L’uomo della porcilaia di Mattia Feltri Il Dubbio, 5 settembre 2020 Qualche giorno fa nel carcere di Benevento un detenuto s’è impiccato in cella. Ne sono derivati disordini accesi da due suoi compagnie, fra i tanti, un dettaglio non è sfuggito ai frequentatori di internet: i due avevano aperto la rivolta con atti di autolesionismo. Qualcuno si è domandato che altro ci si possa aspettare da chi protesta facendo male a sé stesso: uno così non può che finire in prigione. È un ragionamento molto comune, e ci illustra la sorte di essere nati in tempi stupidi, e non in altri più scellerati. Qui si era già scritto della volta in cui Hannah Arendt precisò il senso della banalità del male - allora, e spesso in seguito, disastrosamente frainteso - raccontando di un contadino tedesco cui erano stati affidati dei prigionieri russi. Li rinchiuse nella porcilaia e dopo qualche giorno li mostrò a un visitatore mentre contendevano il cibo ai maiali. Il contadino ne aveva tratto la conferma che i russi erano del livello delle bestie. Non gli era passato per la testa che contendevano il cibo ai maiali perché erano nella porcilaia, e fuori di lì non glielo avrebbero conteso affatto. Come i nostri commentatori da tastiera, e saranno tutti brave persone, miti, beneducate, e lo si sostiene senza ironia, ma non prendono in considerazione l’ipotesi, piuttosto solida, che i detenuti praticano l’autolesionismo perché sono nella disumanità delle nostre carceri, e non sono in carcere perché sono spostati al punto da praticarlo. Quando giudichiamo gli uomini del passato con compiaciuta spietatezza, bisognerebbe pensare alla fortuna di vivere tempi in cui la banalità del male si esaurisce in un tweet. “Scarcerati”, il vero scandalo è questo giornalismo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 5 settembre 2020 La notizia è che i detenuti andati ai domiciliari durante il lockdown non erano 498 ma 223. Se si fosse verificato prima ci saremmo evitati metà almeno di indignazione e qualche puntata di Giletti. Stringi stringi, la vera notizia che La Repubblica (Salvo Palazzolo) ci ha dato giovedì scorso in prima pagina a proposito di “boss e mezzi boss” (oscuro copyright by Attilio Bolzoni) scarcerati durante il lockdown per rischio Covid, è che essi non furono 498, come pure dichiarato dal Ministro Bonafede in Parlamento, ma 223, cioè meno della metà. Lo dobbiamo a una analisi finalmente seria dei fascicoli in questione svolta da parte del nuovo capo del Dap, Bernardo Petralia (se aspettavi il nostrano “giornalismo giudiziario di inchiesta”, stavi fresco!). Fosse stata fatta prima, saremmo stati tutti moralmente autorizzati ad indignarci un buon cinquanta per cento in meno, e magari a risparmiarci almeno una parte delle tremila puntate di “Non è l’Arena, è una Gazzarra”. Il fatto è - lo diciamo da sempre - che in questo paese di giustizia penale si ama parlare a prescindere dai fatti. Si parla di processi senza conoscerli, di sentenze senza averle lette (e in ogni caso, occorre anche capirle), di scarcerazioni a prescindere dal perché e dal per come. Se Bolzoni avesse letto Palazzolo (ma non lo ha fatto, continua a parlare di 498 scarcerati), avrebbe dovuto misurare la coerenza del proprio ragionamento con quella notizia. Da decenni, applicando leggi illuminate e purtroppo sempre più derogate ed avversate, i Tribunali di Sorveglianza applicano (per motivi di salute o di reinserimento sociale, come preteso dalla Costituzione) misure alternative al carcere ai temutissimi “boss e mezzi boss”: categoria che, naturalmente, non significa un bel nulla. Ancora nessuno ci ha spiegato quali sarebbero gli esatti contorni della nozione di “boss”, figuriamoci il “mezzo boss”. Parliamo di detenuti in alta sorveglianza, visto che la bufala dei “41 bis” scarcerati giusto Gilletti la poteva raccontare (se poi un detenuto al 41 bis ha un cancro alla prostata, ancora non è previsto che ne debba morire in carcere). Quindi detenuti condannati per reati di gravità medio alta, in grande prevalenza traffico di stupefacenti, spesso ma non sempre gestito da cosche mafiose o camorristiche o ‘ndranghetistiche; ma in larga parte manovalanza di medio livello, al più meri partecipi delle associazioni. I rischi sanitari connessi alla epidemia Covid sono stati giustamente considerati dai Tribunali di Sorveglianza, anche su sollecitazione del Dap in relazione ai pericoli del sovraffollamento carcerario, meritevoli di valutazione esattamente al pari di ogni altra condizione potenzialmente lesiva del diritto alla salute del detenuto, soprattutto per soggetti sanitariamente deboli (ultrasettantenni, a volte ultraottantenni con gravi comorbilità), che non certo da ora la legge impone di valutare. E quindi? Dove risederebbe lo scandalo? Quale sarebbe la notizia? Di cosa dovremmo indignarci? Io ho ben chiaro di cosa indignarmi, e cioè proprio di questo modo davvero insopportabile di fare informazione giudiziaria. Mi domando: Bolzoni ha compulsato non dico tutti i 223 fascicoli relativi alle altrettante scarcerazioni in ordine alle quali semina indignazione, ma almeno una parte di essi? Parla con cognizione di causa? Ho l’impressione di no. E soprattutto, si guarda bene dall’informare i suoi lettori che queste “scarcerazioni” sono frutto di un vaglio procedimentale accurato che prevede non solo lo scrutinio da parte dei Tribunali di Sorveglianza di documentazione medica, relazioni comportamentali dal carcere, informative antimafia e di polizia giudiziaria, ma soprattutto - e basterebbe questo - il parere dell’organo dell’Accusa, cioè della Procura generale. Per esperienza dico che, con la più alta probabilità, quei provvedimenti sono stati nella maggior parte dei casi accompagnati dal parere favorevole dei Procuratori generali. Potrei essere smentito naturalmente, ma è mai possibile che un giornalismo che voglia occuparsi seriamente del problema ritenga di poter prescindere da questo genere di accertamenti? E ove le cose stessero come dico, non avrebbe da trarne alcuna conseguente riflessione? La tragedia è che si fa informazione per simboli, per suggestioni, per categorie astratte grossolane (“boss e mezzi boss”). Non sono 223 provvedimenti giurisdizionali accuratamente adottati da decine e decine di giudici diversi vagliando i singoli casi: sono “le scarcerazioni dei boss mafiosi”, che sarebbero state determinate - questa è la bufala ancora più inqualificabile - da una circolare del Dap. Di qui la trama fantasiosa del b-movie che va in onda da qualche mese, e che presto deraglierà - sono pronto a scommettere - verso una seconda edizione de “La trattativa”. Non conta nulla il lavoro di quei Magistrati, ma il processo di piazza inscenato da giudici autoproclamatisi tali, che ritengono del tutto superfluo ed anzi controproducente informarsi dei fatti, studiare le carte, acquisire consapevolezza di regole e procedure. Scrive Bolzoni, come a scrollarsi di dosso queste elementari obiezioni: “la legge è legge, ma la mafia è la mafia”. Leggetela bene questa frase, è la più esplicita delegittimazione della Legge, del primato dello Stato e della Legge sull’arbitrio e sul taglione. “La legge è legge, ma la mafia è la mafia”, io - francamente, dott. Bolzoni - lo lascerei dire ai mafiosi. Boss o mezzi boss che siano. Scarcerazioni dei boss. Il Viminale avvisò: “Stretta sui controlli” di Salvo Palazzolo e Raffaele Sardo La Repubblica, 5 settembre 2020 Già a maggio la Direzione centrale anticrimine aveva lanciato l’allerta. E la procura di Napoli dice no alla proroga dei domiciliari per Zagaria. C’è un piano straordiriario del Viminale per tenere sotto controllo i tanti boss scarcerati negli ultimi mesi, per rischio Covid e altre motivazioni. La Direzione centrale anticrimine della polizia di Stato ha diramato un’allerta a tutti i questori già a metà maggio, per dare ogni possibile impulso all’attività di monitoraggio” e controllo. Non era mai accaduto che nel giro di pochi mesi fossero mandati ai domiciliari 498 fra mafiosi e trafficanti di droga, di cui 223 per il rischio di contagio, 111 sono già tornati in cella dopo il decreto del ministro Bonafede. Investigatori e magistrati sono preoccupati per gli effetti di queste presenze sul territorio. A Napoli, ieri, la procura ha espresso parere contrario alla proroga dei domiciliari per Pasquale Zagaria, la mente finanziaria dei Casalesi. Ma “Bin Laden” com’è soprannominato il fratello del capoclan, non rientrerà almeno per adesso al 41 bis. Il tribunale di sorveglianza di Sassari ha sollevato una questione di legittimità costituzionale sul decreto del Guardasigilli per riportare i boss in carcere. E ci vorrà del tempo prima che la Consulta si pronunci, fino ad allora Zagaria resta agli arresti ospedalieri in Lombardia. L’allerta resta alta per le scarcerazioni. La nota firmata il 13 maggio dal direttore centrale anticrimine Francesco Messina ha sollecitalo i questori di lui la Italia a “sensibilizzare i dirigenti delle squadre mobili a rassegnare alle procure ogni elemento investigativo utile, sintomatico della possibile violazione delle prescrizioni imposte”. È in corso un lavoro complesso: tenere sotto controllo così tanti mafiosi non è semplice. La Direzione centrale anticrimine ha messo in campo tutte le risorse possibili, sono state fatte anche riunioni operative con il nuovo vertice del Dap. Obiettivo, avere in tempo reale le notizie delle scarcerazioni. Sì perché, purtroppo, fino a qualche tempo fa, i direttori di alcuni penitenziari comunicavano i provvedimenti anche dopo due giorni, magari con un fax a una stazione dei carabinieri. Ora, i dati sono centralizzati e in tempo reale. Per rendere più efficace la macchina dei controlli. Dice il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro: “Le scarcerazioni dei mafiosi hanno rappresentato un aggravio di lavoro formidabile. Sia dal punto di vista amministrativo, per il susseguirsi di pareri che abbiamo dovuto predisporre in breve tempo, sia dal punto di vista investigativo e dei controlli. Le scarcerazioni hanno dato soprattutto un segnale sbagliato alla collettività, in provincia di Catania ci siamo ri trovati ai domiciliari personaggi di un certo peso criminale”. Il più autorevole è Francesco La Rocca, già il giudice Falcone si era occupato di lui. “Sulla questione scarcerazioni dice ancora Zuccaro - ci sono state tante leggerezze. Da parte di organismi ministeriali e anche da parte di taluni magistrati. Magari per mancanza di sensibililà, la lotta alla mafia non ammette cali di attenzione”. Bonafede porta la Polizia penitenziaria dentro l’Antimafia di Nicola Scuderi La Notizia, 5 settembre 2020 Con un annuncio - passato incredibilmente in sordina nei media - il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha affermato che “dal prossimo 10 settembre un Nucleo della Polizia penitenziaria entrerà a far parte della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo: 7 unità supporteranno il Procuratore Federico Cafiero De Raho analizzando ed elaborando informazioni provenienti dall’ambiente penitenziario, in particolare dal circuito dell’Alta sicurezza”. Può sembrare una cosa da poco ma così non è perché, spiega il ministro, “si tratta di un prestigioso riconoscimento della professionalità della penitenziaria, di cui non posso che essere particolarmente orgoglioso. Voglio personalmente ringraziare il Procuratore De Raho, non solo per la fiducia ma anche per il suo pubblico riconoscimento dell’importante contributo nel contrasto alle mafie e al terrorismo” fornito quotidianamente dalla penitenziaria. Agenti che forniranno “un apporto decisivo in un settore sensibile come quello delle carceri” e in particolare, precisa ulteriormente il ministro a scanso di equivoci, si occuperanno dell’analisi e dell’elaborazione “delle informazioni provenienti dall’ambiente penitenziario, in particolare dal circuito dell’Alta sicurezza”. Soddisfatto il segretario nazionale dell’Asssociazione Nazionale di Polizia Penitenziaria, Daniela Caputo, secondo cui si tratta di “un traguardo storico”. Riforma penale (e prescrizione): l’altra prova del nove della maggioranza di Errico Novi Il Dubbio, 5 settembre 2020 La settimana prossima entra nel vivo l’esame del Ddl Bonafede. Le aspettative sono enormi. Non solo e non tanto per i contenuti della riforma, comunque controversi e per diversi aspetti contestati sia dall’avvocatura che dall’Anm. Il ddl sul processo penale che entrerà nella fase calda dell’esame in commissione a partire dalla settimana prossima è sotto i riflettori per una ragione assai poco tecnica e tutta politica: rappresenta la massima sintesi possibile che, sulla giustizia, la maggioranza è in grado di raggiungere. Saltasse quell’equilibrio, si rivelasse insoddisfacente, si creerebbe un problema gigantesco. A sventolare l’imminenza del match nelle ultime ore è stato soprattutto l’arbitro su cui incombe l’onere di dirigerlo, ossia il presidente della commissione Giustizia di Montecitorio Mario Perantoni. Il testo ha già mosso i primi passi procedurali ma, come spiega il deputato 5S, “stabiliremo nell’ufficio di presidenza della prossima settimana il calendario delle audizioni”. Naturalmente Perantoni, che nelle sue uscite pubbliche ha finora mostrato un’apprezzabile dose di equilibrio, la vede tutta in rosa. “Si tratta di un provvedimento a cui teniamo molto, uno dei pilastri dell’azione del ministro Bonafede: mira a rendere il processo penale più veloce ed efficiente” e, secondo il presidente della commissione, assicurerà “ai cittadini” una “risposta giudiziaria in tempi ragionevoli, nel rispetto delle garanzie difensive”, con “un intervento strutturale”. Ottimismo eccessivo, ma comprensibile visto che è pur sempre il capodelegazione dei pentastellati al governo, Bonafede appunto, l’autore del ddl. Oltretutto il guardasigilli si è impegnato con un’ostinazione davvero memorabile nel far deglutire la pillola al più critico degli alleati, ossia Matteo Renzi. E il nodo, al di là di tutto il resto, è uno, semplicemente uno: la prescrizione. Incistato nel corpo del testo infatti si trova anche il quasi dimenticato lodo Conte bis, ossia la norma che prevede di bloccare i termini di estinzione dei reati solo in caso di condanna in primo grado, e di recuperare al calcolo della prescrizione il tempo trascorso in appello, qualora chi è condannato dal Tribunale in prima istanza fosse riconosciuto innocente in secondo grado. Calibrature e ricalibrature ingegnate da uno dei più acuti tecnici del diritto presenti nella commissione presieduta da Perantoni, il deputato di Leu Federico Conte, avvocato. Ma in fondo il tutto è riducibile a un’alchimia compromissoria di segno politicista. Discutibilissima in linea di principio perché non garantisce affatto che un povero cristo innocente, ma per sventura condannato dal giudice in primo grado, possa restare “imputato a vita”, visto che in appello la prescrizione non interverrebbe più. In ogni caso, è mai possibile che un’alchimia simile possa attraversare le forche caudine del Parlamento illesa come una rosa sul palmo della mano? Ma manco a pensarci. Ovvio che ripartiranno le bordate di Italia viva, e quelle dell’opposizione, in una commissione Giustizia dove oltretutto gli equilibri sono delicatissimi. A guidare la microdelegazione renziana è Lucia Annibali, anche lei avvocata e autrice del lodo con cui gli effetti del “blocca-prescrizione”, in vigore da Capodanno, sarebbero stati sospesi almeno fino all’effettiva approvazione della riforma penale. Adesso la sola mossa a disposizione di Renzi coincide in realtà con la richiesta avanzata a lungo dal Cnf, attraverso il presidente Andrea Mascherin: sospendere gli effetti della “nuova” prescrizione e assumere una decisione definitiva sulla modifica dell’istituto solo dopo che si sarà condotto un monitoraggio sui benefici del ddl penale. Si dovrebbe dunque approvare la riforma Bonafede in fretta e metterla alla prova per almeno un anno e mezzo. C’è da scommettere che Renzi farà propria l’idea degli avvocati. L’eccesso d’ottimismo di Perantoni si coglie anche in un altro paio di dettagli. Innanzitutto per una legge del genere le audizioni non costituiranno solo un pigro formalismo. È proprio nell’ascolto del parere di magistrati, avvocati e professori universitari che divamperanno le scintille della tensione politica. Perché gli avvocati - oltre al Cnf certamente l’Unione Camere penali presieduta da Gian Domenico Caiazza non mancheranno di rappresentare tutta la gravità della corto circuito sulla prescrizione. Tanto più alla luce dei contenuti del ddl penale, che non solo scalfisce, con il succitato lodo, in modo impalpabile il problema, ma che non affonda neppure il colpo sul versante in cui davvero i tempi si ridurrebbero: la depenalizzazione. Certamente Cnf, Ocf e Ucpi non nasconderanno l’apprezzamento per i passaggi del ddl in cui Bonafede ha oggettivamente dimostrato di saper ascoltare i giuristi, come le migliorie sul patteggiamento e sull’abbreviato condizionato. Ma è ovvio che sull’irrisolto dilemma della prescrizione l’avvocatura non darà tregua alla maggioranza. C’è quindi un altro dettaglio, a proposito di quelle proposte migliorative che Caiazza e la sua Unione elaborarono di concerto proprio con l’Anm, in un clima irripetibile di disarmo bilaterale: riguarda la magistratura. Da tale ultimo fronte verrà una vera e propria trincea da guerra di posizione, in particolare sulle sanzioni ai magistrati per i processi lunghi. Secondo la riforma penale, sono disciplinarmente perseguibili il giudice che deposita colpevolmente tardi le sentenze e il pm che non rispetta i termini per la chiusura delle indagini. Sul punto, tutte le correnti sono pronte a una resistenza tipo Leonida alle Termopili. E c’è un ulteriore dettaglio, devastante: mentre la commissione di Perantoni farà le prime audizioni, le correnti si sfideranno nell’attesissimo voto che a ottobre rinnoverà gli organi dell’Anm. In piena campagna elettorale, quella che altrimenti sarebbe stata una resistenza passiva si trasformerà nei botti di-San Silvestro. Ma certo, la bonomia di Perantoni servirà almeno a sdrammatizzare un po’ lo spettacolo. Giustizia a rilento, è fumata nera tra giudici e avvocati di Viviana Lanza Il Riformista, 5 settembre 2020 Chi credeva che con la riunione di ieri si riuscisse a definire le linee per una più completa ripresa dell’attività giudiziaria, è stato deluso. Il vertice che si è tenuto tra i capi degli uffici giudiziari napoletani e i rappresentanti dell’avvocatura ha prodotto un appuntamento per nuove riunioni. Più precisamente, si è deciso di istituire dei tavoli tecnici, uno per il settore civile, uno per il settore penale e uno per il giudice di pace. L’intento sulla carta è trovare soluzioni mirate a seconda delle esigenze e delle problematiche specifiche di ciascun ufficio, di ciascun settore della giustizia. Si vedrà. Il timore di molti, soprattutto nel mondo dell’avvocatura, è che poco o nulla cambi, che il tempo del desiderato cambio di passo della giustizia non sia ancora maturo. Si vedrà, dicevamo. Intanto da lunedì dovranno riprendere le attività della giustizia dopo la pausa feriale. Per il momento si procederà con le linee guida decise prima della pausa feriale, quelle che hanno dettato la marcia di processi, udienze, provvedimenti e sentenze durante la cosiddetta fase 2. Cosa succederà adesso? C’è tanta incertezza, forse troppa. Davvero dipende tutto dalla sola curva epidemiologica? Ci sono molti scettici, molti disillusi, molti preoccupati, fra chi frequenta per lavoro la cittadella giudiziaria. Nella migliore delle ipotesi i tavoli tecnici dovrebbero tenersi a inizio settimana prossima e mettere tutti d’accordo - magistrati, avvocati, dirigenti amministrativi, cancellieri - su come organizzare gli accessi in tribunale, nei vari uffici giudiziari e nelle cancellerie, su come celebrare le udienze, su come evitare i rinvii e gestire le prenotazioni, come regolare gli accessi nelle cancellerie, evitare che le decisioni penalizzino il lavoro di uno o un altro attore del pianeta giustizia o mettano a rischio la salute e la sicurezza. Una matassa da districare, resa ancora più aggrovigliata dalle croniche carenze negli organici di magistrati e amministrativi. La coperta è corta e l’emergenza-Covid ha imposto nuovi problemi e nuove regole di prudenza e di gestione. Cosa fare? Settembre intanto è già iniziato. Ognuno ha calato sul tavolo delle proposte. Gli avvocati rappresentati dal presidente Antonio Tafuri, numero uno del Consiglio dell’Ordine di Napoli, i penalisti rappresentati dall’avvocato Ermanno Carnevale, presidente della Camera penale partenopea, e i civilisti, rappresentati dall’avvocato Riccardo Sgobbo che guida la Camera civile, hanno puntato su tre questioni: udienze, cancellerie, front office. Chiedono che vengano celebrate più udienze in modo da ritornare a una ripresa della giustizia a pieno regime, prevedendo anche udienze di pomeriggio e per i civilisti udienze in più giorni alla settimana rispetto ai due giorni settimanali da calendario. Chiedono un prolungamento degli orari di apertura delle cancellerie e l’abolizione del sistema delle prenotazioni. Inoltre, chiedono un potenziamento dei front office che in Corte d’appello e in Tribunale, in questi primi mesi, si sono rivelati utili a evitare folle agli ascensori e gestire in maniera efficiente i flussi di presenze. Sulle prenotazioni, di contro, i capi degli uffici hanno mostrato perplessità di fronte alle richieste degli avvocati ribadendo l’utilità del metodo anche per ragioni di sicurezza, perché attraverso le prenotazioni sarebbe più facile risalire alla catena dei contatti in caso di eventuali positività al Covid. Gli avvocati sperano che almeno si possano prevedere prenotazioni uniche per più adempimenti anche in sezioni diverse, evitando, come accade ora, di dover fare per ogni adempimento, per ogni ufficio giudiziario, una singola prenotazione. Ci sono orientamenti di massima, quindi, ma le decisioni sembrano ancora lontane. I tavoli tecnici, decisi dopo il vertice di ieri, dovrebbero dare risposte e linee guida e diluire questa nube di incertezza. Al confronto, tra gli altri, il presidente della Corte d’Appello Giuseppe De Carolis, il procuratore generale Luigi Riello, l’avvocato generale Antonio Gialanella, il presidente del Tribunale Elisabetta Garzo, il procuratore Giovanni Melillo, il presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia. Presenti anche i dirigenti amministrativi e responsabili della sicurezza del Palazzo di giustizia. Per le decisioni, però, bisogna attendere. Si dovrà aspettare la definizione dei tavoli tecnici. Intanto dovrebbero essere ormai brevi i tempi per consentire test sierologici agli avvocati che desiderino sottoporsi a questo esame. E sarebbe un primo inizio. Credetemi, al Csm ci vuole il sorteggio. Il giudice della causa non è scelto a caso? di Stefano Bargellini* Il Dubbio, 5 settembre 2020 L’estrazione a sorte dei togati offrirebbe il vantaggio di descrivere la magistratura italiana nella sua consistenza, così come essa appare ai cittadini nei tribunali. La Scuola superiore della magistratura cura la formazione e l’aggiornamento dei giudici e dei pubblici ministeri. Agli incontri sono ammessi alcuni avvocati, indicati dal Consiglio nazionale forense. Qualche anno orsono, partecipai a quattro giorni dedicati al diritto bancario. Corso eccellente: relatori preparati, uditori attenti, gruppi di lavoro per i risvolti pratici, pause cadenzate. Al termine di ogni giornata gli organizzatori domandavano di compilare una scheda di valutazione. I miei voti erano sempre alti: una sola, pesante, insufficienza alla relazione di un docente universitario. Il vicino di sedia, giudice di mezz’età, mi invitò ad essere più accorto: “Fossi in te non lo farei, cambia e metti almeno la sufficienza”. Pensavo scherzasse. Non scherzava: “Così irriti gli organizzatori che poi te la fanno pagare”. Dopo qualche istante compresi l’equivoco e tranquillizzai l’interlocutore: non ero un collega ma un avvocato che nulla poteva temere dai magistrati che avevano allestito il seminario. Ne convenne, rassicurato di aver trovato la spiegazione di tanta imprudenza. pisodio minimo che tuttavia ricordo come il principale insegnamento di quel convegno. E dal quale i lettori sapranno trarre gli appropriati spunti di riflessione, senza necessità di suggerimenti. Inghiottita la pillola, resta il mal di testa. L’indipendenza della magistratura è principio costituzionale. L’indipendenza nella magistratura e l’indipendenza dalla magistratura devono ancora trovar casa. Dal 1992 fanno quasi trent’anni. È tornata di moda la riforma del sistema elettorale dei rappresentanti al Consiglio superiore della magistratura. La questione non parrebbe da prima pagina ma tutto quanto riguarda giudici e procure assume nel nostro paese un’importanza straordinaria. Le correnti della magistratura associata avversano il criterio del sorteggio. Al contrario, designare i togati al Consiglio superiore con l’estrazione a sorte fra tutti i magistrati italiani sarebbe la soluzione più aderente alla realtà del nostro sistema giudiziario. Sul perché, ho un’opinione personale. Ogni controversia ha un giudice naturale. In base ai criteri tabellari (cioè alle regole per la ripartizione degli affari) la lite deve essere automaticamente assegnata alla persona di un giudice. Immaginiamo l’avvio di una causa civile: quando l’avvocato iscrive il procedimento a ruolo (cioè investe l’ufficio giudiziario della nuova controversia) il sistema informativo dell’ufficio trasmette il nome del magistrato che tratterà la lite. Non è una formalità. Come nei titoli di coda dei film, ogni riferimento a persone esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale ed anche le attribuzioni di genere sono di pura fantasia. La giustizia distributiva può riservarvi l’ottima giudice 1: risoluta e garbata, ha il senso del diritto (dote non sempre diffusa fra giudici e avvocati). Studia gli atti e tratta argomenti differenti con la stessa naturale perizia tecnica. Scrive sentenze accurate e tempestive. La fortuna è notoriamente cieca e dunque potreste leggere il nome della giudice 2: sempre scortese, non dà mai l’impressione di aver sfogliato il fascicolo che ha di fronte. La vostra causa, anche se urgente e importante, sarà ripetutamente rinviata e la decisione arriverà con anni di ritardo. Quando verrà depositata, la sentenza sarà casuale e con motivazioni scheletriche. Non per tacitiana sintesi ma per frettolosa trascuratezza. Se, viceversa, scoprirete il nome del giudice 3, potrete tirare un sospiro di sollievo: attento, rispettoso delle parti e dei loro procuratori, condurrà l’istruttoria con pacata consapevolezza e la sentenza sarà coerente ed emessa in tempi ragionevoli. Quanto al giudice 4, non si può dire che sia impreparato o negligente, ma è talmente scontroso e suscettibile che ogni contatto diventa una lotta. L’intemperanza si ripercuote sulle decisioni: difetto di misura non trascurabile in un mestiere che ha per insegna la bilancia. Potrei continuare, ben oltre il numero dei trenta caratteri di Teofrasto. Ma il significato è chiaro: diversamente da quanto affermano i sergenti di giornata, il rancio non è sempre ottimo e abbondante. E allora, se l’opera che i singoli magistrati svolgono è così diversa e se è la sorte ad assegnare ai cittadini la prestazione esemplare o il servizio mediocre, è coerente che sia egualmente la sorte ad individuare i rappresentanti nell’organismo di governo della magistratura. Nel 1986 il Partito liberale presentò, con radicali e socialisti, la richiesta di tre referendum per abrogare: a) le norme che impedivano la responsabilità civile dei magistrati; b) le disposizioni sulla Commissione inquirente; c) il sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura. La Corte costituzionale dichiarò inammissibile il quesito sul sistema elettorale del Consiglio superiore. Per i due quesiti ammessi, la consultazione popolare si svolse nel novembre 1987. Con più dell’80% dei voti gli italiani abrogarono sia le norme che impedivano la responsabilità civile dei magistrati sia le norme istitutive della Commissione inquirente. Nella medesima consultazione i cittadini votarono anche altri tre quesiti, proposti dai radicali, riguardanti le centrali nucleari. Anche per i tre quesiti ecologisti i favorevoli all’abrogazione oscillarono attorno all’80%. Le centrali nucleari italiane vennero spente. Viceversa, i magistrati italiani continuarono a sottrarsi alla responsabilità civile. Nel 1988 il Parlamento approvò a larga maggioranza il disegno di legge predisposto dal guardasigilli Vassalli. La norma era fatta per non funzionare e non funzionò. O forse funzionò perfettamente: in trent’anni le condanne dello Stato in luogo dei responsabili sembrano essere meno di dieci, sempre senza conseguenze patrimoniali per i magistrati interessati. Né la riforma del 2015, conseguente alla condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea, ha modificato la condizione di sostanziale immunità. I fuoriclasse non devono guardare a terra per sapere dove è il pallone e Alfredo Biondi non aveva bisogno di leggere un foglio scritto per parlare e convincere. Era la campagna referendaria del 1987, non ricordo dove e quando ma posso citare a memoria perché le parole mi sono rimaste impresse e perché sulla responsabilità civile dei magistrati non ho mai sentito argomenti più semplici e definitivi: “Un poliziotto di vent’anni, con la licenza media, una formazione limitata, uno stipendio modesto, deve decidere in pochi istanti se usare la pistola che porta alla fondina e risponde, anche davanti al giudice civile, dei comportamenti gravemente colposi in cui sia incorso nella concitazione degli eventi. Perché un magistrato, adulto, laureato, vincitore di un concorso prestigioso, con un ruolo autorevole nella società, con uno stipendio decoroso, seduto alla scrivania con il tempo e il modo di ponderare le decisioni, non dovrebbe rispondere di fronte al giudice civile degli errori commessi con colpa grave?”. Ecco, appunto. Ciao Alfredo. *Avvocato “Ma quale antimafia!” di Valerio Valentini Il Foglio, 5 settembre 2020 “Crimi e Bonafede fanno solo propaganda sulla pelle dei testimoni di giustizia”, dice Piera Aiello (ex M5S). L’unica cosa che adesso non accetta che le si rimproveri, è la testardaggine. “Perché lo sapevano bene, con chi avevano a che fare”, dice Piera Aiello, la deputata trapanese eletta alla Camera col M5s, e che dal M5s è uscita tre giorni fa. “Non l’ho chiesto io, di essere candidata. E la mia storia la conoscevano tutti”. La storia, cioè, di una ragazza di Partanna che a diciott’anni sposa il figlio del boss del paese, e che sei anni dopo - nel 1991 - se lo vede ammazzare sotto gli occhi, e decide di non tacere, di confessare, di diventare una testimone di giustizia. Cambiando identità, rinunciando a un pezzo della sua vita. “E ora non accetto che i miei trent’anni di lotta alla mafia vengano buttati nel gabinetto per assecondare le regole di un Movimento che non sta più in piedi, coi gruppi parlamentari ridotti a un’accozzaglia di piccole comitive che si riconoscono ciascuna in un sedicente capo-corrente. Se Vito Crimi e Alfonso Bonafede pensano di poter proseguire con questa loro antimafia di comodo, giocando con la vita e con la morte delle persone per pure esigenze di propaganda, io non abbasserò la testa”. E dire che nel M5S, Piera Aiello c’aveva creduto. “Fu Ignazio Corrao a contattarmi, per il tramite di uno dei miei legali. Era la fine del 2017, mancava meno di un mese alla chiusura delle liste. Ci pensai, e ne parali con mio marito e poi con mia figlia”. Alla quale Piera Aiello dovette innanzitutto spiegare chi era, sua madre. Perché anche il nome che era il suo, e che suo è tornato a essere dopo l’elezione a Montecitorio, non era quello che la sua bambina conosceva. “Lei ha sempre creduto che fossi l’altra, quella con l’altro nome”. Il nome, cioè, che le era stato attribuito dallo stato dopo che lei era entrata nel programma di protezione. “Feci una settimana di campagna elettorale, non di più. E la feci a volto coperto, perché ancora non era chiaro se avrei potuto davvero rivelare la mia vera identità. E però quello, in quel momento, mi sembrò il modo migliore di proseguire la mia battaglia”. Quella, cioè, per i diritti dei collaboratori e i testimoni di giustizia. “Entrai alla Camera con grandi motivazioni. Mi sentivo un po’ in soggezione, in quella commissione Giustizia dove erano quasi tutti avvocati, esperti del diritto. Poi presi coraggio e, con l’aiuto di alcuni giuristi, presentai due leggi. Una proprio sui testimoni e i collaboratori”. Ed è qui che iniziano i problemi. “Perché quel mio testo è stato depositata e discussa dalla Giustizia. Poi però è stato accantonato, rinviato, insomma insabbiato”. I colleghi di commissione che dicono? “Alcuni mi hanno supportato, ma in quel gruppo è difficile discutere. Ci sono due o tre animelle, due o tre zerbini dai Alfonso Bonafede, che evidentemente sperano in chissà quale futura promozione e che riferiscono al ministro ogni lamentela, segnalano le voci critiche”. Il mito dell’onestà che si nutre della cultura della delazione, del sospetto. “Appena ho annunciato il mio abbandono, mi sono ritrovata con delle truppe organizzate sui social che mi lanciavano ogni ingiuria, mi accusavano di volermi tenere i soldi. Perché alla fine è sempre quella la minaccia che agitano dall’interno contro chi esprime dissenso: dire che i ribelli vogliono solo evitare di restituire una parte dello stipendio. Ebbene, io ho deciso che le mie donazioni d’ora in poi andranno ad associazioni attive nel sociale, e non alla srl di Casaleggio. Peraltro, constato che a noi ci fanno le radiografie, invece Rousseau non rendiconta mai nulla: i parlamentari del M5s versano 300 euro al mese alla piattaforma, ma non sanno affatto come vengano impiegati. Ho anche scritto ai probiviri, sei mesi fa, per capirlo”. Risposta? “Nessuna. Però quegli stessi probiviri sono stati assai solerti a inviarmi una lettera di diffida non appena ho annunciato che stavo per uscire dal M5s. E lo hanno fatto con una mail anonima, non firmata. Di quel collegio fa parte anche la ministra Dadone. Che firma lettere anonime”. E Crimi? “Lui sarebbe il mio principale interlocutore, per le leggi che porto avanti, visto che è sottosegretario al ministero dell’Interno che gestisce il programma di protezione dei testimoni di giustizia”. E invece? “E invece all’inizio mi forniva indicazioni vaghe. Poi, quando ha capito che non mi bevevo le giustificazioni che mi dava, ha smesso perfino di rispondermi. Quando gli è stata assegnata la delega specifica al programma di protezione, ha perfino evitato di dirmelo. L’ho dovuto rincorrere. Ora basta: proseguirò la mia battaglia dal Misto. A me, come a tanti altri professionisti candidati negli uninominali, c’hanno usato in campagna elettorale, si sono presi i nostri voti e poi ci hanno parcheggiato a schiacciare bottoni”. Angelo Vassallo, dieci anni dopo: la morte senza colpevoli del sindaco pescatore di Dario Del Porto La Repubblica, 5 settembre 2020 Il 5 settembre del 2010 veniva ucciso il primo cittadino di Pollica. Ma il delitto resta ancora avvolto nel mistero. Acciaroli, le nove della sera del 5 settembre 2010. Un’Audi A 4 è ferma nel buio. Il finestrino del lato guidatore è abbassato. Sul sedile c’è il corpo senza vita di un uomo che ha ancora il telefono cellulare in pugno. È Angelo Vassallo, da quindici anni sindaco di Pollica, la piccola località del Cilento trasformata, proprio sotto la sua amministrazione, in un paradiso delle vacanze per il suo mare “bandiera blu”. Gli hanno sparato nove volte. L’assassino ha usato una pistola baby Tanfoglio calibro 9 ed era a una distanza di circa quaranta centimetri. Forse era seduto in sella a un motorino. È una calda serata di fine estate. Eppure nessuno sente gli spari. Comincia così, un giallo che si trascina da dieci anni, accompagnato da interrogativi rimasti tutti senza risposta. A cominciare dal più importante: chi ha ucciso il sindaco pescatore, come tutti chiamavano Vassallo? Pochi giorni prima di essere ammazzato, Angelo si era confidato con un amico: “Ho scoperto una cosa che non avrei mai voluto scoprire”, gli dice. Ma non aveva aggiunto altro. Che cosa aveva scoperto? È uno dei nodi centrali di questa storia. Si capisce subito che non si tratta di un delitto di paese. Il sindaco pescatore, durante l’ultima estate della sua vita, era fortemente preoccupato per lo spaccio e il consumo di droga che aveva invaso Acciaroli, allarmandolo come amministratore ma anche come padre per il coinvolgimento dell’allora fidanzato della figlia. Vassallo temeva che gli spacciatori potessero godere di coperture e per questo una sera, sul porto di Acciaroli, li aveva affrontati di persona, accompagnato solo da due vigilesse. In questo contesto, sin dal primo giorno, si muovono le indagini trasmesse dopo un paio di giorni dalla Procura di Vallo della Lucania a quella di Salerno, nell’ipotesi di una matrice o un metodo camorristico. Ma il cammino appare subito pieno di ostacoli. Sulla scena del delitto, nelle ore immediatamente successive, si muovono un sacco di persone. Troppe per garantire che non ci siano stati inquinamenti. I primi sospetti della Procura, in quel momento diretta dal futuro procuratore nazionale (oggi europarlamentare del Pd) Franco Roberti, si concentrano su Bruno Humberto Damiani, italobrasiliano che frequenta gli ambienti dello spaccio e della movida cilentana. Resterà a lungo sotto inchiesta ma alla fine verrà scagionato con l’archiviazione del fascicolo,. L’esame dello stube esclude che abbia sparato nelle ore precedenti l’omicidio. Ad attirare l’attenzione degli investigatori c’è anche la scelta di un ufficiale del carabinieri, il colonnello Fabio Cagnazzo, in quei giorni in vacanza ad Acciaroli, di rimuovere le telecamere di videosorveglianza di un negozio affacciato sul porto. L’ufficiale, a lungo in servizio a Castello di Cisterna e in prima linea nelle indagini contro la camorra, spiega di essersi mosso con l’intenzione di preservare possibili prove. Il colonnello (che nei mesi successivi ricostruirà in un’informativa la rete dello spaccio in Cilento) finisce indagato insieme al suo attendente, Luigi Molaro, ma anche questo fascicolo viene archiviato per insussistenza di gravi indizi. Lo scorso dicembre, la trasmissione televisiva “Le Iene” dedica uno speciale al caso e si occupa anche di Cagnazzo. L’ufficiale respinge ancora una volta qualsiasi coinvolgimento nel caso e agirà in giudizio contro chi lo ha tirato nuovamente in ballo. Le indagini prendono in considerazione anche la storia della vigilessa Ausonia Pisani, figlia di un ex generale dei carabinieri originario del Cilento, coinvolta insieme al suo ex compagno, Sante Fragalà, in un duplice omicidio avvenuto a maggio del 2011 a Cecchina, nel Lazio, e maturato proprio negli ambienti della droga. L’interessamento del generale in pensione per il rilascio a due imprenditori napoletani di una concessione per un lido balneare, sempre negata dal sindaco Vassallo fa immaginare un possibile legame con il delitto di Acciaroli, ma le perizie balistiche escludono una compatibilità fra l’arma del delitto e la pistola di Ausonia Pisani. L’inchiesta va avanti e nel registro degli indagati, a seguito di una segnalazione anonima inviata alla Procura di Napoli, viene iscritto il nome di un altro carabiniere, il sottufficiale Lazzaro Cioffi, per anni in servizio a Castello di Cisterna, citato già in uno dei primi capitoli investigativi, quando gli accertamenti non avevano trovato conferme all’ipotesi di una sua presenza ad Acciaroli il giorno dell’omicidio. Ora Cioffi, che nel frattempo ha lasciato l’Arma, è detenuto perché imputato con l’accusa di collusioni con il boss della droga del Parco Verde di Caivano, Pasquale Fucito ma è libero per l’omicidio Vassallo. Due anni fa il sottufficiale è stato raggiunto da un invito a rendere interrogatorio, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. Questo filone non risulta ancora definito. Il nuovo procuratore di Salerno, Giuseppe Borrelli, che coordina il lavoro del pm Marco Colamonici, (titolare del fascicolo ereditato dalla pm Rosa Volpe, oggi procuratore aggiunto a Napoli) ha deciso di ripercorrere a ritroso le piste percorse in questi dieci anni di lavoro per poi rileggere il quadro complessivo di quanto raccolto. I buchi sono tanti. A cominciare dalla pistola, che non è mai stata ritrovata. Non ci sono testimoni oculari, nessuno ha sentito gli spari. Non ha consentito di fare passi in avanti neppure l’esame del Dna disposto su 154 persone. Molte dichiarazioni raccolte in questi anni sono apparse incomplete se non contraddittorie o addirittura reticenti. Tanti dubbi, ma una certezza: è stato un omicidio eccellente, non un delitto di paese. Omicidio Vassallo, la rabbia del fratello: “In un libro racconto la verità negata” di Dario Del Porto La Repubblica, 5 settembre 2020 Non ha mai smesso di battersi per conoscere i nomi dei mandanti e degli assassini: “Sono ancora tra noi e vivono nelle istituzioni”. “Il tempo delle schermaglie è finito. Adesso abbiamo il dovere di dare un nome all’assassino. È ancora tra di noi e vive nelle istituzioni”. Dieci anni sono passati e Dario Vassallo è ancora qua, sul porto di Acciaroli, a battersi per conoscere la verità sull’omicidio del fratello Angelo, il sindaco pescatore di Pollica ucciso il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola. Un delitto irrisolto sul quale Dario, medico da anni trasferito a Roma insieme all’altro fratello Massimo, ha scritto due libri. L’ultimo, redatto a quattro mani con il giornalista Vincenzo Iurillo, si intitola La verità negata. “Per chi sa leggere, in quelle pagine si può capire chiaramente chi ha ucciso Angelo”, afferma Dario Vassallo. Secondo lei chi è stato? “Non una persona sola. Erano almeno in tre. Spero che la magistratura italiana legga questo libro, perché lì viene evidenziato come un gruppo di appartenenti allo Stato abbia tenuto in questi anni comportamenti non idonei al ruolo. All’autorità giudiziaria chiedo di accertare anche un’altra cosa”. Quale? “Voglio sapere se questi uomini delle istituzioni hanno agito da soli, oppure insieme. Io penso che un sistema abbia depistato le indagini. Ma è una mia idea, tocca a giudici e pm accertarlo”. Nelle indagini sono stati coinvolti più appartenenti all’Arma dei carabinieri. Alcuni sono stati ascoltati come testi, altri sono stati indagati e poi la loro posizione è stata archiviata. Un ex sottufficiale, Lazzaro Cioffi, è stato l’ultimo in ordine di tempo ad essere messo sotto inchiesta e l’esito di questo filone non è ancora conosciuto. Che cosa le ha detto il comandante generale Giovanni Nistri quando l’ha incontrata assieme a suo fratello Massimo? “Ci ha ricevuto cordialmente, abbiamo parlato a lungo. Quanto accaduto in questi anni non incrina assolutamente la nostra fiducia nell’Arma che è al nostro fianco. Se altri con la divisa hanno tenuto comportamenti sbagliati, dovrà accertarlo la magistratura”. Pensa anche lei che la chiave dell’omicidio vada ricercata nel tentativo di suo fratello di opporsi allo spaccio di droga ad Acciaroli? “Quello è il punto di partenza. Con la droga si fanno soldi facili. E tanti. Questo porta con sé investimenti, speculazioni. Basta guardarsi intorno. Acciaroli oggi non è quella che voleva mio fratello. Ma noi, come fondazione, restiamo vigili e faremo di tutto per difendere quello che Angelo aveva creato, evitando ad esempio che i beni comuni finiscano nelle mani dei privati”. Da quando suo fratello è stato ucciso, lei non ha mai smesso di esporsi in prima persona. Ha mai avuto paura di ritorsioni o di azioni legali? “Gesù è morto in croce, non di freddo. E io non voglio portare questa croce sulle spalle per altri dieci anni. Per cercare la verità ho sacrificato la famiglia, ma non ci sto a passare per un vigliacco. Le minacce non mi hanno mai spaventato. E non mi riferisco alle querele”. Che intende? “Una notte sono entrati in casa mia, hanno rovistato fra le mie cose senza prendere nulla. Ho dovuto depositare davanti a un notaio il resoconto di una conversazione che ho avuto con un magistrato, perché ne restasse traccia se dovesse capitarmi qualcosa. Ma non mi fermo. Nessuno può comprare la mia dignità. Finché avrò voce, continuerò a chiedere giustizia per l’omicidio di mio fratello”. Sardegna. Carceri in difficoltà: a Uta e Oristano detenuti in più rispetto alla capienza sardegnalive.net, 5 settembre 2020 La fotografia della realtà detentiva al 31 agosto esaminata da Maria Grazia Caligaris (Associazione Socialismo Diritti Riforme). “Hanno superato il numero regolamentare i detenuti della Casa Circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta (563 per 561 posti) e della Casa di Reclusione “Salvatore Soro” di Oristano-Massama (266 per 263). Anche se l’eccedenza è contenuta testimonia la condizione di difficoltà che ancora una volta caratterizza la vita dietro le sbarre negli Istituti Penitenziari rispetto alle Colonie”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, dell’associazione Socialismo Diritti Riforme esaminando i dati del Ministero della Giustizia che fotografano la realtà detentiva al 31 agosto. “Quello che salta agli occhi - sottolinea - è la situazione delle Colonie dove a fronte di 613 posti disponibili ci sono soltanto 271 detenuti (200 stranieri). In particolare, l’incidenza maggiore con l’82,8% di stranieri si registra a Is Arenas-Arbus dove sono recluse 70 persone (176 posti) di cui 58 straniere. Al secondo posto di questa singolare classifica si colloca Mamone-Onanì con 133 reclusi (320 posti) 106 dei quali stranieri. Infine, con 52,5% stranieri (36 su 68) c’è Isili (117 posti). In Sardegna sono complessivamente private della libertà 2051 persone (37 donne) per 2.611 posti. Una situazione ottimale ma solo apparentemente. Sottraendo i posti vuoti delle Colonie e delle sezioni chiuse per lavori, circa 90 posti soltanto a Badu ‘e Carros, il margine di spazio disponibile si riduce drasticamente e mostra la sofferenza dei posti nelle carceri costringendo i detenuti a convivere in 3 o addirittura in 4 in celle progettate per 2 persone”. “Interessanti anche i dati sulla condizione detentiva. In Sardegna su 2.051 detenuti, 280 (13,6%) sono in attesa di primo giudizio. Il dato nazionale è nettamente superiore infatti 9.344 (17,7%) sono in attesa di primo giudizio su 53.921 ristretti. Una notizia però solo parzialmente positiva dal momento che - conclude l’esponente di Sdr - la presunzione di innocenza è tale fino a prova contraria. Altro dato invece decisamente positivo l’immunità dal virus covid 19 nelle strutture detentive dell’isola”.? Tolmezzo (Ud). Ergastolano 53enne di origini calabresi muore in cella di Maria Fiorella Squillaro Quotidiano del Sud, 5 settembre 2020 Detenuto muore nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, in provincia di Udine. Si stratta di Giuseppe Lo Piano, nato a Fuscaldo (Cs) il 19 dicembre 1967. L’uomo condannato all’ergastolo, considerato dai giudici appartenente al clan Serpa ma con posizione giuridica di imputato (appellante e ricorrente), è stato rinvenuto privo di vita nella mattinata di ieri dal suo compagno di cella che ha dato subito l’allarme. I sanitari intervenuti non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. Giuseppe Lo Piano, era stato condannato, in primo e in secondo grado, all’ergastolo nel processo “Tela del ragno” in merito a numerosi omicidi avvenuti negli ultimi 20 anni lungo il Tirreno cosentino. Un’operazione condotta contro i presunti capi e gregari del clan Perna-Cicero di Cosenza, Gentile-Africano-Besaldo di Amantea, Scofano-Martello-Rosa-Serpa di Paola, e Carbone di San Lucido. A novembre si sarebbe dovuta tenere l’udienza per l’accusa di omicidio innanzi alla Corte di Cassazione, mentre per quanto riguarda la sentenza di condanna per associazione mafiosa la Suprema Corte, accogliendo il ricorso degli avvocati dell’imputato Sabrina Mannarino e Giuseppe Bruno aveva deciso per l’annullamento con rinvio alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio. Lo Piano, da qualche tempo, accusava un malessere che lo stesso aveva comunicato sia ai suoi famigliari che ai suoi legali difensori. Un malessere che lo aveva portato a ricorrere alle cure ospedaliere sia di Udine che di Tolmezzo. L’ultimo ricovero presso il nosocomio di Udine risale a circa una quindicina di giorni fa e dal quale era stato dimesso dopo qualche giorno. L’uomo pare soffrisse di una patologia cardiaca pregressa, ma i medici sia dell’ospedale che del carcere, avevano ritenuto che le sua malattia fosse compatibile con il regime carcerario. Nei giorni successivi al rientro in carcere, dopo l’ultimo ricovero, le sue condizioni di salute non erano affatto migliorate. Lo stesso Lo Piano, infatti, aveva allertato sia la famiglia che i suoi avvocati, i quali si erano subito attivati. Ma non hanno fatto in tempo. Ieri mattina, come un fulmine a ciel sereno, è arrivata la notizia dell’improvviso decesso. Gli avvocati Mannarino e Bruno, nella stessa mattinata di ieri hanno fatto pervenire alla Procura di Udine una denuncia con la quale è stato richiesto il sequestro delle cartelle cliniche del detenuto. La morte di Giuseppe Lo Piano è stata segnalata dall’attivista radicale Emilio Quintieri all’Autorità Garante Nazionale dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale presso il Ministero della Giustizia. “Quel che è davvero intollerabile è che detto detenuto, nonostante da tempo versava in gravissime condizioni di salute, sia stato tenuto in carcere fino alla sua morte - dichiara l’attivista radicale in favore dei diritti dei detenuti Emilio Quintieri - La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Udine, avente giurisdizione sull’istituto penitenziario, ha già aperto un fascicolo e disposto, oltre al sequestro della salma, anche gli opportuni accertamenti medico legali”. Parma. È malato ma lo sbattono di nuovo in cella: ucciso dalla furia antiscarcerazioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2020 Carmelo Terranova è morto giovedì scorso nel carcere di Parma. Era ai domiciliari perché le sue patologie erano state ritenute non compatibili col carcere, ma poi il clima è cambiato ed è tornato dentro. Giovedì è morto nel carcere di Parma ed era tra i gravemente malati che sono stati rimandati in carcere dopo l’onda emozionale contro le “scarcerazioni”. Si tratta del 72enne pluriergastolano siciliano Carmelo Terranova, il quale a fine aprile ha usufruito della detenzione domiciliare a causa delle sue patologie ritenute inizialmente incompatibili con il carcere. Il suo legale, Antonio Meduri, aveva presentato istanza di scarcerazione per motivi di salute al Tribunale di sorveglianza di Bari. Ed il magistrato, accertato lo stato di salute precario del detenuto, già vittima di un infarto, anche per l’emergenza Covid 19, aveva disposto la scarcerazione. D’altronde il suo legale, producendo una corposa documentazione medica, ha motivato la sua richiesta con le gravi condizioni di salute del detenuto, afflitto da scompensi polmonari al punto che era costretto a respirare con l’aiuto della bombola dell’ossigeno 24 ore su 24. Ma il resto della storia la conosciamo. Scoppia il caso “scarcerazioni”, arriva l’indignazione popolare e il ministro della giustizia partorisce subito ben due decreti per rendere più difficile la concessione della detenzione domiciliare ai detenuti per reati di mafia e terrorismo. Indignazioni che però si sono rinnovate giovedì scorso con alcuni articoli di Repubblica. Solo che mentre sono riscoppiate le polemiche - si è distinta la sola voce autorevole del Garante Mauro Palma che ha spiegato l’importanza del diritto alla salute. Il Dubbio ha potuto scoprire che nello stesso identico giorno muore uno di quei reclusi fatti ritornare in carcere perché ritenuti - dopo una stringente rivalutazione - compatibili con il regime penitenziario. Come detto, Carmelo Terranova è stato fatto rientrare in carcere. Inizialmente l’hanno tradotto presso la casa Circondariale siciliana “Cavadonna”, in quanto, attraverso la rivalutazione obbligatoria, hanno attestato la compatibilità delle sue condizioni di salute col regime carcerario. In realtà, tempo poco più di un mese, lo hanno tradotto nel carcere di Parma e, esattamente il 14 agosto, è stato assegnato al centro clinico del carcere (ora denominato con l’acronimo Sai). Struttura interna al penitenziario dove, come più volte ha denunciato il garante locale Roberto Cavalieri, ha solo 29 posti e perennemente tutti occupati: parliamo del punto di riferimento delle carceri di mezza Italia. Detenuti con trapianti, immunodepressi, diabetici scompensati, carcinomi, lesioni ossee. Un vero e proprio lazzaretto interno al penitenziario dove le cure sono sempre più difficili. Non a caso, subito dopo hanno ricoverato il detenuto in ospedale, nel reparto detentivo, dove alla fine è morto. Terranova, come tutti gli altri detenuti finiti al centro del ciclone, non era un “boss”, ma uno degli appartenenti di spicco del clan Aparo. Era stato condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Siracusa sia per l’omicidio del francofontese Salvatore Pernagallo, avvenuto il 7 aprile 1992, sia per l’omicidio dell’ex autista del sindaco di Canicattini Bagni, Salvatore Navarra, avvenuto sempre nel 1992 nell’ambito della guerra di mafia tra i clan Aparo-Nardo- Trigila e il gruppo Urso-Bottaro, sia per la strage di San Marco, verificatasi il 3 settembre 1992. Ma la pena, per qualsiasi criminale, deve essere umana, e nei casi dove c’è una evidente incompatibilità carceraria con lo stato di salute, si dispongono misure alternative. La lotta alla mafia, oggi, pare che si sia ridotta alla caccia ai vecchi “boss” malati che sono ristretti nei penitenziari. Se vengono “scarcerati” per motivi di salute ci si indigna, si fanno inchieste TV e fanno dimettere i vertici del Dap. Se invece muoiono come nel caso di Terranova, silenzio tombale. Nessuna inchiesta TV e nessuno chiede se ci sia stata una qualche responsabilità da parte dei vertici. La sacrosanta lotta alla mafia pare che si sia trasformata in una crociata contro i principi costituzionali. Modena. Morti al Sant’Anna, le lettere dei carcerati ora sono un giallo Gazzetta di Modena, 5 settembre 2020 Tutti e nove i fascicoli sui decessi avvenuti tra l’8 e il 9 marzo in Procura a Modena. Testimonianze da confermare. Oltre alle inchieste sui cinque detenuti trovati morti all’interno di Sant’Anna, ora i pm modenesi Francesca Graziano e Lucia De Santis stanno indagando anche sui quattro detenuti morti durante o dopo il trasporto in altri istituti. In realtà sono otto i fascicoli a Modena: manca solo quello di Hadid Ghazi, 30 anni, tunisino, il detenuto morto all’ospedale di Verona il 10 marzo durante il trasferimento al carcere di Trento, ma pare si tratti solo di un problema formale che avrà soluzione nei prossimi giorni. La riunificazione di tutti i pezzi di un’indagine che riguarda lo stesso evento è importante non solo per una ricostruzione di quanto è accaduto ma anche per capire se, come raccontano due detenuti, sono stati commessi o no gesti di violenza su alcuni detenuti. Il procuratore Giuseppe Di Giorgio ha infatti ricevuto i fascicoli nei giorni scorsi dalle procure di Parma (dove il 10 marzo è morto il moldavo Arthur Isuzu, 30 annni), di Alessandria (per la morte di Abdellah Rouan, 34 anni, marocchino) e soprattutto di Ascoli per il decesso di Salvatore Sasà Piscitelli, 40 anni, il detenuto al centro del caso più drammatico. Nelle due lettere scritte da detenuti, spedite all’agenzia stampa Agi, viene raccontata una lunga serie di azioni brutali che avrebbero commesso agenti della penitenziaria dopo la rivolta contro detenuti estranei. Si cita anche la vicenda di Sasà Piscitelli, detenuto tossicodipendente diventato apprezzato attore di teatro in carcere a Bollate e poi a Modena: caricato sul furgone già in coma per una overdose secondo uno degli autori delle lettere sarebbe stato picchiato durante il trasporto e anche una volta messo in cella ad Ascoli, morendo l’indomani all’ospedale della città marchigiana. “Sasà stava malissimo e sul bus lo hanno picchiato, quando è arrivato non riusciva a camminare. Era nella cella 52, ho visto che nessuno lo ha aiutato”, scrive uno dei due detenuti per ora anonimi per paura di ritorsioni. Una testimonianza gravissima che va verificata. Quanto ai cinque detenuti trovati morti a Sant’Anna, l’autopsia della Medicina Legale indica la causa in un’overdose di metadone e neurolettici ed esclude la presenza di segni di percosse e altre violenze. Milano. “Stanno uccidendo mio figlio Ezio”, la disperazione di mamma Carmela di Rossella Grasso Il Riformista, 5 settembre 2020 “Mio figlio può morire da un momento all’altro e voglio riabbracciarlo. Il carcere di Opera uccide le persone, se deve pagare può farlo anche in un carcere a Napoli, vicino ai suoi cari, non per forza lì”. È questo l’accorato appello di Carmela Stefanoni, mamma di Ezio Prinno, arrestato nel 2010 durante una retata anticamorra a Napoli, nel dedalo di viuzze della Rua Catalana. Oggi Prinno ha 44 anni, è detenuto a Milano e le sue condizioni di salute sono molto precarie. Sua madre è disperata: “Non ho soldi per andare a Milano a trovarlo e ho sue notizie confuse che mi vengono dette in maniera non ufficiale. So solo che è ricoverato e sta talmente male che al telefono non riesce a dire una parola”. Carmela racconta che suo figlio soffre di crisi epilettica da quando aveva 14 anni e ultimamente in carcere ha le crisi anche 7 volte al giorno. I tanti dottori che lo hanno visitato lo hanno dichiarato non idoneo al regime carcerario. Non è la prima volta che Carmela chiede l’avvicinamento a Napoli di suo figlio. Ma, nonostante il parere dei medici che hanno riconosciuto in più occasioni la precarietà delle sue condizioni di salute, i giudici hanno sempre rigettato la richiesta. Quando è entrato in carcere aveva 24 anni, ma negli anni le sue condizioni sono gravemente peggiorate, tanto che è costretto a indossare sempre un casco per proteggersi durante le convulsioni delle crisi epilettiche che sono sempre più frequenti. “Una volta sono andata a trovarlo e con tutto il casco aveva tanto sangue che scorreva dalla testa - racconta Carmela - e buchi in testa. Mi avevano detto che il casco l’avrebbe protetto, invece gli toglie solo l’aria perché lo stringe sotto il mento”. Ezio ha anche un nipotino di tre anni che non ha mai conosciuto perché nessuno della famiglia ha abbastanza soldi per andare a trovarlo a Milano. Ha quattro figli di cui una minorenne che ha ereditato da lui l’epilessia e non sta bene. “Noi non siamo un clan - dice Carmela - non abbiamo i soldi per fare nulla”. Napoli. I detenuti semiliberi di Secondigliano: “Stiamo in celle con un bagno per 6 persone” Il Riformista, 5 settembre 2020 I detenuti in semilibertà del carcere di Secondigliano scrivono al Presidente del Tribunale di Sorveglianza, al Ministero della Giustizia e alla Direzione del carcere preoccupati per l’aumento dei contagi. Denunciano una situazione igienico-sanitaria difficile da gestire in cella, soprattutto per chi può uscire ogni giorno dal carcere per recarsi al lavoro per poi rientrare alla sera. Il rischio di portare il virus all’interno del carcere aumenta anche per la difficoltà a lavarsi e per questo motivo chiedono a gran voce di poter continuare a scontare la loro pena mantenendo solo l’obbligo di firma. In questo modo si alleggerirebbe la pressione nelle celle. “I semiliberi della Casa Penitenziaria di Secondigliano, a seguito della totale emergenza del Covid-19, portano alla sua cortese attenzione le precarie condizioni di sopravvivenza, principalmente in misura di igiene e sanità. Dopo uno stand-by di rientro, si è provveduto a riaprire la sezione semilibertà, nnon tenendo conto dei molteplici e quotidiani problemi, in quanto le stanze dotate solo di un lavabo e wc ospitano dalle 5 alle 6 persone. Pertanto ogni sforzo di accortezza personale o sul buon vivere viene a cadere per l’inesistenza precauzionale notturna. Ovviamente questo non vuole essere uno sfuggire alle regole, ma prendere in considerazione una sorta di firma presso le stazioni di polizia o arresti domiciliari notturni apporterebbe a minore stress da parte nostra e dei nostri familiari, costretti ancora una volta a condividere passivamente il nostro percorso di semilibertà per una questione di probabili soggetti a rischio Covid-19. Tutto è dimostrabile da una visita presso le sezioni in questione. Sicuri come sempre della disponibilità nonché della sensibilità profusa, restiamo in attesa di una risposta benevola”. Lecce. Trevisi (M5S) visita carcere: “Col superbonus opportunità di reinserimento lavorativo” leccesette.it, 5 settembre 2020 Il consigliere del M5S Antonio Trevisi ha visitato la lcasa circondariale di Lecce e ha incontrato la direttrice Rita Russo e l’ufficio tecnico per parlare delle opportunità di reinserimento lavorativo per i detenuti offerte dal Superbonus 110%. “Il Superbonus - spiega Trevisi - diventerà una misura strutturale come annunciato dal ministro Patuanelli, per questo è importante continuare a informare i cittadini sulle opportunità offerte. Dall’incontro di oggi sono nate diverse idee, tra cui la possibilità di utilizzare i parcheggi antistanti la casa circondariale per l’installazione impianti fotovoltaici, come ho fatto per Unisalento dieci anni fa”. “Si è pensato anche a corsi di formazione teorici e pratici - aggiunge - per i detenuti coinvolgendo la scuola edile e l’impresa aggiudicataria di futuro bando sui parcheggi fotovoltaici nel carcere, in modo da formare profili professionali che possano trovare una immediata collocazione nel mondo del lavoro, come per cappottisti, impiantisti, elettricisti. Parliamo di un’occasione di riscatto sociale importante che si sta concretizzando grazie alla misura del Super bonus 110% che causerà nei prossimi anni uno choc economico nel settore dell’edilizia e molte imprese del settore avranno difficoltà a reperire manodopera”. “Per questo formare - conclude Trevisi - i detenuti, a cominciare da coloro che stanno per finire di scontare la pena, può rappresentare una occasione utile per un reinserimento sociale e per dare una seconda possibilità a tante persone che non hanno avuto in passato delle opportunità lavorative”. Milano. Magistrato contagiato: isolamento preventivo per chi era all’udienza di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 5 settembre 2020 C’è un primo caso di positività al virus Covid-19 nella giustizia milanese dopo la ripresa delle attività post pausa estiva, ed è un magistrato, ma per una serie di circostanze il caso non desta particolare allarme. Si tratta infatti di un sostituto della Procura generale che, da poco di rientro dalle ferie, sinora aveva fatto una sola udienza l’1 settembre, non a Palazzo di Giustizia ma in un’aula della Corte d’Appello della giustizia minorile nell’ala distaccata di via San Barnaba. Ciò che più conta è che l’udienza era durata pochi minuti, l’aula era grande, i giudici e le parti erano lontani oltre 4 metri dal sostituto procuratore generale, tutti portavano mascherine. È dunque solo per scrupolo che sono stati avvisati e lasciati a casa i giudici della sezione e i cancellieri, così come avvisati sono stati gli avvocati che erano presenti all’udienza: sarà ora l’Ats a valutare se sia il caso di allargare i tamponi a loro e alle persone a loro prossime. La positività è emersa quando una nota del presidente vicario della Corte d’Appello, Giuseppe Ondei, ha chiesto ai magistrati e al personale amministrativo di “segnalare se ci siano stati contatti stretti” con la toga contagiata “e a quando risalgano”, segnalazioni da inviare all’Ufficio Affari generale della Corte d’Appello. Nel frattempo l’aula dove martedì si è tenuta l’udienza è stata chiusa e sanificata nel pomeriggio di ieri, come pure i corridoi circostanti e la cancelleria. Milano. Ipm Beccaria, uno Sport Camp per favorire il recupero dei giovani detenuti di Michele Weiss La Stampa, 5 settembre 2020 È in corso al carcere minorile l’evento nato per promuovere l’inclusione sociale e facilitare il reinserimento sociale dei ragazzi. A guidare il gruppo, la stella della Nazionale di rugby Diego Dominguez. Come dimostrano le molteplici iniziative al riguardo, lo sport aiuta il recupero delle persone in situazioni di disagio e difficoltà. Torna per il quarto anno un appuntamento particolarmente apprezzato in città: il Gruppo Mediobanca Sport Camp, dedicato ai ragazzi del carcere minorile di Milano per promuovere l’inclusione sociale e facilitare il reinserimento dei giovani post carcere. Promosso dal Gruppo Mediobanca in collaborazione con il Cus Milano Rugby, storica realtà cittadina della palla ovale, il campo coinvolge, ancora per oggi, 26 ragazzi del carcere minorile tra i 16 e i 21 anni, impegnandoli in diverse discipline come rugby, nuoto, basket e atletica. A guidare il gruppo, un grande campione della palla ovale milanese e della Nazionale italiana del passato, Diego Dominguez, oggi attivo in progetti di recupero con il suo staff. L’iniziativa ha l’obiettivo di trasmettere valori positivi attraverso esperienze di gruppo, spiega Giovanna Giusti del Giardino, responsabile Sostenibilità del Gruppo Mediobanca: “Il Gruppo Mediobanca Sport Camp nasce per promuovere l’inclusione sociale: è un’esperienza unica che abbiamo scelto di condividere anche con i nostri dipendenti, parte attiva del progetto come volontari”. Quest’anno, testimonial del campo è il campione di nuoto Federico Morlacchi (4 ori alle Paralimpiadi di Rio 2016), entusiasta della sua partecipazione: “Lo sport ha un importante ruolo formativo all’interno così come all’esterno delle carceri. Per questi ragazzi in particolare, collaborazione, rispetto delle regole e stima reciproca possono costituire valori sociali su cui costruire un nuovo inizio”. Latina. “E le persone che stanno in carcere sanno disegnare così bene?” associazionestellamaris.it, 5 settembre 2020 È stata questa la domanda sorta spontanea ad una bimbetta di circa 7 anni, osservando i dipinti che nel fine settimana del 18 e 19 luglio 2020 hanno ornato la Loggia dei Mercanti di Sermoneta in occasione del “Maggio Sermonetano”. L’Artererapeuta Rossana Pane, in collaborazione con il referente del Cipia 9, il professor Tommaso Virgili, ha esposto gli interi percorsi pittorici di Arteterapia del Colore secondo il Metodo Stella Maris. nati nella sezione di massima sicurezza maschile e nell’area femminile della Casa Circondariale di Latina. Le opere hanno visto la luce in una cornice del tutto peculiare. Attraverso il susseguirsi dei dipinti, portavoce delle individualità che, con coraggio, hanno palesato attraverso il colore gli spaccati delle loro anime, è possibile percepire come si sia potuto lavorare sullo scioglimento di quelle sbarre animiche generate nel tempo, creando una via d’uscita e uno spiraglio di luce verso una libertà interiore. Il progetto nasce nell’anno accademico 2018/2019 nell’ambito dei tirocini attivi per conseguire il diploma da arteterapeuta alla scuola del Colore Stella Maris. Come ha avuto avvio il percorso arteterapeutico con il carcere di Latina? Leggiamo direttamente le parole di Rossana Pane che racconta com’è nata questa esperienza e come si è svolta, anche in relazione all’emergenza pandemica che ci ha tutti coinvolti: “Ho sempre avuto chiara la volontà di volermi confrontare con tematiche forti e il carcere è sempre stata una di queste. All’epoca ero maestra d’asilo nella scuola waldorf di Latina e parlando con Tommaso Virgili, papà di una delle bimbette che erano nel mio gruppo di asilo e responsabile dell’area didattica carceraria (Cipia 9), è uscito fuori il discorso sui tirocini e sul suo lavoro come insegnante nelle carceri di Latina. Ho colto la palla al balzo parlandogli della nostra formazione e del progetto di arteterapia che avrei voluto proporre, e ha sposato appieno questa iniziativa. In primis è stato lui ad avvicinarsi alla pittura, ha sperimentato la valenza su se stesso ed essendone rimasto entusiasta mi ha donato parte delle sue ore di lezione per consentirmi di poterlo proporre al braccio femminile. In quell’anno abbiamo portato due sequenze “Aspromonte” e “Itaca” da 7 dipinti ognuna: la prima ripercorrendo un viagggio attraverso paesaggi della natura, la seconda attraverso paesaggi dell’anima. Il riscontro è stato talmente tanto positivo che quest’anno siamo riusciti ad attivare un progetto “Thule” anche per il braccio maschile interrottosi, purtroppo, per il lockdown. Nell’area femminile invece abbiamo coinvolto l’attuale diplomando Ottaviano Sbardella, che sotto la supervisione della Scuola Stella Maris ha iniziato una sequenza da 12 dipinti. Sempre nell’ambito della casa circondariale ho avuto modo di incontrare dopo tanto tempo un caro amico musicista, Massimo Gentile, anche lui coinvolto all’interno con laboratori artistici musicali per i detenuti. Massimo è il responsabile dell’iniziativa che ogni anno si svolge a Sermoneta: il Maggio Sermonetano. È una rassegna artistica che vede trasformarsi il paesino in un tableau vivant per tutti i fine settimana di Maggio. Concerti, esposizioni d’arte, laboratori…il tutto in una cornice paesaggistica medievale. Per ovvie ragioni quest’anno l’iniziativa è stata spostata a luglio e ci è stato offerto un posto espositivo sotto la loggia del paese. Come prossimo progetto con Massimo, c’è la volontà di entrare attivamente nel carcere Romano di Rebibbia.” Cosa significa fare arteterapia? “L’Arteterapia a indirizzo antroposofico è un approccio che considera disturbi e malesseri come una disarmonia, per cui l’essere umano è costretto a ritirarsi, a separarsi, a dividersi dalla sua unità psico-fisica armonica. Il risanamento è il ricongiungersi di ciò che si era disunito, ricreando la totalità originaria. Il fare pittorico mira ad attivare questi stessi impulsi vivificanti perché non solo le risorse fisico-vitali, ma anche le forze del cuore, siano coinvolte nello sforzo di risanamento perseguito. Nell’individuale e personalissima tavolozza di combinazioni cromatico-biografiche presenti in ognuno di noi è possibile leggere artisticamente l’individualità che vi si cela, e intravedere nello svolgersi temporale del percorso arteterapeutico l’Io risanatore che attende essere disvelato. Ogni individuo, attraverso un percorso nel colore, impara ad armonizzarne le sfumature e ad ammorbidire i gesti delle pennellate. Così come i colori entrano in dialogo con i nostri sentimenti, le emozioni vengono palesate direttamente sul foglio: interiorità e mezzo artistico divengono un tutt’uno”. Lezioni di diritto e umanità per tutti i detenuti di Sergio D’Elia* Il Riformista, 5 settembre 2020 Si chiama “Il viaggio della speranza” ed è l’ultimo libro dell’associazione Nessuno tocchi Caino, con esperti e testimonianze dalle carceri. Prefazione di Marta Cartabia. “Il viaggio della speranza” è il racconto per immagini, parole e atti dell’VIII Congresso di Nessuno tocchi Caino che si è tenuto nel Carcere di Opera a Milano nel dicembre del 2019. Il libro, edito da Reality Book e curato da Lorenzo Ceva Valla, Antonio Coniglio e Sabrina Renna, contiene una Prefazione del Prof. Tullio Padovani e, in Appendice, la splendida Lectio Magistralis che la Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia ha tenuto nel gennaio 2020 alla inaugurazione dell’Anno accademico dell’Università RomaTre. Il titolo del volume di 440 pagine, dedicato a Marco Pannella, è tratto dal nome di una associazione americana contro la pena di morte, Journey of Hope - from Violence to Healing (Viaggio della speranza - dalla violenza alla guarigione), costituita da parenti delle vittime di reato e parenti dei detenuti nel braccio della morte che ogni anno, insieme, con una sorta di carovana della pace e della giustizia, attraversano gli Stati Uniti. Oltre alla Prefazione di Tullio Padovani e alla Lectio Magistralis di Marta Cartabia, il libro contiene le riflessioni, le testimonianze e le emozioni emerse a Opera nei due giorni di un Congresso che, nel concatenarsi degli interventi di magistrati, giuristi, professori universitari, operatori penitenziari e detenuti, a suo modo è stato anch’esso una traversata dal dolore alla guarigione. A partire dai detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, il “viaggio” ha raggiunto Strasburgo e i giudici supremi europei, creatori del diritto umano alla speranza. La via della nonviolenza e del Diritto ha poi portato a Roma, innanzi ai massimi magistrati italiani della Corte Costituzionale, che hanno aperto una breccia nel muro di cinta del “fine pena mai”. La Carovana della speranza non si è fermata, ora corre verso una nuova frontiera, quella invocata da Aldo Moro: “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Come nel docufilm “Spes contra spem - Liberi dentro”, anche nel libro “Il viaggio della speranza”, che dell’opera di Ambrogio Crespi è il seguito letterario, emergono con chiarezza dalle testimonianze - in particolare dei detenuti - una rottura netta con logiche del passato, una maggiore fiducia nello Stato di Diritto, la possibilità del cambiamento anche nel carcere e la conversione di persone detenute in persone autenticamente libere. “Il viaggio della speranza” non è solo un libro, sarà un viaggio vero e proprio che nel mese di settembre faremo nelle regioni del Sud Italia - dal 4 all’11 in Puglia, dal 12 al 20 in Calabria e dal 21 al 30 settembre in Sicilia. Ci saranno incontri, presentazioni del libro e manifestazioni sui temi a noi cari, a partire dal superamento degli stati di emergenza (eterna!) per l’affermazione dello Stato di Diritto. Per chi volesse ricevere il libro “Il viaggio della speranza”, l’invito è iscriversi sulla pagina di Nessuno tocchi Caino. *Segretario di Nessuno tocchi Caino La fiction della Rai su Nisida: anteprima nell’istituto minorile di Anna Paola Merone Corriere del Mezzogiorno, 5 settembre 2020 Dal 23 settembre su Raidue. L’autrice: “Racconto le vite ai margini”. Si intitola “Mare fuori” la fiction girata a Napoli, che racconta un altro fronte della città, della sua gente e accende i riflettori su ombre che si allungano minacciose su generazioni di giovanissimi. L’idea originale di questo nuovo film per la tv è di Cristiana Farina, che firma anche la sceneggiatura di un lavoro al quale è molto legata e che la cui scintilla è scoccata 15 anni fa, quando entrò a Nisida per la prima volta. Era con il cast di “Un posto al sole”, per il quale era impegnata come sceneggiatrice, e restò colpita dai volti, dalle storie e dalle speranze di ragazzi che avevano molte domande da fare al mondo. È tornata più volte nel penitenziario minorile, per corsi e lezioni che ha tenuto a più riprese, “e da queste esperienze è venuto fuori un racconto che evidenzia il profilo di adolescenti disposti a rubare il loro futuro, ai quali non possiamo voltare le spalle. “Mare fuori’’ è un romanzo di formazione, non giudicante, che svela le insidie di una età difficile, rischiosa per tutti e non solo per chi cresce in quartieri difficili. Il lavoro che ho fatto, grazie al direttore Gianluca Guida, tende proprio ad evidenziare i contorni del bene e del male senza mai giudicare”. In quindici anni Nisida, da dove il mare si vede solo da lontano, è profondamente cambiata. “La prima volta che sono entrata ho osservato gli equilibri interni. Poi - osserva - ogni schema è saltato. In strada si sparava all’impazzata, le paranze dei bambini prendevano il sopravvento e anche dietro le sbarre i clan, le organizzazioni della camorra non avevano più alcun peso. Sintetizzare tutto questo in un unico racconto è stata una sfida importante e complessa”. La prima puntata di “Mare Fuori” sarà presentata ai ragazzi di Nisida il prossimo 10 settembre, due settimane prima della messa in onda ufficiale della fiction che doveva andare in onda a marzo e che è stata invece rimandata causa Covid al prossimo 23 settembre. Sul piccolo schermo il direttore del carcere minorile è Carolina Crescentini, rigida e severa con un bagaglio profondo di inquietudini personali, al suo fianco Carmine Recano con un cast di attori dove brillano alcune presenze partenopee. “Una donna autore - racconta Farina - può fare la differenza in tutte le storie, aiuta a dare un punto di vista diverso al racconto e ai profili personali. E questo è particolarmente vero nel caso di questa direttrice che arriva al vertice del penitenziario con un vissuto complesso e doloroso. Il lavoro di scrittura, spesso considerato con scarsa attenzione, ha un rilievo assoluto. Ed è quello che fa davvero la differenza”. “Mare Fuori” è stato girato soprattutto a Napoli: alla Sanità, a Nisida, nella Galleria Umberto I, all’Orto botanico. Riprese anche a Cava dè Tirreni e a Roma, a Ponte Milvio, dove si consuma l’accidentale uccisione di un ragazzo da parte di un amico, studente borghese e benestante che si lascia prendere la mano da una notte brava e che finirà perciò nel penitenziario minorile. Farina è già al lavoro sulla scrittura della seconda serie di “Mare Fuori”. “L’auspicio - dice - è che incontri il favore del grande pubblico che ha conosciuto la città più problematica attraverso Gomorra, un prodotto molto ben fatto, e che qui troverà un altro aspetto della malavita. Capirà che voltare le spalle a questi ragazzi non si può, bisogna dare futuro a chi altrimenti è pronto a tutto per prenderlo con mezzi non leciti. Questa è una fiction che sa parlare di speranza e delle possibilità di riscatto”. “Mare Fuori” - diretta da Carmine Elia e prodotta da RaiFiction e Picomedia - prende il via dalle storie di Filippo, Carmine, Edoardo e Ciro. Filippo è il ragazzo milanese di buona famiglia che ha ucciso accidentalmente il suo migliore amico durante una notte brava. Carmine è di Secondigliano, sogna di fare il parrucchiere ma sa di essere destinato ad una vita da criminale; Edoardo è un piccolo boss in attesa del suo primo figlio e Ciro sogna di diventare il padrone di Napoli. Tutti i protagonisti si trovano in carcere, dove sono seguiti dalla direttrice Paola Vinci, dal comandante della polizia penitenziaria Massimo e dall’educatore Beppe. Covid-19, l’emotività complottista sfida la razionalità scientifica di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 5 settembre 2020 A Roma l’adunata dei negazionisti: tassisti, albergatori, biker, “eretici” via Facebook, persino un “Popolo delle mamme” preoccupato di sottrarre i bambini alla “dittatura sanitaria”. Come un eterno ritorno della storia. Come la peste di don Ferrante. Rieccoci daccapo: rieccoli. L’adunata negazionista di oggi pomeriggio a Roma segna l’ultima, definitiva cesura con il clima di spaventata e dolorosa pacificazione di marzo e aprile, nato al culmine della strage da Covid-19. Lo strappo è già stato vistoso altrove: a Berlino migliaia di negazionisti hanno innalzato contro l’evidenza del virus la Reichsflagge del 1871, la bandiera imperiale, retrotopia contro realtà distopica, direbbe Bauman. Da noi è questa forse, da inizio pandemia, la prima vera sfida dell’emotività complottista alla razionalità scientifica. Per uno scherzo della burocrazia (gli organizzatori chiedevano piazza del Popolo) si celebra alla Bocca della Verità questo raduno della menzogna (le mascherine ci ammazzeranno, si dice, facendoci respirare “troppa anidride carbonica”). Sarebbe forte la tentazione di liquidare l’evento come una replica del più modesto moto di piazza di giugno, al Circo Massimo: un cocktail di fascisti e teppisti da curva, ora integrato da qualche lunatico del teatrino mediatico-politico e qualche psichiatra fuori copione. Ma sarebbe un grosso sbaglio. Benché il marchio più ingombrante sia quello di Forza Nuova e di personaggi come Giuliano Castellino (fresco di condanna per un’aggressione ai giornalisti dell’Espresso e persuaso che la pandemia “sia stata pianificata per cinesizzare il mondo”), stavolta il mix annunciato è assai più vario. Tassisti, albergatori, biker, “eretici” via Facebook, persino un “Popolo delle mamme” preoccupato di sottrarre i bambini alla “dittatura sanitaria” e benedetto dall’arcivescovo Viganò, l’anti-Bergoglio persuaso che la pandemia esista, sì, ma sia la punizione di un Dio vendicativo contro divorziati e sodomiti. In piazza si ritrova qualcosa di molto più diffuso e radicato di qualche nostalgia. Una ribellione profonda alle regole sta rialzando la testa, cullandovi l’idea popolare che non ci sia più nulla da temere (proprio mentre l’uomo forse più popolare d’Italia, Silvio Berlusconi, lotta contro il virus in ospedale): viene dalla stanchezza di nuovi limiti, dalla paura del futuro, dalle saracinesche abbassate. È una spallata all’odiata razionalità ancien régime che il Covid parrebbe avere restaurato. La parola d’ordine sulla “dittatura sanitaria” attraversa anche quella destra italiana che (opportunamente) non sarà in piazza ma pure si nutre di questo humus: è uno slogan sottotraccia, usato in campagna elettorale e persino in Parlamento, dove i No Mask sentono quale spirito guida Matteo Salvini. Potente è la retromarcia dalla primavera: scrivevamo allora che l’emergenza sanitaria stava forse cancellando “la lunga stagione dell’incompetenza” (meglio farsi curare da un medico che da un idraulico). In realtà l’aveva solo messa dietro la lavagna. Di nuovo la “libertà” passa attraverso il disconoscimento dei saperi scientifici. Sta nella vulgata dell’imbroglio, nel Covid-19 costruito dai plutocrati; nelle oltre 35 mila vittime che bastava non intubare, si capisce, maledetta sia la scienza! Intendiamoci. Errori del governo ce ne sono stati e di gravi: su tutti il balletto diverbali del Comitato tecnico scientifico. Ma qui vengono sistematizzati dal complottismo, nulla è casuale. La cosmogonia populista, che ha riscoperto il mantra dell’uno vale uno, la disintermediazione come libertà (di ammassarsi in discoteca o stare in treno senza mascherina alla faccia dei professoroni), cela infine un paradosso politico. Questo vento di emotività da social network potrebbe ben rigonfiare le vele di chi per primo puntò il dito contro le scie chimiche, dubitò dello sbarco sulla Luna, sostenne che un paio di clic giusti nella Rete valgano una laurea. Ma ora i grillini sono potere, quasi casta. All’adunata ci saranno, sì, ma in forma criptica, di ex, di cape toste e di irriducibili. Il grillino non più di lotta per eccellenza, Di Maio, “rabbrividisce” invece quando pensa che certi negazionisti “potevano essere al governo di questa nazione”. Divorziando così da quel po’ di Salvini che gli era rimasto nel cuore e in fondo anche da un po’ di se stesso. Perché crescere è questo: perdere qualcosa. A volte anche nelle urne. Droghe. Dobbiamo rompere il silenzio sulla piaga della cocaina di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 5 settembre 2020 La cocaina è la droga dei deboli che vogliono sentirsi forti. Ma lo squallore di questa illusione non può diventare un’attenuante. Siamo tutti in pericolo, e dobbiamo fare qualcosa. Quando una ragazza di diciassette anni dice: “Mi hanno offerto agli altri, ero troppo fatta per dire no”, dovremmo farci una domanda. Perché accettiamo che la cocaina sia diventata protagonista della vita nazionale? La vicenda di Bologna non è un episodio: è la spia di un fenomeno. Leggete con attenzione i resoconti in cronaca - i pestaggi, le risse, le aggressioni, perfino gli omicidi - e scoprirete che la cocaina c’entra quasi sempre. Ripensate agli improvvisi scatti d’ira di cui siete stati testimoni, magari nel traffico, o a certi eccessi televisivi. Chiedete alla polizia o ai carabinieri cosa c’è dietro molti incidenti stradali. Torniamo alla vicenda di Bologna. Un agente immobiliare, candidato della Lega alle elezioni regionali; cinque professionisti di mezza età. La relazione - spiegano gli inquirenti - era fatta di sesso, coca e regali, ma anche di rapporti sadomaso con una prostituta maggiorenne. Racconta la giovanissima vittima: “Il padrone di casa divulgava foto che mi ritraevano seminuda su un sito porno, poi effettuava una videochiamata con un altro utente mentre consumavamo un rapporto sessuale”. L’uomo - imprenditore, 42 anni - ha poi diffuso le foto della ragazza, distesa, mentre lui sniffa cocaina dal suo corpo. La serie televisiva Baby (Netflix) - che sconsiglio ai lettori romani che abbiano figli adolescenti - racconta vicende simili e sembra inquietante. Ma la realtà è peggiore. È sgradevole insistere su certi dettagli. Ma è importante. Forse è l’ultima chiamata, l’occasione per vedere l’abisso in cui stiamo scivolando. La cocaina, un tempo, era la droga dei ricchi viziosi; oggi è alla portata di tutti, e rischia di fare grossi danni, soprattutto nelle nuove generazioni. Ricordarlo non è una forma di moralismo: è umanità, è decenza, è protezione sociale. Sull’importazione, il commercio e la diffusione della cocaina in Italia hanno indagato e scritto in molti. Il nostro “7” - con una celebre copertina del 2010 - fu tra i primi a denunciare che Milano era invasa dalla polvere bianca. Non è cambiato niente, in dieci anni, se non la quantità in circolazione e i metodi di distribuzione. All’inizio del 2020, il procuratore aggiunto Laura Pedio, che coordina le inchieste sulla droga a Milano, diceva: “La vera piazza di spaccio non è al bosco di Rogoredo. Ma è nella rubrica dei cellulari di qualcuno”. Cesare Giuzzi, sul Corriere di Milano, spiega il sistema: “Famiglie di malavita, calabresi e siciliane: la piazza di spaccio è saldamente nelle loro mani. Ma invisibile, senza allarmi per la sicurezza, senza attenzione da parte della politica. (…) Il pusher si muove in auto o in motorino. A volte arriva con la fidanzata al seguito. Un ragazzo qualunque identico a migliaia di altri. La droga viene consegnata a mano, in bustine ricavate dai sacchetti-gelo, saldati con un accendino. Il pusher prende i soldi, passa il pacchetto e riparte”. Il consumo personale di droga, a differenza dello spaccio, non configura un reato, ma costituisce un illecito amministrativo. Ed è bene che le cose rimangano così. Ma qualcosa di più possiamo fare, per segnalare che la cocaina è pericolosa. Cominciamo a dire, a scrivere, a convincerci che una società di cocainomani non è ineluttabile. Ripetiamo senza paura che “la bamba”, come la chiamano, è la droga dei deboli. Cerchiamo di toglierle quell’aura di mondanità e successo, e trattiamola per ciò che è: una sostanza che rovina la vita dei consumatori e di coloro che gli stanno intorno. Il silenzio sull’argomento diventa una forma di assenso, e incoraggia molti, con le conseguenze che sappiamo: grandi guadagni per la criminalità, grandi rischi per tutti noi. Ma protestare, per quanto importante, non basta. L’offerta esiste perché esiste la domanda. Forse è arrivato il tempo di scoraggiare i consumatori. Le sanzioni penali - lo sappiamo - non servirebbero. Le attuali sanzioni amministrative servono a poco, come dimostra la continua espansione del fenomeno. Una sanzione sociale, invece, potrebbe rivelarsi efficace. Dopo la terza segnalazione al Prefetto, con l’attivazione del procedimento amministrativo previsto dall’ art. 75 del Dpr 309/90, perché non rendere pubblica l’identità del consumatore abituale di cocaina? Non è crudeltà: è autodifesa sociale. Non ci sono solo i rischi - gravi - per la salute. Le conseguenze dell’assunzione di cocaina sui comportamenti, come sappiamo, sono rilevanti. Euforia eccessiva, mancanza di controllo, aggressività, insonnia; poi apatia, difficoltà di attenzione, paranoia, depressione. Abbiamo o no il diritto di sapere se chi vive e lavora con noi, per noi o intorno a noi è un cocainomane? Pensate a un medico, un commercialista, un dirigente, un amministratore pubblico, un politico. O semplicemente, a chi guida l’automobile che ci segue in autostrada. Il consumo di cocaina non è soltanto affare loro, come sostiene qualcuno; è anche affare nostro. Alcune decisioni che ci riguardano - un intervento, una decisione, una manovra nel traffico - potrebbero essere frutto della polvere bianca, non della materia grigia. Sapere chi acquista e consuma cocaina è facile, basta seguire un giovane pusher per una serata. O trovare i venditori che operano tranquillamente su social: un “mi piace” su Instagram segnala l’interesse all’acquisto (sapete che esistono gli “influencer della droga”?). Se le forze dell’ordine intervengono poco è solo perché, con le regole attuali, identificare i consumatori è una perdita di tempo. Il rischio reputazionale convincerebbe invece molti italiani a farsi qualche domanda. Qualcuno, addirittura, un esame di coscienza. Migranti. “Nostri diritti calpestati. In quarantena da un mese, non siamo detenuti” di Eleonora Camilli redattoresociale.it, 5 settembre 2020 Parla per la prima volta uno dei migranti del centro di Villa Sikania a Siculiana (Ag): “Circondati dalla polizia, nessuno ci dice cosa sta succedendo, abbiamo fatto il test ma da oltre un mese non possiamo uscire”. Nel tentativo di allontanarsi un ragazzo di 20 anni, Anwar Seid, è morto, travolto da un’auto. Centro Astalli: “Migranti non sono merci da tenere in magazzino”. “Siamo in quarantena da quasi un mese. Abbiamo fatto il test per il coronavirus. Non capiamo perché ci tengano qui dentro senza farci uscire, senza darci informazioni, siamo dei detenuti? Io sono qui dentro da 25 giorni altri da 30. Normalmente la quarantena è di 15 giorni, perché a noi è riservato un trattamento diverso?”. A parlare è uno dei ragazzi (chiede di rimanere anonimo) che da ieri sta protestando, insieme ad altri migranti, per la situazione che si è venuta a creare all’interno del centro Villa Sikania di Siculiana ad Agrigento. In particolare i migranti, oltre 100 persone, che provengono da diversi paesi (Eritrea, Sudan, Nigeria, Somalia e Tunisia) chiedono di poter avere informazioni certe, di sapere perché sono stati privati della libertà da oltre un mese e quanto durerà, nei fatti, la loro quarantena. Dopo lo sbarco a Lampedusa e il trasferimento nel centro in provincia di Agrigento, infatti, non hanno avuto altre indicazione riguarda al loro futuro. Sanno solo di non poter uscire. E così ieri, nel tentativo di allontanarsi dal centro, un ragazzo di 20 anni è morto, si chiamava Anwar Seid. È stato travolto da una macchina in corsa sulla statale 115. L’automobilista, che non si è fermato a prestare soccorso, è ora indagato per omicidio stradale. “Siamo tutti sotto choc per quello che è successo ieri - racconta il ragazzo con cui Redattore Sociale è in contatto -. Anwar era anche lui eritreo e stava protestando per i nostri diritti. Siamo distrutti per la sua morte. Abbiamo iniziato la protesta perché non capiamo cosa sta succedendo: abbiamo fatto tutti il test per il Covid 19. Ma se non siamo positivi perché ci tengono rinchiusi da un mese? Nessuno ci dice niente, ma in compenso siamo circondati dalla polizia. Tra l’altro - aggiunge. Se ci fosse un caso di positività sarebbe per noi più pericoloso stare qui dentro, siamo in tanti. Rischiamo sicuramente il contagio. Vogliamo uscire di qui, ma ci dicono che non è possibile”. Da ieri, ci spiega, non è cambiato nulla, è stata solo rafforzata la sorveglianza: “All’interno è pieno di polizia, all’esterno c’è l’esercito. Siamo così pericolosi? - aggiunge. Io sono stato prima a Lampedusa, poi sono arrivato qui, senza mai poter uscire e non credo sia normale questo trattamento”. Il centro di Siculiana era un Centro per l’accoglienza straordinaria (Cas) fino all’ottobre scorso. Ha riaperto ad aprile diventando uno dei centri per l’isolamento fiduciario dei migranti sbarcati a Lampedusa. La capienza è di 116 persone, all’interno la sorveglianza è affidata a 5 squadre della polizia. “Quella di Villa Sikania è una struttura che in passato abbiamo monitorato perché si caratterizzava per una serie di criticità - spiega Annapaola Ammirati di In Limine. È uno dei centri in cui vengono trasferite le persone da Lampedusa e le condizioni di accoglienza sono sempre state poco adeguate ai bisogni: è un grande centro con stanzoni per 30/25 persone. Spesso i migranti venivano tenuti in condizione di promiscuità. Non solo, ma le criticità hanno riguardato anche le procedure per l’accesso alla formalizzazione della richiesta asilo. Come associazione abbiamo anche presentato denunce insieme a Borderline sicilia. Ora sappiamo che il centro è adibito alla quarantena, non abbiamo accesso all’interno. Ma che le persone rimangano in quarantena oltre 14 giorni è chiaramente una situazione che non si dovrebbe verificare, temiamo che questo sia dovuto ai nuovi ingressi: potrebbe avvenire che ogni volta che entra qualcuno in accoglienza facciano ripartire la quarantena. È una prassi che abbiamo visto anche nell’hotspot di Lampedusa ma che non riteniamo adeguata”. Anche il sindaco di Siculiana, Leonardo Lauricella, parla di un centro inadeguato, “non idoneo “ e in cui non c’è alcun rispetto delle regole. Padre Camillo Ripamonti, direttore del Centro Astalli, nell’esprimere cordoglio per la morte del giovane ragazzo eritreo ricorda che “l’accoglienza diffusa e progettuale gestita nel rispetto delle norme di sicurezza per il contenimento della pandemia non solo è possibile ma necessaria: i migranti non sono merci da tenere ferme in magazzino, sono esseri umani da accogliere e proteggere”. Per il Centro Astalli è urgente che il governo stabilisca, accanto alle procedure per gestire il rischio di contagio allo sbarco, anche misure sul medio e lungo periodo che prevedano la distribuzione di piccoli numeri di migranti in tutte le regioni. Per questo è necessaria una modifica tempestiva dei decreti sicurezza in modo da consentire una presa in carico progettuale dei migranti fin dal primo giorno. Sorveglianza illegale: l’importanza e il coraggio dei whistleblower di Simone Pieranni Il Manifesto, 5 settembre 2020 Una corte d’appello americana ha stabilito che il programma di sorveglianza della Nsa era illegale e che le rivelazioni di Edward Snowden nel 2013 “hanno provocato un dibattito pubblico significativo sulla raccolta di dati da parte del governo Usa”. Chi lo aveva definito traditore, talpa, spia, infiltrato, quando non direttamente amico di sistemi autoritari come la Russia che l’ha ospitato, deve ricredersi, o quanto meno fare una pausa di riflessione. A sostenere che le rivelazioni di Snowden sull’attività di spionaggio di massa da parte della Nsa sono state fondamentali per capirne la natura illegale, aprendo così uno squarcio nella giungla della raccolta dei dati, è stata una corte d’appello americana, e non “pericolosi” personaggi come Assange o Manning. La sentenza della corte d’appello americana, infatti, ha rafforzato e riabilitato il ruolo di Snowden: secondo i giudici, con le sue rivelazioni l’ex analista “ha provocato un dibattito pubblico significativo sull’opportunità della sorveglianza di massa da parte del governo americano”. La sentenza arriva a seguito di un procedimento di appello contro tre persone accusate di terrorismo: la loro colpevolezza è confermata ma la Corte ha stabilito che in questo caso, così come in tanti altri, le informazioni raccolte dall’allora programma della Nsa sono illegali e per di più non sarebbero utili alle indagini e alla stesura di un giudizio di colpevolezza o meno. Si tratta di 59 pagine che in gran parte ricalcano quanto già deciso da una corte americana nel 2015: da allora il programma di raccolta di dati è ufficialmente sospeso, dopo l’approvazione dello Usa Freedom Act. Il programma della National Security Agency era infatti figlio del Patriot Act, approvato post 11 settembre 2001, che permise alle agenzie di intelligence americane di prendersi ben più di una licenza. La sentenza però pone alcuni punti fermi di tutta questa vicenda iniziata nel 2013. Presidente era Barack Obama e le rivelazioni di Snowden misero in forte imbarazzo l’allora staff della Casa bianca. Innanzitutto il testo della sentenza riabilita il ruolo di Snowden e sarebbe bene ricordarlo. Edward Snowden, analista della Nsa, venuto a conoscenza del piano di sorveglianza di massa da parte dell’agenzia tentò di denunciarne l’esistenza attraverso canali istituzionali. Ignorato e senza ottenere alcun riscontro, decise di passare all’azione solitaria, con l’aiuto del giornalista Glenn Greenwald, di alcuni media che pubblicarono via via parte del materiale e di WikiLeaks, senza la quale probabilmente Snowden oggi non sarebbe al sicuro, per quanto esiliato, in Russia. Anche a questo proposito è bene ricordare che Snowden accettò la proposta russa - in mezzo ci fu una fuga a Hong Kong - dopo aver visto stracciato il proprio passaporto americano, dopo accuse di tradimento da parte di mezzo mondo politico americano e dopo il silenzio dei paesi europei che non offrirono alcun sostegno al whistleblower, tacciato anzi di essere una talpa, una spia, quando non un “amico di Putin” e come tale intenzionato a complicare la vita agli Stati uniti. La verità è che Snowden ha compiuto un gesto coraggioso e che la sentenza della Corte riabilita, condannando invece i tanti funzionari americani che nel corso del tempo non solo avevano attaccato Snowden, ma più di tutto avevano affermato l’inesistenza di un piano di sorveglianza di massa. Come ha sottolineato la Reuters, prima insieme al Guardian a diffondere la notizia della sentenza, “la prova che la Nsa stava segretamente costruendo un vasto database di tabulati telefonici statunitensi è stata la prima e probabilmente la più esplosiva delle rivelazioni di Snowden pubblicate dal Guardian nel 2013”. Fino a quel momento, “i massimi funzionari dell’intelligence avevano pubblicamente insistito che la Nsa non avesse mai raccolto consapevolmente informazioni sugli americani”. Poi dopo l’esplosione dello scandalo, alcuni avevano cambiato versione, sottolineando l’importanza di questi dati nella lotta all’estremismo islamista sul territorio americano: la sentenza della corte americana demolisce anche questo assunto. Oltre a concludere che la “raccolta di massa” della Nsa ha violato il Foreign Intelligence Surveillance Act. Il passo successivo dovrebbe essere una sentenza della Corte suprema, unica possibilità, forse, perché Snowden possa tornare negli Stati uniti senza dover rischiare condanne per tradimento. Per ora da Mosca Snowden si gode questa ennesima conferma circa la giustezza delle sue azioni: “Non avrei mai immaginato che sarei vissuto per vedere i nostri tribunali condannare le attività della Nsa come illegali e nella stessa sentenza vedermi attribuito il merito per averle rivelate” In agosto Trump aveva balenato la possibilità di concedergli la grazia, in una delle sue tante uscite estemporanee e ieri alcuni repubblicani hanno chiesto di andare avanti, alla luce della sentenza. Anche Snowden può diventare uno strumento nell’infuocato rush finale delle presidenziali. Ma al di là delle battaglie politiche per la Casa bianca, la sentenza ribadisce una verità che da tempo chiediamo, ovvero la necessità da un lato di tutelare legalmente i futuri Snowden, i futuri whistleblower che ci aiuteranno a capire il perverso controllo garantito a Stati e aziende dalla nostra produzioni di dati, dall’altro quella di portare avanti una battaglia forte perché i Big Data siano un bene pubblico, gestiti in modo trasparente affinché siano utili, anziché dannosi, al procedere della nostra vita sociale. Rsf sollecita Egitto e Arabia Saudita a rilasciare giornalisti detenuti ilfarosulmondo.it, 5 settembre 2020 Reporter senza frontiere (Rsf) ha chiesto un’indagine internazionale indipendente a seguito della morte di due importanti giornalisti in Egitto e Arabia Saudita poco dopo la loro improvvisa liberazione dal carcere. Rsf ha invitato entrambi i Paesi a liberare tutti i giornalisti detenuti “per evitare una catastrofe prima che sia troppo tardi” dopo la morte in Egitto di Mohamed Monir e in Arabia Saudita di Saleh al-Shehi rispettivamente il 13 luglio e il 19 luglio. “La morte di Mohamed Monir e Saleh al-Shehi durante la pandemia evidenzia l’urgenza di liberare i giornalisti in modo da evitare un destino tragico”, ha detto Sabrina Bennoui, capo della redazione di Rsf in Medio Oriente. “Esortiamo le autorità egiziane e saudite a salvare i giornalisti dalle prigioni sovraffollate. Evitiamo una catastrofe prima che sia troppo tardi”. Monir è stato arrestato dopo un’intervista su Al-Jazeera - bandita in Egitto - e accusato di “diffusione di notizie false” e “partecipazione a un gruppo terroristico”. Secondo la figlia, Monir aveva mostrato sintomi da coronavirus mentre era in prigione, ed è stato sottoposto a visita medica e numerosi test Covid-19 prima che fosse finalmente dichiarato positivo l’8 luglio - quasi una settimana dopo il suo rilascio. Al-Shehi è stato ricoverato in ospedale meno di un mese dopo il suo rilascio dal carcere il 19 maggio. Stava scontando una pena di cinque anni con l’accusa di “aver insultato la corte reale” per aver parlato di corruzione all’interno dell’élite al potere dell’Arabia Saudita. L’Egitto e l’Arabia Saudita sono attualmente due dei più grandi “carcerieri di giornalisti” del mondo. Rsf ha identificato 30 giornalisti detenuti in Egitto e 33 in Arabia Saudita L’Egitto è al 166° posto su 180 Paesi e territori nell’indice World Press Freedom di Rsf 2020. L’Arabia Saudita è al 170° posto. Stati Uniti. Giudice vieta la detenzione dei bambini migranti negli alberghi La Repubblica, 5 settembre 2020 Un giudice federale ha emesso un ordine che impedisce al governo degli Stati Uniti di detenere i bambini migranti negli hotel, una pratica che è stata una parte fondamentale del nuovo sistema di controllo dell’immigrazione. Lo riferisce la Cnn. Il giudice Dolly M. Gee ha ingiunto al Dipartimento della sicurezza interna (Dhs) di interrompere l’immissione di minori negli alberghi e di trasferirli in strutture autorizzate entro il 15 settembre. Secondo il magistrato, le condizioni negli hotel “non sono adeguatamente sicure e non tengono sufficientemente conto della vulnerabilita’ dei minori non accompagnati in detenzione”. L’ordine si applica ai minori non accompagnati e ai bambini detenuti con i familiari. Prevede eccezioni per i bambini che devono essere trattenuti in hotel per una o due notti durante il transito o prima del volo. Il giudice richiede inoltre al governo federale di consentire a osservatori indipendenti e avvocati che rappresentano i bambini immigrati detenuti di accedere in tutte le strutture in cui i minori sono detenuti in base alle nuove restrizioni di salute pubblica. “Questa Corte... riconosce che la pandemia può richiedere modifiche temporanee e di emergenza al sistema di immigrazione per migliorare la sicurezza pubblica”, ha detto Gee. “Ma questa non è una scusa per il Dhs per eludere le protezioni umanitarie fondamentali che l’accordo di Flores garantisce ai minori sotto la loro custodia, specialmente quando non ci sono prove convincenti che l’albergo sia più sicuro delle strutture autorizzate”. Gli avvocati del governo hanno sollecitato il giudice a ritardare l’esecuzione della sua ordinanza durante l’udienza di venerdì sostenendo che il trasferimento sicuro dei bambini in nuove strutture richiederebbe tempo e coordinamento. Un portavoce delle forze dell’ordine e dell’immigrazione ha detto venerdì alla CNN via e-mail che l’agenzia “sta valutando la decisione del tribunale ma non è in grado di commentare ulteriormente a causa del contenzioso in corso”. Messico. Sono più di 75mila le persone scomparse, vittime senza giustizia di Vittoria Romanello Corriere della Sera, 5 settembre 2020 Il numero delle sparizioni è comunque sceso. Tra gennaio e giugno 2019 sono stati registrati 3.679 scomparsi, mentre per lo stesso periodo del 2020 sono stati segnalati 2.332 casi. L’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha appena celebrato la decisione del Senato della Repubblica messicana di riconoscere la competenza del Comitato contro il triste fenomeno della sparizione forzata, dei cosiddetti desaparecidos. Un chiaro messaggio della priorità che dovrebbe avere per tutte le autorità messicane questo terribile problema. I numeri dei desaparcidos e le fosse clandestine. Il ministro Alejandro Encinas Rodríguez ha sottolineato in una conferenza stampa lo scorso agosto che il numero delle sparizioni è fortemente sceso. Tra gennaio e giugno 2019 sono stati registrati 3.679 scomparsi, mentre per lo stesso periodo del 2020 sono stati segnalati 2.332 casi. Bisogna sempre considerare che non si tratta di cifre assolute in quanto vi sono sei Stati che non hanno forniscono tutti i dati. Da quando Andrés Manuel López Obrador ha assunto la presidenza, 63.523 persone sono scomparse. Di questi, 35mila 652 sono stati trovati e 27mila 871 persone ancora non sono state trovate: 33.327 furono trovati vivi e 2.352 morti. Per quanto riguarda le fosse clandestine, il ministro ha detto che dal dicembre 2006 ad oggi le tombe illegali sono 3.978, di cui 6.625 sono state riesumate. Un problema dimenticato per anni. Il governo messicano dopo questa decisione deve rispettare le molteplici raccomandazioni formulate da diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani, e che il riconoscimento della competenza del Comitato contro la sparizione forzata significa l’obbligo di ricevere ed esaminare tutte le denunce, e soprattutto aprire il cammino a una attenzione specializzata alle vittime per proteggere i loro diritti, lavorando per garantire la non ripetizione. Dal 2013 il Comitato delle Nazioni Unite contro le sparizioni forzate ha chiesto al Messico di effettuare una visita nel Paese per esaminare direttamente il problema dei desaparecidos, con l’intento di identificare le linee d’azione per proteggere i diritti delle persone. Un impegno preso il 30 agosto dal presidente Andrés Manuel López Obrador. Quegli undicimila in più. La cifra di 73mila 201 scomparsi rappresenta un aumento di oltre 11mila rispetto all’ultima volta che sono state offerte queste cifre, che era il 6 gennaio, quando il numero delle persone era stimato a 61mila 637. Questo non vuol dire che negli ultimi sette mesi siano scomparse 11mila persone, ma piuttosto che si è riusciti ad aggiungere al registro persone che fino ad ora non erano state inserite. Cifre che dimostrano l’importanza di questa nuova azione. All’unanimità, con 107 voti i senatori hanno approvato la dichiarazione inviata dal presidente Andrés Manuel López Obrador, un’azione appunto che era stata elusa nei sei anni di Enrique Peña Nieto, riluttante a invocare aiuti stranieri per combattere i suoi grandi mali. La Bolivia verso il voto tra diritti umani violati e il flagello pandemia di Christian Dalenz Il Dubbio, 5 settembre 2020 Oppositori pro-Morales arrestati e torturati. la denuncia di Amnesty. È stato un periodo caldissimo per la Bolivia nonostante il Paese, trovandosi nell’emisfero Sud, sia in realtà in pieno inverno. Il casus belli principale è stata l’ennesima posticipazione della data delle elezioni, ma non è l’unico motivo di tensione in un Paese che da novembre 2019, dopo le dimissioni di Evo Morales, si trova in una situazione di transizione che si sta prolungando più del dovuto. E all’interno della quale si sospetta che i diritti umani vengano sistematicamente violati. A partire da fine luglio movimenti sociali di tutto il Paese, con in testa la Central Obrera Boliviana (Centrale Operaia Boliviana, il principale e storico sindacato del Paese), hanno bloccato le autostrade in più di centopunti nevralgici allo scopo di protestare contro lo spostamento della data delle elezioni al 18 ottobre. La decisione era stata presa dal Tribunale Supremo Elettorale per via dell’acutizzarsi dell’epidemia da Sars- Cov2. È il quarto rinvio in un anno: inizialmente previste per il 3 maggio, per via dell’arrivo del coronavirus le elezioni erano state spostate prima al 2 agosto e poi ancora al 6 settembre. Quest’ultima data era stata mal digerita dalla presidente Jeanine Añez, che avrebbe preferito si andasse a novembre, ed era stata imposta dall’Assemblea Plurinazionale, ancora sotto il controllo del Mas guidato da Morales. Infine il posticipo al 18 ottobre, che la Cob e altri movimenti hanno avvertito come l’ennesimo tentativo da parte del governo in carica, al quale hanno anche richiesto le dimissioni, di rimanere al potere quanto più possibile. Sono seguite due settimane di altissima tensione, durante la quale si è temuto che i contagi, già in crescita, potessero aumentare senza alcun controllo, e che le necessarie risorse sanitarie non arrivassero a destinazione. Il governo ha accusato gli organizzatori della protesta, tra i quali ha voluto includere anche l’ex presidente Morales e l’attuale candidato del Mas alle presidenziali, Luis Arce (ora entrambi indagati per questo), di aver provocato il mancato arrivo di bombole di ossigeno negli ospedali boliviani e la conseguente morte di più di 30 persone. La risposta dei manifestanti, tutti di origine indigena o meticcia, è stata questa: l’ossigeno già scarseggiava nel Paese, ed inoltre ai posti di blocco era stato dato l’ordine di far passare tutto il materiale sanitario. Oltre ai simpatizzanti del Mas sono stati protagonisti dei blocchi anche quelli di Felipe Quispe, storico leader aymara che richiede da sempre la secessione della ex regione incaica del Kollasuyo dalla Bolivia (cosa che non ha mancato di fare anche questa volta) e a sua volta oppositore sia di Arce e Morales che di Añez. L’approvazione di una legge che fissa come improrogabile la data del 18 ottobre sembra aver ora calmato le acque. La presidente Jeanine Añez è in carica da quando Morales, accusato di aver organizzato una frode elettorale nel 2019, è stato costretto alle dimissioni e alla fuga. La si accusa da più parti di non essere in grado di garantire la pacificazione del Paese avendo tradito l’iniziale promessa di non candidarsi alle presidenziali del 2020 e dopo aver preso decisioni in politica estera secondo alcuni non confacenti ad un governo di sola transizione. Anche la sua gestione dell’epidemia è sotto attacco, visto anche il caso di corruzione riguardante la fornitura di ventilatori polmonari dall’estero acquistati con un prezzo fortemente maggiorato rispetto a quello di mercato. Ma soprattutto pendono sul suo governo pesanti accuse di violazione dei diritti umani a proposito delle quali, sempre tra luglio e agosto, sono usciti due report ad opera dell’Università di Harvard e di Amnesty International. I ricercatori dei due enti accusano Añez e i suoi ministri di aver tollerato uno spropositato uso della forza militare in occasione delle proteste contro il loro governo avvenute a Sacaba e Senkata nel novembre 2019. In tali occasioni si sono contati 23 morti e 230 feriti, che secondo l’esecutivo sarebbero da addebitarsi agli stessi manifestanti. Harvard e Amnesty riportano invece numerose testimonianze di partecipanti a quelli eventi secondo le quali l’esercito boliviano avrebbe sparato contro di loro “come fossero animali”, come tra l’altro titola il lavoro statunitense. Inoltre i due rapporti denunciano una forte limitazione della libertà di stampa, una persecuzione giudiziaria contro gli appartenenti al Mas e una ripresa della violenza razzista contro le persone di origine indigena che sembrava essersi calmata negli anni di Morales. Il rapporto di Amnesty, comunque, si sofferma anche sulle responsabilità del Mas nella violenza avvenuta durante questa crisi e negli anni ad essa precedenti. Entrambi gli enti, infine, raccomandano che il governo faccia accurate investigazioni su tutti questi fatti. Ma il ministero della Giustizia ha liquidato il rapporto di Harvard come “tendenzioso” e il principale quotidiano pro- governativo, El Deber, ha pubblicato un editoriale in cui denuncia una presunta faziosità di entrambi i report. I problemi che la Bolivia sta vivendo hanno radici molto profonde. Il Paese è da sempre in una “guerra civile latente”, come la descrive il giornalista Fernando Molina, tra le popolazioni indigene che si sentono sottomesse e le elíte bianche che si sentono depositarie uniche della ragione. Che ciò che ha spodestato Morales sia stato un colpo di Stato o piuttosto, sempre nelle parole di Molina, una “rivoluzione conservatrice”, l’ultima tensione non è stata che uno degli episodi di questo conflitto sempre sul punto di esplodere. Turchia. Aytaç Ünsal lascia “in pericolo di vita” le carceri del Sultano di Roberto Prinzi Il Manifesto, 5 settembre 2020 Libero dopo 213 giorni di sciopero della fame l’avvocato colpevole di difendere i militanti marxisti-leninisti considerati “terroristi” da Erdogan. Il primo pensiero a Ebru Timtik, la sua compagna di lotta che non ce l’ha fatta. Profondamente dimagrito su una sedia a rotelle, pallido come la mascherina che portava al volto. Eppure vivo e libero dopo 213 giorni di sciopero dalla fame. Avrà tirato per un attimo un sospiro di sollievo l’avvocato turco Aytaç Ünsal (32 anni) all’uscita dell’ospedale di Istanbul dove era ricoverato in gravi condizioni. Ma la gioia sarà durata poco perché il suo pensiero sarà subito andato alla collega e compagna di lotta Ebru Timtik che lo scorso 27 agosto è morta per la sua stessa battaglia. Corpi ridotti a lamiere di pelle eppure da anni così minacciosi per il regime del “Sultano” Erdogan. È nella forza di questi corpi deperiti che forse si nasconde la debolezza di un regime autoritario, che si mostra forte (soprattutto all’estero), ma che trema internamente per poche ossa che gridano giustizia. È quanto solo quest’anno ci hanno ricordato Ebru e, solo alcuni mesi fa, gli artisti Bolek e Gokcek del Grup Yorum e il loro sostenitore Kocak. Aytaç è stato rilasciato giovedì dalla Corte Suprema turca perché ha stabilito che “il prolungamento della detenzione avrebbe messo in pericolo la sua vita”. Solo con Aytaç se ne è accorta? Ma questa volta la sentenza del massimo tribunale giungeva nelle stesse ore in cui Erdogan incontrava il presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, Robert Stano. Solo coincidenza? Negli scorsi giorni i medici avevano lanciato l’allarme sul deterioramento delle condizioni di salute del detenuto. Aytaç come Ebru si trovava in carcere dal 12 settembre 2018. Accusato da un testimone anonimo di appartenere “all’organizzazione terroristica” marxista-leninista Dhkp-C, era stato condannato a 10 anni e 6 mesi di carcere (13 e mezzo per la sua collega). A salire insieme a loro sul banco degli imputati con lo stesso capo d’accusa però ci sono anche altri 16 colleghi (tutti membri dell’Associazione degli Avvocati progressisti) le cui condanne sommate arrivano a 159 anni di carcere. Processi politici dove a trionfare non è il diritto, ma la punizione del dissidente. E Aytaç, come Ebru, lo è perché la sua azione si oppone al disegno economico e politico voluto dal governo islamista dell’Akp. In difesa sempre degli ultimi, dalla parte di quella società civile vista tout court dal Sultano come “nemica”, soprattutto dopo il golpe fallito del 2016. Un’ostilità che Erdogan ha reso palese questa settimana quando, di fronte all’immagine di Ebru Timtik appesa fuori la sede dell’Ordine degli Avvocati di Istanbul, ha tuonato: “Un avvocato che difende terroristi non dovrebbe essere un avvocato”, chiedendo l’espulsione di quelli che hanno legami con il “terrorismo”. “La scarcerazione di Ünsal è una vittoria della mobilitazione della società civile - ha dichiarato l’eurodeputato Giuliano Pisapia, in passato difensore del leader curdo Ocalan. La mobilitazione per la tutela dei diritti umani in Turchia non deve cessare malgrado l’assordante silenzio anche di diversi Paesi europei”. A partire da quelli dell’Unione europea come al solito attenta a non disturbare troppo Erdogan. Ieri però il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha esortato Ankara ad assicurare l’immediato rilascio del difensore dei diritti umani Mehmet Osman Kavala, sospettato di tentato rovesciamento del governo. Lo scorso dicembre la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva stabilito che il suo arresto e la sua detenzione erano avvenuti in assenza di prove sufficienti e in violazione del suo diritto alla libertà. La strana successione di avvenimenti in Turchia getta ombre sulla Cedu di Adriano Sofri Il Foglio, 5 settembre 2020 Torno sulla questione turca, che è singolarmente diventata questione del Diritto europeo e internazionale per la combinazione fra la morte di Ebru Timtik, l’avvocata curda detenuta dopo 8 mesi di digiuno, la sentenza della Cedu che ha rigettato l’istanza di scarcerazione per Aytaç Ünsal, suo compagno di lotta, giovane avvocato anche lui detenuto e in sciopero della fame da 213 giorni, la visita ufficiale del presidente della Cedu, Róbert Ragnar Spanó, in Turchia, e la decisione della Cassazione turca di liberare provvisoriamente Ünsal “per ragioni di salute”, fino a che non si rimetta abbastanza da tornare in cella. La sentenza avversa al ricorso dei difensori di Ünsal aveva suscitato sconcerto e costernazione, poiché era arrivata a sostenere che non fosse in pericolo imminente di vita un uomo ridotto agli stremi, determinato a morirne, risoluto a rifiutare l’alimentazione forzata. Tanto più che la sentenza ripeteva quella della Corte suprema turca su Timtik, che l’ha contraddetta inesorabilmente, morendo. Spanó, 48 anni, islandese di padre italiano, napoletano, ha un curriculum prestigioso; del resto non so se e quanto il presidente eserciti un peso in ogni procedimento trattato dalla Corte di Strasburgo. Ma la sequenza - due soli giorni - fra sentenza Cedu, arrivo di Spanó in Turchia, e la sentenza urgente della Corte costituzionale di liberazione per motivi di salute di Ünsal, solleva interrogativi incresciosi. Spanó giovedì ha appunto incontrato per primi, per 45 minuti, a porte chiuse, Recep Tayyip Erdogan e il ministro della Giustizia Abdulhamit Gül, e poi il presidente della Corte costituzionale. La liberazione di Ünsal è stata un grazioso omaggio all’ospite? Provvidenziale, certo, per chi speri nella vita di Ünsal, benché i giudici non si siano pronunciati sul processo giusto che rivendica e rivendicava Timtik. La visita di Spanó durerà quattro giorni. Nel primo ha sollevato il problema dell’inosservanza plateale della Turchia nei confronti delle sentenze della Corte dei Diritti dell’Uomo e raccomandato l’indipendenza dei giudici. Non ha fatto cenno alla condizione degli avvocati. Ha confermato di accettare la laurea honoris causa dell’università statale di Istanbul, responsabile dopo il 2016 dell’epurazione di 193 docenti, compresi i più autorevoli. Fra loro l’illustre giornalista e accademico Mehmet Altan, incarcerato per due anni e poi scagionato senza essere reintegrato nel suo posto di docente, come migliaia di suoi colleghi. Sono 6 mila i docenti espulsi dalle università in quattro anni. Altan aveva indirizzato una lettera aperta al presidente Spanó, chiedendogli di rinunciare alla imbarazzante e frivola cerimonia della laurea - senza precedenti, oltretutto, per un giudice internazionale. Altan ha anche evocato la carcerazione di suo fratello Ahmet, da ormai quattro anni, al cui ricorso la stessa Cedu ha assegnato una priorità, senza tuttavia arrivare a trattarlo. Ieri è stato il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa a chiedere la scarcerazione immediata del famoso difensore dei diritti umani e imprenditore, Mehmet Osman Kavala, prigioniero da tre anni, più volte assolto e sempre imputato di nuovi reati. Proprio una sentenza della Cedu, nel dicembre 2019, aveva dichiarato che la sua reclusione era “priva di prove sufficienti”, violava il suo “diritto alla libertà e sicurezza stabilito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo” e mirava a “metterlo a tacere e intimidire altri difensori dei diritti umani”. Kavala aspetta dal 4 maggio scorso che la Corte costituzionale si pronunci sul suo ricorso. Kavala ha presentato ricorso alla Corte costituzionale turca all’inizio di maggio. Anche qui, non sono in grado di valutare se il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa abbia voluto intervenire nella congiuntura così delicata, interferendo in sostanza con l’ambito di competenza della Cedu. Sta di fatto che ha chiesto alla Turchia di formulare entro l’11 novembre un programma che “definisca le misure generali da adottare per prevenire in futuro analoghe violazioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. Si ricorderà che anche il leader dell’Hdp, Partito democratico del popolo, Selahattin Demirta, è in carcere nonostante le sentenze opposte della Cedu, e con lui molti suoi compagni e compagne, già parlamentari e sindaci e sindache. Quando scrivo, non so che cosa Spanó abbia detto all’università che lo incorona laureato. Magari avrà pronunciato un’arringa memorabile per limpidità e coraggio - il coraggio di dire le cose giuste. Me lo auguro. La reputazione della Cedu è preziosa. Ho una postilla da aggiungere. La situazione nel Mediterraneo orientale ricorda stranamente a un vecchio scolaro l’incubo del capitolo sulla “Questione d’Oriente”. Il conflitto fra Grecia e Turchia gioca sull’orlo del confronto militare, fra due paesi formalmente nella Nato, uno dei quali è membro dell’Unione, l’altro è la madrepatria di milioni di turchi in Germania. La “Questione d’Oriente” era anche la questione russa, a suo modo lo è ancora, quando l’Europa deve chiedere conto a Putin degli oppositori liquidati col veleno in patria e fuori. Che il Mediterraneo ridiventi un mare di Guerra fredda, dopo essere diventato un cimitero di migranti e un banco di grossi e piccoli pegni di statisti e scafisti è un altro brutto scherzo della storia. Brasile. Che cosa sono le Apac, le carceri dove i detenuti hanno le chiavi delle celle di Antonio Lamorte Il Riformista, 5 settembre 2020 Che cosa sono le Apac, le carceri dove i detenuti hanno le chiavi delle celle. Il modello di detenzione delle Apac è riconosciuto tra i più riusciti al mondo. Per l’Onu rappresenta il più efficace sistema di recupero in assoluto. L’acronimo sta per Associazione di Protezione e Assistenza ai Condannati. Prigioni senza armi, guardie e dove i prigionieri hanno le chiavi delle celle e si occupano della sicurezza. Le Apac sono nate negli anni ‘80 e sono diffuse il 12 Paesi. In Italia ce ne sono due riconosciute a Rimini e altre sei in via di riconoscimento tra Rimini, Vasto, Termoli, Bocceda, Forlì e Piasco. In Brasile, dove sono nate, se ne contano una cinquantina e ospitano circa tremila detenuti. A convincere è il bassissimo tasso di recidiva tra le persone che vi hanno scontato una pena: 15% a fronte di un tasso dell’85% dei comuni istituti brasiliani. Le Apac abbattono anche i costi per lo Stato: il costo di mantenimento di ogni detenuto è di un terzo di quello nei carceri tradizionali. A fondarle l’avvocato Mario Ottoboni. La sua eredità è stata raccolta Valdeci Antonio Ferreira, ex braccio destro di Ottoboni, che a La Lettura ha raccontato: “Se c’è qualcosa che impressiona chiunque entri nelle prigioni tradizionali è l’odore. Per anni ho cercato di decifrarlo, è un misto di fogna, sigaretta, droga, muffa. Ti si impregna nei vestiti, sulla pelle, nelle narici. Poi mi è stato più chiaro: è l’odore di persone che stanno imputridendo nell’anima. Nelle Apac quell’odore non c’è”. Per accedere alle Apac i detenuti devono essere condannati definitivamente e devono aver scontato almeno un anno in un carcere comune per buona condotta. La richiesta di ammissione si presenta in via scritta. Nella stessa va espresso esplicitamente l’impegno a rispettare le regole della struttura e quindi compiti come il controllo a vicenda e i turni nelle celle di notte. Il condannato quindi riconosce il proprio errore. Altra condizione essenziale: la famiglia deve vivere vicino all’istituto poiché entrerà a far parte del programma. “Molti fanno richiesta con l’idea di preparare la fuga, ma qui ci ripensano”, ha detto a La Lettura Luiz Carlos, giudice responsabile delle politiche penitenziarie del Minais Gerais. I detenuti lavorano, studiano o partecipano a laboratori e corsi di formazione, altrimenti vengono espulsi. Le giornate sono divise tra preghiera, lavoro e studio. Ogni persona è sottoposta a un determinato regime a seconda del reato: chiuso, semi aperto e aperto. I carcerati indossano vestiti, non uniformi, cucinano e sono liberi di muoversi tra le celle. Solo quelli destinati al regime chiuso vengono serrati a chiave. Principio cardine è quello di responsabilizzazione: le chiavi sono affidate ai recuperando che hanno completato il percorso riabilitativo. Questi sono incaricati di gestire le celle e monitorare il comportamento dei compagni. Cile. Detenuti mapuche, stop al “sacrificio” di Claudia Fanti Il Manifesto, 5 settembre 2020 Convinti da famigiari e avvocati, dopo 123 giorni di sciopero della fame, per l’intransigenza del governo Piñera. Il governo Piñera può sentirsi soddisfatto. La sua intransigenza ha pagato. Gli otto prigionieri politici mapuche del carcere di Angol, ormai allo stremo, hanno interrotto giovedì lo sciopero della fame che portavano avanti da 123 giorni, il più lungo della storia del loro popolo. A convincerli sono stati i familiari e gli avvocati, preoccupati per il loro stato di salute, sempre più critico dopo la rinuncia anche ad assumere liquidi. “Abbiamo chiesto ai compagni di porre fine a questo sacrificio”, ha spiegato il portavoce Rodrigo Curipán, denunciando la mancanza di disponibilità del governo a negoziare, ma rifiutandosi di parlare di sconfitta. Saranno le autorità governative, ha aggiunto, ad assumersi “la responsabilità di tutto ciò che potrà avvenire d’ora in avanti”. Si attende adesso la decisione che prenderanno gli altri detenuti che hanno iniziato più tardi lo sciopero della fame (da circa 60 giorni), a cominciare dai 12 del carcere di Lebu, che lunedì, senza alcun avviso né al tribunale, né ai familiari o agli avvocati, sono stati trasferiti con la violenza prima al lontano ospedale “Los Angeles”, e poi, da lì, a un altro carcere, quello di El Manzano. E ciò senza alcun riguardo per il loro delicato stato di salute, malgrado alcuni di loro facessero fatica persino a muoversi. Che per il governo si tratti in ogni caso di una vittoria di Pirro non ci sono dubbi. La sua inflessibilità nei confronti dei prigionieri politici e delle loro rivendicazioni - l’applicazione concreta della Convenzione 169 dell’Oil sui popoli indigeni, peraltro già ratificata dallo Stato cileno - non ha infatti certo contribuito a migliorarne l’immagine, soprattutto a fronte dell’estrema cedevolezza mostrata dinanzi allo sciopero condotto dai camionisti per esigere la rapida approvazione dei progetti di legge repressivi presentanti da Piñera durante le proteste dei mesi scorsi. Uno sciopero che ha potuto contare sulla benevola vigilanza dei carabineros - i quali, al contrario, non hanno esitato a reprimere qualsiasi contro-manifestazione - e che si è concluso con un bel pacchetto di misure concesse dal governo, accompagnato dalle pressioni di Piñera sul Parlamento affinché vengano approvati al più presto i provvedimenti repressivi sollecitati dai camionisti. Alle critiche di chi ha contestato l’eclatante differenza di trattamento, il ministro dell’Interno, il pinochetista Víctor Pérez, ha risposto ponendo l’accento sul carattere “totalmente pacifico” della protesta dei camionisti, che per sei giorni hanno bloccato le strade e l’accesso ai porti di Valparaíso e San Antonio in piena pandemia e recessione: “nulla giustificava il ricorso alla legge di sicurezza interna dello Stato, in quanto la sicurezza dello Stato non era in pericolo”. Come se invece la pacifica manifestazione promossa il 28 agosto in Plaza Dignidad a favore dei prigionieri mapuche e non mapuche, immediatamente repressa dalle forze dell’ordine, potesse rappresentare una minaccia alla sicurezza interna.