Detenuti in pericolo di vita ma “compatibili con il carcere” di Gian Joseph Morici* ilcircolaccio.it, 7 settembre 2020 Potrebbe sembrare paradossale se non fosse la triste realtà della situazione carceraria italiana, dove per stabilire la compatibilità con la detenzione penitenziaria entrano in gioco varianti che poco hanno in comune con il concetto di giustizia. Giovedì - come pubblicato nell’articolo di ieri (È malato ma lo sbattono di nuovo in galera: ucciso dalla furia antiscarcerazioni) a firma del giornalista Damiano Aliprandi, su “Il Dubbio”, è morto un detenuto nel carcere di Parma. Era tra quelli gravemente malati che a fine aprile aveva usufruito della detenzione domiciliare a causa delle sue gravi condizioni di salute. Già vittima di un infarto, afflitto da scompensi polmonari al punto che era costretto a respirare con l’aiuto della bombola dell’ossigeno 24 ore su 24, il magistrato di sorveglianza, anche per l’emergenza Covid 19, ne aveva disposto la scarcerazione. Poi, scoppia il “caso scarcerazioni” e sull’onda emotiva si procede a una stringente rivalutazione del caso che finisce con l’attestare la compatibilità delle sue condizioni di salute col regime carcerario. L’assegnazione del detenuto al centro clinico del carcere, le difficoltà a curarlo all’interno del penitenziario, il trasferimento in ospedale nel reparto detentivo, la morte. Fine della storia! Soddisfatta l’opinione pubblica a seguito della vittoria del processo mediatico, soddisfatta la politica dei proclami e del “parlare alla pancia degli italiani”, a prescindere dall’opinione che ognuno di noi può avere in materia di certezza e di qualità della pena rimangono le domande senza risposta. Qual è il senso di norme che prevedono una valutazione di compatibilità con la detenzione in carcere, se poi la valutazione della stessa è affidata al comune sentire, al processo mediatico e all’interesse politico del momento? Quali sono i criteri adottati per stabilire la compatibilità con il carcere di un detenuto affetto da gravi patologie? Se alla prima domanda non si può dare alcuna risposta, se non quella che ognuno di noi nel suo intimo ben conosce, la seconda una risposta potrebbe trovarla nell’art. 61 c.p.c., che consente al giudice di avvalersi di uno o più consulenti tecnici (Ctu) per farsi assistere nella valutazione di questioni tecniche in materia delle quali non ha adeguata competenza, come nel caso della valutazione dello stato di salute del detenuto. Una figura dunque centrale dalla quale dipende l’esito di un processo o un’istanza. La nomina del Consulente Tecnico d’Ufficio è di natura fiduciaria e ogni giudice si avvale di professionisti iscritti in appositi Albi professionali, tenuti presso i Tribunali. Anche la parte ha diritto a nominare dei periti che possiedano gli stessi requisiti e professionalità. In teoria, dunque, tanto il giudice, quanto la difesa, dispongono degli stessi strumenti. In realtà così non è. Il giudice, perito dei periti - che non ha competenza tecnica della materia - viene chiamato ad esprimersi, valutando, da una parte le relazioni tecniche di un suo incaricato, nel quale ovviamente ha la massima fiducia - avendolo nominato proprio a seguito di un rapporto fiduciario -, dall’altra, quelle di un perito di fiducia della difesa. Ne risulta pertanto che, seppure non sotto il profilo formale, l’imparzialità del giudice nell’emettere una sentenza o nell’accogliere un’istanza venga già condizionata dalla fiducia accordata in partenza ai consulenti che ha nominato. Inutile chiedersi quindi quale sia il valore attribuito al perito o ai periti nominati dalla difesa rispetto quello attribuito a consulenti nominati dallo stesso giudice. La morte del detenuto ha dato una chiara risposta. Un aspetto certamente non secondario - a prescindere dal caso in questione - è poi quello del perito nominato dal Tribunale che - seppur inconsciamente - sarà portato a essere più incline a dare un parere quanto più favorevole possibile a quello che riterrà essere l’indirizzo del giudice che gli ha conferito l’incarico fiduciario. Come può, dunque, la consulenza disposta da un giudice fornire l’acquisizione di informazioni utili a una decisione precisa ed equa? Perché un medico legale - anche tra i più rinomati e spesso nominato quale Ctu - nel momento in cui viene nominato da un giudice è meritevole della massima fiducia e gli vengono riconosciute doti professionali e morali di altissimo livello, mentre se viene nominato dalla difesa, nello stesso Tribunale nel quale gli sono state sempre riconosciute queste qualità sembra averle perse? Le divergenze di pareri espressi sul singolo caso non riguardano soltanto i Ctu e i periti di parte, poiché, talvolta, i pareri del medico legale nominato dal giudice sono contrastanti finanche con quelli dei medici di strutture pubbliche che hanno in cura un paziente detenuto. È questo il caso di Antonio Vaccarino (anziano, malato e in attesa di giudizio) il quale il 3 luglio, a causa di un forte dolore toracico viene trasportato urgentemente al pronto soccorso su richiesta da parte del servizio sanitario del penitenziario che ritiene il detenuto sia in pericolo di vita. Ricoverato d’urgenza nel reparto di cardiologia, viene sottoposto a coronarografia e ad intervento di angioplastica con impianto di stent medicato. Vaccarino era già affetto da gravi patologie cardiache e i suoi legali di fiducia, gli avvocati difensori Giovanna Angelo e Baldassare Lauria, avevano più volte presentato istanza chiedendone gli arresti domiciliari per gravi motivi di salute e per la sua età avanzata. Istanze sempre rigettate dal Tribunale di Marsala (compreso quella presentata successivamente all’intervento di angioplastica) in quanto per i Ctu nominati dal giudice la sua condizione di salute era compatibile con il carcere. Nonostante dunque le relazioni dei periti di parte presentate dalla difesa - nelle quali si palesavano i timori di quanto poi verificatosi il 3 luglio - nonostante il servizio sanitario del penitenziario avesse ritenuto il detenuto in pericolo di vita, nonostante fosse stato ricoverato con urgenza, le sue condizioni di salute erano compatibili con il carcere. Sottolineavano i Ctu, comunque, la necessità di eseguire successiva scintigrafia miocardica per valutare la persistenza della pervietà dello stent e se esistessero fenomeni di ischemia residua, e inoltre, procedere a una rivalutazione Holter al fine di considerare l’opportunità di un impianto di pacemaker. Il 29 luglio, l’ambulatorio di cardiologia della struttura penitenziaria registrava il referto Holter dal quale risultava come il paziente avesse avuto fibrillazioni atriali per tutta la durata della registrazione e come nel corso della stessa si fossero verificate 11 pause, di cui la più lunga di 3,79 secondi. La stessa struttura penitenziaria, considerata la gravità della situazione, richiedeva che il paziente-detenuto fosse sottoposto a una visita aritmologica presso un centro di riferimento per le aritmie. Gli avvocati Baldassare Lauria e Giovanna Angelo, dinanzi al peggioramento della situazione clinica del Vaccarino, nell’evidenziare come lo stato detentivo rischi di esasperare ulteriormente le condizioni di salute anche per il grave stato di ansia che affligge il loro assistito, presentano nuova richiesta di sostituzione della misura in atto con quella degli arresti domiciliari, ponendo all’attenzione del Tribunale che le 11 pause notturne (il cuore si ferma) sono il campanello d’allarme delle malattie del sistema cardio-circolatorio che costituiscono a tutt’oggi la più frequente causa di morte. Il 4 settembre, il Tribunale di Marsala ha conferito un nuovo incarico ai periti che già in precedenza avevano seguito il caso, accertandone sempre la compatibilità del detenuto con il regime di carcerazione, formulando il seguente quesito: “Accertino i periti le condizioni attuali di salute dell’imputato Vaccarino Antonio Alla luce degli accertamenti diagnostici svolti dopo l’effettuazione della precedente attività peritale, verificando se le attuali condizioni siano meno compatibili con il regime carcerario, eventualmente anche con la visita dell’imputato”. L’avv. Angelo, presente in udienza, ha chiesto di poter integrare il quesito del giudice affinché i periti verifichino se per la situazione cardiologica e di ipertensione attuale il Vaccarino è in pericolo di vita; se lo stato di detenzione provoca uno stato di ansia che può aggravarne le condizioni di salute; se una eventuale contrazione del Covid in carcere può rappresentare un rischio per le condizioni di salute dell’assistito e se può causare pericolo di vita. Per il Tribunale, le argomentazioni proposte dalla difesa - che forse avrebbe anche ampliato - sono da ritenersi comprese nell’unico quesito posto dal Tribunale. Ancora una volta, l’ultima parola spetterà ai Consulenti Tecnici d’Ufficio nominati dal giudice, che determineranno l’esito della decisione. Escludendo - così com’è giusto che sia - qualsivoglia forma di dolo o di negligenza, appare evidente come le norme che regolano la nomina dei Ctu andrebbero riviste, impedendo che questi si trasformino in una controparte dei periti di parte, con un ascendente sul giudicante che li ha nominati in un rapporto fiduciario. Questo al fine di garantire un equo processo e l’emergere di una verità processuale senza condizionamento - seppure inconsapevole - che permetta al giudice di osservare quella terzietà di giudizio alla quale è chiamato. Quanti casi come quello di Parma dovranno ripetersi prima che vengano riviste le norme attualmente in vigore? *Giornalista e scrittore La peste del linguaggio. Quando il detenuto diventa una “persona privata della libertà” di Nando dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2020 Ma benedetti figli, non ce l’hanno un linguista? Non dico un Tullio De Mauro, ma una persona di buon senso che conosca l’italiano? Mi riferisco a chi in Parlamento, nei ministeri o altrove maneggia con straordinario sprezzo del ridicolo la nostra lingua per sfornare leggi e norme. Stavo giusto meditando su quale persona o situazione scegliere per queste “Storie italiane” quando un telegiornale della sera ha rivoluzionato tutto. Parlando dello scandalo primaverile delle cinquecento scarcerazioni in massa di boss e trafficanti, il notiziario ha nominato un “Garante delle persone private della libertà”. Che una volta era prima di tutto Garante dei detenuti. I quali, a quanto pare, annoverano ora tra i loro diritti quello di non essere più chiamati tali. Una nuova, classica operazione di travestimento semantico. A volta queste operazioni hanno un senso, come quando la domestica è diventata “collaboratrice domestica”. Altre volte sono ridicole, come quando il netturbino (già diverso dallo spazzino) sarebbe dovuto diventare operatore ecologico. Altre volte sono tragicomiche, come in questo caso. Che cosa vuole dire “persone private della libertà”? Si rendono conto gli sprovveduti di quel che scrivono? Purtroppo non c’è più un Calvino che deplori, quando arriva, “la peste del linguaggio”. Ma qui la peste del politicamente corretto colpisce davvero senza pietà. Perché a essere privati della libertà non ci sono solo i detenuti, che ogni persona assennata continuerà a chiamare tecnicamente, e senza intenti offensivi, “detenuti”. Ma ci sono altre numerose schiere di persone. Per esempio le donne - mogli, fidanzate e figlie - degli uomini di mafia. Ne stiamo leggendo ormai una quantità di storie raccapriccianti. Vere forme di schiavitù, rispetto alle quali la libertà di azione e di parola di un detenuto diventa quasi un miraggio. Oppure ci sono i testimoni di giustizia, anch’essi privati della loro libertà e in più, spesso, anche del nome. Sono di fatto dei “fine pena mai”, perché non ci sarà mai un medico o un giudice, per quanto corrotto o codardo, capace di restituirli avita libera. E di quale libertà godono poi i minori che si affastellano negli opifici cinesi, tra il posto di lavoro e la branda, senza poterne uscire per anni? E ancora, ma si potrebbe continuare a lungo: di che libertà godono le giovani prostitute vittime di tratta a sedici, diciassette anni, tenute come bestie-bancomat dalle organizzazioni che le sfruttano? E infine, pietra di paragone massima: e gli ostaggi dei sequestri di persona? Se le parole hanno un senso il Garante delle “persone private della libertà” deve occuparsi anche di tutti costoro, deve scovare i luoghi in cui i loro diritti vengono conculcati e poi difenderne la domanda di giustizia, trattandosi per di più non di “presunti colpevoli” ma di esseri certamente innocenti. Anzi: da che parte starà questa figura mitologica di garante, dovesse mai essere chiamata a scegliere tra i diritti di questi innocenti “privati della libertà” e quelli di chi, avendogliela tolta, incorresse poi nella punizione dello Stato? Quesito interessante e imbarazzante. Già immagino qualcuno sorridere, con aria di superiorità. “Ma il garante mica deve pensare a tutte queste persone. Pensa ai diritti dei detenuti”. Appunto, e torniamo al punto di partenza. Se alla parola conseguono i fatti, tutto cambia (e forse non sarebbe male, visto che le categorie di cui abbiamo parlato sono totalmente indifese). Se le parole sono invece maquillage che toglie a una società i suoi significati, siamo alla truffa, o alla barzelletta. E significa che c’è il Covid ma c’è anche la peste del linguaggio. E a proposito. Quello che viene giustamente invocato è il distanziamento “fisico”. Contro le distanze sociali è da più di due secoli che ci battiamo. Ribadisco: dategli un linguista. Suicidi nella Polizia Penitenziaria, FdI presenta interrogazione al ministro Bonafede di Domenico Ferlita blastingnews.com, 7 settembre 2020 I deputati Galatino, Varchi e Ferro (FdI) chiedono al ministro Bonafede che vengano adottate misure per garantire più sicurezza nelle carceri. Dopo i recenti fatti di cronaca riguardanti i suicidi di appartenenti al Corpo della Polizia Penitenziaria, i deputati di Fratelli d’Italia Davide Galatino, Maria Carolina Varchi e Wanda Ferro hanno presentato un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, al fine di chiedere nuovi interventi atti a garantire la sicurezza nelle carceri e ambienti di lavoro più dignitosi. I deputati di Fratelli d’Italia, infatti, continuano la loro battaglia sulle problematiche che si riscontrano negli istituti penitenziari italiani e, attraverso l’interrogazione parlamentare presentata nei giorni scorsi, chiedono al ministro Bonafede che vengano adottate le misure necessarie per permettere agli agenti di Polizia Penitenziaria di svolgere le loro mansioni in totale sicurezza. Tra le richieste, anche nuovi provvedimenti per garantire ambienti di lavoro più dignitosi, oltre ad un incremento del personale, che ormai risulta carente da tempo e ad una formazione continua per il personale che opera in ambienti difficili come quelli delle carceri che spesso si trasformano in teatri di aggressioni, violenze e minacce nei confronti degli operatori penitenziari. FdI: ‘Agenti svolgono il servizio in contesti critici’ - “Gli agenti di Polizia Penitenziaria svolgono in prima linea in carcere il loro servizio in un contesto segnato da numerose criticità strutturali, gestionali e numeriche, aggravate dall’ultimo periodo a causa dell’emergenza”. Questo è quanto scrivono i deputati Galatino, Varchi e Ferro nell’interrogazione parlamentare presentata nei giorni scorsi al ministro Bonafede, dopo i recenti episodi di suicidi verificatisi in vari istituti penitenziari italiani. Preoccupanti i suicidi nelle carceri - Ad esempio, a Norma in provincia di Latina, una poliziotta penitenziaria di 59 anni in servizio nel carcere del capoluogo si è tolta la vita lo scorso agosto, lanciandosi dal balcone di casa. Un altro avvenimento drammatico, invece, risale a poco più di una settimana fa, quando un’altra agente di Polizia Penitenziaria, in servizio nel carcere Pagliarelli di Palermo, si è tolta la vita sparandosi con la pistola d’ordinanza. Dati piuttosto preoccupanti che hanno indotto già diverse settimane fa l’ex sottosegretario al ministero della Giustizia Jacopo Morrone a sollecitare la massima attenzione sul fenomeno all’amministrazione penitenziaria. Inoltre, il crescente numero di suicidi fra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria ha spinto i deputati Ferro, Varchi e Galatino (FdI) a chiedere interventi urgenti al ministro, allo scopo di scongiurare il fenomeno. La giustizia resiste all’effetto lockdown, ora si teme il contraccolpo. Aule censite per la ripresa di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 7 settembre 2020 Crollo dei processi penali definiti e delle cause civili celebrate, entrambi diminuiti del 40 per cento, ma arretrato del primo semestre 2020 miracolosamente quasi in linea con quello del primo semestre 2019. La giustizia ai tempi del coronavirus. Il confinamento da inizio marzo a inizio giugno ha paralizzato l’attività processuale ad eccezione delle cause urgenti nel civile e delle convalide dei fermi e delle “direttissime” nel penale, mentre la farraginosa rimessa in moto post-lockdown ha dovuto scontare non soltanto la penuria di aule grandi nelle quali poter distanziare i “protagonisti” della maggior parte dei processi, ma anche (e soprattutto) il pressante invito da parte del ministero al personale di cancelleria a lavorare in modalità smart working. È il paradosso del virus Covid nella giustizia: crollo dei processi penali definiti e delle cause civili celebrate, entrambi diminuiti del 40%, ma arretrato del primo semestre 2020 miracolosamente quasi in linea con quello del primo semestre 2019. Possibile? Forse sì, per una parte. Forse invece illusione ottica che, per un’altra parte, evaporerà presto. Per provare a interpretare i dati bisogna tenere presente che il confinamento da inizio marzo a inizio giugno ha paralizzato l’attività processuale ad eccezione delle cause urgenti nel civile e delle convalide dei fermi e delle “direttissime” nel penale, svolte con collegamenti a distanza su piattaforme come Microsoft Teams; e che poi la farraginosa rimessa in moto post-lockdown ha dovuto scontare non soltanto la penuria di aule grandi nelle quali poter distanziare i tanti giudici-avvocati-imputati-cancellieri-testimoni-pubblico della maggior parte dei processi, ma anche e soprattutto il pressante invito ministeriale al personale di cancelleria a lavorare in smart working e a recarsi in ufficio al 30% per un totale di non più di 2/3 giorni la settimana: con però la controindicazione, già profetizzata in primavera dal presidente del Tribunale Roberto Bichi, che l’indicazione delle circolari del Ministero di privilegiare il lavoro a distanza da casa si sarebbe scontrata in concreto non soltanto con la claudicante “disponibilità di efficaci strumenti informatici”, ma anche e soprattutto con il fatto che i cancellieri, “nonostante le richieste che nel corso del tempo sono state reiterate dai capi degli Uffici giudiziari di tutto il Paese al Ministero della Giustizia, non hanno accesso ai registri di cognizione civile e penale”. In più si sono aggiunti gli impulsi “contraddittori” del legislatore in materia di udienze telematiche, prima estese quasi a ogni processo da un decreto legge, e poi in 8 giorni ricondotte da un altro decreto legge quasi solo al consenso dei difensori fuori dallo standard per convalide degli arresti e direttissime. Il risultato è quello che si può leggere nelle tabelle. Nel penale i primi sei mesi dell’anno (dove pienamente lavorativi sono stati solo gennaio e febbraio) hanno visto i magistrati definire il 38% di procedimenti in meno del primo semestre 2019 nei reati a competenza monocratica (5.167 contro 8.239) e il 42% in meno in quelli collegiali (257 contro 441). Statistiche complessive nelle quali ci sono punte estreme in un senso e nell’altro, come nell’ottava sezione tra marzo e luglio è riuscita a celebrare 250 processi monocratici e 11 collegiali nonostante la presidente Luisa Balzarotti abbia segnalato alla dirigenza l’incidenza negativa di ricorrenti mancate trasmissioni degli atti telematici per le “direttissime”, omesse citazioni di testi e notifiche di competenza della Procura. Discorso a parte per il tracollo dell’Ufficio Gip (meno 70%), che trova però fondamento nel disastroso incendio dello scorso 28 marzo, dal quale la sezione dei giudici delle indagini e delle udienze preliminari ancora non si è logisticamente ripresa a tutt’oggi: qui appena 5.448 procedimenti definiti nei primi sei mesi contro i 17.677 del corrispondente periodo 2019. Tuttavia - e qui sta il dato curioso - il numero dei procedimenti pendenti non è schizzato alle stelle: in Tribunale nel monocratico erano 13.124 a fine giugno 2019 e sono 13.729 a fine giugno 2020, erano 930 nel collegiale e ora sono 920, e proprio nel disastrato Gip sono persino diminuiti da 14.242 a 13.722. La spiegazione sembra stare nel fatto che, se il virus ha bloccato i processi, i mesi di confinamento hanno però rarefatto anche i reati e il contenzioso: al monocratico invece di 9.186 nuovi fascicoli ne sono arrivati solo 5.250 nei primi sei mesi, al collegiale 221 invece di 425, al Gip solo 6.040 invece dei 17.817 del primo semestre 2019 (complessivamente dunque quasi il 60% in meno di nuovi arrivi). Solo che bisognerà vedere se sia davvero così, o se invece queste ridotte sopravvenienze dipendano dal “congelamento” nei mesi scorsi di una massa di lavoro che, una volta “scongelata”, si abbatterà di nuovo sugli uffici: è questo ad esempio il caso più probabile all’Ufficio Gip, dove la Procura, per non appesantire la situazione già critica, ha a lungo evitato di trasmettere al Gip tutta una serie di richieste per procedimenti già definiti di fatto dai pm. Stesso andamento mostra nel suo complesso il settore civile, che va dal societario al lavoro, dai divorzi ai fallimenti: le cause definite nel primo semestre 2020 sono state 33.489 contro le 56.400 del primo semestre 2019 (meno 40%), ma il peggioramento si è riflettuto in maniera meno diretta sulle pendenze, salite per fortuna non in proporzione a 90.167 da 83.617, anche in forza del fatto che invece di arrivare 55.817 nuovi procedimenti ne sono arrivati 38.391. In vista della ripresa delle udienze da oggi dopo la sospensione feriale estiva, il presidente del Tribunale ha censito la capienza delle aule disponibili. Quelle “normali” sono 33 e al massimo possono contenere (con il distanziamento richiesto) i 3 giudici con il cancelliere e il fonico sulla cattedra, 10 persone in aula (pm e avvocati), e 2 detenuti dietro le sbarre: vuol dire processi al massimo con 5/7 imputati. Saranno dunque contesi i pochi spazi che consentono dibattimenti con molte più persone, come le aule dell’Assise d’Appello, l’aula bunker di San Vittore (20 detenuti, tre giudici con cancelliere e fonico, 24 avvocati più il pm, 15 persone del pubblico) e le due aule bunker invece in periferia (50 avvocati, 20 detenuti, 15 di pubblico). La beffa per i figli di femminicidio: la legge c’è ma i soldi non arrivano di Cristina Nadotti La Repubblica, 7 settembre 2020 Sono 300 euro al mese per le spese mediche e psicologiche. Ma, a due mesi dall’approvazione del decreto, per le famiglie sono ancora un miraggio. Due nonne raccontano le difficoltà della burocrazia e di crescere questi bimbi senza aiuti. Ci sono i 14,5 milioni di euro da spendere per il 2020 e c’è il regolamento che indica chi e come, tra gli orfani di femminicidio, ha diritto a 300 euro al mese come rimborso per spese sanitarie, oppure a un finanziamento per borse di studio o avviamento alla professione. Eppure, fare le domande per richiedere i fondi è complicato e farraginoso. Lo denunciano le associazioni e lo testimoniano le storie delle famiglie affidatarie, famiglie per le quali 300 euro al mese fanno la differenza. Renza Volpini, 68 anni, ha in affidamento il nipote Omar, 17 anni. Aveva soltanto quattro anni quando ha assistito all’omicidio della madre e da allora la necessità di sostegno psicologico è stata costante. Sua nonna vive con la pensione di reversibilità del marito, mancato sette anni fa, e il suo assegno sociale: “Sono circa 1300 euro al mese - racconta Volpini - ma adesso è molto meno perché ho dovuto fare un finanziamento per comprare il computer a Omar, che studia grafica. Ogni mese per lui spendo 100 euro soltanto di medicine e poi c’è la terapia psicologica”. In tutti questi anni di crisi violente, Omar e sua nonna hanno avuto spesso l’aiuto del Comune di Canneto sull’Oglio e della Asl, ma non basta. “Non è colpa loro - dice la nonna - mio nipote ha bisogno di sostegno continuo, non di una visita ogni 15 giorni. Adesso mi hanno parlato di una nuova terapia, ma andrebbe fatta privatamente. E noi con 900 euro dobbiamo vivere in due”. Appena saputo del decreto attuativo, Renza Volpini è andata in prefettura a Mantova, perché è appunto in Prefettura che vanno presentate le domande. “Mi hanno detto che non ne sapevano nulla e si sarebbero informati - riferisce - due giorni dopo mi hanno telefonato, molto gentili, e mi hanno spiegato come fare. Ma devo scrivere un’istanza di richiesta e io non sono capace”. A Catania, invece, la prefettura, almeno fino a pochi giorni fa, “non era preparata”, riferisce Vera Squatrito, la madre di Giordana di Stefano, uccisa dall’ex convivente nel 2015. La loro figlia adesso ha nove anni ed è la nonna, insieme al compagno, a prendersene cura: “Non siamo né poveri, né ricchi - dice Squatrito - ma bambini come mia nipote hanno bisogno di cure e sostegno continuo. E io ne ho soltanto una, ci sono famiglie che hanno tre fratellini rimasti orfani”. Anche per questa bambina, come per Omar, le cure psicologiche sono fondamentali: “Adesso vede la psicologa una volta alla settimana, ma ci sono stati momenti difficili in cui erano necessarie anche due sedute. Ho sempre pagato di tasca mia, perché la Asl non riesce a soddisfare tutte le richieste”. Squatrito risponde dopo aver accompagnato la nipote a lezione di equitazione: “Ha cominciato con l’ippoterapia - racconta - e le ha fatto un gran bene, adesso si è innamorata dei cavalli, cerchiamo di farla continuare, ma è una spesa grossa. Grazie anche alle associazioni che ci seguono sono comunque riuscita subito a fare la domanda per i 300 euro. Speriamo arrivino presto”. Proprio le associazioni denunciano altre difficoltà nel richiedere i contributi: “È necessaria una campagna di formazione ed informazione a livello istituzionale - dice l’avvocata Patrizia Schiarizza, fondatrice de “Il giardino segreto” - la procedura è complicata e ricalca quella per l’indennizzo dovuto alle vittime di reati di stampo mafioso e reati intenzionali violenti: riteniamo che i familiari non avranno accesso ai fondi prima di 18 mesi dalla domanda. Inoltre, il regolamento prevede che a richiedere le domande possa essere anche il genitore esercente la responsabilità genitoriale, quindi non considera la difficoltà dei familiari di relazionarsi col padre in carcere, dal quale vogliono solo stare lontani, perché spesso hanno paura. Infine - conclude l’avvocata - c’è il grande problema dei numeri e dei dati, poiché non ne esistono di ufficiali sugli orfani”. Alle osservazioni delle associazioni risponde Raffaele Cannizzaro, commissario per il coordinamento delle iniziative di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso e intenzionali violenti. “Lo scorso 4 settembre ho firmato la circolare per le prefetture per facilitare la richiesta dei 300 euro per le spese mediche, con moduli prestampati. Capisco le esigenze delle famiglie, ma dal momento in cui un regolamento viene pubblicato, alla sua attuazione, è sempre necessario un po’ di tempo. C’è stato agosto di mezzo e il coronavirus, ma stiamo facendo del nostro meglio per assegnare i fondi. Quanto al numero degli aventi diritto, stimiamo siano circa 2 mila, ma è una cifra in eccesso. In ogni caso, visto che il sostegno si può chiedere anche se la sentenza relativa al reato non è definitiva, se in seguito si dovesse accertare che non si trattava di femminicidio i fondi eventualmente ottenuti non si restituiranno, perché riteniamo comunque fondamentale aiutare gli orfani, qualsiasi sia il motivo che li ha resi tali”. Cannizzaro spiega anche come saranno ripartiti i fondi in caso di domande in eccesso rispetto alla disponibilità: “Se arriveranno più domande, i fondi si ridurranno proporzionalmente, partiremo prima di tutto dall’assegnazione dei contributi per spese mediche, perché ci è chiara la loro urgenza”. Quanto all’erogazione di borse di studio e la frequenza gratuita o semigratuita in convitti e istituzioni educative e di istruzione, Cannizzaro conferma che il comitato è impegnato in una serie di riunioni serrate e che “presto saranno stipulate le convenzioni”. Sospensione della pena per i reati di terrorismo di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 7 settembre 2020 La Corte costituzionale sul decreto legislativo 7/2015. Sospendibile la pena per i reati di terrorismo nel caso di atti commessi antecedente all’entrata in vigore del decreto legislativo 7/2015. Lo afferma la Corte costituzionale con la sentenza 193/2020 depositata il giorno 5/8/2020. Il caso di specie trae origine dall’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte emessa da parte della corte d’assise d’appello di Brescia. L’eccezione d’illegittimità costituzionale aveva ad oggetto l’art. 3 bis del decreto legislativo 7/2015. Tale norma modifica l’articolo 4 bis comma 1 della legge 354/1975 richiamato dall’art. 656, comma 9, lett. a) del codice di procedura penale. A seguito della predetta modifica apportata all’ordinamento penitenziario, viene ad essere ricompreso tra i reati per i quali viene previsto il divieto di sospensione della pena anche il reato d’immigrazione clandestina previsto dall’art. 12 del decreto legislativo 286/1998. Il giudice remittente rilevava nell’attuale formulazione normativa una violazione al dettato costituzionale. Ad esserne oggetto era il principio posto dal comma secondo dell’art 25 della Costituzione, che vieta la retroattività delle norme penali di sfavore. La Costituzione con evidente fine garantistico pone una ben precisa direttiva per il legislatore ordinario imponendogli di non porre in essere norme penali più sfavorevoli con effetto retroattivo. Precisa il giudice remittente come l’assenza nell’attuale formulazione normativa del decreto legislativo 7/2015 di una norma che espressamente impedisca un’applicazione retroattiva del divieto di sospensione della pena in esso previsto comporti un innegabile violazione del dettato costituzionale che vieta espressamente la retroazione delle norme penali sfavorevoli. A seguito dell’entrata in vigore del decreto legislativo 7/2015 infatti, come osservato da parte del giudice remittente, il divieto di sospensione dell’esecuzione della pena diviene applicabile anche al reato previsto dall’art.12 del decreto legislativo 286/1998 che sanziona il reato di immigrazione clandestina. I giudici della Consulta decidono la questione posta sulla base delle distinzioni compiute in precedenza sulla base della natura delle norme dirette a regolamentare l’esecuzione penitenziaria. Tali norme erano sempre state distinte in due distinte tipologie a seconda della loro funzione e dei loro effetti sulla situazione del detenuto o di chi comunque si vede sottoposto ad un trattamento penitenziario. Le disposizioni inerenti l’esecuzione penitenziaria infatti vengono suddivise tra norme che comportano una mera modifica delle modalità esecutive della pena e norme che comportano una modificazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale del detenuto. Proseguono i giudici della Consulta spiegando come anche in assenza di una disposizione specifica, diretta a disciplinare l’eventuale applicabilità del divieto di sospensione anche ai fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo 7/2015, nulla impedisca al giudice di ritenere applicabile il divieto di sospensione dell’esecuzione ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore. La norma oggetto del giudizio costituzionale, pertanto, e il suo divieto di sospensione dell’esecuzione, non si rivelano di per sé incostituzionali, potendosi evitare la lesione del dettato costituzionale sulla base di un’interpretazione che tenga conto del divieto d’irretroattività delle norme penali sfavorevoli. Furto con strappo quando la violenza è rivolta verso la cosa e in via indiretta contro la persona di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2020 La condotta tipica del delitto di furto con strappo si realizza quando la violenza è immediatamente rivolta verso la cosa e solo in via indiretta verso la persona che la detiene, anche se, a causa della relazione fisica intercorrente tra cosa sottratta e possessore, può derivare una ripercussione indiretta e involontaria sulla vittima. Nel caso esaminato dalla Suprema corte con la sentenza 17953/2020, il reato, nella fattispecie tentato, è stato ravvisato nei confronti dell’imputata, la quale aveva tentato di impossessassi della collanina d’oro della persona offesa strappandogliela dal collo ma non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla propria volontà. Secondo la Corte, ai fini della configurabilità del furto con strappo, lo “strappo”, pur connotato da un qualche grado di violenza è comunque un’azione esercitata sulla cosa e non sulla persona, con la conseguenza che per la sua configurazione si prescinde dalla violenza che ne è conseguita sulla persona che in ipotesi potrebbe anche mancare, mentre ove la violenza non si eserciti esclusivamente sulla cosa, ma si estenda anche, in via accessoria, al soggetto passivo, al fine di vincerne la resistenza a fargli subire lo spossessamento, si configura il ben diverso delitto di rapina (cfr. sezione II, 21 febbraio 2019, Melegari, secondo la quale ricorre il delitto di rapina quando la condotta violenta sia stata esercitata per vincere la resistenza della persona offesa, anche ove la res sia particolarmente aderente al corpo del possessore e la violenza si estenda necessariamente alla persona, dovendo il soggetto attivo superarne la resistenza e non solo la forza di coesione inerente alla normale relazione fisica tra possessore e cosa sottratta, giacché in tal caso è la violenza stessa - e non lo strappo - a costituire il mezzo attraverso il quale si realizza la sottrazione; si configura, invece, il delitto di furto con strappo quando la violenza sia immediatamente rivolta verso la cosa, seppur possa avere ricadute sulla persona che la detiene). La ratio del più grave trattamento sanzionatorio del furto con strappo, rispetto al furto semplice, risiede così nella insidiosità della condotta tipica che si realizza attraverso un atto violento esercitato su di un oggetto, improvvisamente strappato di dosso o di mano alla vittima. Il furto con strappo, qualificato appunto dalla violenza per sottrarre la cosa “di mano o di dosso” alla persona, si distingue, invece, dal furto aggravato dalla violenza sulle cose, che si ravvisa tutte le volte in cui il soggetto, per commettere il fatto, fa uso di energia fisica, provocando la rottura, il guasto, il danneggiamento, la trasformazione della cosa altrui o determinandone il mutamento nella destinazione, non essendo neppure necessario che la violenza (da intendersi come alterazione dello stato delle cose mediante impiego di energia fisica) sia esercitata con danno alla cosa oggetto del comportamento rilevante ex articolo 624 del codice penale(cfr. su tale ipotesi aggravata, sezione V, 10 gennaio 2011, Raiola). Il reato di stalking assorbe quello di molestie se queste sono segmenti di una condotta unitaria di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2020 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 11 giugno 2020 n. 17935. Il reato di atti persecutori assorbe la contravvenzione per reato di molestie, sempre che i singoli comportamenti molesti costituiscano segmenti di un’unitaria condotta, sorretta dal medesimo coefficiente psichico, consistente nella volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire. Principio espresso dalla Cassazione con la sentenza 11 giugno 2020 n. 17935. Secondo la Cassazione il reato di stalking assorbe il reato di molestie quando le medesime costituiscano segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno almeno degli eventi previsti dall’articolo 612-bis del Cp. Tale conclusione è in linea con l’assunto pacifico secondo cui quello di cui all’articolo 612-bis del Cp ha natura di reato abituale di evento, qualificato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (tra le tante, sezione V, 24 settembre 2015, PM in proc. A.). Elementi essenziali dello stalking quindi sono la reiterazione delle condotte (minacciose o moleste) e la realizzazione di uno degli “eventi” alternativi presi in considerazione dalla norma. Sotto il primo profilo, il termine “reiterare” denota ovviamente la ripetizione di una condotta una seconda volta ovvero più volte con insistenza, dovendosene trarre la conclusione che anche due sole condotte sono sufficienti a concretare quella reiterazione cui la norma subordina la configurazione della materialità del fatto (in termini, di recente, cfr. sezione V, 21 gennaio 2010, O.; nonché sezione III, 23 maggio 2013, U.). Mentre, sotto l’altro profilo, trattandosi di reato “di evento”, la condotta materiale (reiterati episodi di minacce o molestie) deve avere determinato, in forma alternativa, la realizzazione di uno tra tre tipi di evento: un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima ovvero ingenerare nella stessa un fondato timore per la propria incolumità o per quella di persone a lei vicine o, infine, costringerla ad alterare le proprie abitudini di vita. È proprio la realizzazione di uno o più di questi eventi che fissa il momento consumativo. Revoca della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2020 Ordinamento penitenziario - Affidamento in prova al servizio sociale - Revoca della misura - Condizioni - Apprezzamento di fatto del giudice. In tema di misure alternative alla detenzione, la revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale discende, per disposto normativo, non dalla mera violazione della legge penale o delle prescrizioni dettate dalla disciplina della misura, ma piuttosto dal fatto che il giudice, nel suo insindacabile apprezzamento di fatto, ritenga, con motivazione logica, adeguata e non viziata, che la violazione commessa costituisca, in concreto, sopravvenienza incompatibile con la prosecuzione della prova. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 24 luglio 2020 n. 22281. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova al servizio sociale - Violazione della legge o delle prescrizioni inerenti alla misura - Revoca automatica - Esclusione - Valutazione del giudice - Limiti. La revoca della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale non consegue automaticamente al mero riscontro di violazioni della legge penale o delle prescrizioni dettate dalla disciplina della misura stessa, in quanto spetta al giudice valutare, fornendo adeguata motivazione, se tali violazioni costituiscano, in concreto, un fatto incompatibile con la prosecuzione della prova. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 27 marzo 2019 n. 13376. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova al servizio sociale - Revoca - Presupposti - Semplice violazione della legge o delle prescrizioni inerenti alla misura - Esclusione - Discrezionalità del giudice - Sussistenza. La revoca della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, pur in presenza di un comportamento del soggetto contrario alle prescrizioni, è rimessa alla discrezionalità del tribunale di sorveglianza, che ha l’obbligo di giustificare l’uso del potere conferitogli, con motivazione logica, adeguata e non viziata. (Fattispecie in tema di affidamento in prova terapeutico ai sensi dell’art. 94 quarto comma d.P.R. 10 settembre 1990, n. 309). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 24 giugno 2013 n. 27711 Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova al servizio sociale - Revoca - Presupposti. La revoca della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale non è dalla legge rapportata alla pura e semplice violazione della legge penale o delle prescrizioni dettate dalla disciplina della misura stessa, ma all’ipotesi che il giudice, nel suo insindacabile apprezzamento di fatto, ritenga che le predette violazioni costituiscano in concreto un fatto incompatibile con la prosecuzione della prova. Ne deriva che il giudizio sulla revoca dell’affidamento in prova, pur in presenza di un comportamento del soggetto contrario alle prescrizioni, è rimesso alla discrezionalità del tribunale di sorveglianza, che ha solo l’obbligo di giustificare l’uso del potere conferitogli, con motivazione logica, adeguata e non viziata. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 13 giugno 1998 n. 2566. Sassari. L’ergastolo e le fughe, Johnny lo zingaro evade ancora di Andrea Pasqualetto Corriere della Sera, 7 settembre 2020 Il bandito non rientra in cella dopo un permesso premio. Nel 2017 era scappato per amore. Gli avevano concesso un permesso premio, ha ringraziato e se n’è andato. E ora, per l’ennesima volta, è scattata la caccia all’uomo. Si cerca Johnny lo Zingaro, al secolo Giuseppe Mastini, figlio di giostrai sinti, sessant’anni perlopiù dedicati al crimine, omicidi, rapine, sequestri. E alle fughe dai vari penitenziari dov’è stato detenuto, dovendo scontare una condanna all’ergastolo. L’ultima è di ieri. Avrebbe dovuto far rientro a mezzogiorno nel carcere di massima sicurezza di Sassari, dov’era detenuto dal 2017, e nessuno l’ha più rivisto. Era lì da quasi tre anni, da quando cioè fu ripreso dopo un’altra evasione, di un mese prima, dalla casa di reclusione di Fossano, in provincia di Cuneo. Anche in quell’occasione si trattò di un mancato rientro, che è un po’ la sua specialità. Senza tante lenzuola da calare o tunnel da scavare, Johnny lo Zingaro riesce sempre a uscire nel modo più semplice: dalla porta principale. Era infatti riuscito a ottenere la semilibertà anche a Fossano. Avrebbe dovuto presentarsi al lavoro a Cairo Montenotte, in provincia di Savona, ma in “ufficio”, quel giorno, non c’è andato. Johnny aveva preso infatti un taxi e si era fatto portare alla stazione di Genova. Comodo, indolore. Destinazione: Viareggio, dove ad attenderlo c’era sua vecchia fiamma, Giovanna, pure lei fuggita quel giorno dagli arresti domiciliari. Poi naturalmente l’hanno ripreso, anche perché non è facile la fuga quando non hai un euro in tasca. Anzi, il rischio è che l’uomo commetta qualche altro reato ed è la ragione per cui nel Sassarese è scattato un preoccupato allarme. D’altra parte Johnny lo Zingaro ha alle spalle una lunga scia di sangue: primo omicidio ad appena undici anni. Prima fuga a 17, anno 1976, dal carcere minorile di Casal di Marmo. Poi è scappato dall’Aquila e da Pianosa. Fino al 1987, quando ha inaugurato la stagione delle evasioni “premio”. Quella volta, dopo essersi allontanato, uccise un uomo, ferì la moglie, rubò un’auto e sequestrò una ragazza. E da lì, braccato dalla polizia, furono inseguimenti e scontri a fuoco, dove rimase ucciso pure un agente. Due anni dopo, la cattura. Ma il suo nome spunta anche dalle carte dell’omicidio Pasolini, come conoscente di Pino Pelosi, l’unico condannato per il delitto. Milano. “La vita sotto il turbante”: dalle detenute alle pazienti, la solidarietà è di moda di Stela Xhunga peopleforplanet.it, 7 settembre 2020 “La vita sotto il turbante” è il frutto della collaborazione tra l’associazione “Go5-per mano con le donne”, Onlus che si dedica alle pazienti del reparto di Ginecologia Oncologica dell’Istituto dei Tumori di Milano, e il brand Sartoria San Vittore nato dall’esperienza della Cooperativa sociale Alice nel carcere di San Vittore a Milano dove ai detenuti viene data la possibilità di un riscatto sociale attraverso il lavoro. Obiettivo di “La vita sotto il turbante”? Creare turbanti e copricapi sartoriali per le donne che si sottopongono a cure oncologiche. Tutto nasce quando nel 2018 la stilista Rosita Onofri disegna un modello di copricapo pensato per le pazienti del reparto di Ginecologia oncologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Sulla base del modello disegnato, le detenute di San Vittore si sono poi messe all’opera realizzandolo in tessuti naturali declinati in stoffe pregiate e tinte provenienti da Marocco, India e Mauritania, il tutto nel pieno rispetto dell’artigianato locale e internazionale. L’iniziativa si è meritata il patrocinio della Camera penale di Milano e del Comune: il primo cittadino della città, Beppe Sala, era infatti presente alla cerimonia di debutto di Una vita sotto il turbante tenutasi a metà giugno nella Sala Alessi di Palazzo Marino. Una solidarietà, quella tra pazienti oncologiche e donne detenute, sancita da un mutuo scambio: le donne detenute contribuiscono a far sentire sicure e belle le pazienti, le quali, a loro volta, acquistando i turbanti, sostengono la ricerca scientifica per la diagnosi precoce del tumore ovarico. Creare circoli virtuosi è del resto il tratto distintivo della cooperativa sociale Alice, che non a caso ha ricevuto il Premio Europeo Donna Terziarioindetto da Confcommercio Milano e destinato alle imprenditrici che si sono maggiormente distinte per la loro attività. La menzione speciale, però, è per Luisa Della Morte, responsabile della Cooperativa Alice. È lei che per prima ha creduto nell’importanza di formare e dare lavoro all’interno del carcere di San Vittore. E credere, ultimamente, non è impresa da poco. Crotone. Presentato il progetto sui “Laboratori esperienziali” per i detenuti Ristretti Orizzonti, 7 settembre 2020 Il Garante comunale dei detenuti di Crotone Federico Ferraro ha presentato alla Direzione della Casa Circondariale di Crotone il progetto “Laboratori esperienziali” che è stato ideato e programmato dall’Associazione “Forever Young”, nelle persone della Psicologa dott.ssa Pamela Liotti e del Mediatore Penale dott.ssa Assunta Trifino. Il progetto che attende l’approvazione da parte della Amministrazione penitenziaria territorialmente competente, ha come obiettivo specifico quello di far riconoscere ai detenuti le proprie emozioni, prendere consapevolezza di queste attraverso il confronto con se stesso, elaborando il vissuto personale valorizzando la funzione rieducativa della pena. L’articolazione del progetto prevede le seguenti strutturazioni che si potranno adattare in base alle normative e tempistiche in tempo di Covid-19: Il “Barattolo delle emozioni” è un’attività che (causa - ed effetto) si realizza attraverso un grosso barattolo contenente dei bigliettini rappresentanti le emozioni (rabbia, disprezzo, ansia, paura e insicurezza). A ciascun partecipante viene chiesto di pescare un bigliettino e raccontare un episodio legato a quell’emozione; “I quattro sensi” è un laboratorio che richiede l’attivazione dei quatto sensi quali olfatto, udito, tatto e gusto. I partecipanti seduti in maniera circolare verranno a rotazione bendati dal conduttore, il quale poggerà la mano sulla spalla di ognuno di loro, come messaggio di vicinanza e di accompagnamento, nel corso del viaggio emozionale interiore che ognuno è chiamato a compiere; “Il blu e il colore della comunicazione” è un’attività che consiste nel formare delle coppie casuali, che si ritagliano un posto riservato dove l’uno si racconta all’altro. Dopodiché le coppie si staccano e l’intera attività si svolge in maniera circolare. Ogni membro racconterà la storia dell’altro narrandola in terza persona. I partecipanti si passeranno la parola lanciandosi un gomitolo blu tenendone il capo. “L’Elettrocardiogramma delle emozioni primarie” si realizza attraverso l’utilizzo di un grande cartellone appeso alla parete, sul quale è riportato il disegno di un elettrocardiogramma. Ogni partecipante è invitato a scrivere su ogni punta dell’elettrocardiogramma la percentuale, compresa fra 1 a 100, in relazione al rapporto che ha con quella specifica emozione. La finalità di questo laboratorio è quella di capire quali emozioni prevalgono in quella persona sia esso adulto o minore, e comprendere su quali lavorare; “Il collage del tempo” fa riferimento alle tre dimensioni del tempo, il passato, il presente e il futuro. Attraverso delle immagini, frasi, foto, ritagliate da giornali/riviste precedentemente richiesti, ogni partecipante può raccontarsi nelle tre dimensioni temporali incollando le immagini scelte, su un cartoncino. A lavoro concluso, il conduttore chiederà ad ogni partecipante quando spazio ha attribuito ad ogni dimensione, come si colloca rispetto ad ognuna di esse e quale di queste porta un peso più grande. Le attività saranno svolte in maniera del tutto gratuita. Il Garante comunale esprime un plauso alle professioniste per la disponibilità ad offrire questo servizio a 360 gradi. Non esiste più la civiltà del dibattito di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 7 settembre 2020 In Francia chiude la rivista “Le Débat” perché ciò che viene enunciato dalla testata sembra appartenere tristemente al passato. La buona notizia dalla Francia è che c’è un presidente come Macron il quale, quando si apre il processo agli islamisti che hanno fatto strage dei vignettisti di Charlie Hebdo, difende strenuamente la libertà d’espressione e persino, e qui ci vuole davvero coraggio intellettuale e adesione convinta ai valori della democrazia liberale, “la libertà di blasfemia”. La pessima notizia è che chiude Le Débat, la bellissima rivista fondata nel 1980 per impulso soprattutto di Pierre Nora e che ha rivendicato tra i suoi compiti fondamentali quello di “difendere uno spazio di discussione pubblica”. Chiude questa rivista perché lo “spazio di discussione pubblica” sta morendo per asfissia, perché si sta definitivamente spegnendo la civiltà del dibattito. Il fecondo conflitto delle idee si sta estinguendo perché è la stessa diversità delle idee, alimento e carburante delle società libere, a essere considerata un disvalore, perché non si riesce più a reggere la differenza d’opinioni, la lotta civile e leale tra tesi contrastanti, la battaglia condotta con la forza degli argomenti. Oggi, al posto del dibattito, dello “spazio di discussione pubblica”, c’è l’apologia del bavaglio, la cultura del sospetto, il processo alle intenzioni, l’iper-semplificazone demonizzante, la caricaturizzazione delle tesi diverse, la rozzezza fanatica del “cancel culture”. Non è solo appannaggio dei più estremisti, è un morbo che ha conquistato anche le persone colte, che dovrebbero avere una certa familiarità con la civiltà del dibattito e invece si accodano all’andazzo aggressivo, brutale, all’impossibilità di discutere, alla mancanza di curiosità. Proprio mentre si declama l’elogio della differenza e la santificazione del diverso, la diversità e la differenza vengono espulse dal cuore della civiltà del dibattito, che non era assenza di posizioni nette e radicali, tutt’altro, ma si fondava sull’idea che agli argomenti si risponde con gli argomenti e non con l’urlo belluino, la ridicolizzazione dell’avversario, l’incapacità di tollerare la differenza radicale di idee e di opinioni. Le Débat chiude perché ciò che viene enunciato dal nome della testata sembra appartenere tristemente al passato. E la libertà d’espressione rischia di vivere i sui momenti peggiori nelle democrazie sempre meno liberali (e sempre meno democratiche). Migranti. Chi ha il permesso esce dalla prima accoglienza di Paola Maria Zerman Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2020 Consiglio di Stato, sentenza 4582 del 15 luglio 2020. Le misure di prima accoglienza, di cui beneficiano i richiedenti asilo, cessano a seguito del rilascio del permesso di soggiorno, per raggiungimento dello scopo, e cioè assicurare l’accoglienza per il tempo necessario all’esame della domanda di protezione internazionale. E questo vale anche per chi è titolare di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ora abrogato dal decreto-legge 113/2018, con conseguente impossibilità di inserirsi nella rete di “assistenza secondaria”. Lo ha deciso il Consiglio di Stato con la sentenza 4582 del 15 luglio scorso, accogliendo l’appello del ministero dell’Interno nei confronti di un cittadino extracomunitario che aveva impugnato il decreto prefettizio di revoca. La normativa - La decisione ripercorre con chiarezza la complessa disciplina dell’accoglienza (decreto legislativo 142/2015) degli stranieri non comunitari giunti irregolarmente in Italia, per lo più a seguito di sbarchi, più volte modificata anche a seguito di direttive europee, da ultimo con il decreto legge 113/2018. Diverse le fasi in cui si articola il sistema, dal primo soccorso all’integrazione sociale, culturale e lavorativa. Le operazioni di primo soccorso e di identificazione sono assicurate dai punti di crisi allestiti nei luoghi di sbarco (Hot spot immigrazione in Lampedusa, Pozzallo, Trapani e Taranto). Particolare attenzione viene prestata ai minori stranieri non accompagnati, che vengono presi in carico nelle strutture di accoglienza a loro destinate, sebbene la legge 47/2017 stabilisca in via preferenziale l’affidamento familiare (articolo 7). Esaurito l’immediato soccorso, il sistema di accoglienza di primo livello garantisce assistenza medica, vitto e alloggio ai migranti che chiedono la protezione internazionale e sono privi di mezzi di sussistenza. I pochi che non presentano domanda, sono, invece, indirizzati ai Cpr, centri di permanenza per i rimpatri. La tutela degli stranieri cui sia impedito nel Paese di origine l’esercizio delle libertà democratiche è sancita dall’articolo 10 della Costituzione e garantita dalla normativa europea (direttiva 2004/83/CE attuata dal decreto legislativo 251/2007), attraverso il riconoscimento, cui segue il rilascio del permesso di soggiorno di durata quinquennale, rinnovabile: 1) dello status di rifugiato, in seguito a persecuzione per motivi di razza, religione nazionalità o particolare gruppo sociale, opinioni politiche (articolo 8); 2) della protezione sussidiaria, legata al rischio di subire danni gravi (quali pena di morte o tortura) nel tornare al proprio Paese d’origine (articolo 14). Esisteva una tutela “residuale”, non tipizzata, connessa a seri motivi di carattere umanitario (prevista dall’originario articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 286/1998, Testo unico immigrazione), ma è stata abrogata dal decreto legge 113/2018 e sostituita dalla possibilità di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo per “casi speciali” per esigenze di carattere umanitario tassativamente indicate. Multiforme e non chiara è la costellazione dei centri di prima accoglienza (oltre 5000 sul territorio nazionale) affidata, ai cpa, o centri governativi di prima accoglienza, gestiti anche da enti locali o privati che operano nel settore dell’assistenza, affiancati dai preesistenti Cara, centri assistenza richiedenti asilo, e in caso di sovraffollamento, dai Cas, centri di accoglienza straordinaria, tutte strutture reperite dai Prefetti. Il primo livello di accoglienza è assicurato, ai richiedenti asilo, per tutta la durata del procedimento di esame della domanda di protezione internazionale da parte della Commissione territoriale competente presso le Prefetture, e, in caso di rigetto, fino alla scadenza del termine per l’impugnazione o alla sospensione del provvedimento impugnato. Chi ottiene la protezione internazionale (vale a dire lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria o per casi speciali) può accedere alla seconda fase di accoglienza integrata (in passato Sprar, oggi Siproimi), rappresentata dalla rete di servizi istituita sul territorio, su base volontaria, nell’ambito del welfare locale e in collaborazione con organismi del privato sociale finalizzata all’inserimento lavorativo delle persone accolte, grazie a progetti finanziati dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. In passato, la possibilità di accedere ai servizi di accoglienza integrata nell’ambito dello Sprar era offerta a tutti i richiedenti asilo privi di mezzi, una volta esaurita la prima fase di accoglienza. Il decreto legge 113/2018 ha ridotto la platea dei destinatari ai soli titolari di protezione internazionale e ai minori non accompagnati. La decisione - Il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la revoca, da parte del Prefetto, delle misure di prima accoglienza nei confronti di un migrante, avvenuta a seguito del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari (che il migrante aveva ottenuto prima dell’abrogazione decisa dal decreto legge 113/2018). Per i giudici, si tratta infatti di una “cessazione di effetti” delle misure di prima accoglienza per il raggiungimento dello scopo, vale a dire assicurare l’accoglienza per il tempo necessario all’esame della domanda di protezione internazionale, e non di una sanzione a seguito di violazioni gravi. Colombia. Mario Paciolla, la segatura e le lesioni sul collo: i misteri sulla morte del cooperante di Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini Corriere della, 7 settembre 2020 Le ferite sui polsi, i biglietti aerei: nel dossier sul trentatreenne in missione Onu i dubbi sull’indagine colombiana. In settimana i primi riscontri dai periti. La mattina del 23 luglio all’aeroporto El Dorado di Bogotà il corpo di Mario Paciolla viene imbarcato su un volo diretto a Roma. Sono presenti le autorità diplomatiche italiane e i responsabili della missione Onu per la quale lavorava il trentatreenne cooperante italiano ritrovato impiccato in casa otto giorni prima. L’aereo giungerà a Fiumicino il giorno successivo, e quando i medici legali incaricati dalla Procura di Roma e guidati dal professor Vittorio Fineschi si troveranno davanti ciò che c’è nella bara, capiranno immediatamente di avere davanti un lavoro complicatissimo. La salma è quasi sommersa da chili di segatura, il cadavere non è stato ricomposto dopo l’autopsia eseguita in Colombia. In quelle condizioni gli esami necroscopici rischiano di essere compromessi e capire che cosa è successo realmente al cooperante italiano può diventare molto difficile. E infatti oggi, a sette settimane dalla morte, nessuno è stato ancora in grado di dire con certezza se Paciolla si sia ucciso o sia stato assassinato, cosa di cui sono assolutamente certi i suoi familiari. Le informative - Nelle relazioni inviate a Roma dalla nostra rappresentanza diplomatica in Colombia si accredita l’ipotesi che il giovane si sia tolto la vita. “Dai primi riscontri effettuati dalla polizia, tutto lascia supporre che si tratti di un suicidio”, è scritto in un report del 22 luglio. E in un altro, datato 5 agosto, si riferisce che nel corso di una riunione il direttore generale per le relazioni internazionali della Fiscalia, Alejandro Jmenez, “ha tenuto ad evidenziare, confidenzialmente, che dalle indagini sin qui condotte, seppur con riserva del loro completamento, non sarebbero emersi elementi tali da mettere in discussione l’ipotesi del suicidio”. Il viaggio - Tesi che però sembra stridere con quanto fatto da Paciolla nelle ultime ore di vita. Il giovane stava per lasciare la Colombia. Il giorno prima di morire aveva acquistato due biglietti per Parigi perché intendeva convincere a partire anche la sua ex fidanzata, Ilaria Izzo, anche lei impegnata in una missione Onu in Colombia. Ma soprattutto aveva pianificato per il giorno dopo di lasciare San Vicente di Caguan, dove abitava per trasferirsi a Bogotà, in attesa di imbarcarsi il 20 luglio per la Francia e da lì raggiungere Napoli, la sua città. Che cosa, quindi, potrebbe averlo spinto durante la notte a un gesto estremo? Nella sua deposizione Ilaria Izzo ha raccontato che al telefono la supplicò di andare con lui, di averlo sentito molto agitato, preoccupato per qualcosa che era accaduto all’interno della sua missione e in preda a continue crisi di pianto. Poi ha parlato di “qualcosa di cui Paciolla è stato testimone che gli ha fatto perdere la fiducia in due colleghi della missione”. Di che cosa si trattava? E chi sono i due cooperanti? Secondo le relazioni della Farnesina “la Fiscalia conosce i loro nominativi” e adesso bisognerà capire che cosa abbiano riferito visto che le Nazioni Unite li hanno privati dell’immunità. Le lesioni - I punti oscuri sono ancora molti e per questo si attende la consegna della prima relazione dei periti che potrebbe avvenire già questa settimana. Quando è stato ritrovato, il corpo di Mario Paciolla aveva delle ferite ai polsi, come se avesse tentato di tagliarsi le vene prima di impiccarsi. Ma in realtà erano ferite superficiali, a fronte, invece, di una quantità di tracce di sangue, ritrovate in casa, assolutamente incompatibile. E poi c’è il “solco” sul collo che secondo i primi esami non sarebbe compatibile con l’asfissia provocata dal cappio di un lenzuolo. Medio Oriente. Gaza, prigione a cielo aperto, la guerra contro i bambini di Francesca de Carolis remocontro.it, 7 settembre 2020 La guerra, il dolore, la morte… se sempre sono immagini che straziano, c’è qualcosa di tremendo in più che si rapprende nell’animo quando arrivano attraverso i disegni dei bambini, qualcosa di tremendo che le tinte dei pastelli non attenuano… anzi ancor più angosciano, al pensiero dell’incerta mano che ha disegnato profili, che ha dato colore alla polvere. Le avevo messe da parte, alcune immagini di disegni dei bambini di Gaza, che nel tempo a tratti arrivano. Case in fiamme, alberi sradicati, carri armati in terra e sagome nere su strisce di cielo e tanti tanti soldatini. Nei tratti infantili sembrano quelli dei giochi dei nostri bambini che la guerra, quella vera, non conoscono. Un disegno fra tutti mi aveva più di altri colpito: in primo piano una casa dalle finestre ferite che piangono e, appena più indietro, un bambino come inchiodato alla soglia di un muro, che allarga le braccia e spalanca la bocca come per chiedere aiuto mentre ombre di uccelli neri si abbassano su uno stretto cielo… Disegno di bambino molto molto piccolo, suggeriscono i tratti. Eppure è tutta lì, in pochi elementari segni, che pure sono potenti simboli, la risposta alla domanda: come si cresce, come si vive in una prigione a cielo aperto… Come si cresce, come si vive e come, sempre più, si muore… risfogliando quei disegni, mentre rileggo un comunicato di Save the Children. “I bambini di Gaza stanno morendo perché viene negata loro la possibilità di accedere all’assistenza sanitaria necessaria fuori dalla Striscia e altri moriranno se non verranno curati presto”. La denuncia è di fine luglio. Notizia a cui poco si è prestato attenzione, presi come siamo dalle nostre più o meno urgenti emergenze… e cosa volete che siano un pugno di bambini ostaggio di una delle tante guerre dalle quali a tratti sembra meglio distogliere lo sguardo… Save the Children - Cosa può succedere, d’altra parte, nella vita ordinaria di Gaza, di più e di peggio di quanto non stia accadendo da tempo, e che raramente “fa notizia”? Ma le cose peggiorano e come… È accaduto, si spiega, che dopo l’annuncio dei piani di Israele di annettere parti della Cisgiordania si è interrotto il coordinamento tra funzionari israeliani e palestinesi, “riducendo le possibilità, già estremamente limitate, di ottenere l’autorizzazione per lasciare Gaza per chi ha bisogno di cure salvavita”. Le cure salvavita che è impossibile ricevere a Gaza, con un sistema sanitario sull’orlo del collasso dopo tredici anni di blocco a cui si aggiungono paure e tensioni causati dalla pandemia con cui come tutti si è alle prese… “Mesi di trattative e contatti dietro le quinte, mediati dall’Egitto, tra Israele e Hamas non hanno portato a nulla. Resta inalterata la condizione insopportabile degli oltre due milioni di palestinesi che vivono nei 400 kmq della ‘prigione a cielo aperto’ di Gaza. Di giorno l’erogazione della corrente elettrica è ridotta a tre ore, perché il combustibile dell’unica centrale si è esaurito dopo la decisione delle autorità israeliane di bloccare l’ingresso a Gaza del gasolio”, leggo dai puntuali report di Michele Giorgio… Non arrivano carburanti né altri beni essenziali, mentre oggi arriva, quella sì, un’ondata coronavirus. Sì, anche lì, in quei 400 chilometri quadrati a noi così vicini e così lontani. Si rischia, la denuncia è dell’Onu, la catastrofe umanitaria… Morire prima del coronavirus - Ma i bambini… i bambini di Gaza non hanno bisogno di aspettare il coronavirus per morire. Save the Children a fine luglio ha denunciato la morte di due piccoli, piccolissimi, uno di otto mesi e l’altro di nove giorni, che per problemi cardiaci avevano bisogno di un urgente intervento chirurgico impossibile a Gaza, ma non hanno ricevuto in tempo il permesso per le cure. E cosa è successo, nel frattempo, a quei cinquanta bambini malati di cancro per i quali (ancora la denuncia dell’organizzazione che dall’inizio dell’altro secolo si occupa della condizione dei bambini nel mondo) a causa delle restrizioni israeliane ai farmaci che entrano a Gaza “non c’è chemioterapia né trattamenti di radiologia”? E come va avanti la vita di D., 12 anni, che ha la leucemia e da quando il coordinamento si è interrotto non può ricevere cure e non riesce a camminare sulle gambe… “Ho pregato che mi amputassero gli arti. Israele dovrebbe revocare il blocco così da avere buone scuole e buoni ospedali e poter avere cure e posti carini dove giocare. E poter vivere come gli altri bambini nel mondo…”. E cosa sente, ancora, H., 13 anni, colpito dalle schegge di un proiettile esploso, che avrebbe bisogno di un intervento ai nervi, ma che non può lasciare Gaza e la sua gamba sta peggiorando, lui che… “quando sono uscito dall’operazione mi avevano preparato una sedia a rotelle. Mi chiedevo a cosa servisse la sedia. Mi hanno detto: -Ci siederai sopra e ci vivrai tutta la tua vita-. Ho pianto, dal profondo del mio cuore …”. Impotenza da troppa prepotenza Dina, Ahmed… e tutti gli altri che possiamo immaginare, che senza proprio morire muoiono un po’ ogni giorno… bambini, “tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze”. Col cuore coperto di neve. Viene in mente il titolo di un libro di Silvestro Montanaro. Parla di altre storie, quel libro, parla della terribile vita cui sono costretti bambini di tutto il mondo sfruttati sessualmente (e gli orchi perlopiù siamo noi). Bambini cui è stata rubata la libertà e la gioia. Altra questione, direte…, ma la libertà e la gioia possono essere rubati, e lo sono, rubati, in tanti modi… e tutti insieme compongono il terribile scenario della guerra contro i bambini. Di questa settimana è l’ultimo rapporto di Save the Children, a cinque anni dalla morte di Alan Kurdi (come dimenticarlo, il corpicino del bambino dalla maglietta rossa sulla riva del mare…). Parla dei bambini che, a differenza di quelli di Gaza, dalle loro guerre possono almeno provare a fuggire. Ma in questi cinque anni, si legge nel rapporto, 700 minori sono morti nel tentativo di arrivare in Europa, e se sono più di 200.000 i minorenni che hanno chiesto asilo, si pensa che molto più alto sia il numero di quelli arrivati, e che “vivono nell’ombra a rischio di sfruttamento e abuso”. Per tutti, rimane questo cuore coperto di neve… che i colori dei disegni che a tratti ci arrivano, di bambini che i disegni ancora possono farli, non riescono a sciogliere. Bielorussia. Forze speciali e gas lacrimogeni contro la marcia pacifica di Minsk di Giuseppe Agliastro La Stampa, 7 settembre 2020 Il presidente Lukashenko alza il tiro e schiera mezzi corazzati e agenti scelti per fermare le proteste in Bielorussia. Blindate con filo spinato le vie nel cuore della capitale. Secondo la Ong Vyasna sono state fermate oltre 250 persone. Aleksandr Lukashenko è tornato a sfoderare il manganello contro i manifestanti anti-regime. Alla vigilia dell’imminente incontro tra l’“ultimo dittatore d’Europa” e il suo alleato Putin che potrebbe portare Minsk direttamente tra le braccia del Cremlino, la polizia antisommossa ha tentato di soffocare le proteste pacifiche con una nuova ondata di arresti e con una violenza che probabilmente non si registrava da alcune settimane. Più di 100.000 persone hanno sfilato ieri per le strade di Minsk chiedendo le dimissioni del despota che governa la Bielorussia da 26 anni, ma la gente è scesa in piazza in massa anche in molte altre città del Paese, da Grodno a Gomel, da Mogilev a Brest. Gli agenti hanno risposto caricando i dimostranti che si erano avvicinati al palazzo presidenziale, usando gas lacrimogeni e manganelli. Alcuni video pubblicati dai media locali mostrano manifestanti picchiati mentre sono a terra inermi. In serata, il ministero dell’Interno riferiva di oltre cento persone fermate, ma il numero potrebbe essere molto più alto visto che secondo l’Ong per la difesa dei diritti umani Vyasna le persone trascinate nelle camionette della polizia sono circa 250, di cui almeno 170 nella sola Minsk. La gente ha cominciato a scendere in piazza a fiumi dopo la contestatissima vittoria di Lukashenko alle presidenziali del 9 agosto e da allora la repressione non si è mai fermata. Quasi tutti i leader dell’opposizione sono in carcere o si sono dovuti rifugiare all’estero. Svetlana Tikhanovskaya, considerata da molti la vera vincitrice delle elezioni, è stata costretta a emigrare in Lituania subito dopo il voto. L’ultima a lasciare la Bielorussia è stata Olga Kovalkova, una delle più strette alleate di Tikhanovskaya. Kovalkova era stata arrestata il 25 agosto, ma sabato era inaspettatamente a Varsavia. La dissidente racconta che i servizi segreti premevano su di lei dicendole che sarebbe rimasta in prigione a lungo. Poi l’hanno fatta salire su un’auto costringendola a restare coricata sotto i sedili perché non fosse vista e l’hanno portata fino al confine con la Polonia. Alcuni osservatori hanno l’impressione che ora il regime sia di nuovo pronto a inasprire la repressione. Ieri Minsk era blindata dagli agenti delle forze speciali. Le loro corazze e i loro passamontagna neri stridono con i cortei festosi e colorati delle forze anti-Lukashenko, con i vessilli bianchi e rossi dell’opposizione e con le bandiere arcobaleno degli attivisti per la difesa dei diritti degli omosessuali, scesi anch’essi in strada per nuove elezioni finalmente democratiche. La polizia ha bloccato alcune vie del centro col filo spinato, ha schierato mezzi corazzati e cannoni ad acqua, ma a manifestare c’erano persone di tutte le età, giovani, anziani e famiglie con bambini. Lukashenko appare sempre più impopolare, ma può contare sul sostegno della Russia di Putin, che ha persino minacciato di intervenire con la forza in caso di necessità. Forse non è un caso se la nuova ondata di arresti è arrivata al termine di una settimana fitta di incontri tra funzionari del governo bielorusso e del Cremlino, compresa una visita a Minsk del premier russo Mikhail Mishustin durante la quale sono stati annunciati “progressi su molte questioni, incluso il futuro dello Stato dell’Unione”. L’appoggio di Putin a Lukashenko non è di certo gratuito. Il Cremlino non vuole che Minsk esca dalla sua sfera di influenza e punta quindi a far crescere il proprio peso politico nel Paese vicino rafforzando appunto lo Stato dell’Unione: un organismo sovranazionale di cui fanno parte Russia e Bielorussia. In passato, Lukashenko ha respinto le pressioni del Cremlino per una maggiore integrazione politica ed economica tra i due Paesi dicendo di temere per l’indipendenza di Minsnk. Ora però il satrapo bielorusso è estremamente debole e per restare a galla non può fare a meno del salvagente lanciatogli da Putin, che in cambio non avrà grandi difficoltà a trascinarlo dove desidera. L’incontro dei prossimi giorni a Mosca tra Putin e Lukashenko potrebbe quindi portare grandi novità e cade in un momento in cui le tensioni tra Russia e Occidente si sono riaccese. La sfida non riguarda solo la Bielorussia, dove l’Ue sta preparando delle sanzioni personali contro i responsabili delle presidenziali farsa e della repressione brutale delle proteste, ma anche il caso del rivale numero uno di Putin, Aleksey Navalny, avvelenato con una neurotossina. I sospetti si concentrano sul Cremlino e Paesi Ue e Nato potrebbero reagire imponendo nuove sanzioni alla Russia. Cina. Dentro il sistema dei lavori forzati: “Si lavora come animali” di Eva Fu e Cathy He epochtimes.it, 7 settembre 2020 “Le prigioni cinesi sono come l’inferno. Non c’è un briciolo di libertà personale”. Per tre anni consecutivi Li Dianqin ha lavorato per circa 17 ore al giorno alla produzione di indumenti di bassa qualità in una prigione cinese, dai reggiseni ai pantaloni. Lavorava senza una paga e rischiava di essere punita dalle guardie carcerarie se non riusciva a rispettare gli obiettivi di produzione stabiliti. Una volta, una squadra di circa 60 detenuti che non riusciva a raggiungere l’obiettivo è stata costretta a lavorare per tre giorni di fila, senza poter mangiare o andare in bagno - ricorda la donna - e le guardie percuotevano i prigionieri con manganelli elettrici ogni volta che si appisolavano per la stanchezza. La signora Li ha descritto il carcere femminile di Liaoning, situato nella città di Shenyang nel Nord-est della Cina, come “un posto dove gli esseri umani non dovrebbero stare […] Ti arrestano e ti fanno lavorare. Si mangia cibo che non è migliore del mangime per maiali, e si lavora come animali”. Li, che ora ha 69 anni e vive a New York, è stata imprigionata nella struttura dal 2007 al 2010 per aver rifiutato di abbandonare la sua fede nella pratica spirituale del Falun Gong. Il regime cinese sta infatti conducendo una vasta campagna di persecuzione contro il Falun Gong dal 1999, quando il leader Jiang Zemin ha deciso che lo sradicamento di questa pratica di meditazione era da considerarsi una delle priorità del Partito Comunista Cinese. Uno dei ‘motivi’ della persecuzione è che secondo le stime ufficiali al tempo c’erano circa cento milioni di persone che praticavano il Falun Gong in Cina (più dei membri del Partito). Inoltre, il Falun Gong insegna a seguire dei valori (verità, compassione e tolleranza) propri della cultura tradizionale cinese, che il regime comunista ha cercato di sradicare con ogni mezzo da quando ha preso il controllo del Paese. Oltre ai vestiti, la prigione produceva una serie di beni destinati all’esportazione: dai fiori artificiali, fino ai cosmetici e ai giocattoli di Halloween. Naturalmente la signora Li non è stata che un minuscolo ingranaggio nella grande macchina del lavoro forzato del regime cinese, che ormai da alcuni decenni sputa fuori prodotti a basso costo da inserire nelle catene di approvvigionamento globali. Negli ultimi mesi i funzionari della dogana statunitense stanno prestando particolare attenzione a questo fenomeno e hanno iniziato a sequestrare i prodotti di importazione che potrebbero essere stati fabbricati con la manodopera carceraria. Dal settembre 2019, la dogana statunitense ha infatti emesso quattro ordinanze di sequestro contro delle aziende cinesi, impedendo l’ingresso delle loro merci nel Paese. Un sequestro particolarmente emblematico è avvenuto a giugno, quando la dogana degli Usa ha bloccato una partita di 13 tonnellate di prodotti a base di capelli umani proveniente dalla regione Nord-occidentale dello Xinjiang. Secondo diversi ricercatori indipendenti e attivisti per i diritti umani, i capelli proverrebbero dai molti campi di lavoro forzato sparsi nella regione dello Xinjiang, dove sono detenuti un grande numero di uiguri e altre minoranze musulmane. Nel frattempo, nel mondo sono anche aumentate le pressioni sui marchi di abbigliamento internazionali, affinché tronchino i legami con le fabbriche dello Xinjiang, soprattutto dopo che a marzo i ricercatori hanno scoperto che decine di migliaia di uiguri sono stati trasferiti a lavorare nelle fabbriche di tutta la Cina in condizioni simili a quelle dei lavori forzati. Queste strutture hanno prodotto merci per 83 marchi internazionali. Secondo Fred Rocafort, un ex diplomatico statunitense che attualmente lavora per lo studio legale internazionale Harris Bricken, il lavoro in prigione e i lavori forzati sono “un qualcosa che ha infettato la catena di produzione in Cina”. Rocafort ha lavorato per oltre un decennio come avvocato commerciale in Cina, dove ha condotto più di 100 controlli di fabbriche per verificare se stessero effettivamente tutelando la proprietà intellettuale dei marchi stranieri che lui rappresentava e, in alcuni casi, per controllare se stessero usando il lavoro forzato. L’avvocato ha dichiarato che “si tratta di un problema che esiste da molto prima dell’attuale crisi dei diritti umani nello Xinjiang”. E ha aggiunto che quando le aziende straniere esternalizzano la propria produzione verso fornitori cinesi, questi ultimi stipulano contratti con aziende che sfruttano il lavoro dei detenuti, o anche direttamente con le carceri. “Se sei il direttore di una prigione in Cina, hai accesso al lavoro, e potresti essere in grado di offrire prezzi molto competitivi […] al fornitore cinese”, sostiene Rocafort. L’avvocato ha anche precisato che storicamente i marchi stranieri non hanno fatto molti sforzi per accertarsi che le proprie catene di fornitura in Cina fossero libere dal lavoro forzato, ma la crescente consapevolezza nel corso degli anni ha portato un certo progresso. Tuttavia, continua a non essere facile per le aziende internazionali ottenere informazioni accurate sulle pratiche di lavoro dei loro fornitori e sui fornitori dei loro fornitori. La “mancanza di trasparenza corre lungo tutta la catena di fornitura” cinese. Un business criminale - La signora Li ha raccontato che il carcere femminile di Liaoning era diviso in molte unità di lavoro, ognuna composta da centinaia di detenute. Li faceva parte dell’unità carceraria n. 10, dove le detenute erano costrette a produrre vestiti dalle 7 del mattino alle 21, ogni giorno. Dopo di che, ogni detenuto doveva produrre circa 10-15 steli di fiori artificiali. Lei di solito non riusciva a completare il lavoro prima di mezzanotte. I più lenti - specialmente gli anziani - a volte restavano svegli tutta la notte per finire il lavoro, ha precisato Li. La signora ricorda ancora l’odore acre che si propagava da un’unità carceraria che produceva cosmetici destinati alla Corea del Sud. L’odore di bruciato e la polvere che permeava il piano della produzione toglievano il respiro alle lavoratrici-detenute ed erano motivo di continue lamentele, che però non dovevano essere udite dalle guardie altrimenti sarebbero state picchiate, ha raccontato Li. Una volta le è capitato di sentire una conversazione tra le guardie carcerarie, durante la quale ha appreso che la prigione “affittava” i detenuti tramite l’ufficio provinciale della giustizia al prezzo di circa 10 mila yuan (1.240 euro) a testa all’anno. La donna ha anche ricordato che una volta il direttore del penitenziario ha convocato i detenuti per esortarli a “lavorare sodo” perché “la prigione crescerà e si espanderà”. La prigione produceva anche delle decorazioni per Halloween a forma di fantasma che erano contrassegnate per l’esportazione. Il compito della signora Li era quello di fissare un panno nero intorno ai fantasmi utilizzando un filo di ferro. In seguito, nel periodo di Halloween, le è capitato di vedere lo stesso tipo di decorazione appeso sopra la porta di un appartamento a New York. In effetti, nel corso degli anni, i consumatori occidentali hanno scoperto diversi messaggi nascosti all’interno di prodotti cinesi, che spesso denunciavano con poche parole la condizione del lavoro forzato in Cina. Questo fenomeno ha contribuito ad accrescere l’attenzione dell’opinione pubblica sulla realtà dei campi di lavoro in Cina. Nel 2019, il gigante britannico dei supermarket Tesco ha interrotto i suoi rapporti con un fornitore cinese di biglietti d’auguri natalizi dopo che un suo cliente ha rinvenuto un messaggio all’interno di uno di questi biglietti che indicava il prodotto come realizzato da prigionieri vittime dei lavori forzati. Nel 2012, una donna dell’Oregon ha trovato una lettera scritta a mano all’interno di un kit di decorazioni per Halloween che aveva comprato al Kmart. La lettera era di un uomo detenuto nel famigerato campo di lavoro di Masanjia, nella città di Shenyang, nel nord della Cina, e forniva un resoconto delle torture e delle persecuzioni subite nella struttura. L’uomo in questione si chiama Sun Yi ed è un praticante del Falun Gong che è stato condannato a 2 anni e mezzo di lavori forzati nel 2008; pare che Sun abbia nascosto molte lettere nelle decorazioni di Halloween che è stato costretto a produrre e confezionare. Ma anche la signora Li nel 2000 è stata detenuta nel campo di lavoro di Masanjia, dove ha lavorato dalla mattina alla sera per produrre fiori di plastica. I fiori finivano per sembrare “stupendi”, ha detto Li, ma farli era una tortura. Ai detenuti non venivano forniti guanti o maschere per proteggersi dai residui tossici che riempivano l’aria, mentre tutte le guardie indossavano le maschere. Come se non bastasse, non erano concesse pause, tranne che per andare in bagno, e anche questo richiedeva la firma di una guardia. Naturalmente le norme igieniche erano inesistenti, come ricorda la signora Li: “Lavarsi le mani non ha importanza. Lavorare di più è l’unica cosa che conta”. Lo scorso anno Yu Ming, un praticante del Falun Gong scappato negli Stati Uniti che è stato detenuto più volte nel campo di Masanjia, ha rilasciato un filmato che è riuscito a fare uscire di nascosto dal campo, un filmato registrato nel 2008 che mostra i detenuti del campo intenti a costruire diodi, dei piccoli componenti elettronici destinati ai mercati internazionali. Un vasto apparato - Wang Zhiyuan, direttore dell’Organizzazione mondiale non profit statunitense per indagare sulla persecuzione del Falun Gong, ha reso noto che l’industria del lavoro nelle prigioni cinesi è una macchina economica tentacolare che ricade sotto la supervisione del sistema giudiziario del regime. Ha descritto la capacità del regime di sfruttare questa fonte di lavoro occulta come una “potente arma strategica” per favorire le ambizioni economiche globali di Pechino: “Indipendentemente da quanti dazi gli Stati Uniti impongano alla Cina, l’industria del lavoro in schiavitù del Partito Comunista Cinese non verrà influenzata in modo significativo”. L’organizzazione ha pubblicato nel 2019 un’inchiesta in cui ha segnalato 681 aziende che utilizzano il lavoro carcerario in 30 tra province e regioni, e che producevano un’ampia gamma di prodotti: dalle bambole ai maglioni in vendita all’estero. Molte delle aziende in questione sono risultate di proprietà dello Stato, mentre alcune erano controllate dall’esercito cinese. Inoltre, si è scoperto che i rappresentanti legali di 432 di queste imprese, ovvero circa due terzi del totale, sono anche i capi dell’amministrazione carceraria locale. Anche se il regime ha formalmente abolito il sistema dei campi di lavoro nel 2013, i risultati dell’inchiesta indicano che l’industria del lavoro forzato è ancora viva e vegeta. I campi di lavoro hanno semplicemente cambiato nome e si sono fusi con il sistema carcerario, come ha riferito Wang citando un proverbio cinese: si tratta di “offrire la stessa medicina con un brodo diverso”.