Carcere di Padova, un giornale e un sito scritto da detenuti di Davide Madeddu Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2020 Punta a far capire l’importanza della responsabilità. E cerca sempre confronto ed equilibrio. Da 23 anni Ornella Favero è una “voce importante” del mondo delle carceri. Il ponte che unisce il “mondo ristretto” a quello libero. Giornalista, fondatrice e direttrice di Ristretti Orizzonti, oggi è anche responsabile della Conferenza nazionale volontariato e giustizia. Base operativa al carcere “Due Palazzi” di Padova, il suo lavoro da volontaria gira attorno alla mediazione, che non significa buonismo gratuito. “Dentro ci sono persone che hanno sbagliato e che hanno fatto del male agli altri - dice - quindi devono capire e assumersi certe responsabilità”. Perché, chiarisce con convinzione, “non credo all’idea che esistano i cattivi per sempre che non cambieranno mai”. Regole da rispettare. Questo uno dei punti di forza che dal 1997 caratterizza il suo operato. “Abbiamo iniziato con un progetto di comunicazione proprio con il carcere ‘Due Palazzi’ - racconta - l’idea è stata da subito quella di fare una informazione il più possibile onesta, con un gruppo di persone detenute che volevano accettare la sfida di raccontare in modo critico pezzi della propria vita, e così è nato il giornale. Poi il sito. In tutto questo cammino ho sempre cercato di fare una comunicazione di qualità”. Un viaggio comunque non facile giacché “pensare di fare informazione e un giornale con chi le regole non le ha mai rispettate è stata un’impresa difficilissima. Era ed è necessario essere equilibrati, non usare il giornale come uno sfogatoio. Diciamo pure che è stata un’impresa importante”. È il ponte con il “mondo di fuori”. “C’era una persona detenuta che aveva molta voglia di imparare a usare le nuove tecnologie. Quando è andata in semilibertà abbiamo iniziato con la newsletter e costruito una vera e propria rete”. Tra “fuori e dentro” oggi ad animare Ristretti orizzonti c’è una redazione con una trentina di persone cui si aggiungono altri gruppi di detenuti e uno sportello che offre assistenza alle persone recluse. La newsletter, che conta più di diecimila destinatari, così come l’archivio è diventata un punto di riferimento sia per detenuti e familiari ma anche per addetti ai lavori. “Ci siamo ritagliati uno spazio importante - aggiunge - fuori abbiamo una piccola redazione composta da chi è in misura alternativa, messi alla prova, pubblica utilità e ex detenuti. E 4 ex detenuti lavorano con regolare contratto”. Nel mondo di Ristretti Orizzonti, che vive grazie alle “libere donazioni” e ai progetti sostenuti dagli Enti locali (Comune e Regione), c’è poco spazio per i social. “Viaggiano troppo sull’onda emozionale - conclude Ornella Favero - noi abbiamo bisogno di equilibrio e mediazione”. E concretezza. Crescono le morti in carcere. Il Garante: si faccia chiarezza di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 4 settembre 2020 È allarme per l’aumento dei suicidi in cella: dall’inizio dell’anno sono già 43, 11 in più rispetto a un anno fa. Palma: accertamenti sui casi di detenuti che hanno perso la vita durante le proteste di marzo. Roberto E., detenuto nel carcere palermitano di Pagliarelli, aveva 45 anni ed era dietro le sbarre da pochi giorni per una vicenda di maltrattamenti. Lo scorso 20 agosto la sofferenza e l’angoscia che lo rodevano dentro lo hanno spinto a togliersi la vita, impiccandosi con le lenzuola mentre il compagno di cella era fuori. Due giorni dopo, nello stesso istituto, una poliziotta penitenziaria si è uccisa inalando del gas. E qualche giorno prima, a suicidarsi era stato un altro detenuto. Tre casi in pochi giorni, che hanno fatto salire l’allarme per l’aumento dei suicidi nelle carceri italiane. Dall’inizio dell’anno, sono già 43, oltre una decina in più rispetto ai 32 registrati nel medesimo periodo del 2019. Non solo: quasi il 25% dei casi, ossia una decina di suicidi, riguarda detenuti che, come il siciliano Roberto E, si sono tolti la vita a brevissima distanza dall’ingresso in carcere, perfino il giorno stesso. A evidenziare la drammaticità dei dati e a chiedere più attenzione su questa emergenza è l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà, presieduto da Mauro Palma e composto anche da Daniela de Robert ed Emilia Rossi, che ieri in una conferenza stampa ha fatto il punto su diverse situazioni. Rivolte, il giallo delle vittime. Inoltre, il garante chiede “accertamenti sulle morti dei detenuti” durante le rivolte nelle carceri dei mesi scorsi, in particolare sui decessi conseguenti a trasferimenti immediati dal penitenziario di Modena ad altri istituti. “In alcuni casi - fa notare Palma - le persone sono morte all’arrivo o il giorno dopo. Bisogna capire se fossero trasportabili e se ci sia stato un accertamento medico”. Il Garante sta seguendo quelle indagini, con la nomina di un proprio perito e di un difensore. E la situazione resta rovente in molti istituti: l’altro ieri, a Benevento, 5 agenti sono stati feriti. E il presidente del sindacato penitenziario Uspp, Giuseppe Moretti, denuncia: “È ormai diventato un bollettino di guerra l’elenco delle aggressioni giornaliere in danno della Polizia penitenziaria. Cosa aspetta il premier Giuseppe Conte a dichiarare lo stato d’emergenza nelle carceri?”. Covid, pochi casi. Secondo i dati di Palma, il carcere ha retto all’emergenza coronavirus: attualmente sarebbero solo 11 i detenuti positivi, più 7 operatori. Da marzo, “sono state 290 le persone complessivamente positive, 34 con gestione ospedaliera, gli altri carceraria. I decessi sono stati 4, tutti “con patologie precedenti, formalmente detenute, ma da tempo in ospedale”. L’altro aspetto da segnalare è “l’esperienza di questi mesi dell’utilizzo degli smartphone e della possibilità di comunicare con i familiari in una modalità diversa dai colloqui in presenza” risultata “positiva”. Migranti nei centri. Attualmente sono 84.557 gli immigrati ospitati in strutture italiane, fra cui 59.900 in centri di accoglienza. “È sbagliato ammassarli e quindi è positivo che il governo voglia intervenire in questa direzione - osserva il Garante -. La situazione è particolarmente grave soprattutto negli hotspot. Perciò ritengo l’ipotesi di usare le navi-quarantena positiva, perché le persone sono maggiormente tutelate lì a livello sanitario, piuttosto che negli hotspot”. Il caso delle Rsa. Altra questione rilevante è quella delle “Rsa, le residenze per anziani che sono circa 4.600 e ospitano una platea di 90mila persone “. Secondo Palma, da quando “è scattata la chiusura durante il Covid a tutela degli ospiti, sono diventate di fatto luoghi di privazione della libertà personale”. La fase 2 nelle Rsa, lamenta, “non può significare vedere il proprio parente solo attraverso un vetra Per molti disabili il contatto diretto è essenziale, altrimenti c’è un arretramento cognitivo che fa perdere anni di lavoro”. Così Palma ha scritto ai presidenti della Regioni: “Alcuni hanno risposto, altri no. Ma il ministero della Salute ha accolto la nostra proposta di mettere all’ordine del giorno la questione”. Ieri infine è arrivato il via libera dell’Istituto superiore di sanità (Iss) alla riapertura delle visite per i parenti dei pazienti e per la ripresa in sicurezza delle attività di gruppo all’interno delle strutture. La bufala dei boss in libertà: “Solo uno è a casa perché è malato terminale” di Errico Novi Il Dubbio, 4 settembre 2020 Non ci sono “boss” in libertà “causa Covid”. Ai domiciliari ne è rimasto solo uno ma, come sancisce la sentenza di un giudice, perché malato terminale e non per dare ordini agli affiliati. Di fatto è una bufala. Non ci sono “boss” in libertà “causa covid”. Ai domiciliari ne è rimasto solo uno ma, come sancisce la sentenza di un giudice, perché malato terminale e non per dare ordini agli affiliati. Poi ci sono altri 111 detenuti per mafia e droga che, come riportato ieri da Repubblica, il Dap annovera tra chi, in virtù (anche) dell’epidemia, beneficia tuttora della “detenzione domiciliare come soluzione surrogatoria del differimento pena per gravi motivi di salute”, come si definisce in diritto. Ma appunto, si tratta dell’applicazione di un principio costituzionale. È proprio lo speciale pubblicato ieri mattina da uno dei due maggiori quotidiani a innescare l’ennesimoccorto circuito mediatico sulle scarcerazioni da coronavirus. Il titolo di Repubblica fa una sintesi estrema: “La beffa dei boss mafiosi scarcerati per il virus: la metà è ancora a casa”. Pochissimi, forse solo i deputati 5 Stelle della commissione Giustizia, hanno il decoro di leggere l’intero articolo. Né di riflettere su cosa c’è dietro le statistiche: i reclusi per mafia e droga non sono miracolati da Bonafede, ma riconosciuti dalle ordinanze dei giudici di sorveglianza come malati di cancro, leucemie, gravi insufficienze cardiorespiratorie, in alcuni casi non in grado di deambulare, come è possibile verificare dagli articoli firmati sul Dubbio da Damiano Aliprandi negli ultimi 6 mesi. Eppure parte l’attacco al ministro Bonafede che, scrive ancora il quotidiano diretto da Maurizio Molinari, avrebbe “provocato un pasticcio”, e assicurato ai capimafia “un inatteso regalo”. A raccogliere l’assist è soprattutto Fratelli d’Italia, la cui leader Giorgia Meloni sfotte il guardasigilli: “Non era il sommo scarceratore?”. Persino Anna Bernini di Forza Italia arriva alla seguente iperbole: “Metà dei boss scarcerati per il lockdown non sono mai rientrati in carcere nonostante un decreto stabilisse il contrario”. Poteva un decreto, di per sé, ordinare la revoca di un’ordinanza di concessione dei domiciliari? Ovviamente no, come si vede costretto a ricordare Bonafede in un post su facebook: “Dopo le note scarcerazioni, decise dalla magistratura in piena autonomia e indipendenza nel bel mezzo della pandemia, su mia iniziativa il governo ha approvato due decreti, che hanno imposto di rivalutare, col parere obbligatorio delle direzioni distrettuali antimafia, la posizione di tutti i detenuti per reati gravi posti ai domiciliari. In base a quanto previsto”, aggiunge il guardasigilli, “i detenuti (posti ai domiciliari, tengo a ribadirlo, in forza di un provvedimento giudiziario) sono tornati davanti a un giudice, che ha preso le sue decisioni, ovviamente in assoluta autonomia”. Un guazzabuglio pazzesco in cui nessuno considera la notizia comunque riportata con correttezza da Repubblica: “La prima novità che balza all’evidenza è nel numero di 223 scarcerati per rischio covid”. Il 14 maggio proprio il ministro, in commissione Giustizia, aveva parlato invece di “498 scarcerati fra alta sorveglianza e 41 bis”, esattamente 494 più appena 4 al regime speciale. Di questi, in realtà, 275 avevano ottenuto sì i domiciliari per ragioni di salute o per benefici di legge nel pieno della pandemia, ma nel loro caso il covid non aveva avuto alcun peso. Nessun rilievo aveva assunto, per oltre la metà dell’orda criminale spacciata a piede libero da gran parte dei media, la ormai famigerata circolare con cui il Dap allora guidato da Francesco Basentini aveva segnalato ai Tribunali di Sorveglianza i suggerimenti dell’Oms sulle connessioni fra coronavirus e alcune patologie, e che suggerivano dunque ai magistrati di adottare la detenzione domiciliare. Nonostante il dato riportato da Repubblica provenga dalla più ufficiale, l’amministrazione penitenziaria del ministero guidato da Bonafede, nessuno dei castigamatti meloniani o leghisti ritiene di farvi riferimento. Eppure è una novità gigantesca. Nella sua replica il ministro la spiega così: “Come per tutti i provvedimenti in materia di giustizia, ho già avviato uno stretto monitoraggio per verificare l’applicazione dei due decreti antimafia”. E in effetti è stato proprio lo screening chiesto dal ministro al nuovo capo del dap Dino Petralia e al suo vice Roberto Tartaglia a chiarire che dei 494 detenuti in alta sicurezza e dei 4 al 41 bis andati ai domiciliari in primavera, 275 avevano ottenuto il beneficio per “cause diverse e indipendenti dalla pandemia”, incluse “motivazioni sanitarie pregresse del tutto distinte dal rischio covid”. Anche qui la notizia era stata anticipata da Aliprandi sul Dubbio in articoli dei mesi scorsi. In quello del 12 maggio si riportava il dato di “370 detenuti” che “per la stragrande maggioranza” erano “andanti in detenzione domiciliare (se definitivi) o agli arresti domiciliari (se in attesa di giudizio) non per il covid ma per le loro gravi patologie”. È evidente come anche tra i 112 attualmente in detenzione domestica esista una quota non marginale di reclusi per i quali il rischio covid è stato sì considerato dal giudice, ma che sarebbero stati comunque scarcerati. Si risolve così anche il quesito posto dall’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone, della Lega: come mai “112 boss sono rimasti tranquillamente al proprio domicilio, nonostante l’emergenza sanitaria sia ormai ininfluente” ? Perché non sono a casa solo per il covid, appunto. Ma a chiudere il cerchio dei paradossi è il presidente dell’Autorità garante dei detenuti Mauro Palma. In conferenza stampa risponde così sulla tempesta del giorno: “Di persona detenuta al 41 bis attualmente ancora ai domiciliari ce n’è una sola”. Palma fa così giustizia delle bordate: i boss, cioè i capi, se riconosciuti davvero tali dalle sentenze, sono al 41 bis. Tra i 223 (non 498) scarcerati per ragioni connesse anche al covid, c’erano solo 4 “boss”. Oggi, solo uno. Almeno, negli attacchi al ministro andava evitato il plurale. “La Repubblica” e quella voglia matta di manette di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 settembre 2020 Il quotidiano ha cambiato direttore, ma non pelle e se ne frega della Costituzione. Il Paese è nel caos, la scuola non si sa se apre o meno e loro se la prendono con persone, sì persone, vecchie e malate. Si sente beffata, la Repubblica di Manettopoli, perché non tutti i detenuti anziani e malati mandati ai domiciliari a causa del virus sono stati ancora sbattuti di nuovo in galera. Centoundici tornati dentro, ma 112 rimasti a casa. A curarsi, ohibò! “Il carcere provvisorio dei boss”, lamenta un seccatissimo Attilio Bolzoni, il quale pare non sopportare l’esistenza dei giudici di sorveglianza e la loro “interpretazione o forzata applicazione delle leggi”. E caspita, sembra suggerire, fatevele leggere e interpretare da uno come Davigo le leggi, se no rischiate di sembrare tutti dei Corrado Carnevale, degli “ammazzasentenze”. Insaziabili, con una grande fame e sete di persecuzione, di manette, forse di pena di morte. Il fantasma che si aggira per l’Italia, che penetra nei tribunali, nelle redazioni dei giornali e in qualche segreteria di partito non è un progetto o una richiesta di giustizia, ma al contrario, voglia di vendetta, di rancore, di fargliela pagare. Tocca alla Repubblica di Maurizio Molinari, oggi, il quotidiano che ha cambiato direttore ma non redazione, che è sempre rimasta quella delle dieci domande a Berlusconi. Quella dei moralisti solo sulla vita degli altri. Se la prendono, da vigliacchi, con un soggetto debole, il detenuto. Loro lo chiamano mafioso, noi prigioniero. Perché chi è privato della libertà, sia che stia in un carcere, sia che venga rinchiuso in un ospedale, una comunità o anche la propria casa, è pur sempre una persona soffocata dalla mancanza di aria. Un prigioniero. A volte anche mafioso, ma sempre prigioniero. Si rassegni Marco Travaglio. Lui ci prova ogni giorno nel suo piccolo, a convincerci che ogni persona incarna in sé il peccato, come a dire il reato. Ma è sempre piccolo e solo. Ma quando si muove la Repubblica di Manettopoli, sfonda alla grande. E trova subito la possibilità di contagiare tutto il mondo dell’informazione. Lo stiamo già vedendo. E già immaginiamo la prima puntata della prossima trasmissione di Giletti, con tutte le Dda-dadaumpa schierate a gridare “in vinculis, in vinculis!”. Fossimo nei panni (ma, più che difficile, sarebbe impossibile come somigliare a una delle gemelle Kessler) del ministro Bonafede, qualche brividino lo avvertiremmo. Perché il titolo principale in prima pagina del quotidiano di ieri (“Metà dei boss ancora a casa”), sparato a freddo mentre gli altri parlano dei problemi della scuola, delle elezioni e anche della positività al virus di Silvio Berlusconi, non è solo una pallottola, è una mitragliata di kalashnikov dritta nella sua schiena. E infatti il ministro subito la piega e promette nuovi controlli, mentre le opposizioni chiedono le dimissioni. È paradossale che ci tocchi difenderlo, questo guardasigilli che pare un alieno, quanto meno perché, quando è scoppiata la pandemia, si è posto il problema delle carceri e del loro perenne pericoloso sovraffollamento. Ancora più di 61.000 detenuti in luogo dei 50.000 previsti dalla capienza degli istituti di pena. E impossibilità di applicare le regole del distanziamento in celle in cui i corpi non possono che stare uno addosso all’altro. E almeno due iniziative, una del governo, l’altra interna al ministero di giustizia, che hanno riguardato la vita nelle prigioni, parevano andare nella direzione giusta. La prima era quella dell’articolo 123 del decreto Cura Italia, con la previsione della possibilità che la pena detentiva non superiore a diciotto mesi (o la coda finale di una più lunga) si potesse scontare al domicilio. Nobile intenzione, poi in parte arenata dalla mancanza di braccialetti elettronici, cui hanno supplito alcuni magistrati intelligenti che hanno applicato la norma anche senza braccialetti. Il secondo intervento, in linea con l’esigenza di evitare il più possibile una probabile diffusione del virus in luoghi chiusi e stretti come le carceri, è la famosa circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) che tanto rumore ha seminato nel mondo della Repubblica di Manettopoli. Che cosa recitava di scandaloso la direttiva? Chiedeva ai direttori delle carceri di segnalare all’autorità giudiziaria i casi di ultrasettantenni o portatori di gravi patologie, allo scopo di applicare il differimento della pena, indipendentemente dal reato e dal numero di anni da scontare. I giudici e i tribunali di sorveglianza hanno applicato. Con scrupolo, accogliendo o rigettando le richieste che arrivavano dai difensori dei detenuti. Qualcuno è andato (provvisoriamente) a casa, altri no. Ma è scoppiato comunque l’inferno, schiuma alla bocca e penne intinte nelle biografie dei peggiori tagliagole della storia. Solita identificazione della persona con il suo reato, per cui il carcerato vecchio e malato, se è anche mafioso, perde il diritto a essere vecchio e malato. Si sparano numeri sempre più alti, con titoli sempre più scandalistici, istigando l’opinione pubblica a crocifiggere i giudici di sorveglianza quasi fossero dei complici dei mafiosi. Tre di loro si videro persino costretti a chiedere al Csm l’apertura di una pratica a tutela, di cui non si è più saputo niente, in tempi di Palamara. La Repubblica di Manettopoli a un certo punto aveva persino sparato (sempre parole come pallottole): “I 376 boss scarcerati. Ecco la lista riservata che allarma le procure”. E giù elenchi e liste, con nomi cognomi indirizzi. E mancavano solo le impronte digitali. Salvo poi scoprire che, di questi “boss”, solo tre erano detenuti con il regime più impermeabile, cioè quello previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario e riservato alle persone, proprio come i capimafia, ritenute più pericolose. Ma poi chi erano questi 376? Siamo sicuri che le misure alternative fossero state applicate tutte in seguito alla circolare del Dap e non per altri motivi? Va anche detto che, di tutte queste centinaia di “boss” che hanno ottenuto nei mesi scorsi il differimento di pena e la possibilità di scontarne una parte al domicilio, non risulta che nessuno si sia dato alla latitanza, che sia scappato. Per controllare meglio il territorio, diranno sicuramente coloro che non credono nei principi della Costituzione, nel diritto alla salute e al recupero del detenuto. Resta il fatto che, pur dopo la controriforma che, un mese dopo la circolare del 21 marzo, impose alla magistratura di sorveglianza vincoli maggiori (tra cui la consultazione del procuratore nazionale antimafia) sulle proprie decisioni, tutti quelli che poi torneranno in carcere furono trovati a casa e nel proprio letto. E neanche la defenestrazione dell’ex capo del Dap Basentini e l’arrivo al vertice del dipartimento di due procuratori antimafia della Dda e il dimezzamento dei provvedimenti di differimento pena, ancora soddisfa l’ingordigia della Repubblica di Manettopoli. Ma si, arrestateci tutti. Anzi, rompete l’ipocrisia e abbiate il coraggio di chiedere che si introduca di nuovo la pena di morte. Tanto la tortura c’è già, come dimostrano i casi dei due avvocati calabresi Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo. “Boss scarcerati”, l’opposizione contro il ministro Bonafede Il Gazzettino, 4 settembre 2020 L’opposizione di centro-destra torna ad attaccare il ministro della Giustizia per la vicenda delle scarcerazioni di boss per ragioni di salute legate all’emergenza Coronavirus, con tanto di richiesta di dimissioni. Stavolta la polemica si incentra sui dati dei detenuti in alta sicurezza o al 41 bis rimasti in detenzione domiciliare, anche dopo i due decreti varati a maggio dal governo per arginare questo fenomeno. Sono 112 in tutto e tra loro ci sono mafiosi e trafficanti di droga, scrive il quotidiano la Repubblica. Altri 111, i più pericolosi, sono invece tornati dietro le sbarre proprio per effetto di quei provvedimenti che hanno imposto alla magistratura di rivalutare le proprie decisioni alla luce del mutato quadro dell’emergenza Covid 19. Quelle scarcerazioni sono state “decise dalla magistratura in piena autonomia e indipendenza nel bel mezzo della pandemia”, replica Alfonso Bonafede, annunciando di aver “già avviato uno stretto monitoraggio per verificare l’applicazione dei due decreti antimafia”. Si tratta di una polemica strumentale, reagiscono M5S e Pd. Sulla stessa linea si schiera il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma: “Di persona detenuta al 41 bis attualmente ancora ai domiciliari ce n’è una sola”, dice riferendosi al caso del boss della camorra Pasquale Zagaria e invitando tutti a rispettare le decisioni della magistratura. A chiedere a Bonafede di lasciare è innanzitutto Fratelli d’Italia: “È scandaloso che 112 mafiosi e narcotrafficanti scarcerati durante il lockdown non siano mai tornati dietro le sbarre e si trovino ancora ai domiciliari. Il sommo scarceratore di boss Bonafede aveva giurato che dopo averli liberati li avrebbe riportati uno ad uno in galera, ma era una colossale menzogna e ora si dimetta”, attacca Giorgia Meloni. Richiesta ribadita dal capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida, che parla di uno schiaffo a “chi quotidianamente combatte la mafia” e di “una conferma del fallimento dell’esecutivo guidato da Conte”. “Bonafede è un presunto ministro che sta coprendo il Paese di vergogna- accusa da Forza Italia Maurizio Gaparr. Conte, Bonafede, i grillini, con la complicità del Pd, di Renzi e di Leu, hanno favorito i boss delle cosche”. E di governo “incapace” parla anche il leader della Lega Matteo Salvini, mentre l’ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone definisce una “beffa” i decreti Bonafede. Il Guardasigilli tira dritto e in un post su Facebook rivendica la scelta dei due decreti che hanno imposto ai giudici “di rivalutare, con il parere obbligatorio delle direzioni distrettuali antimafia, la posizione di tutti i detenuti per reati gravi posti ai domiciliari”. E sottolinea che grazie a quei provvedimenti che portano la sua firma i detenuti finiti ai domiciliari per decisione dell’autorità giudiziaria “sono tornati davanti a un giudice”, che ha comunque deciso “in assoluta autonomia”. Dal ministero fanno notare come ci sia stata in questi mesi una crescita esponenziale dei detenuti tornati dietro le sbarre per effetto delle nuove valutazioni dei giudici: erano una cinquantina a metà giugno e determinante è stato l’impegno del Dap anche nella ricerca di posti in strutture ospedaliere penitenziarie. “Il decreto del governo, a cui la Lega e FI si sono opposti, ha consentito, senza violare le prerogative della magistratura di sorveglianza, di far tornare in carcere centinaia di detenuti col 41 bis che erano stati messi agli arresti domiciliari” sottolinea anche il vice presidente dei senatori del Pd Franco Mirabelli. “L’emergenza sanitaria nei penitenziari è sempre stata sotto controllo” assicura il presidente della Commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni (M5S), secondo cui le parole del Garante “hanno l’effetto di smascherare l’infondatezza e l’inconsistenza delle accuse levate in queste ore nei confronti del ministro Bonafede che ha contrastato efficacemente le numerose e inedite difficoltà della situazione”. Bonafede chiede subito scusa: “Ho avviato un monitoraggio” di Piero Sansonetti Il Riformista, 4 settembre 2020 Ma le sue giustificazioni non bastano e le opposizioni chiedono le dimissioni: troppo poco manettaro per i loro gusti. La maggioranza lo difende, ma il discorso non cambia: galera galera. I manettari chiamano, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede prontamente risponde. Anche quando, poveraccio, non ha nessuna colpa. E ieri tirato per la giacchetta dal titolo di apertura di Repubblica (“Metà dei boss ancora a casa”) si è sentito in dovere di rispondere con un lungo post su facebook: “Un articolo di stampa - esordisce il guardasigilli - riprende il tema delle scarcerazioni legate all’emergenza Covid. Per evitare che si faccia (volutamente) confusione tra le competenze e responsabilità istituzionali sancite dalla Costituzione, chiarisco quanto segue. Dopo le note scarcerazioni, decise dalla magistratura in piena autonomia e indipendenza nel bel mezzo della pandemia, su mia iniziativa il governo ha approvato due decreti, che hanno imposto di rivalutare, con il parere obbligatorio delle direzioni distrettuali antimafia, la posizione di tutti i detenuti per reati gravi posti ai domiciliari. Sono decreti che hanno modificato leggi in vigore da almeno cinquanta anni e che nessuno aveva mai cambiato”. “In base a quanto previsto - continua il ministro - i detenuti (posti ai domiciliari, ci tengo a ribadirlo, in forza di un provvedimento giudiziario) sono dunque tornati davanti a un giudice, che ha preso le sue decisioni, ovviamente in assoluta autonomia. Come per tutti i provvedimenti in materia di giustizia, ho già avviato uno stretto monitoraggio per verificare l’applicazione dei due decreti antimafia”. Come dire non ho colpa, ma anche questa volta farò di tutto, cari amici manettari, per darvi soddisfazione. Ma le giustificazioni non sono bastate e l’opposizione, dalla Lega a Forza Italia, ha gridato allo scandalo chiedendo la testa del ministro, reo di essere per i loro gusti troppo poco manettaro. Per Fratelli d’Italia è intervenuta Giorgia Meloni che parlato di “scandalo”: “FI - ha detto - lo ha denunciato fin dall’inizio: per riportare i boss in galera bisognava revocare, e non semplicemente sospendere, la scellerata circolare del Dap. Bonafede abbia la decenza di dimettersi”. Dura anche Anna Maria Bernini di Forza Italia: “Implacabile nel chiudere in casa i cittadini e incredibilmente permissivo nei confronti di capi e manovali delle cosche. Basterebbe questo per certificare il fallimento del governo”. La maggioranza difende il ministro, non perché garantista e attento allo stato di diritto, ma perché a parer loro è invece sufficientemente manettaro. “La verità è che il decreto del governo - ha dichiarato il senatore dem Franco Mirabelli - a cui Lega e FI si sono opposti, ha consentito senza violare le prerogative della magistratura di sorveglianza, di far tornare in carcere centinaia di detenuti”. Con buona pace, aggiungiamo noi, dell’articolo 27 della Carta Costituzionale. Il pasticcio nelle carceri. Agenti feriti da detenuti, 100 boss a casa di Gabriele Laganà Il Giornale, 4 settembre 2020 Nel carcere di Benevento cinque agenti sono rimasti feriti nel tentativo di placare una rivolta. Nel frattempo sono oltre 100 i boss ancora ai domiciliari dopo la scarcerazione per il rischio coronavirus. La paura del coronavirus non è del tutto svanita ma di certo negli ultimi due mesi si è attenuata in modo deciso. Eppure, sono ancora tanti i boss del crimine organizzato rimasti ai domiciliari per il rischio contagio nonostante il decreto Bonafede che doveva riportarli in cella. La vicenda ha avuto il suo inizio lo scorso 21 marzo a seguito di una circolare con la quale il Dap chiedeva ai direttori dei penitenziari di segnalare i detenuti ultra-settantenni, senza però distinguere tra quelli ancora pericolosi. Il documento, in tempi di emergenza sanitaria, fu interpretata come una sorta di via libera alla scarcerazione dei più malandati per cercare di evitare che si creassero possibili focolai negli istituti di pena. Il risultato, però, è stata la liberazione di centinaia di detenuti, tra i quali bossi di primo piano della malavita organizzata, mandati a casa a scontare la pena. Come ricorda Repubblica, ad inizio maggio il ministro Bonafede era intervenuto con un decreto per fermare le scarcerazioni. Ma sono ancora tanti, 112 su 223, i detenuti che sono ancora fuori dalle celle. Tra questi, ad esempio, vi è Pino Sansone, ex vicino di casa di Totò Riina, che ha ottenuto gli arresti domiciliari a fine aprile ed è ancora. Stesso beneficio gode l’ergastolano Ciccio La Rocca, lo storico padrino di Caltagirone su cui aveva indagato il giudice Giovanni Falcone. Dal ministero della Giustizia cercano di vedere il bicchiere mezzo pieno e spiegano che sono “111 sono già tornati in istituto penitenziario ed è un risultato importante, il meccanismo del decreto si è rivelato decisivo perché, rispettando l’autonomia decisionale dei giudici, li ha chiamati a riconsiderare tutti i provvedimenti di scarcerazione e ha consentito di fare rientrare in carcere i boss più pericolosi”. Le celle si sono riaperte, tra gli altri, per due detenuti al 41 bis, il boss della Cupola Francesco Bonura, lo ‘Ndranghetista Vincenzino Iannazzo e Franco Cataldo, uno dei carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo. C’è un dato importante che deve essere spiegato. Lo scorso 14 magio, in commissione Giustizia, Bonafede aveva sottolineato che vi erano”498 scarcerati fra alta sorveglianza e 41 bis”. Un numero diverso da quello attualmente segnalato. La differenza è presto spiegata. Dopo le dimissioni di Franco Basentini, travolto dalle polemiche, si è insediato il nuovo vertice del Dap, gestito da due ex pubblici ministeri antimafia, Dino Petralia come capo e Roberto Tartaglia nel ruolo di vice. Il primo atto compiuto dal nuovo corso è stato quello di passare in rassegna tutti i fascicoli dei boss andati ai domiciliari. Dal lavoro è emerso che solo 223 detenuti, 102 sottoposti a misura cautelare e 121 a condanna in via definitiva, erano stati scarcerati per ragioni connesse al rischio Covid. Gli altri 275, in realtà, erano finiti ai domiciliari per “cause diverse e indipendenti dalla pandemia” come “fisiologiche cause processuali, applicazione di benefici previsti dalla legge, oppure motivazioni sanitarie pregresse, del tutto distinte dal rischio Covid”. Al ministero ribadiscono che “è stato fatto davvero tutto il possibile per far fronte alla situazione che si era venuta a determinare”. Il decreto di Bonafede ha imposto ai giudici di fare delle rivalutazioni periodiche delle posizioni di chi ha goduto dei domiciliari. Ma vi è stato anche un intoppo come nel caso del tribunale di sorveglianza di Sassari, che era chiamato ad occuparsi del boss dei Casalesi Pasquale Zagaria. I giudici hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale sul decreto. “L’obbligo di rivalutazione della detenzione domiciliare” previsto da Bonafede potrebbe finire per “violare la sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria” e dunque “violare il principio di separazione dei poteri”. Gli avvocati denunciano anche una violazione del diritto di difesa e di quello alla salute. Un caso, questo, in discussione. Nell’attesa, però, Zagaria non è tornato in carcere. Ma la situazione carceraria non fa altro che gettare benzina sul fuoco delle polemiche. Matteo Salvini, ex ministro dell’Interno, è andato all’attacco del governo e, contemporaneamente, ha espresso la sua vicinanza a tutti gli agenti della Penitenziaria. “Rivolta nel carcere di Benevento, con 5 agenti feriti, celle in fiamme e un muro sfondato. Il tutto mentre più di 100 boss usciti di cella durante il lockdown non sono tornati in galera nonostante la propaganda del governo. Solidarietà alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria: l’Italia non merita un governo così incapace e pericoloso. Chi sceglie la Lega sceglie la certezza della pena, chi sceglie il Pd preferisce le rivolte e i boss a casa”, ha affermato il leader della Lega. Mauro Palma: “Le scarcerazioni vanno rispettate, come tutte le decisioni dei giudici” di Angela Stella Il Riformista, 4 settembre 2020 “Lo dico anche alla stampa democratica. Dietro la decisione di concedere la detenzione domiciliare c’è sempre un bilanciamento della pericolosità sociale e del diritto alla salute”. “Oggi (ieri ndr) ho letto due pagine di Repubblica in cui, quasi che fosse uno scandalo, hanno scritto che 112 detenuti che avevano ottenuto la detenzione domiciliare non sono rientrati in carcere, nonostante il decreto approvato a seguito delle note polemiche di iniziativa televisiva - prima si sarebbe detto di iniziativa legislativa. Bene, vorrei essere molto chiaro su questo: come Garante voglio ricordare anche alla stampa democratica che le decisioni dei magistrati si rispettano, tutte, anche quelle che concedono la detenzione domiciliare con motivazioni che né io né l’articolista conosciamo, e che sicuramente hanno visto un bilanciamento della pericolosità sociale e del diritto alla salute”: è forse questa la parte più interessante della conferenza stampa convocata ieri dal Presidente del Collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Ed è da questo punto che prosegue la nostra intervista. Professor Palma nell’articolo di Repubblica di ieri a firma di Attilio Bolzoni c’è un altro passaggio che mi ha colpita, quando scrive che “cento e passa galantuomini in questo momento possono fare liberamente quello che hanno sempre fatto: i mafiosi”. Non è una narrazione distorta e propagandistica? Di persone detenute al 41 bis attualmente ancora ai domiciliari ce n’è una sola, e c’è in merito un ricorso pendente davanti alla Consulta, dopo che un magistrato a Sassari ha sollevato un dubbio di legittimità costituzionale. Poi qui il simbolico diventa determinante ma il simbolico - non a caso ci si chiede che messaggio viene dato con queste ‘scarcerazioni’ - è distruttore del diritto penale. Il diritto penale si centra sul fattuale non sul simbolico. Quando il diritto penale diventa un elemento simbolico la ragion politica ha avuto la meglio sulla ragione giuridica e questa è la fine di uno Stato di Diritto. E poi mi viene da fare un’altra considerazione. Prego... C’è il caso di una persona al 41 bis a cui sono stati concessi i domiciliari per motivi di salute e che adesso è tornata in carcere su decisione del magistrato. Ma tra due mesi esce. Mi domando qual è il senso di un 41 bis se un detenuto vi rimane fino all’ultimo giorno prima di tornare in libertà. Questo crea più o meno sicurezza? Una persona fino al giorno X non può vedere nessuno e nel giorno X più 1 torna libera. Non sarebbe molto più sicuro declassificare quella persona all’alta sicurezza nell’ultimo biennio prima della liberazione, per vedere come reagisce? Ma poi a voler fare qualche conto, carcere non significa solo 41 bis... I detenuti al 41bis oggi sono 754, quelli in alta sicurezza 9321. Ci sono altre 44000 persone recluse di cui dovremmo parlare. Come hanno risposto gli istituti di pena all’emergenza e com’è la situazione adesso? Possiamo dire che in qualche modo le carceri hanno tenuto in ambito emergenza coronavirus: le vittime sono state 4, i contagiati complessivamente 290. Attualmente sono positivi 11 detenuti e 7 operatori. Per i 290 contagiati, in soli 34 casi è stata necessaria una gestione ospedaliera, per tutti gli altri la gestione è stata carceraria. Attualmente i detenuti sono 53.950: il numero era sceso a 52.792 il 10 aprile, poi c’è stato un nuovo incremento e ora è stabile. Un numero eccessivo, non omogeneo territorialmente, con alcune situazioni locali insostenibili. Se disgraziatamente ci fosse una ripresa dei contagi dobbiamo essere pronti con gli spazi. C’è un principio che in Europa è molto chiaro: se un sistema penitenziario prevede 100 posti, devono esserci 90 o anche meno persone. Ci può essere sempre una esigenza che richiede uno spostamento e flessibilità. Quindi noi dove dovremmo diminuire l’affollamento? In questo momento ci sono 970 persone che sono in carcere scontando una pena - non un residuo - inferiore ad un anno. Questo interroga la nostra responsabilità che non è solo quella del sistema penitenziario ma della società tutta: queste persone dovrebbero trovare altre strutture nel territorio pronte ad accoglierle. Il problema scuola si vive anche dietro le sbarre? Sicuramente, tutto è stato fermo in questi mesi ma proprio oggi (ieri, ndr) ho avuto qualche elemento di rassicurazione. Gli insegnanti non sono molti e gli studenti detenuti sono persone che già condividono altri momenti all’interno. Quindi c’è una cauta apertura alla ripresa ad ottobre, come avviene sempre in carcere. Il membro del collegio Emilia Rossi ha posto l’attenzione anche sui suicidi in carcere... Da inizio anno sono 43, oltre una decina in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso che aveva registrato 32 casi. Dieci di questi detenuti si sono tolti la vita a brevissima distanza dall’ingresso in carcere, in un caso il giorno stesso. Durante l’emergenza sanitaria avevo parlato di una doppia ansia che vale per tutti i posti chiusi. All’ansia che avvolgeva tutti noi si aggiunge quella di stare in posto chiuso dove se il contagio entrasse si creerebbero situazioni devastanti. Questa doppia ansia si può trasformare a volte in rabbia - io non nego che c’è un tasso di tensione in carcere maggiore che nel passato anche rispetto al personale - a volte anche in auto aggressività. Come Collegio del Garante avete voluto incontrare tutti i vertici delle forze di polizia... C’è stata una ottima interlocuzione. Abbiamo posto alla loro attenzione una riflessione su tre parole: produttività, inimicizia, impunità. Un sistema non è efficace quando determina tanti arresti ma quando riesce ad incidere nello sradicare progressivamente il ricorso al crimine, quando lo contrasta ma non crea un rapporto di inimicizia con l’altro. Un sistema è efficace quando percepisce coloro che commettono maltrattamenti e abusi come una aggressione al proprio lavoro, alla propria professionalità, e non cerca di avere un atteggiamento di copertura. Durante la conferenza avete annunciato di presentare un amicus curiae nel procedimento che la Corte Costituzionale terrà in tema di ergastolo ostativo. Qual è la vostra posizione? Vedremo se adesso lo accetteranno, essendo cambiato da poco il regolamento della Corte. La nostra posizione? Non ci può essere pena senza speranza, non può esserci pena che non preveda dopo un congruo numero di anni di detenzione la possibilità di valutare il percorso che la persona ha fatto, altrimenti è inutile il percorso stesso. Il detenuto ha il diritto di essere rivalutato e non essere appiattito al reato commesso magari 30 anni prima. Questione immigrazione: Lei è d’accordo con la dichiarazione del Ministro Lamorgese per cui niente Recovery ai Paesi che non collaborano con i migranti? Le do il mio pieno appoggio. Si torna a discutere molto di Rsa e covid. Anche su questo fronte siete molto impegnati... Attualmente ci sono circa 90.000 persone nelle 4.609 residenze. Ora sono riprese le visite ma permangono delle criticità: non si può far vedere un parente solo tramite un vetro, come accaduto in qualche struttura. Dobbiamo trovare un modo per garantire i rapporti in totale sicurezza. Soprattutto per i disabili i contatti umani sono fondamentali. Abbiamo scritto a tutti i presidenti di Regione per aprire un dialogo sul tema e al momento ci hanno risposto solo: Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Puglia, Toscana, Friuli Venezia Giulia, Liguria. Mauro Palma: “La lotta alla mafia non intacchi il diritto alla salute” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 4 settembre 2020 “Le scarcerazioni le hanno decise i giudici. E i provvedimenti della magistratura si rispettano”, dice Mauro Palma, il garante nazionale dei diritti dei detenuti. “Peraltro, siamo di fronte a singole decisioni, emesse da tanti giudici con impostazioni e sguardi professionali diversi, non riesco davvero a leggerle come frutto di un disegno”. La vedova di Antonio Montinaro, il caposcorta di Falcone, ha detto che le scarcerazioni dei boss durante l’emergenza Covid hanno rappresentato comunque un segnale devastante… “C’è un diritto della collettività all’efficacia della lotta alla mafia, ma anche un diritto alla salute di tutti i detenuti. I magistrati, con i loro provvedimenti, hanno contemperato queste due esigenze”. Alcuni pm sostengono che i domiciliari siano inadeguati agli imputati di mafia, che tendono sempre ad avere contatti con l’esterno per i propri affari. Cosa pensa di questa posizione? “È la legge a prevedere la possibilità della concessione degli arresti domiciliari. E ci sono poi alcuni divieti che vengono imposti: di comunicare, di allontanarsi dalla propria abitazione. Le forze di polizia controllano che sia così. Credo anzi che andrebbe rivalutato l’istituto dei domiciliari nel caso di detenuti di mafia che stanno per finire di scontare la loro pena”. Con quale finalità? “Attraverso programmi ben precisi si potrebbe controllare meglio il percorso di reinserimento nella società. Invece, oggi, abbiamo detenuti che un giorno hanno il 41 bis e il giorno dopo si ritrovano scarcerati perché hanno finito di scontare la pena”. I familiari delle vittime ribadiscono che nella lotta alla mafia c’è il continuo rischio di mandare messaggi negativi… “L’esecuzione penale non può avere valore di messaggio, ma si deve basare sull’efficacia. Per evitare la prevalenza della ragione politica su quella giuridica”. Stalking: il reato sussiste anche se le vessazioni risalgono a 10 anni prima di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione V penale - Sentenza 3 settembre 2020 n. 25026. Gli episodi vessatori che configurano il reato di stalking devono essere presi in considerazione anche se tra i medesimi siano decorsi diversi anni. Lo precisa la Cassazione con la sentenza n. 25026/20. La vicenda - I Supremi giudici si sono trovati alle prese con un motivo di appello che denunciava la violazione dell’articolo 612-bis del cp, smentendo in fatto la sussistenza dei segmenti della condotta. La parte sosteneva in particolare che gli sms ingiuriosi si erano registrati nell’arco di 2 mesi e che essi erano reciproci, e che tre episodi di percosse non potevano configurare lo stalking. Ma - come si legge nella sentenza - la violenza benché perpetrata in un decennio non trova alcuna giustificazione o perdono. E così i Supremi giudici, non potendo entrare nel merito della vicenda, ricordano che ricade sul giudice di merito un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone a essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita. Quanto agli eventi del reato di stalking, la seconda parte del motivo in esame mostra forti dubbi sulla veridicità delle cure psicologiche e della loro connessione eziologica con la condotta dell’imputato, ma il motivo di appello pare ignorare che la prova delle condizioni di prostrazione è stata ricavata da parte della Corte di merito, non già dalle cure psicoanalitiche, ma dalle dichiarazioni della parte e di testi cui la medesima aveva indirizzato le proprie confidenze e che ne avevano percepito direttamente il malessere. Truffa per erogazioni pubbliche: via libera al sequestro delle somme dell’amministratore di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 3 settembre 2020 n. 25022. Via libera al sequestro per equivalente, finalizzato alla confisca, disposto a carico dell’amministratore di fatto e legale rappresentante della una società, delle somme relative a un’ipotesi di truffa aggravata per erogazioni di denaro pubblico. Una misura adottata nell’ambito di un procedimento nato da segnalazioni per operazioni sospette, inviate dalla Banca d’Italia alla Polizia giudiziaria. La Corte di cassazione, con la sentenza 25022, respinge il ricorso contro la condanna. Il ricorrente negava il coinvolgimento nella truffa affermando di essersi limitato alla consulenza aziendale. Nel mirino degli inquirenti erano finite, in particolare, un finanziamento ottenuto con la presentazione a Invitalia Spa di due fatture emesse per operazioni oggettivamente inesistenti e di una polizza assicurativa risultata falsa, oltre all’agevolazione finanziaria, derivante dall’accredito di oltre 125 mila euro, sulla base di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto notorio, resa dalla società. Per i giudici c’era di più del semplice fumus di una partecipazione consapevole ai raggiri, sia nella fase precedente l’erogazione dei finanziamenti e delle agevolazioni sia successiva. Dalla documentazione, acquisita anche grazie alle segnalazioni, era emerso non solo che il ricorrente aveva inoltrato a Invitalia e Fincalabra via mail le richieste di finanziamento, ma anche che c’era stato un passaggio di denaro tra il ricorrente e i legali rappresentanti di altre società segnalate e coinvolte nei raggiri, tale da evidenziare una compartecipazione all’ingiusto profitto. Privacy: sanzionato il Comune che tiene oltre 15 giorni i dati della dipendente sul web di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 3 settembre 2020 n. 18292. Sanzionato dal Garante della privacy il Comune che diffonde i dati personali di una dipendente, tenendoli oltre 15 giorni nell’albo pretorio on line. Uno sforamento del tempo massimo indicato dal Testo unico degli enti locali, per la pubblicazione delle delibere comunali. La Corte di cassazione, con lasentenza 18292, respinge il ricorso del Comune, finito nel mirino dell’Authority, per aver lasciato sul web, per oltre un anno, decisioni dirigenziali nelle quali era indicato non solo il nome e il cognome della dipendente e l’esistenza di un contenzioso con l’amministrazione municipale, ma anche altre notizie. Oltre all’informazione sulla querelle con la Pa, un dato utile a giustificare la nomina di un difensore e il conseguente impegno di spesa per il Comune, veniva indicato lo stato di famiglia dell’interessata, il fatto che viveva da sola e che aveva chiesto, senza ottenerla, una rateizzazione del dovuto. Informazioni che, ad avviso dei giudici di merito, pur riguardando l’assetto organizzativo degli uffici, non potevano rientrare nelle strette esigenze di trasparenza amministrativa. In considerazione del loro contenuto dunque il Comune avrebbe dovuto procedere spedito verso l’archiviazione e l’oblio e rimuoverle dall’albo pretorio on line entro i 15 giorni indicati dall’articolo 124 del Testo unico degli enti locali. Senza successo il ricorrente si appella alla legge sulla trasparenza, nelle more modificata dal Dlgs 33/2013, e al dovere di pubblicazione in ossequio del principio democratico. Ma non serve. Il Comune non è stato, infatti, sanzionato per aver messo sul sito le determinazioni della dirigenza, ma per avercele lasciate troppo a lungo. Non passa neppure il tentativo di negare l’elemento psicologico della colpa previsto per l’illecito amministrativo. Per la difesa l’omessa rimozione dal web dei dati personali della dipendente, non era imputabile al Comune. L’ente locale infatti -come aveva chiesto inutilmente di provare con dei testi - non avendo all’interno le professionalità per farlo, si era rivolto ad un consulente esterno, incaricandolo di creare un sito internet in linea con la normativa vigente. Un argomento smontato dai giudici di legittimità. La Suprema corte ricorda che, in base all’articolo 28 del Codice sui dati personali, il titolare del trattamento è la persona giuridica, non il legale rappresentante o l’amministratore. Una norma che deroga al principio della imputabilità personale della sanzione, configurando un’autonoma responsabilità della persona giuridica. Tale responsabilità “non può ritenersi oggettiva - si legge nella sentenza - ma, analogamente a quanto previsto dal Dlgs 231/2000, in tema di responsabilità da reato degli enti, va configurata come “colpa di organizzazione”“. È dunque responsabile il comune per non aver osservato l’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali necessarie ad evitare l’illecito. Giustamente è stata quindi esclusa la tesi, tesa ad ottenere un esimente, secondo la quale il ritardo nella rimozione dal web dei dati personali era dipesa da una disfunzione delle applicazioni informatiche gestite da un consulente esterno. Per i giudici la circostanza era “pienamente riconducibile alla sfera di signoria dell’Ente e del suo apparato”. Parma. Scontro Bernardini-Bonafede sui detenuti “puniti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 settembre 2020 La dirigente Radicale: “Violati i diritti di un ergastolano, lo conferma il giudice”. Polemiche dopo la replica del Ministro a un’interrogazione di giachetti ispirata da un articolo del Dubbio. l’esponente pannelliana: “giàscattato il ristoro per uno dei reclusi”. “Il ministro Bonafede mente o lo fanno mentire laddove dice che non è stato riconosciuto al detenuto il 35 ter relativamente al periodo della carcerazione al penitenziario di Parma”. È il duro commento dell’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini in merito alla risposta data dal ministro della Giustizia ieri all’interrogazione parlamentare a firma del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti. Ai primi di marzo Giachetti ha chiesto al guardasigilli se ritiene di dover adottare le iniziative di competenza per assicurare ai condannati alla pena dell’ergastolo detenuti nel carcere di Parma la possibilità di usufruire di una cella individuale. Nell’interrogazione si fa riferimento all’articolo de Il Dubbio del 29 ottobre 2019 in cui si è data notizia della protesta degli ergastolani trasferiti da Voghera a Parma, puniti con l’isolamento in “cella liscia” per essersi rifiutati di condividere la cella con un altro detenuto. Roberto Giachetti, infatti, nell’interrogazione, ha fatto presente che ci sono diversi articoli come quelli del regolamento penitenziario e, non da ultimo, l’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), comma 5, il quale stabilisce che “fatta salva contraria prescrizione sanitaria e salvo che particolari situazioni dell’istituto non lo consentano, è preferibilmente consentito al condannato alla pena dell’ergastolo il pernottamento in camere a un posto, ove non richieda di essere assegnato a camere a più posti”. Non solo, il deputato - sempre nell’interrogazione - ha anche fatto riferimento a una sentenza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, la quale ha riconosciuto il rimedio risarcitorio previsto dall’art. 35- ter dell’Ordinamento penitenziario al detenuto M. D. per il periodo in cui nel carcere di Parma è stato costretto a convivere con un altro detenuto nella stanza detentiva singola ravvisando la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quindi cosa ha risposto il ministro Bonafede? Per quanto riguarda il discorso dei detenuti ergastolani puniti in “cella liscia” per essersi rifiutati di convivere la stanza con altri detenuti, sottolinea che sin dal loro ingresso presso l’istituto di Parma “diversi di questi, con aggiunta di due detenuti AS3 (per un totale di 9 detenuti), mettevano in atto reiterate manifestazioni di protesta mediante battiture delle inferriate, rifiutandosi di essere allocati in sezione ordinaria con altri detenuti, ritendendo inadeguata la superficie in metri quadri a loro destinata e ritendendo che in quanto ergastolani, vantassero il diritto alla stanza singola”. A quel punto, spiega sempre il ministro della Giustizia, la direzione del carcere, in ragione dei gravi comportamenti messi in atto, “ne richiedeva l’allontanamento presso altre sedi, adottando i necessari provvedimenti di natura disciplinare”. Ma, si legge sempre nella risposta all’interrogazione parlamentare di Giachetti, che nessun trasferimento è stato poi effettuato, “atteso che tutte le strutture dotate di sezioni AS1 non consentono, allo stato, l’allocazione dei detenuti ivi presenti in camera di pernottamento singole”. Alla fine, prosegue sempre il ministro, tutti i detenuti coinvolti sono stati quindi allocati nella sezione Iride, deputata appunto all’isolamento dei soggetti appartenenti al circuito Alta sicurezza e quindi dotate di celle singole. Secondo il guardasigilli, seppur di isolamento si tratta, le celle sono “rispondenti alle caratteristiche delle restanti stanze dei reparti ordinari”. Però, come effettivamente Il Dubbio ha sottolineato nell’articolo, si tratta sempre di una sezione punitiva e infatti, alla fine, come spiega lo stesso ministro “tutti i detenuti interessati, ad ecc ezione di uno solo, dopo gli interventi delle varie figure del penitenziario, hanno inteso interrompere il tipo di protesta/ pretesa” e sono tornati a vivere in camera doppia. Per quanto riguarda le “celle lisce”, il guardasigilli risponde che non risulta corretta l’informazione, perché sono “alcune stanze prive di televisione e con tavolo di pietra, senza altro tipo di limitazione”. Però, prosegue sempre il ministro, “ad ogni modo le camere in questione sono state chiuse e soggetti a lavori di adeguamento, compresa la dotazione di Tv”. Ma ora veniamo al dunque. Bonafede, relativamente al detenuto indicato da Giachetti con le iniziali M. D., risponde che “ha presentato reclamo giurisdizionale sub arti 35ter OP, accolto in parte, ma non in riferimento al periodo di detenzione presso la casa di reclusione di Parma”. Ma è vero? Rita Bernardini del Partito Radicale spiega a Il Dubbio: “Non è assolutamente vero ciò che Bonafede dice nella sua risposta all’interrogazione, o mente oppure lo fanno mentire. Ma forse, più probabilmente, non ha letto l’atto che gli è stato allegato!”. In effetti Il Dubbio ha potuto visionare l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna. Il giudice ha accolto gran parte del reclamo riconoscendo il trattamento disumano e degradante riguardanti ampi periodi di carcerazione presso diversi istituti, tra i quali anche quello di Parma. Infatti, come si evince dall’ordinanza, relativamente a quest’ultimo carcere è stato rigettato il reclamo per quanto riguarda il periodo in cui il recluso non ha condiviso la cella con altri detenuti, ma nei suoi restanti 639 giorni, il detenuto ha condiviso “la camera detentiva con un altro detenuto - scrive il giudice - potendo usufruire uno spazio vivibile individuale di mq 3,7. Per determinare la sussistenza del grave pregiudizio nel caso di specie, in cui lo spazio è superiore a 3 mq e inferiore a 4 mq, si devono prendere in considerazione altre circostanze che influiscono sulla qualità delle condizioni carcerarie”. E il giudice le ha rilevate, scrivendo che “costituisce un fattore negativo rilevante per qualificare la detenzione inumana ai sensi della giurisprudenza formatasi sul dettato dell’articolo 3 Cedu in relazione a 639 giorni”. Reggio Calabria. L’inchiesta sull’ex direttrice del carcere è un macigno di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2020 Speriamo non fermi le attività nelle carceri. Gli arresti domiciliari a Maria Carmela Longo, ex direttrice del carcere di Reggio Calabria e poi direttrice di Rebibbia femminile, hanno colpito come un macigno chiunque la conoscesse e l’avesse vista lavorare. Chi frequenta il carcere femminile di Rebibbia a Roma - come noi facciamo da anni con una certa continuità, fosse solo perché a Rebibbia gioca la squadra femminile di calcio a 5 di Atletico Diritti, polisportiva creata anche da Antigone - sa che è un istituto ben gestito e ricco di opportunità per le donne detenute. Sono le opportunità offerte durante il percorso detentivo l’arma con la quale, al momento del rilascio, la persona potrà combattere la recidiva e la ricaduta in una vita criminale. Se si saprà affrancare dal reato, sarà anche grazie a quanto il carcere è stato capace di offrire in termini di formazione, prospettiva culturale, responsabilizzazione e capacità di gestirsi la propria libertà. La sicurezza nella società esterna dipende dunque da tutto ciò. Un carcere che offre prospettive e opportunità è inevitabilmente un carcere più aperto. La formazione, il lavoro, le altre attività non si svolgono nei pochi metri quadri di una cella quasi sempre sovraffollata. Bisogna aprire il blindo, le sbarre, uscire di sezione, andare negli spazi comuni, incontrare altri detenuti, incontrare persone esterne (insegnanti, operatori, volontari), uscire dall’immobilismo. Maria Carmela Longo, in continuità ideale con l’ottima gestione della direzione precedente, ha in questi anni mandato avanti il carcere femminile di Rebibbia con intelligenza, efficienza, apertura, rispetto che chi in carcere lavora e per chi vi è detenuta. L’apertura era un elemento essenziale di tutto ciò. Ben più facile, ma assai meno utile anche in termini di sicurezza collettiva, è mandare avanti un carcere con efficienza ma chiusura. Le accuse che le vengono mosse sono gravissime. Si parla di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto favori ai boss reclusi nel carcere di Reggio Calabria ai fini di favorire la ‘ndrangheta. Sono accuse che - a prescindere dalla volontà della magistratura, per colpa di quei meccanismi di comunicazione che altre volte in passato abbiamo visto - rischiano di pesare su una persona anche se in futuro dovesse dimostrarsi innocente. Nei tanti che hanno letto i titoli dei giornali senza seguire i fatti nei dettagli rimangono i dubbi, gli aloni, i pregiudizi. I magistrati faranno il proprio corso e accerteranno la verità. Oggi non abbiamo alcun modo di sapere come stanno le cose. Se Maria Carmela Longo sarà provata colpevole, si dovrà dimostrare che ben sapeva che i suoi comportamenti avrebbero favorito la ‘ndrangheta e che li ha messi in atto proprio a quel fine. E magari anche che ha avuto qualcosa in cambio. Se invece avesse agito come agisce con qualsiasi persona detenuta con la quale negli anni l’abbiamo vista interagire - con rispetto, valutando la situazione caso per caso e prendendo decisioni sempre corrette in termini regolamentari ma coraggiose in termini di risocializzazione - e non avesse mai avuto alcun tornaconto né alcun segreto nel prendere i provvedimenti che ha preso, bisognerebbe comunicare in maniera molto chiara la sua innocenza affinché non rimangano ombre. Ci auguriamo che un’inchiesta come questa non costituisca un freno per tutti quei direttori, poliziotti penitenziari, educatori e magistrati di sorveglianza che credono in un carcere dove si assicurino prospettive di reinserimento sociale in accordo con i principi costituzionali. *Coordinatrice Associazione Antigone Benevento. Rivolta nel carcere: ?cinque agenti feriti, uno è grave Il Mattino, 4 settembre 2020 Cinque agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti, uno più gravemente a causa di una protesta scoppiata nel carcere di Benevento. Secondo quanto rende noto il sindacato Osapp, con il segretario Vincenzo Palmieri e il vice segretario Luigi Castaldo, i promotori delle proteste sarebbero due carcerati di origine marocchina, già protagonisti delle rivolte scoppiate durante il lockdown. I detenuti hanno messo in subbuglio una intera sezione, dato fuoco ad alcune celle, sfondato un muro e devastato anche una cella d’isolamento. I cinque agenti sono tutti stati portati in ospedale. La rivolta del pomeriggio è stata preceduta da un primo evento critico, intorno alle tre, quando due detenuti si sono resi protagonisti di atti di autolesionismo. Per entrambi si è reso necessario l’intervento dei medici. “Ancora eventi critici che mettono a repentaglio l’incolumità del personale di Polizia Penitenziaria”, commentano Palmieri e Castaldi, “e dei taser che ci sono stati promessi non si vede neanche l’ombra”. “Visti gli eventi accaduti oggi, aventi come autori due detenuti di origine nordafricana che hanno compromesso l’ordine e la sicurezza interna e determinato anche lesioni in danno del personale intervenuto per ripristinare l’ordine - commenta il segretario regionale dell’Uspp Ciro Auricchio - rinnoviamo l’appello alle forze politiche affinché siano stilati dei protocolli con i diversi Paesi interessati affinché le pene siano espletate nel Paese di origine. La gestione di tali soggetti che il più delle volte hanno anche problemi psichici ed atteggiamenti di auto oltre che etero lesionismo è una questione irrisolta che sta vessando da troppo tempo il personale e necessita pertanto di essere affrontata definitivamente in maniera risolutiva. L’Uspp esprime massima vicinanza al personale ferito ora sottoposto alle cure mediche”. Airola (Bn). Carcere minorile, i detenuti rifiutano il vitto Il Mattino, 4 settembre 2020 “Ci è giunta notizia che nella giornata di ieri i ragazzi ristretti nell’Istituto penale minorile di Airola avrebbero rifiutato il vitto dell’amministrazione. Tra le motivazioni della rimostranza figura la scarsa attenzione alle loro esigenze da parte dell’amministrazione. È doveroso sottolineare che, sebbene l’Istituto in questione non abbia un elevato numero di utenti, esso è sede dirigenziale e richiede, come tale, la nessaria presenza di una direzione stabile, diversamente da quella attuale, in grado di dare risposte immediate ai problemi, sia dei minori/giovani ragazzi ristretti, che del personale”. Lo sottolineano in una nota, i sindacati Uspp, Osapp, Sinappe e Uil. “In assenza di una direzione stabile, infatti, - prosegue la nota - il personale di polizia Penitenziaria è smarrito e disorientato perché da troppo tempo costretto, da solo, a fronteggiare le più disparate difficoltà, e a vivere, il più delle volte, in uno stato di penosa frustrazione, non potendo dare risposte concrete a questioni che, per funzioni e competenze, devono essere gestite ed affrontate da altre figure professionali, ad esse, per norma, preposte. Il personale di polizia penitenziaria dell’Istituto penale di Airola ha, inoltre, percepito un senso di abbandono anche da parte del vertice regionale dell’amministrazione, più volte sollecitato anche dai sindacati di polizia penitenziaria su tale questione e su altre, ma senza alcun riscontro”. Benevento. Il Garante: “Nessuna rivolta, i reclusi protestano per le restrizioni anti Covid” linkabile.it, 4 settembre 2020 “In questi giorni le Organizzazioni Sindacali che rappresentano gli agenti di polizia penitenziaria degli Istituti di Benevento e di Airola hanno fatto pervenire alla stampa notizie riguardanti “rivolte” e “proteste” che in questi giorni hanno movimentano la vita e il lavoro in questi luoghi. Le informazioni in mio possesso, confermate anche dai rappresentanti dell’Amministrazione Penitenziaria rivelano che: nel caso di Benevento alcuni disordini si sono verificati con due detenuti che rifiutavano l’isolamento. Per quanto riguarda invece i ristretti nell’Istituto penitenziario minorile di Airola il tema delle proteste risulta riguardare le misure di protezione e distanziamento durante i colloqui, e non come dichiarato dalla mancanza di una gestione stabile dell’Istituto”: queste le parole del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, riferendosi alle notizie diffuse dai sindacati di polizia penitenziaria in merito a singoli eventi critici verificatisi negli ultimi giorni negli istituti di Benevento e Airola. Il professore Ciambriello ha quindi proseguito: “Si tratta dunque di fenomeni circoscritti e circostanziati che pur dimostrando un disagio e un allarme da non sottovalutare, non sembrano assumere le dimensioni totalizzanti che emerge dai comunicati. Da sempre, infatti mi batto affinché sia implementato il numero del personale di polizia penitenziaria che svolge un ruolo cruciale nelle più svariate attività della vita intramuraria. Tuttavia, questo momento critico risulta gravato dal grande numero di coloro che per diverse motivazioni, tra cui il principale risulta essere la malattia, non si recano a lavoro, sovraccaricando ulteriormente un sistema già stressato. Fenomeno, quello delle assenze giustificate, che anche a causa dell’emergenza Covid, ha registrato un notevole incremento nell’appena trascorso periodo estivo.Come sempre il mio invito è quello di andare più a fondo nella lettura dei fenomeni che caratterizzano il pianeta carcere; il senso di abbandono che gli agenti denunciano deve sicuramente ottenere risposta dalle istituzioni, evitando ogni strumentalizzazione tesa a far valere le ragioni degli uni piuttosto che degli altri. Non bisogna dimenticare che il carcere è un sistema a più variabile che in quanto tale necessita di equilibrio tra le diverse domande che lo popolano”. Concludendo, ha poi espresso la volontà di agire per la risoluzione di problematiche superabili con il supporto delle istituzioni: “A questo proposito colgo l’occasione per rilanciare la necessità di progettare interventi di supporto a favore degli operatori penitenziari che più volte hanno lamentato le difficoltà in cui versano quotidianamente nel loro delicato compito di garanzia della sicurezza e dei principi che sovraintendono il trattamento delle persone ristrette. Nella giornata di oggi ho dichiarato al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria l’avvio di un’iniziativa volta a prevenire il burn-out, promossa dal mio ufficio e finanziata dalla Regione Campania. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Torture in carcere, ancora denunce dai detenuti di Attilio Nettuno casertanews.it, 4 settembre 2020 “Nudi. Cantavamo inni alle guardie”. Un’altra testimonianza raccolta da Casertanews sui pestaggi nella casa circondariale “Francesco Uccella” dopo le proteste per i contagi tra i reclusi”. Non solo botte e capelli e barbe tagliati. A inizio aprile, dopo le proteste per i primi casi di Covid in cella, i detenuti sarebbero stati costretti a denudarsi e cantare inni alla polizia penitenziaria. Sono questi alcuni dei passaggi agghiaccianti contenuti nella denuncia sporta da uno dei reclusi del reparto Nilo dove si sarebbero verificate torture ai loro danni ad opera degli agenti. Circostanze che sono finite al centro di un’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere che, a giugno, ha notificato 57 avvisi agli indagati, fermati prima di entrare per il turno di lavoro nella casa circondariale “Francesco Uccella”. Una nuova denuncia - A distanza di quasi 5 mesi da quelle presunte atrocità, dunque, il fascicolo nelle mani degli inquirenti continua ad arricchirsi di testimonianze. Tra le ultime quella depositata dall’avvocato Gennaro Caracciolo per un suo assistito, tra le vittime di pestaggi ed umiliazioni. Secondo il racconto, messo nero su bianco, dopo le proteste da parte dei detenuti in seguito ai primi contagi tra di loro, la reazione della penitenziaria sarebbe sfociata in una sorta di rappresaglia da campo di concentramento. “Ci fecero spogliare nudi” - Era il pomeriggio del 6 aprile quando i detenuti sarebbero stati fatti uscire dalle celle e costretti a mettersi faccia al muro. Ad attenderli c’erano “tantissimi agenti in tenuta antisommossa”, cioè muniti di scudi, manganelli, guanti e caschi neri. “Ci fecero spogliare facendoci restare completamente nudi e ci imposero di fare 3-4 piefamenti sulle braccia (flessioni)”. Tra i detenuti c’era anche un iraniano che “veniva picchiato perché si rifiutava di abbassare i pantaloni e le mutande”. Un altro venne picchiato perché nel rifiutare di spogliarsi sfidò una guardia dicendo “non ci potete togliere la stima e la dignità”. I pestaggi - Dopo questo episodio, prosegue la denuncia, i detenuti vennero fatti rivestire e condotti nel corridoio di passeggio. “Giungevano sempre più detenuti da altri padiglioni. Ricordo che alcuni avevano le maglie stracciate per le percosse ricevute, altri erano pieni di sangue sulla schiena”. Dopo l’adunanza i detenuti vennero fatti uscire “tre alla volta” e con l’ordine tassativo di procedere “mani dietro la schiena, testa bassa e schiena bassa”. Una “processione” che li conduceva in un corridoio dove dovevano passare tra due file di agenti. “A quel punto iniziavano una serie di pestaggi immotivati”. Le torture. Ci facevano cantare “Evviva le guardie” - Ma la rappreseglia non si sarebbe esaurita il 6 aprile. Il giorno seguente, racconta ancora il detenuto, “ci dicevano che dovevamo tagliarci la barba e i capelli”. Non solo. “Ci facevano addirittura cantare una canzone: ‘Chi comanda qua?’ E noi dovevano rispondere ‘Evviva le guardie, evviva la polizia penitenziaria, evviva”. Viterbo. “Va fatta piena luce sui maltrattamenti subiti da un detenuto a Mammagialla” viterbonews24.it, 4 settembre 2020 Il Capogruppo regionale di +Europa Capriccioli: “Serve attenzione urgente da parte delle istituzioni”. “La vicenda del detenuto del carcere Mammagialla di Viterbo che, attraverso la denuncia della sua compagna, ha riferito di aver subito maltrattamenti e pestaggi da parte di alcuni agenti, è un fatto che desta molta preoccupazione e su cui è necessario fare piena luce”. Lo ha detto in una nota Alessandro Capriccioli, capogruppo di +Europa Radicali al Consiglio regionale del Lazio. “Negli scorsi mesi, sulle base delle notizie provenienti dal Mammagialla - ha aggiunto - il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) era intervenuto con un’ispezione della struttura, e subito dopo il Consiglio regionale del Lazio aveva approvato una mozione a mia prima firma che impegnava la Regione a intervenire affinché il Ministero della Giustizia tenesse nella massima considerazione i rilievi emersi dall’ispezione. Oggi, in seguito a questa ulteriore denuncia resa pubblica dagli organi di stampa e da Rita Bernardini, un’attenzione di tutte le istituzioni su quanto avviene nel carcere di Viterbo si rende ancora più urgente: per garantire la tutela dei diritti dei detenuti e per fare piena luce su circostanze che, se fossero confermate, sarebbero molto gravi”. Viterbo. L’istituzione del Garante comunale per i diritti del detenuto non è più rinviabile di Giacomo Barelli* tusciaweb.eu, 4 settembre 2020 Gli ultimi fatti di cronaca sulle presunte violenze e torture, sui quali come per tutti gli altri passati, va fatta piena luce, portano di nuovo alla ribalta negativa il carcere di Viterbo di “Mammaggialla” sui cui problemi le istituzioni locali spesso fanno finta di non vedere. E tuttavia grazie al grande lavoro portato avanti insieme al consigliere comunale del M5S Massimo Erbetti siamo riusciti a fine gennaio 2020 a fare approvare in commissione all’unanimità la delibera da noi proposta per la istituzione del garante comunale dei detenuti. Una grande vittoria politica e di civiltà se non fosse che dopo 9 mesi per una sorta di strano boicottaggio amministrativo e forse anche politico, a questo punto verrebbe da pensare, la delibera non è mai stata iscritta all’ordine del giorno del consiglio comunale come invece era normale che fosse fatto. Più volte in questi mesi con il consigliere Erbetti ci siamo rivolti anche duramente al presidente del consiglio comunale perché faccia rispettare la volontà unanime del consiglio ed affinché faccia portare la delibera al voto dell’aula, ma fino ad oggi invano. Riteniamo tale comportamento omissivo un gravissimo vulnus istituzionale in quanto non si sta consentendo di dare attuazione a un indirizzo politico del consiglio, per giunta condiviso da tutte le forze politiche cittadine, un inspiegabile e sospetto ritardo nell’approvazione della delibera di cui chiediamo conto al presidente del consiglio, al sindaco, all’assessore ai servizi sociali, al suo dirigente e ovviamente al segretario generale. Una scelta, quella di istituire la figura del garante comunale per i detenuti, non più rinviabile vista la situazione che potremmo definire permanentemente esplosiva del carcere di Mammagialla che a gennaio di quest’anno contava 612 detenuti per una capienza di 432 con un sovraffollamento di oltre il 40%, con 100 detenuti psichiatrici, di cui 20 definiti acuti e che oggi si trova a fare i conti anche con l’emergenza Coronavirus. Ciò detto lancio un appello a tutti i capi gruppo di maggioranza e opposizione perché si facciano rispettare le prerogative del consiglio comunale chiedendo tutti insieme nella prossima capi gruppo la immediata calendarizzazione della delibera di istituzione del garante comunale dei detenuti già approvato in maniera unanime in commissione 9 mesi fa. Come dissi all’epoca quel lavoro fatto in commissione è la migliore risposta che il consiglio comunale potesse dare alla drammatica emergenza del carcere di Mammagialla e la prova che la politica, quando lavora su problematiche concrete con competenza e capacità, produce effetti positivi per la città al di là di ogni schieramento. Non possiamo farci smentire o peggio sabotare da chi vuole che non cambi mai nulla,ne va della nostra dignità e credibilità politica davanti ai cittadini. *Capogruppo Forza Civica Turchia. Erdogan cede: scarcerato l’avvocato dissidente di Simona Musco Il Dubbio, 4 settembre 2020 Pena sospesa per Aytaç Ünsal. La decisione dei giudici arriva dopo la morte dell’avvocata Ebru Timtik. Dopo 215 giorni di sciopero della fame, la 16a Camera penale della Corte Suprema ha deciso di sospendere l’esecuzione della sentenza a carico di Aytaç Ünsal, l’avvocato dissidente condannato a 10 anni e sei mesi di carcere con l’accusa di terrorismo, che ora potrà tornare in libertà a causa delle gravi condizioni di salute. Una vittoria dei diritti umani, arrivata poche ore dopo l’assurda decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di non intervenire in difesa dell’avvocato, che protesta da quasi un anno per ottenere un processo equo. Un no, quello pronunciato dalla Cedu, arrivato nonostante i rapporti medici indicassero un progressivo peggioramento delle sue condizioni di salute, rischio aggravato dal suo ricovero in un ospedale Covid, in condizioni addirittura peggiori di quelle vissute in carcere. Nella lettera inviata dalla Corte Suprema all’ufficio del pubblico ministero di Bakirköy, è stato sottolineato come Ünsal non possa rimanere in stato di detenzione a causa del deterioramento dello stato di salute, secondo quanto testimoniato dal rapporto dell’Istituto di medicina legale di Istanbul, ordinando così l’immediato rilascio del condannato fino alla guarigione, salvo nuovo arresto o condanna per altra accusa. “La scarcerazione dell’avvocato Aytaç Ünsal è una vittoria della mobilitazione della società civile che non si è arresa, che ha combattuto per lui e per quanti soffrono sotto il regime di Erdogan. È la vittoria degli avvocati, dei magistrati, dei docenti universitari che in Turchia e in Europa hanno manifestato per chiedere la sua liberazione. La mobilitazione per la tutela dei diritti umani e dei diritti civili in Turchia non deve cessare malgrado l’assordante silenzio anche di diversi Paesi europei”, ha dichiarato l’eurodeputato Giuliano Pisapia, che nei giorni scorsi aveva lanciato un appello all’Europa affinché non si dimostrasse complice della violazione dei diritti umani perpetrata in Turchia. Una notizia arrivata proprio mentre l’Onu ha chiesto un’indagine sulla morte della collega di Ünsal, Ebru Timtik, avvenuta dopo 238 giorni di sciopero della fame. Una morte “del tutto prevenibile”, hanno evidenziato gli esperti dei diritti umani dell’Onu, che hanno invitato la Turchia a rilasciare gli avvocati attualmente in carcere, chiedendo un’indagine sul caso Timtik. “Nessuno dovrebbe morire per ottenere un giusto processo, è un diritto fondamentale hanno sottolineato. Si tratta dello spreco totale di una vita umana e siamo sgomenti per la morte di questa coraggiosa donna, difensore dei diritti umani, così come per le circostanze che l’hanno portata alla morte”. Timtik è morta il 27 agosto 2020, dopo tre anni di detenzione. Insieme ai colleghi del Peoplès Law Office, tra i quali anche Ünsal, è stata arrestata nel settembre 2017 e condannata a 13 anni e sei mesi di carcere con l’accusa di appartenenza a un’organizzazione terroristica. Una condanna arrivata dopo un processo che non ha rispettato le garanzie della difesa, basata sulle dichiarazioni di un unico teste tenuto segreto, che le difese non hanno di fatto potuto controinterrogare. Ed è per questo motivo che Timtik, a febbraio scorso, ha avviato lo sciopero della fame, rivendicando il diritto ad un processo equo. Protesta alla quale si è associato anche Ünsal, che ora versa in condizioni critiche, dopo aver abbracciato, come la collega, l’idea di un digiuno mortale per rivendicare diritti fondamentali. Poco dopo il loro arresto, l’Onu ha chiesto formalmente all’esecutivo di Recep Tayyip Erdogan di spiegare su quali basi giuridiche fossero state formulate le accuse a loro carico e se fossero compatibili con gli obblighi dello Stato ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani. L’Onu ha quindi contestato la detenzione illegale, un processo ingiusto e restrizioni alla libertà di espressione e di associazione. “Ci rammarichiamo che poco sia stato fatto per prevenire questo tragico risultato”, afferma l’Onu. Che ha, dunque, chiesto alle autorità di riaprire “i casi degli avvocati per i diritti umani arrestati” e intraprendere un’azione immediata “per rilasciare le persone detenute e condannate in violazione del diritto internazionale”. Turchia. Il martirio di Ebru Timtik ha creato “l’effetto farfalla” sul regime di Erdogan di Barbara Spinelli* Il Dubbio, 4 settembre 2020 Con il dramma dell’avvocata la società civile internazionale ha per una volta reagito in fretta isolando Ankara. “Sehid namirin”. È un’espressione curda. Significa i martiri non muoiono mai. È vero. Le parole sono le armi più affilate di noi avvocati per rivendicare giustizia e diritti, e sono immortali. Le parole di Ebru Timtik sono lapidarie: “Se un’avvocata muore, domanderà giustizia dalla sua tomba! Romperemo tutte le nostre catene, vogliamo libertà per gli avvocati, libertà di difendere i nostri assistiti, libertà!”. Dopo il colpo di stato, all’indomani della proclamazione dei liberticidi decreti emergenziali e della serie di arresti che ne è conseguita, un collega mi disse che la Turchia si stava trasformando in una prigione a cielo aperto, che comprendeva chi era fisicamente in carcere, chi sapeva che prima o poi, in ragione del proprio lavoro o della banale espressione della propria opinione sui social media, ci sarebbe potuto finire, e chi di fatto aveva già le mani legate, avendo perso il lavoro ed avendo i propri beni congelati dal governo e nessun mezzo giudiziario per difendersi. Il ruolo degli avvocati è stato essenziale per segnare la via della democrazia, per invocare il giusto processo, per dare una speranza di giustizia. Per le sue parole di denuncia e di pace è stato ucciso l’avvocato Tahir Elci, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Diyarbakir, e sono stati detenuti gli avvocati Taner Kilic, presidente di Amnesty International e Selahattin Demirtas, leader del partito di opposizione HDP, ancora in prigione sebbene la Cedu ne abbia chiesto la scarcerazione. Ebru, detenuta all’esito di un ingiusto processo, privata della possibilità di difendere e di difendersi, con lo sciopero della fame ha scelto di fornire al mondo una prova materiale del grado di crudeltà al quale il regime turco può arrivare. Sebbene vulnerabile, ha continuato a lungo ad essere detenuta in un carcere con molti contagiati dal covid. Le è stato negato il diritto a consultare un medico di fiducia. È stata trattenuta in ospedale in condizioni paradetentive incompatibili con il suo stato di salute. Ha chiesto alla Corte Europea di disporre una misura urgente per preservare la sua salute, di poter continuare la misura cautelare in un ambiente compatibile con le sue condizioni e di poter consultare un medico di fiducia, ma la decisione non è arrivata in tempo, lei è morta prima, consumata dall’indifferenza di un dittatore per le persone che tiene in custodia. Come ha giustamente scritto il suo collega Aytac Unsal, anche lui in sciopero della fame ed in gravi condizioni, ora Ebru “sta nascendo nei cuori e nelle menti delle persone”. Ebru ha donato la sua vita per la giustizia, non solo per lei e per gli altri avvocati coimputati, ma per tutte le vittime delle purghe di Erdogan, dell’ingiusto processo in Turchia, per tutti i detenuti di opinione i cui diritti sono stati violati, per tutti quelli indebitamente esclusi dall’amnistia. Questo gesto di umanità, questo atto ultimo come avvocata del popolo, incarnato nel suo cadavere, trenta chili di pelle ed ossa, ha messo il mondo davanti alla drammaticità dell’indifferenza del regime turco per il rispetto dei diritti umani fondamentali. L’effetto farfalla che ha scatenato è di una potenza impressionante: la società civile è rimasta basita dal fatto che Erdogan abbia lasciato morire di fame un’avvocata in carcere, ed abbia apertamente minacciato di rappresaglie tutti gli avvocati che avevano dimostrato solidarietà alla collega defunta; i media ed i politici italiani ed europei improvvisamente hanno aperto gli occhi davanti a tutte quelle gravissime violazioni dei diritti umani che hanno fino ad oggi hanno deliberatamente ignorato quando denunciate dai detenuti vivi o dagli osservatori internazionali. Gli avvocati italiani, che da mesi compatti chiedono al Governo italiano di intervenire per la liberazione dei colleghi turchi, sono rimasti basiti per l’assoluto silenzio del premier e dei Ministri davanti alla morte di Ebru e per l’assenza di qualsiasi riscontro alle richieste formulate; la comunità dei giuristi europei è indignata per il rigetto della misura urgente richiesta da Unsal alla Corte Europea, e per la contemporanea accettazione da parte del Presidente Robert Ragnar Spano di un’onorificen- za da parte della medesima Università di Istanbul che ha illegittimamente licenziato 192 accademici, colpevoli di aver firmato un appello per la pace. È pure insorto il dibattito se Ebru si debba definire avvocata, avvocatessa o avvocato (in italiano, come impiegato si declina al femminile in impiegata, avvocato in avvocata, non esistendo un genere neutro). Ora, i relatori speciali Onu chiedono la revisione del processo ed i relatori speciali Pace chiedono alle autorità turche di assicurare libertà professionale agli avvocati turchi, un giusto processo, e l’immediata liberazione per Unsal. La Corte Europea, nel provvedimento con cui rigetta la richiesta di misura urgente, chiede comunque al governo a tener conto della sua richiesta di consultare medici di fiducia. La morte di Ebru ha dunque toccato i cuori e le menti di tutte e tutti noi, non resta che un sincero augurio: che questo effetto farfalla non si perda con lo spegnimento dei riflettori, che ci aiuti a scongiurare la morte di Aytac Unsal e che ci porti in particolare ad aprire una riflessione pubblica sull’efficacia del sistema internazionale e regionale dei diritti umani nel garantire tempestiva ed effettiva protezione agli individui i cui diritti umani vengono gravemente violati da parte di attori statali. *Avvocata, membro del comitato esecutivo di Eldh (Associazione avvocati europei per la democrazia e i diritti umani) Stati Uniti. Il caso Daniel Prude infuoca la campagna elettorale: sospesi 7 agenti di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 4 settembre 2020 La sindaca di Rochester (New York) contro la polizia che ha incappucciato l’afroamericano, poi morto asfissiato. Il candidato democratico incontra la famiglia del 29enne paralizzato, colpito alle spalle da 7 revolverate. Nella sua visita a Kenosha Joe Biden ha incontrato per un’ora i familiari di Jacob Blake, l’afroamericano colpito per sette volte alle spalle dalla polizia. Poi ha parlato al telefono con lo stesso Jacob dall’ospedale dove giace, paralizzato. Infine, incontrando rappresentanti della comunità in una chiesa, il candidato democratico ha accusato Donald Trump di legittimare l’odio e il razzismo. Due giorni fa nella città del Wisconsin il presidente non aveva incontrato la famiglia Blake, preferendo pronunciare un’ostinata difesa della polizia e una condanna delle rivolte violente, senza distinzioni tra poteste pacifiche e incendi e saccheggi notturni. La questione razziale è sempre più infuocata e diventa, insieme al coronavirus, centrale nella campagna elettorale, anche perché continuano i casi di violenze della polizia nei confronti di neri. L’ultimo, emerso ieri, risale a marzo e crea imbarazzi anche in campo democratico, coinvolgendo politici, procuratori e un capo della polizia, tutti afroamericani e tutti progressisti. Daniel Prude esce nudo, in preda alla sua follia, dalla casa del fratello Joe in una notte gelida di marzo. Joe chiede aiuto al 911, il numero delle emergenze, che manda una pattuglia. Siamo a Rochester, nello Stato di New York: città democratica di uno Stato democratico. La sindaca, Lovely Warren, è afroamericana come i Prude. Nero pure il capo della polizia. Ma gli agenti non sono psichiatri. Ammanettano l’uomo in attesa dell’ambulanza e lo costringono a restare steso. Poi, visto che dà in escandescenze, gli mettono una specie di casco usato, in America e anche in altri Paesi, dai poliziotti che vogliono proteggersi dagli sputi: è il 23 marzo, inizio dell’emergenza coronavirus anche in America. Nessuno minaccia, nessuno tira fuori armi, ma nessuno si preoccupa di Prude che respira a fatica. Quando arriva l’ambulanza ha perso i sensi. Morirà una settimana dopo in ospedale. Razzismo? Stavolta quella degli agenti sembra soprattutto incuria, mancanza di compassione per quello che per loro è solo un relitto umano. Non capiscono che sta soffocando, ridono. Si preoccupano solo, come ogni altro dipendente pubblico, di tornare a casa incolumi. Ma il caso è comunque grave, anche perché il medico legale della contea che esegue l’autopsia parla di “omicidio per asfissia”. E quando viene fuori il video, impressionante, della body-camera di uno degli agenti, la famiglia Prude denuncia il caso. Black Lives Matter scende in campo chiedendo punizioni per gli agenti. Lovely Warren, la sindaca, si difende dalle accuse scaricando le responsabilità sullo Stato di New York: sostiene che non poteva fare nulla perché dal 2015 la competenza per i casi di cittadini morti mentre sono nelle mani della polizia è dell’Attorney General dello Stato. Lo scaricabarile non la salva dalla contestazione di BLM, con disordini attorno al municipio e arresti. Alla fine la Warren decide di sospendere i sette poliziotti intervenuti il 23 marzo contro l’opinione del consiglio comunale e pur consapevole che il loro sindacato la denuncerà, convinto che gli agenti non hanno commesso reati nè errori gravi. Ora la parola passa all’Attorney General, il capo della procura di New York. Letitia James, eletta due anni fa, è una star afroamericana del partito democratico: potenzialmente una Kamala Harris della East Coast. Il caso Prude la imbarazza: in un comunicato parla di tragedia, porge le condoglianze alla famiglia, dice che sta indagando, promette trasparenza. Ma Daniel è morto da 5 mesi e fino a ieri c’era solo silenzio.