autrice di un rapporto in cui si sosteneva l’esistenza di “prove credibili” sulle responsabilità individuali di alti funzionari sauditi e del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, considerato il mandante dell’omicidio. Nessun alto funzionario né nessun mandante invece è stato giudicato colpevole, come ha sottolineato la stessa Callamard su Twitter. Le polemiche sono anche legate al fatto che a maggio, nelle ultime ore del Ramadan, in linea con la tradizione islamica che incoraggia gesti di clemenza, la famiglia dell’ex editorialista del Washington Post ha perdonato i killer, aprendo così la strada a una revisione della condanna a morte inflitta in primo grado. L’annuncio era stato accompagnato da forti critiche per i precedenti trasferimenti dalle autorità del Regno di denaro e altri beni ai figli del reporter. Khashoggi è stato ucciso nel consolato di Riad a Istanbul il 2 ottobre 2018. I suoi resti non sono mai stati ritrovati. Il governo saudita ha parlato di un’operazione non autorizzata di servizi deviati, negando ogni coinvolgimento di Mbs, nel mirino dei sospetti della Cia. A luglio poi si è aperto a Istanbul un processo in contumacia contro 20 sauditi, accusati di essere stati inviati da Riad per uccidere. Ma, di fatto, i mandanti di uno degli omicidi più cruenti della nostra epoca restano ancora impuniti.