Intervista a Mauro Palma: carceri, Rsa, hotspot e Cpr ai tempi del Covid-19 di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 settembre 2020 Il Garante nazionale dei detenuti risponde a tutto campo sulle diverse problematiche relative ai luoghi di restrizione durante la pandemia. Il Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà personale parlerà oggi in conferenza stampa dei numerosi campi di intervento a cui dedica la propria attività. Mauro Palma, presidente del collegio dell’istituzione di garanzia, ha anticipato al manifesto le questioni principali. Le rivolte nei penitenziari hanno segnato l’inizio del lockdown. Qual è la situazione all’interno delle carceri nella fase di “convivenza con il virus”? Dal punto di vista del contagio il sistema penitenziario ha tenuto. Fino al 25 agosto i positivi in carcere sono stati in totale 290. Tra loro si contano 34 ospedalizzati. Il virus è entrato in 42 strutture su 191. Dal punto di vista della vita in carcere è positivo che all’interruzione delle visite è corrisposta una sperimentazione dei sistemi di video chiamata. Questo ha avuto un effetto calmante sulla “doppia ansia”: la paura del virus e quella che si prova in un luogo di restrizione. L’uso degli smartphone ha permesso ai detenuti di vedere i propri contesti familiari, le case, parenti anziani che non andavano a trovarli. Mi auguro che questo valore aggiunto rimanga, in forme che garantiscono la sicurezza. Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti Di negativo cosa c’è? Il carcere è diventato un luogo sordo e vuoto. La presenza di figure del volontariato o istituzionali, come gli insegnanti, è ridotta al lumicino. Le strutture sono tornate a essere molto chiuse. Se questa situazione si perpetuasse farebbe perdere quella positiva permeabilità verso l’esterno di un luogo che è comunque un’istituzione totale. I numeri cosa dicono? Il minimo di presenze è stato toccato a metà aprile: 52.792 (dalle 61mila pre-epidemia). Al momento sono 53.565. Sono troppe. Se dovessero servire spazi per il distanziamento un carcere che a fronte di 51mila posti disponibili ha quasi 54mila presenze è troppo fitto. Più di 3mila persone sono dentro per una pena inferiore a due anni. Mi domando perché e la risposta è che il territorio esterno non ha saputo dare altre risposte. Il rischio è che tutta la conflittualità di un corpo sociale complesso come il nostro sia pensata come una questione da nascondere oltre il muro. Se guardiamo i residui di pena, 6.875 detenuti devono scontare un anno o meno. Bisognerebbe ragionare su come favorirne il reinserimento sociale con altri strumenti. Va aggiunto un altro elemento negativo: 42 suicidi dietro le sbarre, 10 in più dello scorso anno nello stesso periodo. Quali indicazioni vengono fuori dalla vicenda del sequestro della caserma Levante di Piacenza? Ci siamo focalizzati su tre parole chiave che riteniamo pericolose sulla formazione delle forze di polizia. Primo: produttività. L’idea che più operazioni fai e più vai avanti con la carriera è devastante a livello culturale e determina deviazioni. Secondo: inimicizia. C’è il rischio che l’obiettivo dell’azione non sia fermare il crimine e arrestare l’autore ma annientare un soggetto percepito come contrapposto. Terzo: impunità. Un errato spirito di corpo può portare a rinchiudersi, a ritenere chi indaga come ostile. Ne abbiamo parlato con i massimi responsabili dei corpi di polizia perché non tutto si risolve con l’azione penale, dobbiamo capire come nascono alcune dinamiche e fare attenzione a queste parole nella formazione iniziale degli agenti e in quella in itinere. Cosa vuole dire al governo rispetto alle Rsa? Le Rsa sono luoghi in cui in una condizione normale il garante deve selezionare le persone da tutelare. Su 100, in genere 30/40 hanno parenti che vedono frequentemente, altrettante hanno visite fluttuanti e le altre solo un tutore legale che non viene mai. Con la chiusura imposta dal Covid tutte le persone devono essere tutelate dall’istituzione esterna di garanzia perché sono private della libertà personale non de iure, ma de facto. Il punto adesso è capire come si riprendono le visite e le uscite in sicurezza. Questo non può significare vedere ogni tanto i propri parenti al di là del vetro. Abbiamo scritto a presidenti delle regioni, comitato tecnico scientifico e vogliamo interloquire a livello alto con il governo per capire come si supera la situazione di emergenza. Si dice “convivere con il virus”, ma cosa significa in una Rsa? O in una residenza per disabili? I 353 naufraghi salvati da Sea-Watch sono stati trasbordati sulla nave quarantena Allegra. Alcuni erano a bordo da 11 giorni. I 18 messi al sicuro dal cargo commerciale Asso Ventotto sono scesi invece a Pozzallo due giorni dopo il salvataggio. Cosa raccontano queste due storie? La tendenza ad affrontare tutto come un terremoto improvviso, laddove il fenomeno migratorio è qualcosa di stabile e destinato a durare. Quest’anno in Italia sono sbarcate 18.742 persone. A fine agosto 1.248 erano negli hotspot, 60mila nei centri di accoglienza e 23mila nei cosiddetti Siproimi (ex Sprar). Le presenze nei centri sono troppo alte e questo dipende dall’errore di fondo del dl sicurezza di Salvini che ha privilegiato le grandi strutture distruggendo gli Sprar. Sono contento che la ministra Lamorgese dica che sia pronta la revisione ma chiedo che sia messa all’ordine del giorno del consiglio dei ministri. Questo nuovo rinvio a dopo il voto regionale non tiene conto che in situazioni come questa di panico da contagio i grandi ammassamenti influiscono negativamente sull’opinione pubblica. Delle navi quarantena cosa pensa? Se sono stabili, cioè attraccate in porto, sono preferibili a hotspot sovraffollati come quello di Lampedusa. Certo può essere solo un modello emergenziale. Quello che mi preme in ogni caso è che tutte le persone siano portate in un place of safety il prima possibile. Il Cpr di Gradisca d’Isonzo ha riaperto a dicembre scorso. Nei primi otto mesi sono già morte due persone: Vakhtang Enukidzee e Orgest Turia. Cosa sappiamo? Enukidze è morto il 28 gennaio. Due giorni prima sarebbe dovuto essere rimpatriato volontariamente. Ci siamo presentati come persona offesa e abbiamo nominato avvocato e medico legale. L’autopsia è stata consegnata alla procura che deve trarre ancora le deduzioni. Ma non sembrerebbero esserci elementi che inducano a ritenere le botte come causa della morte. Però ancora oggi non ci sono i risultati istologici e tossicologici... Sì, è vero. E poi c’è un altro dato oggettivo: ci sono fotografie in cui si vede Enukidze con un occhio gonfio. Questo va spiegato anche quando non è la causa della morte. E Turia? La sua morte risale al 14 luglio. Siamo molto più indietro. I periti nominati dal pm prendono circa 60 giorni per i primi risultati. Detenuto in A.S. ha tentato il suicidio 4 volte, la Cedu chiede all’Italia sorveglianza e cure di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 settembre 2020 La Corte Europea di Strasburgo (Cedu) ha chiesto al governo italiano di fornire al detenuto in alta sicurezza che ha tentato quattro volte il suicidio, la necessaria sorveglianza e cura psichiatrica in attesa della decisione del Tribunale di sorveglianza di Bari sull’istanza della detenzione domiciliare. Udienza che si terrà il prossimo primo ottobre. Un braccio di ferro tra il governo e i legali del detenuto, gli avvocati Michele Passione, Marina Silvia Mori ed Eustachio Claudio Solazzo, alternato da chiarimenti governativi (dove si minimizzavano i rischi suicidari del recluso) e contro osservazioni dei legali che alla fine sono culminate con la decisione del 28 agosto scorso da parte della Corte Europea. Una decisione, ricordiamo, che se non resa esecutiva dal governo, potrebbe tramutarsi in una violazione dell’articolo 34 della Convenzione. Parliamo della procedura 39 (questo è il tipo di richiesta prevista dal regolamento Cedu), la quale è straordinaria e viene attivata allo scopo di ottenere una misura provvisoria e urgente in casi particolari dove è a rischio la vita delle persone. Non c’è stata la misura provvisoria come i legali del ricorrente si aspettavano, ma resta il dato oggettivo che la Cedu ha recepito la gravità della situazione nonostante lo Stato italiano ha teso a minimizzare. Una situazione, quella del recluso, diventata paradossale a causa di provvedimenti discutibili da parte del magistrato di sorveglianza che non ha concesso la detenzione domiciliare “in deroga” visto che recentemente la Consulta ha equiparato la salute mentale con quella fisica. L’anno scorso, infatti, la Corte costituzionale ha esteso l’applicabilità della detenzione domiciliare “in deroga” anche ai casi di grave infermità psichiatrica sopravvenuta durante la carcerazione. Ci sono stati, però, ritardi da parte del Dap nel trovare una sistemazione e rifiuti da parte delle articolazioni psichiatriche di vari istituti penitenziari, oltre ai tentativi di suicidi, l’ultimo accaduto proprio al carcere di Spoleto. La difesa, nel frattempo, ha presentato una nuova istanza di detenzione domiciliare in deroga, ma nell’udienza del 2 luglio scorso l’articolazione psichiatrica di Spoleto non ha trasmesso alcuna documentazione di aggiornamento, nemmeno per dichiarare di non avere completato l’osservazione. Per giustificare il ritardo, alla Cedu è stato riposto che in buona parte è dovuto dal prolungato periodo del lockdown connesso alla pandemia. Ma i legali hanno prontamente osservato che l’articolazione psichiatrica di Spoleto è stata individuata come luogo di destinazione per il recluso fin dal gennaio scorso, quindi prima del lockdown. Questo per quanto riguarda l’ultimo periodo, ma ancora prima - negli altri penitenziari dove il detenuto psichiatrico aveva tentato tre suicidi - il governo non ha fatto nulla per proteggerlo e, secondo le osservazioni fatte dai legali, non ha dato spiegazioni alle domande poste dalla Cedu sul merito. Infatti le informazioni richieste dalla Cedu concernevano tutto il periodo detentivo patito dal ricorrente, che - hanno sottolineato gli avvocati - già da settembre 2019 avrebbe dovuto essere trasferito in una adeguata articolazione psichiatrica. Quindi la Cedu non ha chiesto solo le informazioni riguardanti l’ultimo periodo che il recluso ha trascorso nel carcere di Spoleto. Tra le altre risposte governative, c’è una in particolare che fa riflettere e forse rispecchia fedelmente la cultura carcerocentrica. Per il governo una condanna definitiva impedirebbe l’esecuzione della pena fuori dal carcere, quando - come hanno ben osservato gli avvocati nella replica alle risposte governative - “la disposizione citata (detenzione domiciliare “in deroga”) si riferisce proprio (ne potrebbe essere altrimenti) alle gravi condizioni di salute, oggi estese a quelle di natura psichica”, che consentono appunto anche la scarcerazione dei condannati in via definitiva. In oltre 13 mesi lo Stato italiano non è stato, quindi, in grado di esaminare compiutamente la situazione del detenuto. D’altronde è stata questa la motivazione per la quale gli avvocati difensori Michele Passione, Marina Silvia Mori ed Eustachio Claudio Solazzo hanno presentato la richiesta urgente alla Corte europea. Quest’ultima ha quinti intimato lo Stato Italiano di proteggerlo e curarlo in attesa della decisione sull’istanza della detenzione domiciliare. La beffa dei boss scarcerati per il virus: la metà è ancora a casa di Salvo Palazzolo La Repubblica, 3 settembre 2020 A quattro mesi dalla fine del lockdown sono 112 su 223 gli uomini dei clan rimasti ai domiciliari per il rischio contagio, nonostante il decreto Bonafede che doveva riportarli in cella. Il costruttore boss Pino Sansone, l’ex vicino di casa di Totò Riina, ha ottenuto gli arresti domiciliari a fine aprile, nel pieno dell’emergenza Covid. Ed è ancora lì, a casa sua, nonostante l’accusa pesante di aver tentato di riorganizzare un pezzo di Cosa nostra. Anche Gino Bontempo, il ras della mafia dei pascoli che razziava i contributi europei per i Nebrodi, è rimasto ai domiciliari, eppure l’emergenza Coronavirus in carcere si è ormai attenuata. Stesso beneficio per l’ergastolano Ciccio La Rocca, il padrino di Caltagirone su cui aveva indagato il giudice Falcone. E per tanti altri personaggi di peso delle mafie italiane. È lunga 112 nomi la lista di boss e trafficanti di droga che non sono più ritornati in cella nonostante il decreto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che a inizio di maggio aveva tentato di mettere un argine alla valanga di scarcerazioni per il rischio di contagio in carcere. “Ma altri 111 hanno fatto già rientro in istituto penitenziario - spiegano al ministero della Giustizia - ed è un risultato importante, il meccanismo del decreto si è rivelato decisivo perché, rispettando l’autonomia dei giudici, li ha chiamati a riconsiderare tutti i provvedimenti di scarcerazione e ha consentito di fare rientrare in carcere i boss più pericolosi”. Le celle si sono riaperte per due 41bis, il padrino della Cupola Francesco Bonura e il boss dell`Ndrangheta Vincenzino Iannazzo. In carcere sono tornati anche il killer di Cosa nostra Antonino Sudato, che sta scontando l’ergastolo; Franco Cataldo, uno dei carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo; Francesco Barivelo, il sicario dell’agente della polizia penitenziaria Carmelo Magli; Rosalia Di Trapani, la moglie del capomafia Salvatore Lo Piccolo; gli ‘ndranghetisti Nicolino Gioffrè, Francesco Mammoliti, Antonio Mandaglio, Antonio Romeo e lo scissionista Giosuè Belgiorno. Adesso, in carcere c’è anche il boss palermitano Nino Sacco, erede dei potenti Graviano di Brancaccio, i mafiosi delle stragi. Dati ufficiali - Cifre e nomi sono quelli forniti ieri a Repubblica dal ministero della Giustizia. La prima novità che balza all’evidenza è nel numero di 223 scarcerati per rischio Covid: il 14 maggio, in commissione giustizia, il ministro Bonafede aveva parlato invece di “498 scarcerati fra alta sorveglianza e 41bis”. Perché questa differenza? Il nuovo vertice del Dap, gestito da due ex pubblici ministeri antimafia (capo Dino Petralia, vice Roberto Tartaglia) ha fatto una cosa semplice appena insediatosi dopo le dimissioni di Franco Basentini, travolto dalle polemiche: ha passato in rassegna tutti i fascicoli dei boss andati ai domiciliari ed è saltato fuori che appunto solo 223 (102 sottoposti a misura cautelare, 121 a condanna definitiva) erano stati scarcerati per ragioni connesse al rischio Covid. I rimanenti 275 erano finiti ai domiciliari per “cause diverse e indipendenti dalla pandemia”. Dal Dap spiegano: “Ad esempio, fisiologiche cause processuali, applicazione di benefici previsti dalla legge, oppure motivazioni sanitarie pregresse, del tutto distinte dal rischio Covid”. Insomma, fino ad inizio maggio, quando poi c’è stato il cambio di gestione, al Dap c’era una certa confusione sulle scarcerazioni. E restano ancora le ombre pesanti sulla circolare che le ha sostanzialmente attivate, segnalando alcune patologie come “a rischio” di contagio Covid. Chi resta in libertà Al ministero tengono a ribadire: “È stato fatto davvero tutto il possibile per far fronte alla situazione che si era venuta a determinare”. Il decreto di Bonafede ha imposto ai giudici di fare delle rivalutazioni periodiche delle posizioni degli scarcerati. Un meccanismo che non ha però convinto il tribunale di sorveglianza di Sassari, che era chiamato ad occuparsi del boss dei Casalesi Pasquale Zagaria: i giudici hanno sollevato una questione di legittimità costituzionale sul decreto. “L’obbligo di rivalutazione della detenzione domiciliare” previsto da Bonafede potrebbe finire per “violare la sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria” e dunque “violare il principio di separazione dei poteri”. È una delle questioni in discussione. Gli avvocati denunciano anche una violazione del diritto di difesa e di quello alla salute. Vedremo cosa accadrà nei prossimi mesi, con la decisione della Consulta. Intanto, Zagaria non è tornato in carcere. Come altri tre autorevoli mafiosi della provincia di Palermo: Giuseppe Libreri, di Termini Imerese; Stefano Contino, di Cerda; e Diego Guzzino, di Caccamo. Per le forze di polizia è un gran lavoro ogni giorno tenere sotto controllo i boss rimasti a casa o in ospedale, nel loro territorio. Tina Montinaro: “È stato dato un segnale devastante. Fuori sono un pericolo” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 3 settembre 2020 L’intervista alla vedova del caposcorta di Falcone. “Quelle scarcerazioni nel pieno dell’emergenza Covid sono state un segnale devastante”, dice Tina Montinaro, la vedova del caposcorta di Giovanni Falcone, Antonio, morto anche lui nell’attentato di Capaci. “Non parlatemi di svista - ripete perché la lotta alla mafia deve essere fatta da persone competenti. E alla fine, tanti boss hanno lasciato il carcere, e noi familiari delle vittime siamo rimasti rinchiusi nel 41bis del nostro dolore, a scontare il vero ergastolo”. Il ministro della Giustizia Bonafede ha provato a mettere un argine alle scarcerazioni con un decreto che ha già riportato in cella 111 pericolosi mafiosi. Come valuta questo provvedimento? “Un decreto da solo non potrà mai rimarginare una ferita grande che si è venuta a creare. Cosa devo dire io ai ragazzi dei quartieri di Palermo quando vedono tornare a casa il mafioso? Lo Stato non ha dato davvero un buon esempio, non ha saputo garantire la certezza della pena”. La circolare del Dap e poi i provvedimenti dei giudici di sorveglianza ponevano la questione del diritto alla salute dei detenuti in un dato momento storico di emergenza sanitaria. Come si sarebbe dovuto garantire il diritto alla salute? “Innanzitutto, chiariamo: io sono la prima a dire che anche il mafioso più incallito ha diritto a essere curato. Noi siamo lo Stato, noi siamo la legalità. Detto questo, non si dovevano mandare a casa mafiosi pericolosi, ma attrezzare le tante strutture sanitarie presenti all’interno delle carceri”. Quale rischio vede nel ritorno di mafiosi piccoli e grandi nei loro territori? “Siamo alle questioni basilari, come si fa a non rendersi conto? Un mafioso si alimenta delle relazioni nel suo territorio, dove gode di complicità e protezioni. Gli arresti domiciliari non sono affatto un limite, una barriera, come tante inchieste giudiziarie ci hanno dimostrato. Ma voglio tornare ancora sulla questione del diritto alla salute”. Questione centrale… “Vorrei che si parlasse anche delle condizioni di salute degli ultimi rinchiusi nelle carceri: i migranti, i tossicodipendenti, tutti coloro che non hanno soldi per ingaggiare grandi avvocati o relazioni per mobilitare opinionisti”. Il tema del diritto alla salute al 41bis si era posto con forza alcuni anni fa, quando in carcere erano gravemente ammalati i due capi di Cosa nostra, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Fra gli ultimi scarcerati ci sono altri boss molto anziani, come si dovrebbe intervenire secondo lei? “I casi Riina e Provenzano sono un modello a cui fare riferimento. I padrini delle stragi ebbero la migliore assistenza possibile in strutture ospedaliere penitenziarie, dove venivano anche visitati dai familiari”. Ritiene che i vecchi mafiosi contino ancora nell’organizzazione? “Rappresentano dei simboli per i più giovani. Simboli di illegalità che continuiamo a combattere ogni giorno con un lavoro sul territorio. E se sul territorio ritornano, allora rischiamo di perdere la nostra battaglia. Anni di lavoro in fumo, giovani che si allontanano. Con le scarcerazioni dei boss lo Stato ha perso una cosa soprattutto, la credibilità”. Il carcere provvisorio dei boss di Attilio Bolzoni La Repubblica, 3 settembre 2020 Sarà anche un pasticcio provocato da un ministro della Giustizia pasticcione ma visto da un altro punto di vista (quello dei mafiosi) si è rivelata davvero una sorpresa molto gradevole. È un inatteso regalo e insieme uno spaventoso ritorno al passato che neanche gli amici degli amici - che una volta quelli là avevano in abbondanza in Parlamento e anche in qualche alto ufficio giudiziario - avrebbero potuto mai assicurare con tanta generosità. Della “guerra dei numeri”, sui riportati in carcere reali e su quelli solo virtuali parleremo dopo, intanto prendiamo atto della libertà riconquistata da molti di loro. Sono ancora a casa, sul loro territorio, condannati per la giustizia italiana ma fuori per un’interpretazione o una forzata applicazione delle leggi da parte dei giudici di sorveglianza. Quei boss e quei mezzi boss sono in queste ore tranquillamente e spavaldamente nelle loro abitazioni “ai domiciliari”, nei quartieri dove hanno sempre comandato davanti alle loro vittime, dove possono esibire il loro potere come prima e più di prima. Questa storia dei boss e dei mezzi boss che sono usciti dalle carceri con quell’ambiguissima circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della primavera scorsa, non è solo una questione di codici o di cavilli che esorcizzano i fatti. È qualcosa che rimette in gioco tutto quello che da molto tempo era svanito per la popolazione mafiosa. Una certezza che aveva accompagnato la vita dei mafiosi era: il carcere è sempre provvisorio. Nonostante le condanne, nonostante le sentenze pronunciate dai tribunali e dalle corti di assise, le pene definitive per i mafiosi non esistono e non esisteranno mai. È questo il segnale devastante che è arrivato dal pastrocchio generato fra il Dap (il Dipartimento dell’amministrazione giudiziaria) e il ministero della Giustizia guidato da Alfonso Bonafede con quella circolare al tempo del lockdown. Sarà stata una “svista”, sarà stata una cattiva decodificazione delle norme, sarà stata la paura del Covid e dei contagi che potevano diffondersi dietro le sbarre, ma per esempio oggi Pino Sansone (uno dei mafiosi palermitani che appartiene alla famiglia che nascondeva Totò Riffia nella villa di proprietà del suo clan in via Bernini) è “detenuto” nel suo quartiere dell’Uditore come prima dell’indagine a suo carico e come prima dell’arresto. La legge è legge ma i mafiosi sono mafiosi. Abituati a sfruttare ogni incoerenza e ogni “contraddizione” legislativa e inserirsi in ogni spazio di garantismo che viene offerto loro dallo Stato. Era da anni, da moltissimi anni, che i boss delle mafie italiane non beneficiavano degli “sconti” di pena governativi o elargiti magari degli stessi giudici. Dai tempi del maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, quando Sua Eccellenza Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Suprema Corte di Cassazione - lo chiamavano “l’Ammazzasentenze” - ne11991 riuscì a ridare la libertà a quarantatré imputati (alcuni come Michele Greco erano ai vertici della Cupola) per la scadenza dei termini di custodia cautelare. Allora ci fu un decreto governativo che rispedì i boss all’Ucciardone - i boss lo definirono “il mandato di cattura del governo” - ma quasi trent’anni dopo tutto sembra capovolto e i boss e i mezzi boss stanno inaspettatamente recuperando il terreno perduto riappropriandosi del loro status di boss e di mezzi boss nelle loro borgate. A giugno il nuovo direttore dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia avevano provato a “sospendere” quella circolare primaverile, che tanto scandalo aveva sollevato sui mafiosi che avevano trovato aperte le porte delle prigioni. oggi però torna il giallo dei numeri. Se il 14 maggio scorso il ministro Alfonso Bonafede aveva deposto in commissione giustizia della Camera che “erano 498” i detenuti “non più ristretti negli istituti penitenziari”, di cui 494 rinchiusi nei bracci dell’alta sicurezza e quattro al 41bis, si scopre in queste ore che di quei 498 ancora in 112 non sono rientrati e due di questi erano al 41bis. Cento e passa “galantuomini” che in questo momento possono fare liberamente quello che hanno sempre fatto: i mafiosi. “I mafiosi devono morire in carcere”: Piera Aiello lascia i 5 Stelle perché troppo garantisti Il Riformista, 3 settembre 2020 Gli ideali di Gianroberto Casaleggio sono stati traditi e in Commissione Antimafia decide tutto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Queste le motivazioni che hanno portato la deputata siciliana Piera Aiello a dimettersi dal Movimento 5 Stelle. E soprattutto, a essere traditi, gli ideali del giustizialismo e dei “manettari”. Aiello, già conosciuta come “la deputata senza volto” in passato, perché testimone di giustizia sotto scorta, è vedova del figlio di un boss. A raccogliere le sue parole Paolo Borsellino. Dopo la sua collaborazione Aiello lasciò la Sicilia e cambiò nome. La parlamentare ha reso nota la sua decisione in un lungo post su Facebook nel quale ha citato proprio Borsellino: “‘Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo’, ebbene ho la netta sensazione che non è la guerra quella che il Movimento ha fatto in questi due anni”. La deputata - che comunque continuerà la sua attività parlamentare - sembra stia parlando di un altro partito e non della formazione più manettara e giustizialista che la Repubblica abbia mai conosciuto. Gli attriti con Bonafede - Non c’è feeling con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e con la sua gestione della Commissione Parlamentare Antimafia, della quale Aiello fa parte. “È sempre il ministro a decidere tutto e sicuramente non in autonomia, poiché il 90% degli emendamenti portati in commissione e poi in aula vengono bocciati e spesso senza alcuna motivazione valida”, ha scritto la deputata. “Sicuramente sono state fatte leggi importanti come lo “Spazza corrotti”, il 416ter, la riforma della prescrizione, l’inserimento del troian come strumento per le intercettazioni - ha riconosciuto la deputata - ma di fatto rese vane nel momento in cui vengono mandati agli arresti domiciliari ergastolani del 41bis tramite una semplice circolare concordata con gli organi del Dap e il ministro Bonafede”. E a questo punto la deputata si spinge anche oltre, senza tener conto dell’emergenza coronavirus, dei numeri del sovraffollamento delle carceri, delle condizioni critiche ed estreme nelle quali versano alcuni istituti: “La suddetta circolare manda infatti agli arresti domiciliari pericolosi criminali, che hanno ucciso anche bambini, solo perché ammalati e ultra settantenni. Non nego il diritto sacrosanto alla salute, ma così come è stata applicata la legge riguardo l’ormai defunto Boss Corleonese Totò Riina, curato fino all’ultimo giorno in carcere, così doveva e deve avvenire per tutti gli altri boss mafiosi, altrimenti dov’è il diritto dell’essere uguali di fronte alla legge che tanto viene evidenziato nelle aule dei tribunali? Come può un cittadino fidarsi dello Stato se viene messa in pericolo in primis la propria sicurezza? I testimoni e i collaboratori che hanno contribuito al loro arresto come possono avere certezze di sicurezza? E chi vuole iniziare questo percorso di legalità come può davvero affidarsi allo Stato, se quest’ultimo non dimostra stabilità rendendo effettiva la pena di persone che hanno ancora le mani sporche di sangue?” I magistrati si schierano contro il taglio dei parlamentari Il Dubbio, 3 settembre 2020 L’ex pm Armando Spataro e le toghe di Area annunciano il proprio No al referendum. “Voterò senza alcun dubbio No in questo referendum così come ho fatto con le pessime riforme precedenti, quella berlusconiana del 2006 e quella renziana del 2016”. Lo afferma in un’intervista, l’ex pm Armando Spataro, spiegando le ragioni della sua scelta. “Intanto - fa notare - non è una riforma, termine che si può usare per un disegno organico di mutamento istituzionale. Voterò No perché sono contro ogni tipo di pubblicità ingannevole, e i brand a sostegno del Sì lo sono: minori costi istituzionali, maggiore efficienza del Parlamento, allineamento con i numeri dei parlamenti europei. Tutte bufale colossali”. “Noi non difendiamo questo Parlamento - prosegue Spataro, che fa parte di un comitato per il No - ma l’istituzione che è centrale per ogni democrazia, e soprattutto difendiamo il futuro di questo Paese. Gli economisti esperti hanno smentito che ci possa essere un significativo risparmio dei costi, ammesso che con le istituzioni si possa ragionare come in un’impresa. Poi è dimostrato numericamente che se vincesse il Sì il nostro Paese sarebbe quasi all’ultimo posto in Europa nel rapporto tra eletti ed elettori, i quali sarebbero meno rappresentati. Quanto all’efficienza, è solo frutto di populismo l’affermazione secondo cui meno si è in Parlamento e meglio si lavora”. E a Spataro fa eco Area: con il taglio dei parlamentari non accompagnato da una nuova legge elettorale si rischia “un vulnus per la democrazia rappresentativa”, denuncia Area. “Occorre domandarsi se un risparmio di spesa, scarsamente incidente e ancora di impossibile identificazione costituisca un vantaggio tanto significativo da giustificare gli effetti distorsivi che la riforma rischia di determinare sulla democrazia, sulla rappresentanza e sul pluralismo. Effetti che rischiano di aggravarsi in assenza della riforma della legge elettorale, aumentando la distanza tra politica e i cittadini”. Secondo l’associazione delle toghe progressiste, “in presenza della legge elettorale attuale, la riduzione del numero degli eleggibili accresce il ruolo delle segreterie dei partiti, che finiranno con l’occupare ogni spazio di rappresentanza, e determina una marcata marginalizzazione delle minoranze, se non la loro espulsione dal Parlamento. Né potranno trovare adeguata rappresentanza tutte le differenti realtà territoriali del Paese. Fattore questo che “si inserirebbe in un quadro istituzionale che già registra un progressivo e preoccupante svilimento del ruolo del Parlamento rispetto al Governo, attuato attraverso l’irrigidimento della disciplina di partito, fino alla sostanziale imposizione del vincolo di mandato, il costante ricorso alla decretazione d’urgenza, alla legge delega ed al voto di fiducia, il sistematico accantonamento delle proposte di legge di iniziativa parlamentare per dare corso più rapido a quelle governative”. No a Sky Sport sui televisori del carcere. La Cassazione: “bastano Rai e Mediaset” di Aldo Fontanarosa La Repubblica, 3 settembre 2020 Un detenuto, grande appassionato di calcio, ha contattato il magistrato di sorveglianza del carcere di Cuneo rivendicando il diritto all’informazione sportiva. Pago io - ha detto - ma attivate Sky Sport e Premium Sport sui televisori della casa circondariale. Il magistrato di sorveglianza, il 2 ottobre del 2019, ha respinto la richiesta al mittente. È vero: chi è recluso ha tutto il diritto di informarsi. Ma la Circolare dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del 2017 parla molto chiaro. È sufficiente garantire ai detenuti la visione di ventuno canali televisivi mentre non sono ammesse eccezioni o integrazioni. I ventuno canali della Circolare sono: Rai1, Rai2, Rai3, Rai4, Rai5, Rai News 24, Rai Movie. Rai Scuola, Rai Storia, Rai Sport 1 e 2, Rai Premium, Yoyo, Gulp; Canale 5, Rete 4, Italia Uno, La Sette, Cielo, Iris e Tv 2000. Il detenuto non ha preso bene il rifiuto di attivare i canali di informazione sportiva; ha accusato il magistrato di sorveglianza di non aver accettato un confronto con lui; ha lamentato infine una violazione dell’articolo 21 della Costituzione. La visione di canali specializzati nello sport, secondo il recluso non è un capriccio. È semmai un diritto soggettivo garantito dalla nostra Carta costituzionale. A quel punto, il detenuto ha presentato un ricorso alla Corte di Cassazione penale, che però gli ha dato torto. Secondo i giudici della Corte, il magistrato di sorveglianza aveva tutto il diritto di decidere sulla richiesta senza contraddittorio perché questa non ha alcuna fondatezza. Peraltro, l’Amministrazione penitenziaria (Dap) ha risposto all’esigenza dei reclusi di guardare la tv mettendo a disposizione i 21 canali, senza per questo trascurare il suo dovere di adottare soluzioni gestibili. La Circolare dei 21 canali, infine, è un provvedimento generale che riguarda tutti i detenuti. Un singolo recluso, dunque, non può lamentare la violazione di un suo diritto soggettivo e individuale. La Corte di Cassazione, dunque, respinge la richiesta di attivazione di canali tematici come Sky Sport. Sconfitto in sede di reclamo, il detenuto dovrà pagare 3000 euro per le spese del procedimento e in favore della Cassa delle ammende (ente pubblico che, tra le altre cose, finanzia progetti di recupero e reinserimento dei condannati). Delitti di lucro, speciale tenuità applicabile anche agli stupefacenti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2020 Corte di cassazione - SU - Sentenza 2 settembre 2020 n. 24990. “La circostanza attenuante del lucro e dell’evento di speciale tenuità è applicabile, indipendentemente dalla natura giuridica del bene oggetto di tutela, ad ogni tipo di delitto commesso per un motivo di lucro, compresi i delitti in materia di stupefacenti, ed è compatibile con la fattispecie di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990”. Lo hanno chiarito le Sezioni Unite penali, con la sentenza n. 24990 depositata il 2 settembre, sciogliendo un contrasto interpretativo. Accolto dunque (con rinvio) il ricorso di un extracomunitario, originario del Mali, condannato a 3 mesi di reclusione e 500 euro di multa per la cessione di 2,2 gr di hashish per la somma di dieci euro. Nelle fasi di merito invece sia il Tribunale che la Corte di appello di Torino ne avevano bocciato i ricorsi aderendo alla opzione interpretativa secondo cui il riconoscimento dell’attenuante si sarebbe risolto “in una duplice valutazione dei medesimi elementi” con una “indebita duplicazione dei benefici sanzionatori”. Il massimo consesso penale, al contrario, dopo aver ripercorso le ragioni dei due diversi orientamenti, ha ritenuto condivisibile “la soluzione prospettata dall’indirizzo giurisprudenziale più recente, secondo il quale la circostanza attenuante del conseguimento di un lucro di speciale tenuità di cui all’art. 62, n. 4, cod. pen, è applicabile ai reati in materia di stupefacenti in presenza di un evento dannoso o pericoloso connotato anch’esso da speciale tenuità, ed è compatibile con l’autonoma fattispecie del fatto di lieve entità”, previsto dalla normativa sugli stupefacenti. Per la Suprema corte infatti “la trasformazione dell’attenuante speciale originariamente prevista all’art. 73, comma 5, del Dpr n, 309 del 1990 in ipotesi di reato autonomo, come tale dotata di specifica cornice edittale, fa sì che l’attenuante comune in esame sia ormai destinata ad incidere sull’ordinario trattamento punitivo riservato a quelle condotte, sicché in tal caso non si verifica, come paventato dall’opposto indirizzo interpretativo, alcun cumulo di benefici sanzionatori tra loro concorrenti”. Al contrario, l’accoglimento della tesi opposta, “comporterebbe un rigido limite nella modulazione della pena al fatto storico, e comporterebbe che, anche in presenza di un lucro e di un’offesa di speciale tenuità, l’imputato non possa beneficiare di un giudizio di bilanciamento”. Del resto, prosegue la decisione, che il riconoscimento dell’attenuante comporti la duplice valutazione del medesimo elemento “costituisce assunto smentito dalla diversità dei presupposti necessari per l’integrazione del fatto di lieve entità rispetto a quelli conformativi dell’attenuante comune in esame”. Mentre, spiega la Corte, la valutazione della “lieve entità” del fatto (ai sensi dell’articolo 73, comma 5, del Dpr n. 309 del 1990) è relativa alla condotta - avuto riguardo ai mezzi, alla modalità e alle circostanze dell’azione - e all’oggetto materiale del reato - in relazione alla qualità e quantità delle sostanze - “la verifica della speciale tenuità rilevante per il riconoscimento dell’attenuante di cui alla seconda parte dell’art. 62, n. 4 cod. pen. attiene ai motivi a delinquere (lucro perseguito), al profitto (lucro conseguito) e all’evento (dannoso o pericoloso) del reato”. Si tratta quindi di valutazioni focalizzate su elementi tra loro ontologicamente distinti, ancorché in astratto suscettibili di convergere nell’accertamento del complessivo disvalore del fatto storico. Si tratta, inoltre, di valutazioni di diversa natura e diverso grado: la prima, attinente alla “lieve entità del fatto”, è unitaria e complessiva, non scandita da un ordine gerarchico degli clementi allo scopo rilevanti, per ciascuno dei quali è possibile un giudizio di parziale o totale compensazione; la seconda, relativa alla “speciale tenuità” del lucro e dell’offesa, indica due temi specifici e distinti, suscettibili di opposte conclusioni nel medesimo caso di specie e ancorati ad un parametro di maggiore intensità e pregnanza rispetto a quello rilevante per l’integrazione della fattispecie “lieve”. La non punibilità non esclude le misure di sicurezza previste dal Testo unico ambientale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 2 settembre 2020 n. 24974. Il riconoscimento della causa di non punibilità per il reato ambientale di raccolta e trasporto di rifuti non autorizzati non fa venir meno l’applicazione delle misure di sicurezza, imposte dal testo unico, della confisca obbligatoria del veicolo utilizzato nella commissione del reato e della distruzione dei rifiuti. Così la Corte di cassazione con la sentenza n. 24974 depositata ieri ha precisato che la confisca del mezzo di trasporto e la distruzione dei beni oggetto del reato sono misure di sicurezza e che le esigenze di tutela che esprimono non vengono meno per il solo proscioglimento dell’imputato. Infatti, le misure di sicurezza vengono travolte solo in caso di assoluzione per insussistenza del fatto. L’affermazione della Cassazione penale è contenuta nella decisione che ha accolto il ricorso dove si lamentava il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto, previsto dall’articolo 131-bis del Codice penale. Gli elementi di non punibilità - La Cassazione ha fatto proprie le osservazioni del ricorrente contro la decisione di merito che aveva escluso la non punibilità, pur avendo riconosciuto le attenuanti generiche vista l’episodicità del reato commesso per l’assenza dell’iscrizione all’Albo dei gestori prevista dall’articolo 212 del Dlgs 152/2006 e le condizioni di disagio economico familiare che avevano determinato la necessità di procacciare mezzi di sostentamento. Il ricorrente era stato condannato alla sola ammenda a riprova che la sua condotta non era stata valutata pericolosa tanto da giustificare l’alternativa scelta del giudice per la pena detentiva. La decisione - La Cassazione ha preso la propria decisione senza rinvio al giudice di merito in base alla costante giurisprudenza che consente il riconoscimento della causa di non punibilità per tenuità del fatto, se il riconoscimento del beneficio emerge dagli atti a disposizione del giudice di legittimità. Napoli. “Niente prenotazioni e più front office, così la giustizia riparte” di Viviana Lanza Il Riformista, 3 settembre 2020 Carnevale, presidente della Camera Penale di Napoli: i tribunali devono ripartire a pieno regime. D’accordo sulle udienze anche di pomeriggio, ma preoccupa il silenzio della politica. Sono preoccupati dal silenzio della politica ma decisi sulle proposte da attuare per una ripresa completa del settore giustizia. I penalisti napoletani hanno le idee chiare su come si potrebbe gestire la fase di ripresa dei ritmi dell’attività giudiziaria dopo la pausa feriale. Questa mattina il presidente della Camera penale di Napoli Ermanno Carnevale sarà all’incontro con i capi degli uffici giudiziari napoletani per discutere i termini della ripartenza. I dati recenti sui contagi, frutto anche dell’aumento dei tamponi, tracciano uno scenario con il quale bisognerà fare i conti ancora per un po’ di tempo, e non si sa quanto. “La ripresa in ogni caso deve essere completa - chiarisce l’avvocato Carnevale - L’assoluto silenzio della politica preoccupa. È assurdo che mentre si dibatte sulla ripresa di tanti altri settori del paese e del sistema pubblico, della giustizia non si parli. Ci saremmo aspettati indicazioni precise dalla politica, e quindi dal ministro, su come organizzare la ripresa, posto che il sistema della delega ai singoli uffici ha prodotto i risultati che abbiamo constatato tutti e che lo stesso presidente dell’Unione Camere Penali nazionali Caiazza ha tradotto in quell’espressione bellissima, quella dei granducati, che rende perfettamente l’idea”. Tribunali come granducati, la giustizia frazionata e rallentata. “Purtroppo con questo virus dobbiamo convivere - aggiunge Carnevale. È un dato con il quale bisogna fare i conti e la risposta non può essere la chiusura. La risposta sono le precauzioni come quelle utilizzate per tutti i settori produttivi del Paese. La giustizia è un servizio pubblico essenziale e non può essere relegato in posizioni di marginalità. Deve riprendere a pieno regime”, ribadisce il presidente dei penalisti napoletani. Il Tribunale di Napoli è un ufficio giudiziario dai grandi numeri, centinaia di udienze ogni giorno, migliaia di presenze giornaliere. Ma la piena ripresa delle attività è possibile secondo i penalisti. “Le udienze possono riprendere a pieno regime con orari e fasce orarie - spiega Carnevale. Da parte nostra c’è piena disponibilità anche a fare udienze di pomeriggio”. Ovvio l’uso di dispositivi di sicurezza: mascherine e distanziamento sono una condizione su cui sono tutti d’accordo. L’idea è che dalla crisi si possano trarre occasioni anche positive. Nel campo della giustizia napoletana, un esempio in questo senso è l’esperienza dei front-office. “Quello della Corte d’Appello - spiega Carnevale - ha dato buoni risultati”. Attualmente sono operativi i front office della Corte d’Appello e del Tribunale. “Ci auguriamo che si possa attivare anche per l’ufficio Gip - aggiunge - Implementare i front office sarebbe molto utile”. Quanto al nodo cancellerie e al problema dell’accesso degli avvocati nelle segreterie e negli uffici del personale amministrativo del tribunale, la proposta dei penalisti è chiara: “Il sistema delle prenotazioni come metodo unico va eliminato - sostiene Carnevale - Sappiamo tutti, per averli frequentati, che sui piani delle torri, soprattutto da quando sono attivi i front office che alleggeriscono molto il lavoro delle cancellerie ed evitano folle agli ascensori, assembramenti non ce ne sono stati. Non se ne vedevano neanche in epoca pre-Covid, a dire il vero. Il sistema delle prenotazioni, oltre a essere residuale rispetto a quello che si può fare al front office, secondo noi andrebbe eliminato. Quindi un conto è svilupparlo come prassi che può rivelarsi positiva in molti casi, un conto è renderlo unico metodo. È chiaro poi che bisogna adottare tutte le cautele ma distanziamento e mascherine sono sufficienti. Eliminare il sistema delle prenotazioni quindi sarebbe un segnale importante”, spiega Carnevale. I penalisti sono decisi nelle loro proposte e ribadiscono la volontà di lavorare in sicurezza come tutti gli operatori del settore giustizia, ma di lavorare a pieno ritmo. Dicono sì anche al processo penale telematico. “Sarebbe utile implementarlo, noi siamo favorevoli al processo penale telematico che è cosa diversa dal processo da remoto”, conclude il presidente. Sulmona (Aq). I detenuti realizzano le pigotte dell’Unicef Il Centro, 3 settembre 2020 I detenuti del carcere di Sulmona confezionano le pigotte dell’Unicef. È questa una delle ricadute concrete del protocollo d’intesa sottoscritto dalla struttura penitenziaria diretta da Sergio Romice e dal comitato provinciale dell’associazione presieduto da Ilio Leonio. L’iniziativa ha assunto un risvolto particolare collegato alla Perdonanza Celestiniana da poco conclusa, perché le bambole di pezze simbolo dell’Unicef sono state realizzate con indosso i costumi tradizionali dell’evento. Si è tradotta in pratica così una collaborazione che, come recita il testo dell’accordo, è “imperniata su azioni congiunte, finalizzate alla promozione di progetti di sensibilizzazione e di formazione sui diritti del minore e sulla genitorialità consapevole e responsabile all’interno della casa di reclusione”. Per il confezionamento delle pigotte, le cui “adozioni” consentono di finanziare progetti in favore di bambini vulnerabili di Paesi in via di sviluppo, riducendone la mortalità, l’Unicef ha messo a disposizione consulenze tecniche. Il comitato provinciale si è impegnato inoltre a organizzare incontri e seminari in carcere dedicati a illustrare le proprie finalità istituzionali, ma anche a sostenere con le sue specifiche competenze le attività promosse dal carcere. La struttura di detenzione, da parte sua, favorirà e supporterà le iniziative portate avanti dall’Unicef, promuovendo anche l’organizzazione di gruppi lavori e altri eventi che attengano agli obiettivi indicati nel protocollo. Per i detenuti si tratta di un’occasione, ad esempio, per sviluppare la conoscenza e la sensibilità rispetto ai principi sanciti dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza stipulata nel 1989 e a “elaborare, di concerto, progetti comuni nell’ambito dell’educazione alla convivenza civile in ogni sua dimensione (educazione alla legalità, alla pace, all’interculturalità, alla solidarietà, alla cittadinanza attiva, allo sviluppo sostenibile, all’ambiente, alla salute), nella prospettiva della formazione integrale della persona”. Il tutto nell’ottica della responsabilizzazione di chi sta scontando una pena detentiva e della “riparazione indiretta del danno determinato dalla commissione di reati”. Roma. Musica per sopravvivere, un dj entra nel carcere di Rebibbia di Stefano Masella cittanuova.it, 3 settembre 2020 La musica che nutre rapporti di umanità che insegna l’ascolto, l’azzeramento del pregiudizio sociale. Giovedì 20 agosto 2020: musica come speranza. La luce calda del crepuscolo colora appena il muro di cinta che circonda l’ingresso della Terza Casa Circondariale di Rebibbia a Roma. Oggi è una di quelle giornate che ricorderò per sempre; non so ancora come affronterò questa avventura né come ne uscirò ma, in cuor mio, spero tanto di trarne il massimo. Tatiana Fabbrizio, speaker e dj di Radio Rock, collega e amica, mi aspetta davanti all’ingresso del carcere. È grazie a lei che oggi sono qui. Mi chiamò un pomeriggio per propormi di selezionare un po’ di musica all’interno di una manifestazione musicale organizzata a favore dei detenuti di Rebibbia, idea che mi sembrò subito meravigliosa. Ed eccoci, pronti a entrare in un microcosmo fatto di storie e vite spezzate. Accolti dalla direttrice Annamaria Trapazzo e indirizzati verso il cortile, ci dirigiamo verso la nostra postazione, guardandoci intorno per comprendere la situazione. Qualche detenuto attende seduto l’inizio delle esibizioni, un paio di guardie penitenziarie scambiano due chiacchiere ai bordi del campo di calcetto che occupa quasi metà del cortile. Nel giro di pochi minuti, altri detenuti prendono i loro posti a sedere (rigorosamente distanziati per via delle misure di sicurezza anti-Covid), apparentemente incuriositi dalla proposta artistica della giornata. È Annalisa Aglioti, talentuosa attrice dal background teatrale, ad aprire la serata con un monologo comico sul rapporto uomo-donna. Il pubblico apprezza, si diverte, applaude. Antonio, in prima fila, si mostra da subito partecipe al monologo, facendosi coinvolgere in un paio di battute. Terminato il monologo, è Luca Bussoletti, accompagnato dalla sua band, a scaldare musicalmente l’ambiente. Luca è un cantautore romano, pieno di energia, già precedentemente coinvolto in manifestazioni all’interno del carcere di Rebibbia. Sembra che abbia gli occhi lucidi quando, tra un brano e l’altro del suo repertorio, ricorda la prima volta che entrò tra queste mura. Il concerto tiene alta la soglia d’attenzione della platea che, oltre a gradire l’esibizione, si prodiga in bislacche coreografie. Al termine del live, io e Tatiana facciamo il nostro ingresso in consolle, chiedendo a gran voce di ricevere dediche e richieste musicali di qualsiasi tipo. Dopo un iniziale tentennamento, qualcuno timidamente si avvicina a noi: “Qualcosa dei Metallica… o dei Guns’n’Roses”. Mi sento a casa. Marco, quasi un veterano all’interno del gruppo di detenuti, viene a parlare un po’ con noi. Ci parla del suo presente ma soprattutto del suo passato, quando a Roma era “il re delle discoteche” e si spostava di festa in festa. Cita a memoria tutti i nomi dei più famosi dj dell’underground romana degli anni ‘90, appellandoli spesso come “grandi amici”. Ride, scherza, ci prendiamo in giro. Poi, tra il serio e il faceto, mi dice: “Certo, i Pink Floyd potresti pure metterli!”. Lo ringrazio per averli proposti e lui, mettendomi una mano sulla spalla, mi sussurra: “La musica mi ha fatto sopravvivere”. Nel frattempo, un paio di ragazzi vengono verso di me e, con un po’ di imbarazzo mal celato, chiedono da dedicare ad un loro compagno di cella una canzone di Achille Lauro. E ancora, Oasis, Led Zeppelin, Billy Idol. Il foglio delle richieste musicali è quasi al completo, non so neanche se riuscirò ad accontentarli tutti ma va bene così. L’obiettivo della giornata è fare in modo che tutto questo non rimanga un evento speciale fatto una tantum, che anche questo piccolo tassello faccia parte di quel grande mosaico che è il percorso di recupero di un detenuto all’interno di un carcere. Il prossimo appuntamento è per questo inverno. Torneremo qui e saluteremo tutti come amici. Perché quello che di più vero può insegnarci un’esperienza del genere è il rapporto con l’altro, l’ascolto, l’azzeramento del pregiudizio sociale. Come se fossimo noi, nel nostro piccolo, a dover essere rieducati. Venezia. Il regista Daniele Luchetti alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca Ristretti Orizzonti, 3 settembre 2020 Balamòs Teatro - progetto teatrale “Passi Sospesi” e la 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Prosegue la proficua collaborazione tra gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, con le attività coordinate da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale di Balamòs Teatro e responsabile del progetto teatrale “Passi Sospesi”, attivo dal 2006 negli Istituti Penitenziari veneziani. Avviate nel 2008, le iniziative si svolgono dentro e fuori gli Istituti Penitenziari durante il periodo della Biennale Cinema (Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, Casa Circondariale Maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia). In questi anni, sono stati organizzati incontri, conferenze, proiezioni di documentari sul progetto teatrale “Passi Sospesi” nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, ma anche all’interno degli Istituti Penitenziari. Nelle ultime edizioni Michalis Traitsis invita registi e attori ospiti della Mostra per un incontro con la popolazione detenuta, preceduto dalla presentazione dei film più rappresentativi degli artisti ospitati. Negli anni passati hanno visitato le carceri veneziane Abdellatif Kechiche, Fatih Akin, Mira Nair, Gianni Amelio, Antonio Albanese, Gabriele Salvatores, Ascanio Celestini, Fabio Cavalli, Emir Kusturica, Concita De Gregorio, David Cronenberg, Paolo Virzì. L’iniziativa si realizzerà anche quest’anno nonostante l’emergenza sanitaria, e grazie agli sforzi organizzativi della Biennale di Venezia e della Casa di Reclusione Femminile di Giudecca, ci saranno due eventi dentro e fuori l’Istituto Penitenziario: - la presenza di una donna detenuta in permesso alla serata di apertura della 77. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che si inaugurerà con il film “Lacci” di Daniele Luchetti, mercoledì 2 settembre 2020, alle ore 19.00, - e la visita del regista Daniele Luchetti che incontrerà le donne detenute alla Casa di Reclusione Femminile di Giudecca presso il cortile dell’Istituto Penitenziario Femminile, venerdì 4 settembre 2020, alle ore 15.00. L’incontro è riservato agli autorizzati. Per l’occasione, durante la Biennale Cinema 2020, all’interno dell’istituto penitenziario femminile di Giudecca verrà organizzata precedentemente la proiezione dei film di Daniele Luchetti “La nostra vita” e “Anni felici”, per facilitare l’incontro con il regista. La collaborazione di Balamòs Teatro con gli Istituti Penitenziari di Venezia e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha come obiettivo quello di ampliare, intensificare e diffondere la cultura dentro e fuori gli Istituti Penitenziari ed è inserita all’interno di una rete di relazioni che comprende come partner il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Teatro Stabile del Veneto, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, il Centro Teatro Universitario di Ferrara e la Regione Veneto. Per il progetto teatrale “Passi Sospesi”, Michalis Traitsis ha ricevuto nell’aprile del 2013 l’encomio da parte della Presidenza della Repubblica e nel novembre del 2013 il Premio dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro. Basaglia trasformò i malati in persone. E il mondo lo seguì... di Maria Antonietta Farina Coscioni e Alessandro Grispini Il Dubbio, 3 settembre 2020 Quarant’anni fa ci lasciava l’uomo che chiuse i manicomi. Lo hanno ricordato in tanti e in molti modi Franco Basaglia, che quarant’anni fa, il 29 agosto, ci lasciava. Ricordi, rievocazioni, celebrazioni anche belle, commosse e partecipate. Risarcimento postumo e parziale delle tante strumentali e infondate polemiche e accuse che ha dovuto sopportare in vita. Ecco: a risarcimento e riconoscimento di quello che seppe capire e indicare, si può suggerire la visione (e per tanti sarà una riscoperta), del lungo “dossier” televisivo realizzato da Sergio Zavoli per la Rai: “I giardini di Abele”. Nel 1968 (1968!) Zavoli incontra Franco Basaglia, che a quel tempo lavora nel manicomio di Gorizia. Le telecamere della RAI entrano per la prima volta in quel luogo di dolore e sofferenza “dentro”. È lo stesso anno in cui Basaglia dà alle stampe un libro destinato a diventare un piccolo classico: “L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico”: racconta proprio l’esperienza goriziana. Sono gli anni delle assemblee con i lavoratori e i pazienti; della critica agli apparati psichiatrici vigenti; si comincia a eliminare l’inumana pratica della contenzione forzosa; il paziente è considerato per quello che è: una persona sofferente di cui prendersi cura e non da esorcizzare negandolo e relegandolo. A un certo punto, Zavoli chiede: “È più interessato al malato o alla malattia?”, e Basaglia senza esitazione: “Decisamente al malato”. Sembra una domanda neppure da fare; una risposta perfino scontata. Oggi. Ma nel 1968 solo quel chiedere, e quella breve e fulminea risposta, sono una piccola, grande rivoluzione. Si mette in discussione una consolidata prassi, una mentalità che nessuno osava contestare. Basaglia: a lui dovrebbero essere dedicati più eventi: è lo psichiatra che avvia la prima esperienza anti- istituzionale della cura dei malati di mente: supera la vecchia, crudele, normativa del 1904: che consente di internare persone per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano “pericolose e di pubblico scandalo”. Una punizione, più che una cura, una colpa e una vergogna, più che una malattia. Brutalmente definiti matti: diversi e per questo perversi, per loro l’unica cura è camicia di forza, elettroshock, abuso di psicofarmaci Grazie a Basaglia si avvia un nuovo approccio con il malato di mente. Un precursore; di fatto, “fonda” una scuola; molti dei suoi “allievi” proseguono, sostenuti da amministrazioni locali avvedute e “illuminate”, il percorso che ha iniziato. Coraggiose, isolate esperienze: anticipano la rivoluzione culturale che il 13 maggio 1978 sfocia nella legge 180: abolisce la istituzione manicomiale e restituisce dignità ai malati psichiatrici. Legge rivoluzionaria che il Parlamento approva in fretta e furia, una corsa contro il tempo per evitare il referendum indetto dal Partito Radicale. Gli stessi radicali denunciano come la fretta sia una cattiva consigliera: Marco Pannella invano denuncia la mancanza di copertura economica che svilisce così la riforma. Il primo monito per i problemi che si sarebbero sorti in seguito. A disconoscere la legge che ancor oggi porta il suo nome, è lo stesso Basaglia: “Attenzione alle facili euforie”, ammonisce. Non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente. È un lavoro lungo, quotidiano, paziente; che richiede disponibilità, dedizione, sacrificio; amore, non si deve aver paura delle parole. Perché quell’umanità sofferente è anche ricca di sentimento e spesso il dolore si trasforma in poesia e arte tardivamente riconosciute: si pensi ad Ada Merini o ad Antonio Ligabue, per fare due soli nomi… Una umanità dolente che non va trascurata, va seguita, ed è parte di noi. Per tornare a Basaglia, e alla legge 180: una legge rivoluzionaria nello spirito, ma ancora immatura per realizzare una autentica psichiatria di comunità. La sua realizzazione presupponeva strutture idonee, ma il percorso per la costruzione di un dipartimento di salute mentale completo e integrato è stato lungo e travagliato. Non vi è dubbio che per anni e anni la carenza di strutture residenziali e semiresidenziali abbia comportato non soltanto percorsi di trattamento, ma anche un rilevante impegno per nuclei familiari impreparati ad affrontare la nuova realtà e non sempre adeguatamente supportati. La 180 è comunque una legge epocale: il risultato non solo dell’azione umanizzante e pioneristica di Basaglia, ma del profondo cambiamento culturale e di civiltà che, a partire dalla psichiatria, coinvolse l’intero servizio sanitario e l’intera società italiana. Un percorso che tuttavia, trascorsi più di 40 anni dalla sua approvazione, ancora non può dirsi compiuto; gli stessi operatori ci avvertono che ancora è tanto il lavoro da fare, le lacune da colmare. Nel campo del disagio e della malattia mentale, della più generale assistenza e della libertà di ricerca. Il nucleo del messaggio che Basaglia ha trasmesso a noi tutti è chiaro: l’istituzionalizzazione crea una “malattia” che si sovrappone al disturbo di base, la cui origine non va ricercata solo nella dimensione biologica, ma anche nelle condizioni del contesto sociale. L’attualità di questo messaggio ci costringe a pensare in modo critico il presente. Le differenze fra la psichiatria di comunità attuale e l’assistenza manicomiale sono incommensurabili; eppure è necessario non dimenticare che i processi di istituzionalizzazione sono sempre operanti e il nostro moderno sistema non ne è esente. De-istituzionalizzare rimane dunque un imperativo categorico, oggi come allora. L’altro punto cardine del pensiero basagliano - il ruolo del contesto sociale- è altrettanto importante. Oggi la psichiatria è dominata dal paradigma biologico: i disturbi mentali sono disturbi del cervello. In realtà, tutte le evidenze ci dicono che i disturbi mentali sono indissolubilmente legati anche a gravi problemi nei contesti di convivenza e nelle condizioni sociali. Basti pensare agli effetti dell’urbanizzazione, delle migrazioni, dell’invecchiamento, dell’anomia. Non vi è dubbio che oggi il contesto sociale è complesso, disorganizzato ed espulsivo. Oggi più di allora la psichiatria ha bisogno, oltre che di risorse adeguate, di nuove conoscenze derivanti dalle scienze sociali per poter assolvere al meglio il proprio compito. Il modo migliore per onorare il lavoro e il patrimonio culturale e ideale che ci ha lasciato Basaglia è certamente quello di ricordare quello che ha fatto, ma soprattutto non dimenticare mai quelle poche, semplici parole, in risposta alla domanda di Zavoli: interessarsi ancora e sempre, come allora, “decisamente, al malato”. Migranti. Settembre è arrivato, i decreti Salvini sono sempre lì di Riccardo Magi* Il Riformista, 3 settembre 2020 A luglio l’annuncio dell’accordo in maggioranza sulle modifiche, poi il rinvio a dopo la pausa estiva. Sono ancora in piedi a ricordarci che i migliori alleati del leader leghista non stanno nel suo partito. Il primo consiglio dei ministri del mese di settembre avrebbe dovuto affrontare l’abrogazione dei decreti sicurezza. O meglio, l’abrogazione annunciata un anno fa, all’alba del Conte 2, diluitasi nei mesi successivi in una “profonda modifica”, poi una “riscrittura” infine una semplice “modifica”. Alla fine di luglio fu annunciato l’accordo raggiunto in maggioranza su tali modifiche, circolarono persino delle bozze che ottennero titoli altisonanti sul superamento dei decreti salviniani. Fummo facili profeti a interpretare quella notizia come l’annuncio di un rinvio dell’intervento del governo. Peraltro un rinvio a dopo la pausa estiva, e in una fase di incertezza politico-elettorale come quella attuale, appariva già allora come ambiguo e funzionale alle promesse elettorali di chi volesse ribadire l’imminenza di tali modifiche, ma anche di chi volesse mostrare, al contrario, che l’impostazione di fondo in materia di immigrazione fosse nei fatti mantenuta. La permanenza di quei decreti riveste un’importanza politica profonda, non solo simbolica, se si considera che il periodo di tempo della loro vigenza sotto il Conte 2 è ormai quasi equivalente a quello sotto il Conte 1 ed esprime tutta la difficoltà di avviare una riforma in materia di politiche sull’immigrazione. L’inversione di marcia nell’azione di governo rispetto all’operato del ministro Salvini, che aveva fatto di questo tema l’oggetto di una martellante strumentalizzazione demagogica, era attesa tra i primi interventi di questo esecutivo. L’attesa, come vediamo, si è dilatata a dismisura. Nel frattempo quelle norme - pure in parte non applicate o dichiarate illegittime per via giurisprudenziale - hanno prodotto e producono effetti negativi pesanti: hanno creato migliaia di irregolari nel nostro paese, hanno interrotto percorsi di formazione e di inserimento sociale, hanno causato marginalità e conflittualità sociale. Hanno colpito e smantellato la parte migliore del sistema di accoglienza realizzato negli anni in Italia, favorendo la realizzazione di grandi strutture di accoglienza, cioè le più inadeguate a realizzare l’inclusione dei cittadini stranieri e soprattutto a contrastare la diffusione dell’epidemia in atto. Quei decreti sono stati e sono un manifesto del salvinismo, con l’accanirsi contro l’attività di salvataggio in mare delle Ong colpevoli di operare come “pull factor” rispetto alle partenze dalle coste nordafricane - falsità che seppure ripetutamente smentita è penetrata ed è tuttora presente anche nelle convinzioni degli apparati della nostra amministrazione - e con l’accanirsi direttamente sulle persone, ad esempio vietando l’iscrizione anagrafi ca dei richiedenti asilo. Ma sono anche l’espressione di convinzioni profondamente radicate nel mondo politico italiano, lo dico per averlo constatato di persona e in modo ricorrente. Vale per il tema del pull factor, ma vale soprattutto per la convinzione che, tutto sommato, è vero che siamo tendenzialmente invasi e che questa invasione sia insostenibile. Non si crede davvero che sia urgente modificare la Bossi-Fini creando canali regolari per l’ingresso nel nostro Paese, che sia necessario modificare la legge sulla cittadinanza, che sia opportuno investire in un sistema di accoglienza che rafforzi il vecchio modello dello Sprar. Il tutto mentre si lavora in sede europea per riformare il sistema d’asilo europeo. Non ci crede questa maggioranza, altrimenti non avremmo ancora davanti, vivi e vigenti, i decreti sicurezza a ricordarci che i migliori alleati di Salvini non stanno nel suo partito. *Deputato di +Europa Migranti. A Lampedusa chiude l’hotspot di Giusi Fasano Corriere della Sera, 3 settembre 2020 “Stanze inagibili, letti all’aperto, a rischio la salute di ospiti e personale”. Il rapporto di Cristoforo Pomara, il capo ispettore che ha convinto a chiudere il centro di Lampedusa. “Io faccio il medico legale, ne ho viste di situazioni forti, diciamo così. Ma quello che sto vedendo in questi giorni mi colpisce umanamente, oltre che come medico. Se pensiamo di tenere assieme migliaia di persone come facciamo a Lampedusa e chiamare questo “accoglienza” allora abbiamo già fallito”. Cristoforo Pomara è il più giovane ordinario di Medicina legale d’Italia, dirige l’Istituto di Medicina legale di Catania ed è l’autore di un trattato di tecniche autoptiche forensi studiato in tutto il mondo. Dal 24 di agosto è anche coordinatore della task force voluta dalla Sanità della Regione Sicilia per valutare condizioni, rischi e soluzioni per i 40 fra hotspot e centri di prima accoglienza dell’isola. Professore, finora quanti sopralluoghi avete fatto? “Tre: Pozzallo, Ragusa e Lampedusa. Sono appena tornato da Lampedusa e ho inviato una relazione urgentissima preliminare all’assessorato regionale alla Salute”. Per dire cosa? “Che in quell’hotspot c’è un rischio imminente e concreto di incolumità, per tutti. Per gli ospiti e per il personale delle forze dell’ordine che ci lavora, completamente scoperto dal punto di vista della sicurezza sui luoghi di lavoro”. Parla di rischio sanitario? “Non solo. Lì dentro ci sono condizioni contrarie a tutte le regole di prevenzione delle patologie diffusive. Non soltanto Covid. Parlo di epatiti, Hiv, scabbia, tubercolosi... Provi a immaginare un incendio, qualcosa che genera una fuga di massa. Dovrebbero esserci 200 persone e invece ce ne sono 1.200, prigionieri. Secondo lei se premono tutti verso un’uscita sbarrata che succede?”. Però il premier Conte assicura che entro venerdì arriveranno due grandi navi per svuotare il Centro. “Meglio tardi che mai. Benissimo, comunque. Se davvero arriveranno sarà un bene per tutti. Ma sarebbe un bene anche che rimanessero attraccate sempre,perché l’ emergenza non sarà finita in pochi giorni, come è facile prevedere”. Ci descriva l’hotspot. “Ho visto un posto inadatto ad accogliere qualcuno. Nelle condizioni in cui è la struttura, quel luogo è già inadatto per i 200 che sono il numero regolare. Ci sono interi padiglioni inagibili, le persone dormono all’ aperto, sotto gli alberi. L’assistenza medica è totalmente insufficiente. In alcuni angoli non c’è un pavimento ma un tappeto umano”. E lei cosa ha suggerito per superare tutto questo? “Di riorganizzare il sistema al collasso e garantire trasferimento e smistamento immediato e sicuro. Ora capiremo cosa succederà con l’arrivo delle navi. Certo è che i problemi come le criticità sanitarie esistono da decenni. Il Covid ha soltanto messo a nudo anni di mancata programmazione. Il punto di partenza è molto semplice”. E cioè? “E cioè: non si può gestire un’emergenza come se fosse una situazione ordinaria. Non funziona. Nella relazione preliminare su Lampedusa mandata in Regione avevamo suggerito quello che poi ha annunciato il premier: sfollare il centro per mettere un punto fermo e cominciare a ragionare da zero. Accoglienza è una parola che dev’essere compatibile anche con la struttura e temo che invece non lo sia nemmeno se restano i 200 ospiti previsti. Non faccio un discorso politico, guardo la questione da medico: a me non importa sapere chi ho davanti, a me, importano le sue condizioni medico-sanitarie”. I migranti le hanno fatto richieste? “Solo a Pozzallo, un ragazzo mi ha mi ha detto: mettetemi in prigione che almeno sto al sicuro. Ha ragione, lì le criticità sono solo di tipo sanitario. A Lampedusa, invece, mi ha colpito un ragazzino di 14 anni, tunisino: è positivo al Covid, è solo ed è disperato. Non fa che piangere. Non so se resterà o no in questo Paese ma una cosa la so: va spostato da lì e, mi creda, io ho farò di tutto perché accada”. Migranti. Conte: “Lampedusa svuotata dai migranti entro venerdì” di Carlo Lania Il Manifesto, 3 settembre 2020 Il premier al vertice con il sindaco Martello e il governatore della Sicilia Musumeci. Promessi anche aiuti economici per l’isola. L’impegno a svuotare entro venerdì l’hotspot di Lampedusa grazie anche all’impiego di due nuove navi quarantena. E poi interventi a sostegno dell’economia dell’isola. “La sofferenza economica, e non solo, merita una risposta forte dello Stato”, ha assicurato il premier Giuseppe Conte al sindaco di Lampedusa Totò Martello e al governatore della Sicilia Nello Musumeci, convocati ieri a Roma per un vertice sull’emergenza migranti. Sostegni economici che dovrebbero tradursi in una sospensione delle tasse valida anche per quanto riguarda gli arretrati e che - ha anticipato il sindaco di Lampedusa - potrebbero concretizzarsi già nel consiglio dei ministri di oggi con un decreto. L’intenzione del governo di affrontare una volta per tutte l’emergenza sbarchi si è vista anche dallo schieramento di ministri presenti al vertice. Oltre a Conte e ai titolari di Interno e Economia, Luciana Lamorgese e Roberto Guerini, la cui presenza era prevista, all’incontro sono stati chiamati a partecipare anche il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, la ministra dei Trasporti Paola De Micheli, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Un vertice che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe servire anche a mitigare, se non proprio a mettere fine, allo scontro in corso da giorni con il governatore della Sicilia, che ha emesso un’ordinanza per chiudere gli hotspot in seguito sospesa dal Tar. Ma soprattutto a rispondere, seppure in ritardo, alle numerose richiesta del sindaco Martello. Ma oltre a interventi diretti a migliorare le condizioni di vita sull’isola, Conte ha garantito anche un aumento dei rimpatri verso la Tunisia, Paese di origine della maggioranza delle persone sbarcate quest’anno in Italia. E questo grazie anche al nuovo governo entrato in carica in questi giorni nel paese nordafricano. “Ora ci sono le premesse per intensificare i rimpatri”, ha spiegato infatti Conte. “Confidiamo di rafforzare il programma dei rimpatri utilizzando anche sistemi più flessibili, inclusi trasporti marittimi”. Infine verranno intensificati pattugliamenti in acque internazionali coinvolgendo oltre alle unità della Marina militare, anche i mezzi della Guardia costiera e della Guardia di finanza e in collaborazione con la Marina tunisina. In questo modo, ha spiegato Conte, “miriamo a ottenere un effetto deterrente rispetto a eventuali nuove partenze”. “Sono quasi soddisfatto. Quando le cose dette dal governo saranno nere su bianco e messe in atto sarò soddisfatto”, ha commentato al termine dell’incontro il sindaco di Lampedusa Totò Martello. Un’apertura che non trova riscontro nelle parole di Musumeci. “Abbiamo aperto una breccia in un muro di cemento armato” ha detto il governatore siciliano per il quale le posizioni restano comunque distanti. “Restiamo in attesa, non siamo assolutamente soddisfatti perché di risposte concrete non ne sono arrivate. Prendiamo atto della buona volontà”. Migranti. Dopo Alan Kurdi morti altri 700 minori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 settembre 2020 Rapporto di Save The Children a 5 anni dalla tragedia. Cinque anni fa moriva in un naufragio il piccolo Alan Kurdi. Ha fatto il giro del mondo l’immagine del suo corpicino senza vita sulle rive di quel mare che aveva provato ad attraversare e che invece lo ha inghiottito. Da allora più di 700 minori, neonati compresi, hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste europee. Mentre ad alcuni minori sono state garantite sicurezza e protezione, molti altri incontrano ostacoli nell’ottenere lo status di rifugiato e vivono nella paura costante di essere espulsi o detenuti. È quanto emerge dal nuovo rapporto “Protection Beyond Reach” di Save The Children diffuso ieri in occasione del triste anniversario. Oltre 200.000 minori stranieri non accompagnati, in fuga da conflitti, persecuzioni o violenze, hanno chiesto asilo in Europa negli ultimi cinque anni, ma è probabile che il numero di bambini e ragazzi arrivati sia molto più alto, molti tra loro, infatti, sono costretti a un’esistenza nell’ombra in Europa, a rischio di sfruttamento e abuso. Sempre nel rapporto si legge che mentre ad alcuni minori sono state garantite sicurezza e protezione, molti altri incontrano ostacoli nell’ottenere lo status di rifugiato, o comunque la tutela prevista per la loro minore età, vivono nella paura costante di essere espulsi o detenuti e si vedono negare la possibilità di ricongiungersi con i membri della famiglia che vivono altrove in Europa, segnala con preoccupazione il rapporto. I bambini e gli adolescenti che viaggiano da soli o con la loro famiglia, hanno diritti e bisogni specifici e devono essere garantite loro innanzitutto sicurezza e protezione. Al contrario, nonostante alcuni importanti passi avanti come l’adozione da parte dell’Italia della “Legge Zampa” (L. 47/ 2017) sulla protezione e l’accoglienza dei minori non accompagnati, l’Ue e gli Stati membri hanno risposto con misure sempre più restrittive e pericolose. Nel rapporto di Save The Children non manca il focus sui minori migranti sbarcati a Lampedusa. In Italia l’attuale incremento di arrivi via mare a Lampedusa vede coinvolti anche molti minori non accompagnati, 2.168 dall’inizio dell’anno al 31 agosto, e nuclei familiari con bambini, sui quali il gravissimo sovraffollamento dell’hotspot e il prolungarsi dei tempi di trasferimento verso centri di accoglienza idonei a ospitarli, rischia di avere un impatto fortemente negativo. Secondo la ONG è quindi necessario velocizzare le procedure di trasferimento, assicurando che ai minori non accompagnati vengano riconosciuti tutti i fondamentali diritti sanciti dalla Legge Zampa, a partire da un’accoglienza immediata degna di questo nome, l’assistenza sanitaria e la nomina di un tutore. Altrettanto critica la situazione dei minori presso un confine lontano dai riflettori, quello tra Italia e Francia, specialmente nell’area di Ventimiglia. Qui i minori accompagnati e i nuclei familiari, a fronte della chiusura del campo Roja, risultano, al pari degli altri migranti e richiedenti asilo, privi di accoglienza e rischiano di finire nelle mani dei trafficanti allo scopo di varcare il confine verso la Francia. Secondo Save The Children, i minori devono poter accedere immediatamente all’asilo e alla protezione una volta arrivati in Europa, non essere respinti. Solo percorsi di migrazione legale, compreso un rapido accesso al ricongiungimento familiare, possono impedire che i bambini e adolescenti muoiano durante il loro viaggio verso l’Europa. Turchia. La Cedu con Erdogan: l’avvocato dissidente può restare in galera di Simona Musco Il Dubbio, 3 settembre 2020 La decisione: “La sua vita non è in pericolo”. Alla Corte europea dei diritti dell’Uomo non basta la morte di Ebru Timtik per considerare in pericolo di vita il suo collega Aytaç Ünsal, che ha deciso di digiunare come lei fino alla morte per ottenere un processo equo. E ciò nonostante il suo ruolo di organo a tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, che non le ha impedito, martedì sera, di respingere la domanda di rilascio, sostenendo che “non c’è pericolo imminente”, così come aveva affermato per Timtik, poco tempo fa, la Corte Costituzionale. Una scelta che, come noto, si rivelò sbagliata: l’avvocata è infatti morta dopo 238 giorni di digiuno. Ed ora a correre questo rischio è anche Ünsal, le cui condizioni, ha reso noto ieri sua madre Nermin Ünsal, anche lei avvocato, sono gravi. I giudici di Strasburgo hanno giustificato il rigetto sottolineando che l’Articolo 39 della Convenzione - relativo alle misure provvisorie, previste laddove ci si trovi al cospetto di gravi e potenzialmente irreparabili violazioni - viene applicato solo quando un ricorrente corre un rischio imminente di danni gravi e irreparabili per la propria vita e la propria incolumità fisica. Da qui la decisione di dire no alla luce dei referti medici e delle osservazioni del governo del 27 agosto scorso, deducendo che le condizioni di detenzione in ospedale “non rappresentano un rischio reale” per l’incolumità di Aytaç Ünsal. Ma pur negando all’avvocato la possibilità di uscire dal carcere, la Cedu ha riconosciuto tra le righe il pericolo per la sua vita, invitando il governo “ad adottare tutte le misure necessarie per garantire che Aytaç Ünsal sia protetto dal Covid- 19 e che i suoi diritti ai sensi degli articoli 2 e 3 della Convenzione siano rispettati”. I giudici hanno anche invitato il governo a tener conto della richiesta di Ünsal di consultare medici scelti personalmente, qualora lo richiedesse, al fine di prendere una decisione sull’opportunità o meno di annullare lo sciopero della fame e ribadendo allo stesso avvocato l’invito ad interrompere la protesta. Una scelta discutibile, non solo alla luce della morte di Timtik, che ha affrontato lo stesso identico percorso ora affrontato dal collega, ma anche considerando che il presidente della Cedu, Robert Ragnar Spanò, ha deciso di accettare il dottorato honoris causa che gli verrà conferito dall’Università statale di Istanbul, nonostante la Turchia sia il secondo Paese per ricorsi alla Cedu per violazione dei diritti umani (più di 8.000 l’anno) ed il primo per numero di inottemperanze alle condanne subite. L’associazione di avvocati di sinistra Çhd, della quale anche Ünsal fa parte, ha presentato ieri una petizione alla 16a Camera Penale della Corte Suprema d’Appello per il rilascio del collega, esprimendo indignazione per la decisione assunta dalla Corte europea. “Sebbene la Cedu sia a conoscenza del fatto che Ebru è morta di recente a seguito del digiuno, e sebbene il tribunale abbia ricevuto segnalazioni dall’ospedale e dall’associazione medica che indicano rischi aggiuntivi da pandemia e le condizioni negative del centro di detenzione dell’ospedale, la richiesta di Aytaç è stata rifiutata - si legge in una nota. In caso di eventi tristi in relazione alla sua vita, la responsabilità ricadrà su tutte le autorità giudiziarie che non adempiono alle loro responsabilità”. Ünsal, ha spiegato sua madre alla stampa, “non riesce a dormire a causa del dolore. Rimane sveglio tre ore dopo mezz’ora di sonno. Ha ferite in bocca, le sue mani sono insensibili. Quando si alza, afferma che le dita dei piedi sembrano tagliate e pressate nel sale. Ha difficoltà a camminare. La sensibilità al suono, alla luce e all’olfatto è aumentata. Siccome stiamo andando verso la morte in fretta, è necessario compiere un passo concreto se vogliamo mantenerla in vita. Chiedo alle autorità di impedire questa morte”. Lo stesso Istituto di medicina legale di Istanbul ha confermato che l’avvocato “non può restare in prigione”, anche perché, al momento, è detenuto in un ospedale Covid, con il rischio di accelerarne la morte. “Stanno cercando di uccidere anche lui”, ha evidenziato la madre. Nel rapporto, firmato da sette medici del Kanuni Sultan Süleyman Training and Research Hospital, viene specificato che il sistema immunitario di Ünsal è al collasso e la sua permanenza in ospedale rischiosa, da qui la necessità di dimetterlo. Il rapporto, datato 5 agosto, è stato inviato alla Direzione Provinciale della Sanità, che però lo ha trattenuto per 16 giorni prima di inviarlo all’Alta Corte penale di Istanbul, da dove poi è stato spedito alla Corte Suprema. Intanto continua il tentativo di repressione della categoria forense da parte del presidente Recep Tayyip Erdogan ha intanto chiesto la sospensione degli avvocati accusati di legami con il terrorismo a seguito delle proteste per la morte di Ebru Timtik. “Dovremmo discutere se debbano essere introdotti metodi come l’espulsione dalla professione per gli avvocati”, ha detto Erdogan a giudici e pubblici ministeri durante una cerimonia ad Ankara. “Un avvocato che difende i terroristi non dovrebbe essere un terrorista. È molto doloroso che gli ordini, che dovrebbero essere istituzioni di giustizia, si siano trasformati nel cortile di organizzazioni terroristiche”, ha concluso, aggiungendo che verranno prese ulteriori misure per riformare gli ordini degli avvocati. Egitto. Caso Zaky, “ecco i diritti violati nelle carceri egiziane” di Alice Facchini redattoresociale.it, 3 settembre 2020 Dopo 5 mesi e mezzo, per la prima volta lo studente egiziano dell’Università di Bologna in carcere al Cairo ha potuto vedere sua madre. Ahmed Mefreh del Committee for Justice: “Il covid è stato usato come scusa per restringere le libertà dei detenuti, bloccando ogni contatto con l’esterno”. “La situazione nelle carceri egiziane si sta trasformando velocemente in un disastro. Il covid è stato usato come scusa per restringere le libertà dei detenuti, bloccando ogni contatto con l’esterno. Ma la verità è che non sono mai state prese le precauzioni sanitarie necessarie e il contagio si sta espandendo, con il rischio che le carceri egiziane diventino presto i nuovi focolai della pandemia”. Così Ahmed Mefreh, direttore del Committee for justice al Cairo, commenta la notizia del primo incontro tra Patrick Zaky e sua madre nel carcere di Tora. Erano cinque mesi e mezzo che lo studente egiziano dell’Università di Bologna, arrestato lo scorso 7 febbraio con l’accusa di terrorismo, non riceveva visite: sua madre ha raccontato che sta bene, ha perso un po’ di peso ma in generale è in buona salute. Patrick ha chiesto per quanto ancora sarà detenuto infondatamente e si è mostrato preoccupato per i suoi studi, che spera di poter riprendere al più presto. Durante la visita, è emerso che il ragazzo ha inviato dal carcere una ventina di lettere, ma la sua famiglia non ne ha ricevuta nessuna. E anche a lui non sono state recapitate molte lettere, anche se erano state ufficialmente prese in carico dal personale del carcere. “Già dal 10 marzo, il ministro dell’Interno ha emesso un decreto per sospendere le visite in carcere, senza istituire mezzi alternativi per permettere ai detenuti di comunicare con le loro famiglie, ad esempio attraverso email o chiamate - afferma Mefreh. Ma questo non ha evitato che il virus si diffondesse all’interno, probabilmente portato dalle guardie carcerarie che entrano ed escono, o dai nuovi detenuti. La verità è che non sono state prese le misure di prevenzione necessarie, mentre si è usata la scusa del covid per avere un approccio ancora più restrittivo con i detenuti”. Il Committee for justice, associazione che si occupa di monitorare la situazione dei diritti umani in tutto il Nord Africa e in Medio Oriente, denuncia la situazione tragica delle carceri egiziane: i detenuti vivono in celle sovraffollate, dove dormono anche 30 persone, in condizioni igieniche pessime, con scarsa ventilazione e scarso accesso all’acqua e al cibo. “In questo contesto, i contagi da Covid-19 stanno aumentando, e le autorità rifiutano di diffondere i numeri reali - spiega Mefreh -. Per il momento si sono riscontrati 220 casi sospetti di Covid, che si aggiungono ai 111 accertati, e 17 persone già decedute in carcere”. Nella prima metà del 2020, il Committee for justice ha rilevato 4.664 violazioni dei diritti umani tra i detenuti: tra queste, ci sono 619 casi di sparizioni forzate, 1.266 arresti arbitrari, 1.506 denunce di maltrattamenti e 1.058 casi di mancanza di cure e di medicinali nelle carceri, con 51 morti per mancanza di assistenza sanitaria. Dall’inizio dell’anno, dieci persone sono morte poi per esecuzioni sommarie, tre per colpa delle torture subite e quattro per le scarse condizioni di vita in carcere. “Più della metà delle violazioni si sono verificate tra maggio e giugno, dunque durante la fase più acuta del Covid in Egitto - conclude Mefreh. Su 95 istituti carcerari, il 58 per cento delle violazioni documentate è avvenuto nei governatorati del Cairo e di Sharqiyya, e un numero considerevole ha riguardato proprio il complesso di Tora, dove è rinchiuso anche Patrick”. Arabia Saudita. Lo sciopero della fame della prigioniera Loujain di Antonella Mariani Avvenire, 3 settembre 2020 Il 31 luglio ha compiuto 31 anni in un carcere di Riad, in Arabia Saudita. Finalmente lunedì i suoi genitori hanno potuto vederla, scoprendo che Loujain ha iniziato uno sciopero della fame perché da giugno le era stato negato il consueto contatto con la famiglia. Le sue condizioni di salute “si sono deteriorate”, ha scritto la sorella Lina su Twitter, e il pensiero non può che correre alla tragica vicenda dell’attivista turca Ebru Timtik, morta in un carcere di Istanbul il 27 agosto dopo 238 giorni senza nutrirsi. Loujain al Hathloul è una giovane, bellissima donna saudita, con profondi occhi scuri e un sorriso dolce e quieto. Sta pagando con gli anni migliori della sua vita la lotta ingaggiata contro le norme che nell’Arabia Saudita del 21esimo secolo impediscono alle donne di avere il ruolo che spetta loro nella società. Contro il divieto di guidare un’automobile, contro il sistema del tutoraggio maschile che non consente di viaggiare o sposarsi senza il permesso di un uomo. Loujain ha iniziato a farsi domande da bambina e quelle domande sono diventate azione al suo ritorno dagli studi universitari in Canada. Dal 2014 ha animato il movimento Women to drive e si è letteralmente messa al volante, attraversando provocatoriamente il confine tra gli Emirati Arabi Uniti, dove lavorava e viveva, e l’Arabia. Nel 2015 si era candidata alle elezioni, quando per la prima volta la monarchia saudita aveva concesso alle donne l’elettorato attivo e passivo, ma il suo nome non era mai stato aggiunto alle liste elettorali. Arrestata una prima volta nel 2014 per essersi messa alla guida, fu rilasciata dopo 73 giorni. Nel 2018 è andata peggio: dopo un arresto e il rilascio all’inizio dell’anno, il 15 maggio gli agenti hanno fatto irruzione nella casa di famiglia di Riad e l’hanno portata via. Da allora ha cambiato tre carceri, le imputazioni sono vaghe e fanno riferimento al suo attivismo per i diritti delle donne e il processo, dopo vari rinvii, è stato sospeso a causa della pandemia. La sorella minore Lina, espatriata in Belgio, accetta di parlare al telefono con Avvenire, attraverso una linea di comunicazione protetta. “I miei genitori hanno la certezza che Loujain durante la detenzione è stata torturata. Una volta riusciva a malapena a camminare. Un’altra volta riusciva a stento sedersi. Sappiamo che hanno minacciato di violentarla e di far sparire il suo corpo”, come è accaduto con il giornalista Jamal Kashoggi due anni fa. “Nell’ultima conversazione con loro ha detto che comincia a perdere la speranza e di non aspettarsi niente di buono per il futuro”. I suoi difensori sono i genitori, perché, spiega Lina “nessun avvocato ha voluto prendere le sue difese e quello che le era stato assegnato sosteneva di poter garantirle la liberazione se avesse negato pubblicamente di aver subito torture e minacce sessuali. Lei ha rifiutato”. Il paradosso è che Loujain è in carcere da oltre due anni per aver commesso un reato… che non è più reato. Dall’agosto 2019 è caduto il divieto di viaggio per le donne, grazie a un provvedimento del principe ereditario Mohamed bin Salman (Mbs), così come si è allentato il sistema del “tutoraggio” maschile. “Senza proteste come quella di Loujain non ci sarebbero state aperture”, dice Lina, ma in ogni caso è difficile parlare di una vera svolta in Arabia Saudita. I prigionieri di coscienza come Luojain, infatti, continuano a restare in carcere proprio mentre imperversa il Covid. Due dissidenti, l’avvocato Abdullah Al-Hamid e il giornalista Saleh Al-Shehi, sono morti nei mesi scorsi a causa dell’epidemia. Per lei e per le altre compagne in carcere sta lottando Amnesty international che ha promosso una nuova raccolta firme. La candidatura al Nobel per la pace, nel 2019, purtroppo non è stata risolutiva. L’Arabia Saudita è un partner commerciale troppo importante perché l’Occidente alzi la voce per gli oppositori. “No, dall’Unione Europea non mi aspetto nulla”, conclude amaramente la sorella minore Lina. Ma né lei né la famiglia - promette - smetteranno di lottare per Loujain. Russia. “Navalny avvelenato”, Berlino pretende spiegazioni da Mosca di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 3 settembre 2020 La scoperta dell’agente nervino Novichok nel corpo del più importante avversario di Putin accelera la guerra diplomatica. Si profilano nuove sanzioni, possibile un “rallentamento” della tabella di marcia per il raddoppio del gasdotto Nord Stream. Agente nervino del gruppo Novichok. Il test tossicologico del laboratorio speciale dell’esercito tedesco ieri ha sciolto il primo “mistero” sul caso di Alexej Navalny identificando “senza ombra di dubbio” la tossina con cui è stato avvelenato l’oppositore di Putin. “Il governo federale condanna questo attacco con la massima fermezza” scrive il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, che ha comunicato via Twitter il risultato dell’analisi chimica commissionata dai medici del policlinico universitario della Charitè. Ora la cancelliera pretende “una spiegazione rapida e completa” da Mosca, mentre il ministro degli Esteri, Heiko Maas, ieri pomeriggio ha convocato “con la massima urgenza” l’ambasciatore russo Sergej Netschajew a cui ha chiesto formalmente “chiarimenti”. Ma non basta. Dopo avere riunito i ministri Annegret Kramp Karrenbauer (Difesa), Olaf Scholz (Finanze), Horst Seehofer (Interni) e Christine Lambrecht (Giustizia), più la responsabile della cancelleria Helge Braun “per concordare le prossime mosse politico-diplomatiche”, Merkel ha fatto sapere di avere investito del “caso Navalny” l’Ue e anche la Nato per stabilire “una risposta comune tra gli alleati”. Oltre ad avere notificato l’esito del laboratorio militare allo spagnolo Fernando Arias, direttore generale dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche con sede a L’Aia. “Navalny è vittima di un atto criminale. E questo crimine è diretto contro i valori e i diritti fondamentali che la Germania rappresenta” scandisce la cancelliera “sgomenta per il risultato dell’analisi tossicologica che pone domande molto serie alle quali solo il governo russo può e deve rispondere. Il mondo intero aspetta la replica di Mosca”. Parole di fuoco, sintomatiche della profondità della crisi diplomatica e di una controffensiva senza precedenti nelle relazioni russo-tedesche, già pesantemente minate dalle ingerenze dei servizi di intelligence di Mosca in Germania: dal recente spionaggio delle utenze riservate di Merkel all’omicidio (in pieno giorno, a due passi dalla cancelleria) del dissidente georgiano Zelimkhan Khangoshvili da parte di un sicario nell’orbita dell’ex Kgb nell’agosto 2019. “Non siamo stati informati dei risultati del test tedesco. I dati non sono stati ancora portati alla nostra attenzione” è la secca risposta (via agenzia Tass) di Dmitri Peskov, portavoce del presidente Putin, che respinge così al mittente le accuse di avvelenamento formulate a Berlino. Tuttavia, la pista del Novichok conduce dritta come un fuso in Russia. L’agente nervino incriminato è esattamente lo stesso utilizzato nel tentativo di “liquidare” l’ex colonnello del Gru, Sergei Skripal, e sua figlia Julija a Salisbury il 4 marzo 2018. All’epoca il ministro alla Sicurezza del Regno Unito, Ben Wallace, puntò l’indice direttamente contro Putin, mentre l’ex premier Theresa May non esitò a bollare gli avvelenatori come ufficiali del servizio segreto militare russo, nonostante anche allora Mosca si dichiarasse del tutto estranea ai fatti contestati. Coincidenza più che sospetta, rilanciata ieri pure da Jürgen Hardt, responsabile Esteri del Gruppo Cdu-Csu al Bundestag. “L’analisi del laboratorio della Bundeswehr non lascia alcun margine di dubbio: Navalny è stato avvelenato con un agente nervino molto efficace, proprio come Skripal prima di lui. Ciò conferma in pieno i nostri peggiori timori. Soprattutto perché questa tossina è molto difficile da ottenere attraverso i normali canali e può provenire solamente da laboratori con un altissimo grado di specializzazione”. Non è ancora la “pistola fumante” in grado di inchiodare Mosca, ma un indizio pesante come un macigno comunque in grado di innescare la reazione a catena che immagina Merkel. All’orizzonte si profilano nuove sanzioni per la Russia e, nel caso della Germania, anche il “rallentamento” della tabella di marcia per il raddoppio del gasdotto Nord Stream che serve come il pane a Berlino ma è ancora più imprescindibile per Putin in chiave anti-Ucraina. Russia. La strategia di Putin sul caso Navalny: negare a oltranza e sfidare l’Occidente di Anna Zafesova La Stampa, 3 settembre 2020 Il Cremlino assediato dalla crisi in Bielorussia e dal crollo dell’economia. I falchi fanno pressing sul presidente per risolvere l’impasse con la durezza. Da ieri, la parola “Novichok” è entrata nel dizionarietto delle parole russe che non necessitano di traduzione, insieme a “sputnik”, “perestroika” e “babushka”. Putin, “Novichok”, Navalny: è la formula della nuova crisi tra il Cremlino e la comunità internazionale, con Angela Merkel che - dopo aver costretto il presidente russo a permettere il trasferimento dell’oppositore in clinica a Berlino - lancia l’accusa esplicita al governo russo, “il solo in grado di fornire risposte” a quello che è “un crimine”. Dalle risposte russe, avverte la cancelliera tedesca, dipenderà la reazione dell’Occidente, in quella che appare come l’offerta al Cremlino di un’ultima occasione per schiacciare il freno, per fermarsi a un millimetro dallo scontro in cui nuove sanzioni e boicottaggi diplomatici saranno soltanto l’inevitabile contorno di quello che lo stesso Alexey Navalny avrebbe definito come “l’ultima battaglia tra i buoni e i neutrali”, il motto del suo sito. Una speranza che probabilmente verrà smentita nei prossimi giorni. Nelle due settimane in cui Navalny è rimasto in coma, il governo russo ha negato il fatto stesso dell’avvelenamento, mentre ogni accusa viene respinta con l’argomento utilizzato ogni volta che un oppositore del Cremlino resta vittima di un attentato: “Il più danneggiato sarebbe proprio Putin”. E Putin ne esce senz’altro danneggiato, ma non fa l’unica cosa che potrebbe aiutarlo, cioè trovare e punire i colpevoli. Per gli omicidi di Anna Politkovskaya e Boris Nemtsov sono stati almeno individuati e processati i killer, se non i mandanti. Su Navalny, non è stata ancora aperta nemmeno un’indagine, e il ministro degli Esteri Sergey Lavrov ha spiegato che “non si può indagare prima di capire cosa è successo”, in un lapsus giuridico impossibile per un diplomatico di così lungo corso. Negare a oltranza, negare l’evidenza, una tecnica già utilizzata nel caso dell’abbattimento del Boeing malese sopra il Donbass nel luglio del 2014. Ma nell’equazione “Putin, Novichok, Navalny” c’è anche una quarta componente: la Bielorussia, dove la protesta popolare contro il dittatore che ha truccato le elezioni ha messo a rischio il progetto geopolitico del Cremlino esattamente come la crisi di consenso ne stava mettendo a rischio la stabilità interna. Le ragazze a Minsk scandiscono lo slogan di Navalny “Il potere qui siamo noi”, e la rivolta bielorussa tra urne e piazze ha forse accelerato la decisione di ricorrere al Novichok: i rischi dalla offensiva di Navalny potevano diventare superiori al danno d’immagine per la sua eliminazione. L’ultima finestra di opportunità che la cancelliera Merkel lascia a Mosca riguarda anche il dossier Bielorussia: ieri il ministro degli Esteri bielorusso è volato a Moscai, oggi il premier russo Mishustin va a Minsk, e i commentatori vicini al Cremlino promettono un’imminente annessione del Paese vicino alla Russia. Alexandr Lukashenko è atteso nei prossimi giorni a Mosca dove dovrebbe annunciare un referendum sull’unificazione, e la questione pare soltanto il prezzo: oltre al miliardo di dollari di prestito immediato, le modalità dell’assorbimento e la dislocazione delle truppe russe, che arriverebbero a 200 km da Varsavia. Quanto ci sia di vero e quanto di sogno geopolitico, si vedrà nei prossimi giorni, ma è evidente che il potere di Lukashenko sta vacillando, e che l’unico modo che ha di salvarsi è gettarsi tra le braccia della Russia. Che da un lato non vuole giocarsi la reputazione per un dittatore fallito, e si rende conto che la sua economia - sono stati appena pubblicati i dati sul crollo delle esportazioni di gas russo in Europa - è troppo fragile per assorbirne una ancora più povera. Dall’altro, si sente sempre più accerchiata, in uno spazio postsovietico che invece di ricostituirsi in un nuovo impero intorno a Mosca si sgretola in pezzi che orbitano verso l’Europa o verso la Cina. In questa visione, l’ultimo ammonimento di Merkel a Putin, chiaramente lanciato a nome di tutto l’Occidente, potrebbe ottenere l’effetto opposto: riportato nella narrativa abituale della “nuova Guerra fredda”, il Cremlino può reagire con quella durezza che piacerebbe proprio agli ambienti russi che non vedono nulla di male nell’uso del Novichok. Ignorare l’avvelenamento del leader dell’opposizione russa, smorzare i toni sulla Bielorussia, da parte di un’Europa troppo impegnata in questo momento sui propri problemi, avrebbe potuto però venire interpretato a Mosca come un nulla osta, con lo stesso risultato. Dal modo in cui Putin deciderà di uscire da una situazione impossibile dipenderà il futuro non solo della Russia e della Belarus, ma anche dell’Europa.