Tutti i detenuti sono uguali davanti alla legge? di Vittorio Feltri Libero, 6 settembre 2020 Sulla Repubblica di venerdì scorso è comparso un brillante articolo di Attilio Bolzoni sui mafiosi che hanno ottenuto gli arresti domiciliari, grazie a un provvedimento del guardasigilli Bonafede, per evitare i rischi del Covid. Molti altri detenuti diciamo generici hanno usufruito della stessa norma, come è ovvio. Attualmente rimangono a scontare la pena in casa un centinaio di condannati appartenenti alla criminalità organizzata. Prima o poi rientreranno in carcere, probabilmente quando il virus si sarà ulteriormente placato. Per cui non capisco per quale motivo il ministro della Giustizia, che pure non stimo, nella presente circostanza debba essere criticato. Se tutti i cittadini italiani sono uguali davanti alla legge, non capisco perché i mafiosi debbano esse discriminati e subire un trattamento speciale, comprensivo di torture vergognose e incivili. Il famigerato 41 bis è un abominio, prevede isolamento perenne, luci sempre accese anche nelle latrine, colloqui al minimo, insomma qualcosa di ripugnante. Ma non c’è verso di annullare la norma, dato che il potere politico ha la sensibilità di un rinoceronte. Se anche in caso di pandemia certi reclusi particolarmente pericolosi devono scontare la pena in una situazione disumana, significa che alle autorità non importa nulla della loro vita. E questo è inammissibile. Il ragionamento di Bolzoni non è campato in aria ma non tiene conto che tutti i carcerati debbano godere degli stessi diritti. Il fatto che i mafiosi abbiano commesso reati particolarmente odiosi non ci autorizza ad infliggere loro punizioni che contrastano con il minimo senso di pietà. Già la galera è una forma di espiazione crudele, se si aggiunge un supplemento di supplizi non ci resta che andare a nasconderci. I boss dietro le sbarre non meritano certamente di godere di privilegi, ma neppure di subire il sadismo di un sistema che viola la Costituzione, a causa del quale le nostre prigioni sono ormai teatro di violenze sistematiche. Non chiedo clemenza per le coppole, ma se il nostro Paese si convincesse che la crudeltà della piovra è un reato esattamente come lo è la crudeltà dello Stato forse faremmo un passo avanti per superare la barbarie. Ritardi e incertezze, la giustizia stenta. Ora si rischia il caos di Grazia Longo La Stampa, 6 settembre 2020 Il ministero: spesi 20 milioni. Ma la normalità è lontana. Gli uffici giudiziari non hanno mai navigato in acque calme, ma la proverbiale giustizia-lumaca si è decisamente accentuata con l’emergenza coronavirus. La ripresa dopo il lockdown non è stata semplice e ora all’orizzonte si profila un autunno caldo. Lunghe code davanti ai tribunali, cancellerie a disposizione solo su prenotazione e udienze rinviate di anni rappresentano solo la punta dell’iceberg. A questo si aggiunga una differente organizzazione nei vari uffici giudiziari del Paese e il caos è assicurato. Le critiche maggiori al sistema arrivano dagli avvocati, mentre il ministero della Giustizia, attraverso il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, ha fatto il possibile per arginare le difficoltà e garantire lo svolgimento delle udienze in un regime di sicurezza. A partire dalla presenza dei dipendenti nelle aule e negli uffici dei vari palazzi di giustizia, garantita ora per oltre il 70 per cento del totale, contro l’indicazione del 50 per cento fissata dalla Funzione pubblica. La percentuale media di personale in presenza negli uffici è passata da 27,02 per cento (periodo dal 24 febbraio al 30 aprile) al 71,33 per cento al 31 luglio. Dal Ministero, come ribadisce la circolare emanata l’altro ieri, sono stati erogati agli uffici del territorio e già spesi ben 20 milioni di euro per materiale igienizzante, cartellonistica, paratie, attività di sanificazione, dispositivi di protezione personale. Sono state inoltre distribuite mascherine sia negli uffici giudiziari (93 per cento) sia al Ministero (7 per cento). Non sono tuttavia mancati i contagiati dal Covid-19: 74 in tutta Italia su un totale di 44 mila dipendenti (34 mila amministrativi e 10 mila magistrati). Il ministero della Giustizia ha siglato molti protocolli con le Regioni e le autorità sanitarie locali per screening sierologici per il personale, segnale di una coesione territoriale che ha accentuato l’attenzione del contesto sanitario per la sicurezza dei lavoratori. Ma i problemi non mancano. A partire dal rischio che la lentezza dell’attività negli uffici giudiziari faccia cadere in prescrizione i reati minori, quelli più comuni come risse, furti in casa, scippi incidenti stradali, lesioni. Una emergenza che esisteva già e che è stata aggravata dall’improvvisa esplosione della pandemia. I giudici che sbagliano pagheranno mai? di Astolfo Di Amato Il Riformista, 6 settembre 2020 Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo, tutti e due avvocati, sono in carcere da oltre otto mesi. Ristretti in luoghi molto lontani da dove risiedono le loro famiglie, da dove si svolge il procedimento che li riguarda, che è anche il luogo ove di regola si trovano i difensori. Perciò non solo in carcere, ma anche posti in una drammatica difficoltà di ricevere anche un minimo di sostegno affettivo e di poter avere un ruolo nel preparare la propria difesa. Come si giustifica tutto questo? Semplicemente con il fatto che pende la fumosa accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Esistono le esigenze cautelari e, cioè, le condizioni di concreto pericolo di alterazione delle prove o di reiterazione del fatto, che secondo la legge giustificano la custodia cautelare in carcere? A leggere i provvedimenti giudiziari sinora emessi consistono nel fatto che chi è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa è, per ciò stesso, pericoloso. Di fatto, non esistono. Diventa, allora, inevitabile chiedersi se la carcerazione preventiva non sia funzionale, in realtà, ad impedire un pieno esercizio del diritto di difesa. Di fronte ad una così discutibile applicazione della legge occorre domandarsi se anche questa volta non ci si trovi di fronte al frutto avvelenato della mancata soluzione di due nodi fondamentali della giustizia: la responsabilità dei giudici e la separazione delle carriere. Per quello che concerne il primo aspetto, vale la pena ricordare che chi ha incontrato Giancarlo Pittelli in carcere ha incontrato un uomo distrutto, nello spirito e nel fisico. E la distruzione di un uomo è anche la distruzione della sua famiglia e del suo mondo professionale. E se è innocente, come oggi bisogna presumere a tenore di dettato costituzionale, chi risponderà mai del male fatto? Il potere di distruggere una persona e il piccolo mondo che intorno ad essa ruota può essere disgiunto da qualsiasi forma di responsabilità? Non è così per i medici, non è così per gli avvocati, non è così per qualsiasi persona. Può essere così solo per i magistrati? Si dirà che, in questo caso, è intervenuto il vaglio di più magistrati, sino a quello della Suprema Corte. Ma qui interviene il carico di problemi che porta con sé il secondo dei nodi irrisolti, quello della separazione delle carriere. Vi è una recente sentenza della Cassazione che meglio di ogni altro argomento esprime l’atmosfera determinata dalla mancata separazione delle carriere: tra il consulente della difesa e quello dell’accusa, quest’ultimo è per principio più credibile (cass. 16458/2020). Una palese assurdità, che, siccome detta dal supremo organo di giustizia, certifica quanto sia urgente intervenire su questo punto. Da ultimo, non si deve tacere la brutta sensazione che Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo subiscano questo trattamento perché avvocati. Se fosse così, il significato sarebbe “attenti a chi difendete”! E quelli che sono con la bocca sempre piena della parola antifascismo perché stanno zitti? “Fare l’avvocato è difficile, anche per colpa dei magistrati”, l’accusa del penalista Botti di Viviana Lanza Il Riformista, 6 settembre 2020 La crisi della giustizia coincide con la crisi della professione di avvocato. Per l’avvocato Claudio Botti, penalista di grande fama e di grande esperienza, l’emergenza legata alla pandemia ha solo amplificato un problema che ha origini lontane e una matrice culturale. La sua è un’analisi lucida e precisa che termina con un monito per le nuove generazioni affinché si affaccino alla professione forense con più consapevolezza e un richiamo all’avvocatura più esperta affinché recuperi la responsabilità e la centralità del ruolo del difensore. La sua proposta? L’istituzione di albi di specialità in modo da rendere più specialistica la formazione degli avvocati. Quanto alla lenta ripresa delle attività giudiziarie che scandisce i ritmo della riapertura degli uffici giudiziari dopo la pausa feriale, afferma: “Non si tratta di ripresa, perché la ripresa presuppone che ci sia stata un’attività. Qui si tratta di organizzare un inizio di attività giudiziaria, tenendo conto delle contingenze e della situazione con la quale purtroppo ancora dobbiamo convivere”. Avvocato Botti, quanto è difficile svolgere oggi la professione di avvocato? “Certamente oggi è più difficile. I numeri e il contesto non consentono di valorizzare il merito. Oggi avanza più facilmente chi è più furbo, chi è astuto, chi ha più conoscenze. E questa è una responsabilità degli avvocati ma anche della magistratura, perché l’assoluta indifferenza nei confronti del difensore ci ha reso tutti soggetti fungibili. Inoltre siamo gli ultimi tuttologi, perché superato l’esame di accesso alla professione, che così come è strutturato è un terno al lotto, dal giorno dopo possiamo fare qualsiasi tipo di causa, dal tar alla Corte di Assise, al giudice del lavoro, senza alcun controllo esterno se non quello della propria coscienza perché non è previsto un albo di specialità. Il problema è che il rapporto fra domanda e offerta nel nostro ambito è completamente saltato, c’è assoluta trasversalità e una qualità sempre più scadente, perché già è difficile stare dietro alla propria specialità, figuriamoci doversi occupare di tutto”. L’avvocatura rivendica il suo ruolo centrale e lamenta un’emarginazione fisica e culturale. In che senso? “Il degrado della categoria professionale e l’assoluta inconsapevolezza del proprio ruolo ha consentito a chi non ha sensibilità giudiziaria di emarginare il difensore, perché gli avvocati sono troppi, tanti, e non più capaci di rivendicare il loro ruolo. Servono avvocati consapevoli e seri affinché l’emarginazione culturale possa avere un’inversione di tendenza. C’è un problema di cultura della giurisdizione per cui la presenza del difensore e dell’avvocato è una presenza più sopportata che desiderata e auspicata. È un problema che viene da lontano e che l’emergenza sanitaria ha solo esasperato. Il percorso di emarginazione ha una sua matrice certamente legislativa, e quindi nella cultura del legislatore, recepita dalla magistratura. Gli avvocati non sono stati in grado di invertire questa tendenza per riaffermare la centralità del loro ruolo nel processo. E l’emergenza sanitaria ha amplificato al massimo questa contraddizione per cui addirittura si era pensato che i processi penali si potessero fare da remoto con la toga sopra e il pigiama sotto”. Dopo il lockdown la giustizia stenta ancora a ritrovare i suoi ritmi di sempre, che pure non potevano dirsi rapidi. Come mai secondo lei? “Ci sono stati lavoratori messi da subito in condizione di lavorare perché si è ritenuto che il loro fosse un servizio pubblico essenziale, invece la giustizia non è stata ritenuta tale e questo è assurdo. C’è stata un’assoluta superficialità della politica e gli avvocati sono stati e continuano a essere ritenuti ospiti quasi indesiderati nei Palazzi di giustizia d’Italia. Non devono esserci presenze di serie A e presenze di serie B, ma il problema, come dicevo, è anche culturale. Inoltre c’è stato un ostruzionismo dei sindacati dei cancellieri rispetto a ogni apertura sia a livello legislativo e ministeriale sia a livello di capi degli uffici giudiziari, e così loro decidono con la consapevolezza che il proprio stipendio va e viene. Sono in una condizione di assoluto privilegio che però determina una specie di ricatto per l’intera macchina giudiziaria, e non solo a Napoli”. Angelo Vassallo, la favola del “sindaco-pescatore” attende giustizia da 10 anni di Luciana Esposito articolo21.org, 6 settembre 2020 Angelo Vassallo ha insegnato ai cittadini della sua Pollica e all’Italia intera che le favole esistono anche nella vita reale, ma il lieto fine è tutt’altro che scontato. Il 5 settembre del 2010, mentre percorreva in auto il solito tragitto che lo conduceva a casa, a sbarrargli la strada ha trovato la morte. Nove colpi di una pistola calibro 9 esplosi a raffica contro Vassallo, ancora seduto nella sua auto, con il finestrino parzialmente abbassato e il freno a mano tirato: queste le uniche certezze legate agli ultimi istanti di vita di un sindaco diventato un’icona della bella politica. Questo il brusco finale imposto alla favola del “sindaco-pescatore” da una spietata logica criminale. Un omicidio avvolto nelle misteriose ombre dell’incertezza, malgrado i dieci anni trascorsi da quella sera che ha sancito un punto di non ritorno per la comunità di Pollica, il piccolo comune cilentano che Vassallo ha forgiato a immagine e somiglianza dei suoi sogni, ergendolo a modello di quello stile di vita capace di “coltivare” centenari, tramutando la sua Acciaroli nella famigerata “perla del Cilento”. La favola di Vassallo nasce tra le onde di quel mare che ha difeso e salvaguardato con le unghie e con i denti, proprio perché quando era un pescatore ha maturato un rapporto privilegiato con quella forza oscura che tanto può dare e tanto può togliere all’uomo. “Chi ha trascorso una vita intera in mare non può avere paura degli uomini”: questo è quanto resta di Vassallo, a 10 anni dalla sua scomparsa. La saggezza di un uomo semplice che tra le onde di quel mare che amava tanto ha cullato il sogno di una società migliore. Eppure, Angelo Vassallo, non era un sognatore né un visionario. Era un pescatore, quindi abituato a barcamenarsi tra mille difficoltà e ad osteggiare i pericoli più impervi ed insidiosi, perché generati da un amico che ti conosce bene e che in un lampo si rivela capace di tramutarsi in un ostile nemico, senza preavviso, generando quella furia indomabile che solo il mare sa sviscerare. Il destino di Angelo Vassallo era tristemente scritto nelle onde di quel mare che tanto amava. Quel pescatore diventato sindaco per conferire un’essenza terrena ai suoi sogni è stato tradito da qualcuno che conosceva bene e di cui si fidava. Nei giorni precedenti al brutale assassinio, Vassallo aveva cercato con insistenza un contatto con la Procura di Vallo della Lucania. Ai familiari aveva confessato di aver scoperto qualcosa che avrebbe preferito non sapere. Una verità scomoda che lo rendeva irrequieto e che probabilmente lo ha condannato a morte. La favola del “sindaco-pescatore”, consacrata dalla carica ricoperta da Vassallo per ben tre mandati vestendo la fascia tricolore del comune di Pollica, a dispetto della morte del suo temerario protagonista e dei silenzi e dei misteri che ancora avvolgono quell’efferato delitto, ha lasciato un ricordo indelebile nella coscienza sociale della sua comunità che ancora oggi, sfogliando quelle pagine, pregne di ricordi e momenti felici, ma anche di incredulità e lacrime amare, non può fare altro che rivolgere lo sguardo verso il cielo per dedicare un pensiero a quell’uomo semplice dal carattere scontroso che ha dato tutto quello che aveva, compresa la sua stessa vita, per realizzare quel sogno condiviso dall’intera comunità. L’esempio, il credo politico, l’etica, la morale, la stravaganza, il carattere burbero che gli ha conferito la fama del sindaco tutto d’un pezzo, ma sempre pronto a scendere in campo per aiutare i suoi concittadini, la dieta mediterranea, le lotte a tutela dell’ambiente e contro la speculazione edilizia e lo spaccio di droga: questi i tratti salienti di una favola che ha portato il comune cilentano di Pollica alla ribalta nazionale ed internazionale. Come puntualmente accade in ogni favola degna di essere definita tale, spetta ai cattivi il compito di stravolgere i sogni di felicità. Il prestigio conquistato da Acciaroli ben presto finisce nel mirino della camorra e dei colletti bianchi. La droga che inizia a sbarcare nei luoghi della movida acciarolese, i lavori per la realizzazione del porto e un’infinità di progetti volti a riempire di cemento le verdi colline che lambiscono quelle acque cristalline: Vassallo si ritrova così ben presto a destreggiarsi tra onde torbide ed indomabili, per giunta sconosciute perfino ad un pescatore esperto e navigato come lui. È in questo clima di isolamento ed omertà che matura il brusco epilogo della favola del “sindaco-pescatore”. Tradito da qualcuno di cui si fidava, abbandonato al suo triste destino, malgrado le continue e vane richieste d’aiuto inoltrate per rafforzare la presenza delle forze dell’ordine nel suo comune durante la sua ultima estate. E soprattutto l’omertà di chi sapeva e ha taciuto che ha consentito di giungere al decimo anniversario della morte di un uomo giusto e di un sindaco onesto, senza conoscere il nome dei responsabili della sua morte. Nonostante i dieci anni trascorsi da quella tragica sera, la favola del “sindaco-pescatore” continua a rivendicare verità e giustizia. Marche. Carceri, il Garante ai candidati: “Alla presidenza della Regione se ne facciano carico” anconatoday.it, 6 settembre 2020 Appello del Garante dopo l’avvio dell’ulteriore azione di monitoraggio, iniziata con le visite a marino del Tronto di Ascoli Piceno e Barcaglione di Ancona. Un appello ai candidati alla presidenza della Regione Marche affinché non vengano trascurate le problematiche relative al sistema penitenziario. È quello che lancia il Garante dei diritti, Andrea Nobili, che proprio in questi giorni sta effettuando nuovi sopralluoghi presso gli istituti marchigiani. Alla luce di quanto emerso dopo le visite a Marino del Tronto di Ascoli Piceno e Barcaglione di Ancona, Nobili ha ritenuto opportuno chiedere nuovamente la convocazione dell’Osservatorio regionale della sanità penitenziaria, sia per affrontare le questioni legate alla gestione dell’emergenza Covid - 19, sia per fare il punto sugli interventi da effettuare per le altre patologie, soprattutto di ordine psicologico e psichiatrico, che interessano direttamente diversi detenuti. In primo piano anche la necessità di effettuare visite specialistiche. “Una situazione - sottolinea il Garante - che abbiamo evidenziato in diverse occasioni e che oggi necessita di azioni coordinate e incisive per attivare nuovi piani di prevenzione ed affrontare le criticità. Ritengo che vada garantita una compiuta tutela del diritto alla salute dei detenuti e che la questione carceraria, con tutte le problematiche ad essa collegate, debba rientrare nei programmi di chi si appresta a governare la Regione Marche”. Dietro richiesta di Nobili, l’Osservatorio tornerà a riunirsi nei prossimi giorni per fare il punto della situazione. Intanto proseguono i sopralluoghi del Garante nei sei istituti penitenziari marchigiani.” Bari. Non ricoverano detenuto: protesta in carcere del clan Strisciuglio di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 6 settembre 2020 Indaga l’Antímafía: identificati 15 detenuti. Danneggiate due celle, nessun ferito. Ieri sera intorno alle ore 21 circa, presso la III Sezione del secondo piano del carcere di Bari occupato principalmente da detenuti ad alta sicurezza appartenenti al clan barese “Strisciuglio”, è scoppiata una rivolta. A renderlo noto è il sindacato Sappe, secondo il quale tutto sarebbe nato dal mancato ricovero di un detenuto presso il locale ospedale. I detenuti - stando a quanto riferisce il sindacato - hanno iniziato a protestare in maniera molto rumorosa battendo le stoviglie alle inferriate con il coinvolgimento anche della seconda sezione dove sono rinchiusi appartenenti sempre dello stesso clan. La rivolta di ieri sera nel carcere di Bari ha coinvolto 15 detenuti, tutti appartenenti al clan Strisciuglio, uno dei gruppi mafiosi egemoni in città. È scoppiata poco dopo le 21 al secondo piano del terza sezione, dove sono reclusi i detenuti per reati di mafia. Ufficialmente il motivo scatenante della rivolta è stato il mancato ricovero in ospedale di un sodale detenuto. I rivoltosi hanno danneggiato le rispettive celle, distruggendo sedie e altri arredi e usando le brande per sfasciare serrature e cancellate. Hanno dato fuoco a carte e sparso sul pavimento acqua e olio per far scivolare il poliziotti. Diversamente da quanto si era inizialmente appreso da una nota del Sappe, non è stato lanciato sui poliziotti olio bollente e fortunatamente tra gli agenti della Polizia penitenziaria non ci sono stati feriti. Solo un detenuto è caduto facendosi male ad un braccio. I 15 detenuti rivoltosi sono stati tutti identificati e riportati in cella. Durante la rivolta, durata circa due ore, all’esterno del carcere sono arrivate pattuglie della polizia di Stato a supporto, ma non è stato necessario il loro intervento all’interno. Gli agenti della Penitenziaria con la direzione del carcere stanno redigendo una prima informativa sull’accaduto che nelle prossime ore sarà trasmessa in Procura. La Direzione distrettuale Antimafia di Bari coordina le indagini sulla rivolta di ieri sera nel carcere di Bari. A quanto si è appreso 15 detenuti, tutti appartenenti al clan Strisciuglio di Bari e già identificati dagli agenti della Polizia penitenziaria, hanno distrutto gli arredi delle proprie celle per protestare contro il mancato ricovero di un sodale detenuto, rendendo temporaneamente inagibile un piano della terza sezione del penitenziario barese, quella riservata ai detenuti in regime di massima sicurezza. “La sofferenza di tutti i servizi e il grande sacrificio degli uomini e donne della Polizia penitenziaria non possono passare inosservati. A Bari la situazione degli organici, 100 unità a fronte di una popolazione detenuta di 400 presenze per una capienza tollerabile di 299, determina grave rischio per l’utenza, per gli operatori e per il cittadino”. È il commento del segretario generale aggiunto dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) Pasquale Montesano, dopo la rivolta di ieri sera nel carcere di Bari. Al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, l’Osapp ricorda che “in Puglia si registrano carenze non più tollerabili, aggravate dalla forte presenza sul territorio e nelle strutture penitenziarie di cosche malavitose” e chiede “urgentissime risposte concrete, interventi non più rinviabili”. “Come la lotta alle mafie foggiane è diventata una questione nazionale per il Governo - dice Montesano - deve diventare un caso nazionale il disagio degli uomini e donne della polizia penitenziaria pugliese e del sistema penitenziario in particolare a Bari”. In una nota il sindacalista aggiunge dettagli sulla rivolta, spiegando che “un detenuto in regime di alta sicurezza” dopo il mancato ricovero in ospedale “ha dato vita a un vero proprio show di violenza con il coinvolgimento di tutta sezione”. “Ancora più grave - aggiunge - il fatto che da lì a pochi minuti fuori le mura del carcere si sono assembrati numerosi familiari e forse adepti della criminalità che hanno messo in atto forme di protesta che inducono a pensare ad uno specifico disegno criminoso e destabilizzante del sistema”. “Ieri 15 detenuti hanno scatenato una rivolta nel carcere di Bari e dobbiamo ringraziare gli agenti delle forze dell’ordine per il lavoro che compiono ogni giorno nel delicato e complesso contesto delle nostre case circondariali”: lo ha detto il candidato del centrodestra alla presidenza della Regione Puglia, Raffaele Fitto, commentando la notizia della rivolta nel penitenziario barese. “Tra il problema del sovraffollamento e la carenza di mezzi e personale delle forze dell’ordine - ha aggiunto - gli agenti in servizio portano un fardello pesantissimo. A loro e a tutti i dipendenti delle carceri va il nostro grazie più sincero per l’impegno quotidiano profuso in condizioni sempre più precarie e difficili”, ha concluso Fitto. Napoli. Il welfare della camorra di Antonio Averaimo Il Mattino, 6 settembre 2020 Nella città, piegata dal lockdown e dalla crisi, si fa largo il ricorso alla criminalità per ricevere aiuti. L’allarme per l’impennata dell’usura e per il fenomeno delle truffe agli anziani: vulnerabili a rischio. procura e forze dell’ordine sono d’accordo, e lo hanno sottolineato recentemente in sede di Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica: a Napoli, nei mesi successivi al lockdown, mentre la pandemia sociale piegava le famiglie, il reato che più è aumentato sono le truffe agli anziani. A lanciare l’allarme per primo è stato il comandante provinciale dei carabinieri, il generale Canio Giuseppe La Gala. “Si tratta di un reato in realtà sempre esistito - spiega il generale. Ma negli ultimi mesi ne abbiamo riscontrato una crescita e - sponenziale. Un crimine peraltro particolarmente odioso, in quanto colpisce una fascia di persone estremamente vulnerabile”. E così, mentre la povertà stritola i più fragili e le code in strada per chiedere cibo e aiuti si allungano, finti corrieri, avvocati e carabinieri chiamano l’anziano di turno con la solita scusa del problema capitato al familiare stretto - un figlio, un nipote - passando in seguito all’incasso presso la sua abitazione. Questo, grossomodo, lo schema classico della truffa: il truffatore simula un incidente o un fermo ai danni del figlio o del nipote. Questo genera panico nel malcapitato, che inavvertitamente fa il nome del congiunto. Segue la richiesta di soldi per sbloccare la situazione e la consegna del denaro, presso il domicilio della vittima. Sono stati tanti, molti più del solito, gli arresti per questo genere di reati nei mesi della pandemia. “Purtroppo, dopo aver arrestato uno di loro, i truffatori rimasti in libertà cambiano zona” dice il comandante provinciale dei carabinieri. Ciò ha convinto il generale a lanciare una campagna di informazione, che vede in prima linea anche le parrocchie napoletane: “Un reato, questo, che colpisce il candore degli anziani e che spesso lascia tracce anche sulla loro psiche, spalancando la strada a episodi di depressione”. L’altra faccia - più nascosta - della “pandemia sociale” di Napoli è l’usura. A nessuno sfugge quanto gli strozzini siano attivi in questa fase, in città e in tutta la regione. Mancano però le denunce, sempre molto rare per questo tipo di reato. I clan e i piccoli usurai puntano ad approfittare delle ristrettezze economiche portate dal Covid-19 alle famiglie e alle imprese. Parroci, fondazioni antiusura e associazioni dei commercianti lo denunciano da mesi. I delinquenti mirano a impadronirsi delle aziende e dei negozi degli imprenditori e dei commercianti in difficoltà, sfruttando le perdite del lockdown e le difficoltà della ripartenza. L’altro fronte su cui si è mossa la camorra è quello degli aiuti. In diversi quartieri napoletani, i camorristi hanno aiutato le famiglie in difficoltà. In alcuni casi, si sono persino appropriati dei pacchi distribuiti dalle parrocchie, distribuendoli poi a loro piacimento, stando a quanto denunciato da alcuni parroci. Passeranno all’incasso più in là. Non chiederanno soldi, ma di nascondere un latitante o la droga. Senza contare l’effetto, a livello di consenso, che questa strategia porterà nelle aree più povere della città. Da queste parti lo chiamano “welfare di camorra”, che si affianca a quello dello Stato, percepito come insufficiente. Uno studio della Cisl di Napoli ha reso noto che, durante il lockdown, sono state ben 71mila le domande di buoni spesa su tutto il territorio metropolitano. Altro segnale di una povertà parecchio diffusa nel tessuto sociale napoletano. “Contrariamente a quanto si pensa - spiega il direttore della Caritas diocesana di Napoli, don Enzo Cozzolino assistiamo più italiani che stranieri. Un dato in aumento nei mesi della pandemia. Abbiamo visto e vediamo facce che non avevamo mai visto prima. Persone che prima riuscivano in qualche modo a sbarcare il lunario e ora devono chiederci il pacco o addirittura recarsi presso una delle nostre venti mense...”. D’altronde, i dati in possesso della Caritas dicono che in questi mesi c’è stato un aumento del 100% delle richieste di aiuto su scala nazionale. “Un dato che va sicuramente maggiorato per quanto riguarda Napoli e il Sud Italia...”, precisa don Enzo. Anche la Chiesa di Napoli, come le altre nel resto d’Italia, in questi mesi è stata chiamata a un maggiore sforzo sul fronte dell’assistenza ai poveri. Sono state aperte due case per i senzatetto, l’attività delle mense e di alcune strutture - come “La Tenda” - si è intensificata parecchio rispetto al passato. “Ciò che va assolutamente detto - tiene a sottolineare il direttore della Caritas diocesana di Napoli - è che tanta gente è venuta da noi a chiedere di poter donare ai più poveri, a riprova del grande cuore dei napoletani. Un dato ben simboleggiato dal panaro ripreso dalle tv, nel quale chi aveva poteva lasciare qualcosa e chi non aveva poteva prendere”. A Napoli, come nelle altre città italiane, “non è più solamente il senzatetto o l’immigrato che vive di espedienti l’assistito-tipo della Caritas, ma anche il padre separato, il funzionario, il ragioniere...”. La pandemia non ha fatto altro che confermarlo. Modena. Il Sen. Mirabelli alla Festa dell’Unità per parlare di lotta alle mafie e carceri Ristretti Orizzonti, 6 settembre 2020 Il Senatore Franco Mirabelli (Vicepresidente del Gruppo PD al Senato, Capogruppo PD nella Commissione Parlamentare Antimafia e Capogruppo PD in Commissione Giustizia del Senato) sarà alla Festa Nazionale dell’Unità a Modena Ponte Alto nelle giornate di domenica 6 e lunedì 7 settembre. Domenica 6 settembre alle ore 18.30 il Senatore Franco Mirabelli parteciperà all’incontro “Carceri e Costituzione: umanità, sicurezza, pene alternative” presso la Sala Dibattiti. Oltre al sen. Franco Mirabelli, interverranno Lucia Castellano, Ornella Favero, Andrea Giorgis, Mauro Palma. Il dibattito sarà coordinato dal giornalista Giovanni Bianconi. Lunedì 7 settembre alle ore 18.30 il Senatore Franco Mirabelli parteciperà all’incontro “Combattere le mafie in tempo di crisi” presso la Sala Dibattiti. Oltre al sen. Franco Mirabelli, interverranno il magistrato Alessandra Dolci, il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, l’on. Carmelo Miceli. Coordina l’incontro: Francesco Grignetti. Entrambi i dibattiti saranno trasmessi in diretta sulla pagina Facebook www.facebook.com/partitodemocratico. Siena. Mostra di elaborati artistici dei detenuti del carcere di Ranza Gazzetta di Siena, 6 settembre 2020 Sarà aperta al pubblico fino al 14 settembre, con il simbolico titolo “La Ripartenza”. Il Gruppo Volontariato Penitenziario della Misericordia di Siena ha organizzato assieme ai detenuti del carcere di Ranza l’iniziativa “La Ripartenza”: l’edizione 2020 della Mostra di Pittura ed Elaborati dei detenuti della casa di Reclusione. Il titolo scelto per questo anno, “La Ripartenza”, vuole ricordare sia il nuovo cammino dei detenuti dopo aver scontato la pena, sia per tutti noi, un nuovo modo di vita dopo la chiusura dovuta alla pandemia. Questo anno, nel rispetto della normativa vigente, la mostra si svolgerà nel Chiostro di San Martino, a cui si accede direttamente dalla sede storica della Misericordia di Siena (via del Porrione, 49). La mostra sarà aperta al pubblico con ingresso libero dall’1 al 14 settembre, dalle ore 10 alle 18 e l’inaugurazione della mostra si terrà il 9 settembre alle ore 10.30. Per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.misericordiadisiena.it. Gorgona (Li). In scena “Ulisse o i colori della mente”, lo spettacolo dei detenuti-attori ilsitodifirenze.it, 6 settembre 2020 Ieri, sabato 5 settembre, e oggi, sull’isola di Gorgona, va in scena “Ulisse o i colori della mente”, primo spettacolo del laboratorio di teatro e musica “Il teatro del mare” che coinvolge i detenuti/attori della Casa di reclusione dell’isola di Gorgona, nell’arcipelago toscano. “Ulisse o i colori della mente” è un testo inedito scritto dal regista e drammaturgo Gianfranco Pedullà insieme ai partecipanti al laboratorio: lo spettacolo non è un’Odissea tradizionale legata alla nota vicenda del ritorno di Ulisse dalla guerra di Troia ma - pur mantenendo richiami al poema epico - un’odissea contemporanea, di un uomo di oggi nel mondo di oggi. “È qualcosa che parla a tutti noi - spiega Gianfranco Pedullà - in questo momento naufraghi di una civiltà. Uno spettacolo gioioso, ricco di culture, poesie corali, danze e musiche, composte ed eseguite dal vivo da Francesco Giorgi. Un testo da me molto amato, costruito con i detenuti/attori, tutti rigorosamente debuttanti, e che inaugura questa trilogia sul mare. È uno spettacolo che non parla solo del carcere ma di tutti, della nostra ricerca di un’isola, di una identità, di una casa accogliente”. Il laboratorio “Il teatro del mare” è condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Giorgi e Chiara Migliorini all’interno del progetto Teatro in Carcere della Regione Toscana in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona. Agli spettacoli, in scena oggi e domani alle ore 11, partecipa un pubblico ridotto che nei giorni scorsi si è prenotato, ottemperando a tutte le procedure di accesso a una Casa circondariale. Decidere di morire è un nostro diritto di Gilberto Corbellini Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2020 Fine vita. Il filosofo Giovanni Fornero prova a fare chiarezza sulle implicazioni giuridiche. La filosofia è usata spesso per traghettare il pensiero di chi è meno accorto in qualche porto delle nebbie, dove non si distingue più niente e si ascolta la pancia illudendosi che si tratti della testa. Il filosofo Fornero usa invece idee chiare e distinte per inquadrare i termini giuridici del suicidio medicalmente assistito e dell’eutanasia volontaria. Il fine vita è un tema di stringente attualità. La discussione in Italia si svolge quasi esclusivamente sul piano etico e con l’etica si fa bella figura, ma non si va da nessuna parte. È necessario un salto di qualità nella discussione sul diritto di disporre della propria vita nella sfera giuridica, usando la filosofia per aiutare i magistrati a uscire da schemi di ragionamento troppo intuitivi e poco analitici. In materia di fine vita la giurisprudenza sta producendo decisioni e sollevando domande interessanti, benché disomogenee, e il libro di Fomero prova a fare chiarezza sulla natura delle incertezze sul piano giusfilosofico. La realtà del fine vita interroga quotidianamente medici e giudici. Come spiega Fornero, nei paesi dove il suicidio assistito o l’eutanasia sono legali, essere aiutati a morire non è un diritto sullo stesso piano dell’interruzione di gravidanza odi essere curati per un’infezione potenzialmente letale: si tratta di prestazioni richieste da persone che per il solo fatto di essere invita patiscono sofferenze fisiche e morali, e che sono regolamentate sulla base di criteri che servono a stabilire in modo accettabile quando la scelta di non continuare a vivere è giustificata e autentica o autonoma. È difficile capire su basi razionali l’accettazione praticamente unanime del diritto, legalmente riconosciuto anche da parte dai portatori di una filosofia della vita comunitaria o religiosa, di rifiutare, di morire attraverso il rifiuto di un trattamento (indipendentemente se è futile o terapeutico), mentre vigono riprovazioni e pesanti sanzioni per qualunque atto che aiuti a metter fine alla vita di una persona, la quale ne fa esplicita e razionale richiesta, nel momento in cui giudica quella vita non degna di essere vissuta, chiedendo l’assistenza (suicidio medicalmente assistito) o l’intervento diretto del medico (eutanasia volontaria). La credenza che la vita abbia più valore e sia più tutelata se rimane legalmente sottratta alla disponibilità delle persone che la vivono è frutto di un sentimento non benevolo e non altruista, che solo a posteriore viene razionalizzato con argomenti poco chiari e indistinti. Nei tempi in cui determinati pregiudizi contro le libertà personali erano funzionali alla stabilità sociale, quindi socialmente prevalenti, e le persone succhiavano col latte materno il dogma che la vita sarebbe un bene indisponibile, in quanto dono divinoo a disposizione delle esigenze di rafforzamento della comunità, il diritto prevedeva pensanti sanzioni per chi trasgrediva. Inclusi coloro i quali commettevano il “reato” di suicidio. I tempi sono cambiati, ma la psicologia umana rimane di fondo la stessa, per cui anche il diritto si muove e si adegua in modi lenti e incerti. Il che può avere senso per alcuni ambiti sociali o economici, ma non laddove cresce il numero di persone che per morire deve attraversare la valle vasta e dolorosa della morte cronico-degenerativa. In questo caso non si capisce quale genere di “diritto” applicato si possa far prevalere sul diritto alla libertà (autodeterminazione) di decidere di non soffrire, e non essere discriminati senza giusta ragione. Sono maggioranza nel mondo occidentale coloro che, lavorando per decenni e pagando le tasse grazie alle quali i magistrati ricevono gli stipendi, si aspettano di poter disporre in fine vita, rispettando chi non ne vuole disporre o quei medici che obietterebbero, della libertà di decidere se proseguire o meno, e nel caso di essere aiutati a non patire sofferenze intollerabili e lesive della loro dignità personale. Il diritto dovrebbe servire, in un quadro liberale, a prevenire abusi e a rendere intelligibili e sensate le segnaletiche alle quali ci affidiamo nel cammino incerto delle negoziazioni sociali. Fomero smonta quasi cavillosamente ogni genere di argomento che pretenda di difendere con razionalità la tesi della indisponibilità della vita. Poco si può fare con argomenti razionali quando prevale il pensiero motivato, dalla religione o da un’etica che antepone il dovere alla libertà. Largo spazio viene dato nel libro alle battaglie di Marco Cappato e dell’Associazione Luca Coscioni, che stanno sfidando il diritto vigente perché si interroghi sulla lettera autentica della carta costituzionale in materia di libertà personale e autodeterminazione. Ovvero su quanto effettivamente il prevalere dell’indisponibilità della vita nei codici italiani non costituisca la sopravvivenza di principi e valori arcaici, che intercettavano sentimenti tipicamente totalitari o illiberali. Nemmeno dopo la pandemia la politica affronta il fine vita di Mina Welby* L’Espresso, 6 settembre 2020 Il Parlamento continua a evitare di discutere un tema che riguarda tutti. La sentenza della Corte d’ Assise di Massa, che ha assolto Marco Cappato e me per aver accompagnato in Svizzera Davide Trentini con la motivazione che “il fatto non sussiste” per l’istigazione al suicidio e che “il fatto non costituisce reato” per l’aiuto fornito, non ha fatto iscrivere all’ordine del giorno della Camera la legge sul fine vita. A niente sono serviti gli appelli di tutti, dal Presidente Roberto Fico in giù: il Parlamento è andato in vacanza senza decidere. Nei momenti più difficili della quarantena abbiamo riscoperto l’importanza dell’aiuto, della cura, della generosità, del volontariato, del soccorso - di quello immediato come di quello “vitale” - ci siamo confrontati con la necessità di avere qualcuno al nostro fianco per respirare così come per fare la spesa. L’emergenza che ci aveva trovati impreparati ha rilanciato e rafforzato lo spirito di corpo, la solidarietà. Abbiamo ringraziato, giustamente, “eroi” e dappertutto si è scritto “niente sarà mai più come prima”. Ma davvero le cose sono cambiate? Se dovessimo prendere come metro di paragone il fine vita la risposta è no. E questa decisione va colta per riflettere su quanto abbiamo visto accadere e capire di quali e quanti di questi soccorsi continueremo ad avere bisogno per vivere degnamente e dignitosamente e di come ce li dovremo garantire. Aiutare le persone è da sempre ritenuto un valore nelle nostre società; aiutare le persone che soffrono, i malati - in qualsiasi condizione - un impegno civile, per alcuni religioso, ma soprattutto un obbligo costituzionale. L’Associazione Luca Coscioni da anni fornisce vari tipi di soccorso civile, spesso in vera e propria supplenza istituzionale, a chi in scienza e coscienza, e disperazione, fa richieste di ogni tipo. Per certi versi anche Luca Coscioni si rivolse a Marco Pannella e ai Radicali per chiedere “soccorso” affinché anche in Italia si promuovesse la libertà di ricerca scientifica sulle blastocisti per cercare cure a malattie come la sua, la Sla, che purtroppo restano incurabili. Da allora, grazie all’avvocato Filomena Gallo, un “soccorso legale” viene offerto non solo per favorire il progresso scientifico, ma anche per consentire il ricorso alla procreazione medicalmente assistita ostacolata da norme imposte senza alcuna motivazione scientifica. Anche mio marito Piergiorgio chiese soccorso per porre fine a una vita non più degna di esser vissuta. Prestare soccorso a chi sceglie di porre fine a sofferenze, a volte letteralmente atroci, e a chi vuole avere figli, con tutte le gioie che ne conseguono, vuol dire andare incontro a richieste espresse da persone capaci d’intendere e di volere che non per colpa loro, ma spesso per norme imposte arbitrariamente, non possono esser liberi di scegliere. Prestare soccorso è in linea con la Costituzione. E lo è talmente tanto che quando si “disobbedisce” la Corte Costituzionale concorda con l’affermazione della necessità del soccorso. Non passa settimana che non si venga raggiunti dalla notizia del deposito di progetti di norme, preparazione di decreti legge, annunci di dpcm per regolamentare qualsiasi cosa tranne questioni che hanno a che fare con le libertà. Non solo la libertà di scegliere - come, quando e dove morire o avere figli o fare ricerca - ma anche la libertà di poter aver accesso a terapie (come quelle con la cannabis), di studiare il genoma umano o vegetale, di liberare la salute dalle sovrastrutture della sanità, di poter vivere una vita indipendente se portatori di disabilità. Su tutti questi temi si invoca la “libertà di coscienza” ma non si procede. Contro questo disinteresse occorre la mobilitazione civica. Da oltre un mese Maurizio Bolognetti, un dirigente dell’Associazione Luca. Coscioni, è in sciopero della fame affinché il consiglio regionale della Basilicata applichi una norma che consenta alle persone disabili di poter vivere appieno la loro vita con gli ausili necessari. Che fine hanno fatto gli appelli alla coesione sociale e alla solidarietà se, al momento di far rispettare una legge, o vederne adottata un’altra che interessa tutti, le istituzioni abbandonano i cittadini? *Copresidente dell’Associazione Luca Coscioni Le emozioni perdute nel mondo digitale di Massimo Ammaniti Corriere della Sera, 6 settembre 2020 Con i social network le altre persone diventano immagini spersonalizzate per le quali non si prova coinvolgimento. Se ricostruiamo il contesto ambientale dei primi uomini sapiens la loro sopravvivenza e la loro affermazione evoluzionistica era legata alla speciale ipersocialità che li caratterizzava, come ci ha spiegato lo psicobiologo Michael Tomasello. Infatti quando gli uomini si avventuravano nella savana erano in grado di coordinare i loro sforzi e addirittura di cacciare prede molto più grandi e pericolose con una strategia di gruppo, comunicando soprattutto con le espressioni del viso e coi gesti, molto più rapidi ed efficaci del linguaggio. Questo contesto comunicativo si è venuto modificando negli ultimi anni con le tecnologie digitali e ancora di più con le restrizioni legate al Covid 19, che hanno amplificato gli scambi on line attraverso le chat, Skype o Zoom. Si tratta di comunicazioni che potremmo definire disincarnate, in cui la fisicità espressiva del corpo viene sostituita da forme digitali di relazione. Non a caso gli emoticon usati nei messaggi e nelle chat semplificano le emozioni, venendo meno i coinvolgimenti e le risonanze personali, espresse nel viso, nelle posture e nelle sensazioni corporee. E queste forme digitali di comunicazione stanno prendendo il sopravvento, dal momento che le relazioni quotidiane si stanno trasformando, distanze di sicurezza e mancanza di vicinanza fisica, come sta succedendo nella vita sociale, ma anche a scuola e nei posti di lavoro. Quando si incontra una persona non ci si dà più la mano, non si abbraccia più l’amico quasi il corpo sia diventato un compagno imbarazzante, che deve essere tenuto a freno e addirittura relegato a un ruolo marginale. Anche la stessa grammatica degli scambi visivi si sta trasformando, nonostante il contatto occhio ad occhio sia fondamentale nella crescita umana, i lattanti infatti si rivolgono al volto della madre per stabilire la vicinanza affettiva con lei. Ma anche negli anni successivi ogni volta che si incontra una persona si guarda negli occhi per capire le sue intenzioni. E questo scambio visivo rispetta alcune regole, ci si può avvicinare al volto dell’altro ma senza entrare nel suo spazio personale. E che succede nello scambio digitale? Gli scambi attraverso lo schermo inevitabilmente provocano distorsioni e ritardi nella percezione proprio perché la stessa codifica digitale comporta alterazioni, adattamenti e sintetizzazioni complesse che creano artificiosità relazionali. Congelamenti delle immagini, nebulosità, blocchi e scatti, ridotta sincronia fra video e audio sono fenomeni più che frequenti che generano confusioni nella percezione e negli stessi codici sociali. Per non parlare dell’inquadramento del viso e degli occhi nello schermo, a volte a una distanza troppo ravvicinata o troppo lontana, oppure una visione parziale o di profilo, che creano difficoltà di concentrazione e scarti percettivi che lasciano un senso perlopiù inconsapevole di insoddisfazione e di disagio. Anche il cervello deve cercare di elaborare questi stimoli contrastanti che non corrispondono ai circuiti sociali che si sono selezionati nel corso dei secoli che ci hanno aiutato e ci aiutano ad entrare in relazione con gli altri, a provare empatia e a comprendere gli stati mentali degli altri. Probabilmente queste forme di comunicazione digitale creano un distacco emotivo perché vengono meno le trame relazionali della vita quotidiana, ma anche le narrazioni del cinema e del teatro che risuonano col nostro cervello. Ne soffre soprattutto la nostra capacità di identificarci cogli altri, di sentirli emotivamente vicini e di provare empatia. Ci si può chiedere perché siano aumentati a dismisura gli episodi di cyberbullismo e le fake news che inondano i social network. Non dipende forse dal fatto che con i social network le altre persone perdono la fisionomia e la stessa carnalità umana divenendo immagini spersonalizzate, che si possono insultare e attaccare perché non si prova nessuna commiserazione e nessun coinvolgimento emotivo nei loro confronti. In altri termini quando l’empatia viene meno l’aggressività e la violenza possono prendere il sopravvento. “I tamponi uccidono, ci vogliono schiavi”… ma nessuno ferma la follia negazionista di Niccolò Carratelli La Stampa, 6 settembre 2020 Raduno No Mask a Roma, la polizia non fa indossare le mascherine. Speranza: fanno rabbrividire. “Guarda sta manica de cojoni!”. Il baffuto signore in bicicletta passa sul lungotevere e fotografa così la piazza pochi metri più sotto. Vicino alla Bocca della Verità, meno di 2mila persone a sfidare il sole e non solo quello. Sopra il palco un grande striscione: “Noi siamo il popolo”. Lo sforzo di non farsi condizionare dal giudizio dell’impietoso ciclista si infrange sulle prime parole che escono dalle casse: “Il campo magnetico terrestre sta cambiando - dice una signora - avverrà tra 2 o 3 anni, ma vogliono nascondercelo con il 5G”. All’improvviso la interrompono: “Scusate c’è una signora che si sente male, c’è un medico presente?”. In effetti c’è. Si chiama Pasquale Mario Bacco, medico legale e ricercatore, fa parte dell’associazione l’”Eretico”. Anche lei con i “no mask”? “Le mascherine vanno buttate - spiega - con questo caldo sono un terreno di coltura per i germi davanti a bocca e naso”. Forse per questo nessuno la indossa, a parte giornalisti e operatori. Qualcuno, semmai, la brucia a beneficio di telecamera. “Il criminale è lei che la mette - dice rabbiosa una signora - io devo rispettare la legge mica i decreti di Conte e Speranza”. Difficile completare il ragionamento. “Se iniziamo a chiedere a tutti di mettere la mascherina qua scoppia un casino - allarga le braccia un poliziotto - per tutelare l’ordine pubblico dobbiamo tollerare la situazione”. Ma i filmati di ieri sono al vaglio: nelle prossime ore i No Mask potrebbero essere multati. La manifestazione, comunque, era autorizzata, la piazza è stata chiesta dall’associazione “Popolo delle mamme”. Poi ci sono le “Madri in rivolta”, quelli che vogliono “salvare i bimbi dalla dittatura sanitaria”, no vax assortiti, rappresentati sul palco dalla deputata Sara Cunial, ex M5S, nota per aver stracciato in aula i decreti di Conte. Fa un po’ la conduttrice dell’evento, è lei a presentare “Giuliano, papà di tre figli”. Che però di cognome fa Castellino, leader romano di Forza Nuova, estremista di destra. Breve comizio, dice che gli piace “questa piazza apartitica, situazionista”, che vuole combattere “il nuovo ordine mondiale”. E detta l’inquadramento geopolitico: “I nemici sono Soros, Bill Gates, Obama e Clinton, gli amici dei popoli sono Trump e Putin”. Il legame con il presidente americano è testimoniato da un paio di bandiere della sua campagna elettorale, da un cartello “Make Italy great again” e dalle parole di un eccitato italo-americano: “Ci seguono dagli Stati Uniti, ben 500 associazioni che sostengono Trump. Sono con noi!”. Con loro c’è anche un volto noto come l’attrice Eleonora Brigliadori: “Sono qui come italiana di fronte all’attacco alle radici costituzionali della nostra libertà - dice - una politica che distrugge la vita attraverso vaccini, tamponi e limiti alla respirazione”. Spicca un cartello con scritto “Tamponatevi il culo”, poi lo striscione “A scuola no mascherine e no distanze”. Lo mostra Claudio, cinquantenne agente di commercio arrivato da Milano: “Mio figlio ha 6 anni e mezzo e deve andare in seconda elementare, se glielo permettono”. Alessandra ha 39 anni, viene da Napoli ed è “disoccupata per colpa del Covid, il negozio dove lavoravo ha chiuso. Per una emergenza gonfiata. Tanta gente morta di cancro o di ictus spacciate per vittime di coronavirus”. Le sue parole sono coperte dal grido “libertà, verità”, qualcuno dal palco sta dicendo: “Scarcerano i mafiosi e mettono ai domiciliari un intero popolo”. C’è chi vorrebbe piuttosto far arrestare Sergio Mattarella, “per aver abbandonato gli italiani”. Mentre nonna Maura, una delle leader della protesta, è andata ad incatenarsi davanti al Quirinale, per parlare con il presidente. Fischi e buu accomunano il capo dello stato, Giuseppe Conte, Mario Draghi, Nicola Zingaretti e Virginia Raggi. Questi ultimi, il governatore e la sindaca, colpevoli di aver condannato la piazza negazionista. Lo fa anche il ministro della Salute Roberto Speranza: “Mi fa rabbrividire”. E il premier Conte: “A chi pensa che il Covid non esista rispondiamo con i numeri: 135mila morti”. Lapsus, sono 35mila. Assist involontario ai complottisti. Egitto. Patrick Zaky incontra la famiglia: “Pronto a restare in carcere a lungo” di Francesca Caferri La Repubblica, 6 settembre 2020 Lo studente egiziano dell’università di Bologna arrestato al Cairo a febbraio ha potuto parlare con la mamma per la prima volta da marzo e ha voluto rassicurarla. L’incontro è avvenuto una settimana fa: padre e sorella lo hanno salutato da lontano. Nei giorni successivi è riuscito a far arrivare alla famiglia anche un biglietto: “Sto bene”. Dopo mesi di attesa, la famiglia di Patrick Zaky ha potuto incontrarlo in carcere la settimana scorsa. La mamma dello studente dell’università di Bologna arrestato al Cairo a febbraio è stata ammessa a colloquio con il figlio nel carcere di massima sicurezza di Tora, alle porte del Cairo. La sorella Marise e il padre hanno solo potuto salutarlo da lontano. L’ultimo incontro con i familiari risaliva a marzo, quando Patrick era detenuto a Mansoura, città di origine della famiglia dove era stato portato nei primi giorni dopo l’arresto. La visita della scorsa settimana non fuga tutte le preoccupazioni sul ragazzo, 29 anni: i familiari hanno infatti scoperto che nessuna delle lettere degli amici che avevano consegnato al carcere è arrivata al giovane, e che solo due di quelle scritte dai familiari gli sono state recapitate. Ma complessivamente Patrick, per quanto dimagrito e provato, è apparso in buona salute e determinato a restare lucido in una situazione che, ha capito, potrà durare più a lungo di quanto non si temesse all’inizio. Dopo la visita, qualche giorno fa Patrick è anche riuscito a far avere alla famiglia un biglietto: “Sono in buona salute e spero che tu sia in buona salute”. La notizia del biglietto - riprodotto in questa pagina - è stata comunicata sui social dagli attivisti di ‘Patrick Libero’. Gli amici si sono preoccupati “per la sua salute mentale” a causa delle brevi parole della nota e del suo tono formale, ma chi segue la situazione da vicino spiega che usare questi termini è l’unica maniera per far passare qualcosa dalle maglie della censura. Zaky è accusato fra le altre cose di propaganda contro il governo e istigazione alla violenza. I familiari speravano di poterlo rivedere oggi, giorno di visite a Tora: ma è stato consentito loro solo di lasciare alle guardie una busta con cibo e abiti, come ogni settimana. La speranza è comunque che ci possa essere un’altra visita presto Egitto. “Contro di me un’escalation repressiva per impaurire chi resiste” di Pino Dragoni Il Manifesto, 6 settembre 2020 Intervista allo storico attivista Bahey el-Din Hassan dopo la condanna a 15 anni di carcere: “Il primo dei tweet citati come prove è quello in cui chiedo giustizia per Regeni e i 5 uccisi per insabbiare l’omicidio. Le armi italiane servono ad al-Sisi per soddisfare l’esercito”. Quindici anni di carcere per qualche tweet. È questa l’assurda condanna (in contumacia) che il 25 agosto ha colpito Bahey el-Din Hassan, cofondatore e direttore del Cairo Institute for Human Rights Studies, tra le più antiche e prestigiose organizzazioni per i diritti umani del mondo arabo. Una sentenza durissima, senza precedenti per una figura di primo piano come Hassan che nei suoi 50 anni di militanza ha attraversato quasi tutte le stagioni politiche dell’Egitto repubblicano, ma non aveva mai subito il livello di vessazioni degli ultimi anni. “Si tratta di un’escalation - dice Hassan al manifesto - anche se va nella stessa direzione delle minacce di morte ricevute nel 2014, della sentenza che ha congelato i miei beni e quelli della nostra organizzazione, e della condanna a tre anni di pochi mesi fa con le stesse accuse di oggi”. Insulti alla magistratura e diffusione di notizie false sono i reati che avrebbe commesso, gli stessi usati praticamente contro tutti i dissidenti nell’Egitto di al-Sisi. Ad ‘incastrarlo’ i suoi post sui social media: “Mi ha colpito - osserva Hassan - che il primo dei tweet citati come prove nel fascicolo fosse quello in cui chiedevo giustizia per Regeni e per i cinque innocenti uccisi per insabbiare il suo omicidio”. Figlio del movimento studentesco del ‘68 egiziano, dopo una lunga attività nel sindacato dei giornalisti, Hassan è stato tra i pionieri del movimento dei diritti umani nella regione, contribuendo alla formazione di numerose generazioni di attivisti. Da sei anni vive all’estero, dove continua instancabilmente il suo lavoro, da un lato facendo pressioni sui governi occidentali e dall’altro tentando di connettere e coordinare la vivace diaspora egiziana in Europa e in Nord America. La condanna, oltre a mandare un messaggio diretto a lui, serve “a spaventare altri difensori dei diritti umani, soprattutto quelli che sono in Egitto”, anche se oggi “il regime si sente più minacciato da chi è all’estero”, spiega rispondendo alle nostre domande. Non è un caso che negli ultimi tempi gli apparati di sicurezza abbiano preso di mira i parenti di alcuni attivisti in esilio, persone spesso totalmente slegate dalla politica. Appena un anno fa, a seguito di un’intervista a questo giornale, lo stesso Hassan era stato oggetto di una vasta campagna diffamatoria sulla stampa egiziana, che arrivava persino a chiederne la revoca della cittadinanza, accusandolo di essere una “spia” e un “agente straniero”. È sempre la retorica della lotta al terrorismo e della stabilità a giustificare le politiche del regime di al-Sisi, salito al potere nel luglio 2013 con un cruento colpo di stato contro gli islamisti. Ma dietro gli slogan la realtà è un’altra. “Non vedo alcun nesso tra le misure draconiane in atto e la sicurezza - afferma Hassan, che è stato condannato proprio da una corte speciale anti-terrorismo - La gran parte delle vittime sono attivisti pacifici, giornalisti, personale sanitario e difensori dei diritti umani”. Nel nuovo autoritarismo del presidente al-Sisi l’apparato giudiziario gioca un ruolo chiave. “Se con Mubarak la magistratura era relativamente indipendente, oggi il suo scopo principale è garantire una copertura legale alla lampante repressione quotidiana dei cittadini”. Senza alcun rimpianto per il vecchio dittatore rovesciato dalla rivolta popolare nel 2011, secondo Hassan”sotto Mubarak le linee rosse da non superare erano chiare. Ora nessuno sa quali siano queste linee rosse. Non c’è paragone, oggi la repressione è di gran lunga più forte”. E la crisi del Covid-19 anziché indebolire il regime sembra averlo consolidato: “Per al-Sisi l’epidemia è un’opportunità, non un rischio. Il presidente si è armato di ulteriori strumenti politici e legali per reprimere. Oggi abbiamo una nuova categoria di vittime: i medici che hanno criticato le politiche del ministero della sanità e la carenza di attrezzature”. E mentre la sanità pubblica vive di stenti, l’unico settore statale a non conoscere crisi è quello militare, che di anno in anno è sempre più foraggiato a colpi di massicci acquisti di armamenti da miliardi di dollari (il più recente e sostanzioso dei quali è rigorosamente Made in Italy). “Questi accordi non hanno niente a che fare con la stabilità dell’Egitto e dell’area - commenta Hassan - Eppure gravano sul debito pubblico (già oltre 120 miliardi di dollari), peggiorando le condizioni del 30% di egiziani che vive in povertà”. Il loro vero scopo? “Aiutano al-Sisi a soddisfare l’orgoglio dell’esercito di cui lui ha bisogno perché è il garante della sua permanenza al potere”. Mali. “Il Paese è in ginocchio ma il popolo spera nella pace” di Gabriella Ceraso vaticannews.va, 6 settembre 2020 Le suore missionarie dell’Immacolata Regina Pacis dal cuore del Mali raccontano a Vatican News le speranza di un popolo che in tanti mesi di scioperi, violenza e ora del golpe militare che ha capovolto il Paese, non smette di sperare in un futuro migliore. Le religiose affiancano la piccola e minoritaria comunità cristiana e servono le fasce più fragili nelle carceri e nelle case per giovani mamme. Intanto si lavora alla stabilizzazione politica. Il Mali non smette di sperare: ora che il vecchio presidente Ibrahim Boubacar Keita, è ormai fuori dai giochi, ricoverato in ospedale ma libero dalla detenzione cui lo ha costretto dal 18 agosto la giunta militare al potere, la pace è l’aspirazione più grande per tutti anche se le condizioni ancora non ci sono. Grazie alla lunga mediazione della Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (CEDEAO), si è arrivati alla decisione di una transizione verso un sistema democratico civile che coinvolga ampie fasce della società civile. Per questo i due giorni di consultazioni previsti per il 5 e il 6 settembre. D. - Il popolo sta vivendo un momento di speranza dopo aver vissuto tanti momenti difficili e duri. Sperano che con questa transizione che stanno preparando, si possa arrivare a vivere finalmente in pace. Quale è la condizione del Paese e quali sono i pensieri e le speranze della popolazione? R. - In realtà è ancora tutto bloccato, non c’è sicurezza da nessuna parte, e poi c’è il grande problema dell’educazione e delle scuole, un vero disastro. Tutto è fermo, tutto è bloccato, praticamente un anno perso: prima per gli scioperi poi il resto. Questo dell’educazione è un problema grande. Ma la gente spera proprio in un futuro migliore. D. E la vostra presenza che margini di azione ha? R. - Noi siamo vicini alle nostre comunità cristiane che sono in minoranza. E poi facciamo servizio nelle prigioni e alle donne e ad un centro di ragazze madri. D. Quindi è una vicinanza e un incoraggiamento soprattutto per le fasce deboli e per le nuove generazioni, perché abbiano un futuro? R - Sì, speriamo che si riesca veramente a risolvere questa situazione. Il Mali è proprio crollato. Comunque questi nuovi capi vogliono fare le cose per bene, almeno così dicono, come tutti all’inizio; poi c’è da vedere quello che succede. Sembra che queste nuove persone al potere abbiano proprio il desiderio di lavorare col popolo, quindi stiamo a vedere cosa succede.