Se la dignità dei detenuti si misura in letti a castello di David Allegranti Il Foglio, 30 settembre 2020 Tre metri quadrati. Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo è questo lo spazio vitale minimo per ogni detenuto. Lo ha stabilito nel 2009 con la sentenza Sulejmanovic e lo ha confermato nel 2013 con la sentenza Torreggiani, con la quale ha condannato l’Italia per sovraffollamento delle carceri, disegnando il limite fra la detenzione umana e quella degradante. In questi anni però le condizioni dei detenuti non sono migliorate, anzi è cominciato un braccio di ferro con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sul conteggio di questi tre metri quadrati: ci rientrano, per esempio, i letti? La domanda a questo punto avrà già fatto sorridere chi legge, ma è dal 2019 che se ne discute. Da quando cioè il Dap ha presentato ricorso in Cassazione contro una decisione del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila, che aveva calcolato lo spazio disponibile per ogni detenuto al netto di quello occupato dai servizi igienici e dagli arredi fissi, letto dunque compreso. Quest’anno, a maggio, la I Sezione della Corte di Cassazione ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite. Pochi giorni fa, il 24 settembre, le Sezioni unite penali si sono finalmente pronunciate. La questione controversa era se “lo spazio minimo disponibile di tre metri quadrati per ogni detenuto debba essere computato considerando la superficie calpestabile della stanza ovvero quella che assicuri il normale movimento, conseguentemente detraendo gli arredi tutti senza distinzione ovvero solo quelli tendenzialmente fissi e, in particolare, se, tra questi ultimi, debba essere detratto il solo letto a castello ovvero anche quello singolo”. Secondo la soluzione adottata, “nella valutazione dello spazio minimo di tre metri quadrati si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”. Secondo l’interpretazione delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, dunque, i letti singoli dovrebbero essere usati per dormire e poi appoggiati alla parete. Eppure, come sa chi frequenta le carceri, tante volte anche i letti singoli sono fissati al pavimento. Ma forse, prima ancora che disquisire di letti a castello e letti singoli, bisognerebbe farsi la domanda che si è posta la giurista Maria Cristina Frosali, componente dell’associazione L’Altro diritto, in un articolo del maggio scorso su “La politica del popolo” e che sarà approfondito anche sulla rivista di filosofia del diritto diretta da Emilio Santoro: “Tre metri quadri. È la misura che segna il confine tra una detenzione umana e una inumana, è la linea che traccia la frontiera ultima della dignità. Un concetto così sfuggente, ampio e complesso da meritare le attente riflessioni dei più grandi filosofi e pensatori viene, in ambito carcerario, imprigionato nelle misure di uno sgabuzzino. I magistrati di sorveglianza, organi preposti a garantire il rispetto dei diritti dei detenuti, si spogliano del proprio armamentario teorico per impugnare metri a nastro e calcolatrici, i nuovi attrezzi del mestiere”. Insomma, “la dignità è ridotta a una questione di centimetri. Sorge però un ulteriore problema, che in Italia diviene oggetto di un grande e acceso dibattito. Come si calcolano i tre metri quadrati?”. A quanto pare, si calcolano in letti a castello. “Fino a che si riterrà di poter valutare il rispetto della dignità dell’uomo”, scrive ancora Frosali, “sulla base di mere operazioni di calcolo dello spazio nella cella, il senso di umanità sarà destinato a rimanere escluso dai penitenziari italiani”. Intervista a Luigi Manconi: “Il 41bis è illegale” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 30 settembre 2020 Il Presidente dell’associazione “A Buon Diritto” ha appena pubblicato il saggio “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”. Luigi Manconi, che insegna sociologia dei fenomeni politici allo Iulm di Milano, esplora gli abissi del diritto, e i suoi confini. Dapprima portavoce dei Verdi, quindi sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi, dal 2013 al 2018 a Palazzo Madama con il Pd, è stato il primo Garante dei diritti delle persone private della libertà, nominato per il Comune di Roma dall’allora sindaco, Walter Vekmni. La legge che integra il reato di tortura porta il suo nome. Iscritto a Nessuno Tocchi Caino, ha fondato l’associazione A Buon Diritto, sul punto di compiere vent’anni. “Per il tuo bene ti mozzerò la testa”, saggio sul giustizialismo morale scritto a quattro mani con Federica Graziarti, uscito per Einaudi, è il suo ultimo libro. “Negli ultimi decenni mi sono dedicato al tentativo di disvelare le tematiche legate alla detenzione, alla marginalità sociale, all’emigrazione con una dimensione di intelligenza razionale, rifiutando la retorica fatta di emotività e compassione che spesso soffoca questi argomenti”. Il suo osservatorio sui diritti, purtroppo, non conosce riposo… Noi abbiamo contato in 22 mesi notizie serie, approfondite e documentate di ben nove vicende che riguardano violenze e abusi contro i detenuti, una parte delle quali configurabili come torture. O comunque quelli che la Corte Europea dei Diritti Umani ha definito “trattamenti inumani e degradanti”. Nove vicende venute alla luce, su cui ci sono indagini della magistratura. Da San Gimignano a Torino a Santa Maria Capua Vetere. Esiste una pena afflittiva supplementare per chi sta in carcere? Certo che c’è ed è illegale. Contesto la definizione prevalente del 41bis come Carcere duro. Perché il 41bis nella legge non deve essere quello. Non esiste una “detenzione aggravata da un surplus di afflizione”. Non è un carcere al quale va aggiunto un trattamento che introduce la sofferenza come pena addizionale, o determini divieti tali da ridurre gli spazi di vita, socializzazione ed espressione della persona reclusa. Il 41bis non deve essere questo. Ma lo diventa… Eccome. E anche qualcosa di più. Ma per l’ordinamento il 41bis ha un solo scopo: impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Il 41bis deve impedire le relazioni con l’esterno per rescindere i leganti criminali Invece è diventato quel carcere duro perché si è trasformato in un sistema di privazioni e limitazioni, imposizioni e divieti. Anche al di là del 41bis, stare in celle piccole, con scarsi servizi igienici, finisce per integrare una condotta sottilmente Affluiva, di continua umiliazione e degradazione umana... Oggi il carcere priva di senso il carattere rieducativo della pena. La legge sulla tortura porta il mio nome, ma non la riconosca il testo finale è ben diverso da quello che avevo scritto. Dal momento che tengo molto a fondare le parole sulla realtà, parlo di tortura solo quando si configura un comportamento di tortura. Esempio: in queste ore stiamo apprendendo cosa è successo il 6 aprile di quest’anno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lì si può e si deve parlare di tortura. La legge sanzionerebbe anche gli atti di violenza psicologica… Sì, minando in maniera molto rigida la possibilità di ravvisarla nei comportamenti concreti, sottoponendo l’obbligo di documentarla a condizioni difficilmente riscontrabili. Ma si parla di violenza psicologica, e non c’è dubbio che all’interno del 41bis le violenze psicologiche siano frequenti e ripetute, e possono essere considerate - in casi documentabili - come torture. Temi scottanti, ma per pochi. Siamo nel paese del giustizialismo morale. Non è un paradosso, avere tanti giustizialisti in un Paese dove scarseggiano senso civico ed etica pubblica? Ne è appunto la derivazione. La carenza di spirito pubblico e di senso civico produce un surrogato. Determina cioè un sottoprodotto pericoloso che è il giustizialismo morale. Se ci fosse in Italia più senso civico e spirito pubblico il giustizialismo morale non avrebbe tanto spazio di affermarsi. Il suo libro non nasconde lo scetticismo verso chi accarezza il populismo giudiziario. Un errore anche del Pd… Sicuramente, e noi lo scriviamo esplicitamente: il populismo penale passa attraverso la classe politica del sistema dei partiti condizionandoli tutti. Nutrendoli latti. In alcuni casi li nutre in misura larghissimamente maggioritaria, in altri casi meno. Ritengo che la Lega sia potentemente condizionata dal populismo penale, e che altrettanto lo siano i Cinque stelle ma, con la sola eccezione dei radicali, non vedo nessuno che ne sia esente. Nel vostro libro parlate a lungo di Bonafede, con cui Pd, Iv e Leu hanno fatto tutti i compromessi possibili. Quale il suo giudizio sul Ministro? Non sembra interessato ad alcuna visione generale e sembra rifuggire da qualunque, come dire?, filosofia del diritto. Perché affermo questo? Perché mai ho sentito argomentare progetti di legge o decisioni di governo con motivazioni che rispondessero alle critiche di fondo e di principio che riceveva Le risposte sono state sempre e solo di natura contingente, politicistiche e - uso questo termine in senso giuridico - sostanzialiste. Cosa intende? Quel famoso “guardiamo alla sostanza” che spesso è un inganno. È quel metodo delle maniere spicce che spesso è una truffa e prende il nome di sostanzialismo. La noncuranza per le forme, quasi che le forme non coincidessero esattamente con le regole e con la loro logica Le critiche fatte alla cosiddetta riforma della prescrizione non hanno mai incontrato una sola risposta all’altezza di quelle che erano contestazioni di natura teorica, ad esempio il fatto che la prescrizione è pane costitutiva del diritto contemporaneo. E non un escamotage truffaldino inventato dagli avvocati Fa parte di una concezione matura e liberale della giustizia. Stesso dicasi per le intercettazioni a grappolo. Altro abominio.. Certo, è così. Anche in quel caso mi colpisce quanto quel discorso sia piegato alla sola efficacia dello strumento. Ora, lo strumento è indubbiamente efficace. Ma è come se mancasse la consapevolezza, anche nel ministro, che comunque stiamo entrando in una sfera di altissima delicatezza, stiamo toccando una materia insidiosissima. Colpisce che non si sia coscienti che misure pur indispensabili, sollevino comunque questioni enormi, anche etiche, che il legislatore deve considerare. La questione della riservatezza non può essere ignorata, come se fosse un bene di lusso rivendicato da privilegiati. Colpisce che la dignità individuale viene ferita, vilipesa attraverso le intercettazioni senza che ci si pongano degli interrogativi di fondo. La coautrice, Federica Graziani: “Le nostre galere negazione del fine rieducativo” Citi sono i giustizialisti e perché diventano giustizieri? Coloro che coltivano un’idea della giustizia che, pur di difendere l’incolumità di beni e affetti, utilizzi ogni ansa possibile. Chi crede insomma che si possa rispondere alle proprie aspettative e alle proprie paure purché si individuino e castighino i colpevoli a qualsiasi prezzo. Se necessario, anche eliminandoli. Come si vive nelle carceri Italiane? Il fine rieducativo lo vede (mai) applicato? Nelle nostre galere la negazione del fine rieducativo della pena è l’istituto più rispettato e quando qualche recluso riesce a essere nuovamente incluso nella società dei liberi lo si deve quasi sempre più a una eccezionale combinazione di risorse personali e fortuna che alla tutela del suo diritto costituzionale da pane dello stato. Quale esperienza ne trae dalle sue visite alle carceri? Che ogni essere umano è tanto capace di compiere orrori quanto è capace di cambiare. Nessun uomo si riduce mai solo ai propri crimini e nessun uomo può meritare una condanna tanto abissale da essere ridotto a nient’altro che il suo reato. Occhio per occhio acceca entrambi i bulbi oculari. Perché, come affermate nel libro, è così “faticoso essere garantisti” in Italia? Perché impera un orientamento politico, culturale e giudiziario che sobilla il rancore sociale torcendolo non verso una valutazione razionale delle minacce, al contrario precipitandolo verso tra centro, sempre drammatico e semplificato, di esplosione in singoli episodi violenti che richiedono misure spicce e sommarie. Il populismo penale, mostro dalle tante facce e dagli esiti fatali. Scarcerazioni boss, Bonafede: “Sono 112 i detenuti già tornati in cella” Il Dubbio, 30 settembre 2020 Aumento dei posti detentivi e incremento dell’organico: la relazione del Guardasigilli in audizione alla Commissione Giustizia del Senato. Sono 112 i detenuti del circuito alta sicurezza e quelli sottoposti al regime del 41bis che, al 23 settembre scorso, sono tornati in carcere. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in audizione davanti alla Commissione Giustizia del Senato. Dunque, ha evidenziato il ministro, sono di nuovo in cella “tutti e 3 i detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis che erano stati precedentemente sottoposti a detenzione domiciliare”, nonché “109 detenuti appartenenti al circuito alta sicurezza: dei 112 rientrati, 70 risultano detenuti definitivi e 42 sono ristretti a titolo cautelare”. Per quanto riguarda i detenuti che allo stato non risultano rientrati in carcere, ha continuato il Guardasigilli, “deve certamente ritenersi che la permanenza degli stessi in detenzione domiciliare sia da ricondurre ad autonoma valutazione effettuata dall’autorità giudiziaria”: il decreto approvato lo scorso maggio dal Governo, “ha obbligato tutti i detenuti scarcerati per emergenza Covid a tornare davanti al giudice per una nuova valutazione”, ha ricordato Bonafede, il quale ha evidenziato che sull’applicazione del decreto ha disposto, attraverso una articolazione ministeriale, un “capillare monitoraggio”. Polizia penitenziaria: “Al lavoro per incrementare l’organico” - Poi il Guardasigilli passa alla carenza di organico nella Polizia penitenziaria. “A fronte della dotazione organica pari a 41.595, sono effettivamente presenti nei rispettivi ruoli del Corpo 37.347 unità, con carenza complessiva di 4.248 unità, pari al 10,21% dell’organico previsto”. “Già a far data dal 2018 - ha ricordato il ministro - sono state gettate le basi del rilancio di una politica che ha puntato fortemente sul personale, per conseguire l’obiettivo della piena copertura ed ampliamento delle piante organiche, considerata la grave scopertura esistente, del personale di Polizia Penitenziaria nonché delle professionalità dell’area trattamentale, contabile e tecnica”. Allo stato, per far fronte a tali scoperture, relativamente al ruolo di agenti/assistenti il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “sta ultimando le procedure del concorso pubblico per il reclutamento di complessivi 754 allievi agenti del Corpo di polizia penitenziaria (elevati a 938) la cui assunzione avverrà entro il prossimo mese di dicembre”, ha ricordato Bonafede, sottolineando che è anche “prevista l’assunzione di 650 allievi agenti” ed è “in fase di definizione il bando del concorso pubblico per circa ulteriori 970 allievi agenti”. A breve, ha aggiunto, “saranno definite poi le procedure relative al concorso per l’assunzione di personale della carriera dirigenziale penitenziaria, già bandito dal Dap in relazione all’attuale vacanza nel ruolo dirigenziale penitenziario pari a 51 unità”. Le misure assunzionali, ha concluso Bonafede, “dovranno essere ulteriormente incrementate nell’ambito della prossima legge di Bilancio”. Strutture detentive - L’Amministrazione penitenziaria “è attualmente fortemente impegnata in un programma teso all’aumento del numero dei posti detentivi mediante il recupero d’agibilità di quelli indisponibili, nonché nell’edificazione di nuovi padiglioni in penitenziari già attivi, come pure nella riconversione ad uso detentivo di strutture demaniali dismesse, in particolare caserme”, ha ricordato il Guardasigilli Alfonso Bonafede, sottolineando che “nel corso del 2020 sono stati ultimati e attivati 3 nuovi padiglioni detentivi da 200 posti ciascuno presso gli istituti di Parma, Trani e Lecce, mentre è imminente l’attivazione di un ulteriore nuovo padiglione di pari capienza presso l’istituto di Taranto. Entro l’anno sarà ultimato anche un ulteriore padiglione da 200 posti nella casa di reclusione di Sulmona”. Nel marzo 2019, ha continuato Bonafede, “è stato varato un piano finanziario per la progettazione e la realizzazione di 25 nuovi padiglioni modulari media sicurezza, da 120 posti ciascuno, per complessivi 3mila nuovi posti detentivi” e “risultano attualmente già avviati i procedimenti per 12 moduli diffusi capillarmente sul territorio”. Inoltre, sono ripresi “i lavori di completamento del reparto 41bis di Cagliari Uta”, in totale 92 posti, “che dovrebbe essere ultimato entro il corrente anno”, ha detto Bonafede, affermando che sono poi stati “consegnati i lavori per il nuovo padiglione detentivo da 200 posti presso la casa circondariale di Bologna, che dovrebbe essere ultimato entro il 2021”. In corso, inoltre, le progettazioni per “una serie di nuove strutture per complessivi 1.730 posti e adeguamenti di reparti detentivi presso cinque istituti”, ha riferito il Guardasigilli, ricordando che “per la manutenzione ordinaria e straordinaria nonché per il potenziamento del patrimonio immobiliare demaniale in uso governativo penitenziario, è stato ottenuto un rilevante incremento di risorse finanziarie assegnate al Dap negli anni 2019 e 2020 rispetto agli anni precedenti”. Quelle botte ai detenuti, troppo ordinarie per fare notizia di Iuri Maria Prado Il Riformista, 30 settembre 2020 Dire che i pestaggi nelle carceri costituiscono la regola sarebbe statisticamente inesatto solo perché, forse, quella violenza non si registra proprio tutti i giorni e in tutte le carceri: ma rappresentano un fatto notorio e tutt’altro che raro, che non bisognerebbe considerare meno grave soltanto perché il personale a guardia delle prigioni non è fatto tutto di picchiatori (ci mancherebbe pure, e ci mancherebbe che proprio ogni detenuto fosse destinatario di quell’abuso). È esattamente quel che succede in guerra, quando la truppa si abbandona al saccheggio e allo stupro. Ovviamente non succede in ogni campagna militare e ovviamente, quando succede, non ne è responsabile ogni soldato. Ma sanno tutti che se non è la regola è comunque un fatto frequente, e questa violenza condivide con l’altra quella che ricorre nelle carceri - una buona somma di caratteristiche: si rivolge contro gli indifesi, si esercita al riparo da qualsiasi controllo inquirente e, soprattutto, avviene sotto il comando di chi magari non la istiga ma certamente la conosce e la lascia correre. Spiace doverlo denunciare ma, davanti a una realtà che conoscono tutti, alcuni hanno più responsabilità di altri: e chi, se non quelli che per ufficio - accusando, giudicando - affidano le persone a quel dispositivo di risaputa violenza? Ovviamente non si vuol dire che chi stende una richiesta di arresto o una sentenza di condanna deve per ciò solo rispondere se il destinatario di quel provvedimento è poi preso a bastonate. E nemmeno chi amministra le carceri può essere ritenuto responsabile, per il sol fatto di ricoprire quel ruolo, degli abusi eventualmente commessi da questo o quell’aguzzino in divisa. Ma gli uni e gli altri - magistrati e amministratori - non possono far finta di non sapere ciò che tutti sanno perfettamente: e cioè che in quei luoghi di pena è, se non normale, almeno assai frequente che i detenuti siano sottoposti a quel regime selvaggiamente sopraffattorio. Non dovrebbero, né gli uni né gli altri, sopportare oltre di essere elementi decisivi di un sistema che per norma accetta quell’illegalità ricorrente. Perché di questo infine si tratta: di una realtà davanti alla quale allarghiamo le braccia, perché si sa che è così e buonanotte. Con questo di peggio: che per un caso fuoriuscito dal buio in cui quasi sempre quella violenza è perpetrata, mille e mille ce ne sono di cui nessuno si occupa perché un detenuto massacrato di botte non è una notizia ma un’ordinaria proprietà del nostro sistema carcerario. Una cosa di cui non si parla e che non fa vergogna non perché non c’è: ma perché non importa. Antigone. Grave che sia slittato a data da destinarsi il concorso per direttore penitenziario antigone.it, 30 settembre 2020 È grave che il concorso per assumere 45 dirigenti penitenziari sia stato messo in un binario che appare morto. Lo scorso 22 settembre avrebbero dovuto essere pubblicate le date per lo svolgimento dei test pre-selettivi, invece neanche quelle. Tutto rinviato a gennaio 2021. Vuol dire che il ministero della Giustizia non ha a cuore la grande questione della gestione delle carceri in Italia. Vi sono istituti che non hanno direttori, l’ultimo concorso risale a metà degli anni ‘90 del secolo scorso. Molti dirigenti svolgono doppie, triple funzioni. Nel 2019 l’osservatorio di Antigone ha potuto rilevare, in 100 carceri, come solo in 53 ci fosse un direttore di ruolo. In 37 istituti il direttore era incaricato anche in un altro carcere, in 9 era in missione da un altro istituto e in 1 carcere non c’era direttore. Ai direttori si deve la tenuta di un sistema complesso e articolato. Il mestiere di direttore di carcere va valorizzato, gratificato. C’è bisogno di energie umane nuove. Per questo è inaccettabile che vi sia stato uno slittamento sine die. L’emergenza Covid non ha impedito la fissazione della data per il concorso di insegnanti nelle scuole dove si partirà il 22 ottobre e si continuerà fino a metà novembre in modo scaglionato. Si poteva fare allo stesso modo anche per le carceri, che evidentemente non sono tra le massime priorità. Il 7 ottobre in piazza a Roma per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 settembre 2020 Mercoledì 7 ottobre manifestazione a Montecitorio con esponenti della politica e della cultura. Una manifestazione per il diritto al risarcimento dei cittadini che hanno subito una ingiusta detenzione. È quella che si svolgerà mercoledì prossimo, 7 ottobre, alle ore 10 davanti Montecitorio, promossa dal comitato cappeggiato da Giulio Petrilli, colui che si è visto negare il risarcimento a causa di un “giudizio morale”. Subì ingiustamente anni di carcere preventivo, la “colpa” è quella di aver frequentato amici che appartenevano al gruppo armato di Prima Linea. Ma casi come lui non mancano, per questo l’anno scorso aveva inviato una petizione all’Unione europea. La questione sollevata è stata dichiarata ricevibile dalla Commissione europea per le petizioni, perché a norma del regolamento del Parlamento europeo in quanto si tratta di una materia che rientra nell’ambito delle attività dell’Unione europea. All’appello lanciato dal Comitato hanno risposto in tanti e tante, sia del mondo politico che culturale: dal portavoce nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni al deputato Gennaro Migliore, all’ex segretaria nazionale del Partito Radicale Rita Bernardini, al segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, a Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione Internazionale Enzo Tortora, ai tanti giornalisti, a rappresentanti delle istituzioni locali come il consigliere della Regione Abruzzo Americo Di Benedetto, ad altri esponenti politici da sempre impegnati sul fronte del garantismo, come i già senatori Claudio Grassi e Russo Spena ed Eleonora Forenza, che ha seduto nei banchi dell’Europarlamento fino all’anno scorso. “Raccogliamo come elemento di grande positività il fatto che diversi rappresentanti che siedono in Parlamento o che hanno occupato posizioni rilevanti sia nelle istituzioni che nella vita politica e civile si sentano investiti di questa battaglia di tutela democratica fondamentale. Dovrebbe essere scontato che chi viene arrestato e costretto alla reclusione ingiustamente, poi assolto, venga poi risarcito dei danni materiali e psicologici subiti. invece nel nostro Paese purtroppo non è così”, denuncia Petrilli. Ogni anno in Italia sono circa 8.000 le persone che chiedono il risarcimento per ingiusta detenzione e a 6000 di loro viene risposto no, adducendo motivazioni ritenute inaccettabili. Ovvero motivazioni che nulla hanno a che vedere con la innocenza del richiedente, accertata da una sentenza del tribunale, ma da presunti errori commessi nella difesa che avrebbero tratto in inganno il Pm e il Gip. “Nei fatti - sottolinea Petrilli - il giudice non ha responsabilità alcuna se sbaglia e priva un cittadino, anche per anni come spesso accade, della propria libertà ingiustamente. Un paese democratico non può convivere con questa orrenda stortura democratica, che invece è consentita dall’articolo 314 del codice di procedura penale, su cui chiediamo quindi un intervento di immediata modifica”. La Commissione petizioni del Parlamento Europeo, che ovviamente oggi non può interferire in materia sulle vicende nazionali, ha dato ragione ed è a lavoro per una legge europea che sancisca il diritto al risarcimento per tutti gli assolti. “Spero però che il governo Conte mostri attenzione e ragionevolezza verso le questioni da noi sollevate ed intraprenda una iniziativa risolutiva a prescindere dalle indicazioni della Ue”, conclude Petrilli. Flick: “Diritti e garanzie difensive sotto attacco” di Simona Musco Il Dubbio, 30 settembre 2020 Undicesimo Salone della Giustizia, l’allarme dell’ex presidente della Consulta. Caiazza (Ucpi): “Il processo da remoto? Frutto di una cultura autoritaria”. Una visione carcerocentrica e una corsa alla compressione dei diritti. Sono questi i pericoli segnalati da Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte costituzionale, intervenuto ieri all’undicesima edizione del Salone della Giustizia. Un dibattito che si è concentrato sul ruolo della tecnologia in una riforma pretesa dall’Europa come condizione fondamentale per l’erogazione del Recovery Fund ma che, secondo gli addetti ai lavori, non risponderebbe alle effettive esigenze del sistema. È proprio Flick ad analizzare gli aspetti critici di un piano che, anziché risolvere i problemi, rischia, a suo dire, di acuirli. Paventando anche il rischio che l’utilizzo della tecnologia possa portare all’avvento del cosiddetto “giudice robot”. “Io mi auguro che non ci si arrivi mai - ha sottolineato -, perché la giustizia ha un carico, una dimensione di tipo umano che sopravanza l’efficienza o l’esigenza dell’efficienza”. Il piano pensato dal legislatore, secondo Flick, è però insoddisfacente. Da un lato l’intervento della tecnologia nel processo civile si limita alla digitalizzazione, utile, per l’ex ministro, ma insufficiente per pensare di affrontare seriamente i problemi reali. Che, per il civile, sono almeno due: “tempo del processo e calcolabilità”. Nel penale, invece, la situazione è anche più complessa: il piano presentato alle Camere, infatti, “vede nel carcere e solo nel carcere la soluzione di tutti i problemi” e trova soluzioni sbagliate a problemi reali. Come il sovraffollamento, che viola la dignità dei detenuti e il fine rieducativo della pena. “Invece di pensare di far entrare in carcere meno gente, perché ce ne sta molta di più di quella che dovrebbe esserci - ha sottolineato Flick -, aumentiamo le carceri, come se fossero soltanto un problema di spazio”. L’uso della tecnologia nel diritto, poi, pone soprattutto un problema di salvaguardia dei diritti e delle garanzie fondamentali. La sensazione, per Flick, è quella di “correre verso una compressione delle garanzie difensive”, in una situazione in cui “i diritti della difesa, della persona, non vengono rispettati, non solo nell’esecuzione della pena, ma prima ancora nel processo - ha evidenziato -. Un esempio: il cosiddetto trojan, cioè l’utilizzazione di uno strumento tecnico che consente un pressoché totale controllo della persona”, a scapito della libertà di pensiero e della segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni. Ma a non essere “sopportabile” è anche la possibilità di effettuare intercettazioni a strascico, con un intervento legislativo “che mi ha lasciato perplesso”, così come l’equiparazione dei reati di criminalità organizzata e di corruzione, bandiera “per una battaglia fatta dall’opinione pubblica e alimentata dai media nei confronti del modo con cui si amministra la giustizia in questo Paese”, ha concluso Flick. Il piano del governo, dunque, non funziona. E una Giustizia che non funziona condiziona anche l’economia, ha sottolineato il presidente del Salone della Giustizia, Carlo Malinconico. “Gli investitori non sono attratti da un Paese in cui la giustizia non funziona - ha spiegato -. C’è bisogno di una organica riforma della giustizia, e in questa direzione sicuramente la tecnologia può consentire enormi passi avanti. Nel processo civile e in quello amministrativo la digitalizzazione può fare la differenza, nel processo penale, per quanto riguarda la costituzione del fascicolo, la smaterializzazione può garantire efficienza. Non mi convince invece l’idea di immaginare un processo che si svolge davanti a un giudice robot”. A non essere contento di un’eventuale smaterializzazione del processo è di certo Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali. Secondo cui il processo penale è incompatibile con una dimensione che non sia quella fisica. “È inconcepibile l’idea di esaminare un testimone senza poter avere la percezione fisica e la sua reazione alle domande”, ha spiegato. E se la tecnologia può essere utile per “smaterializzare l’accesso agli uffici e alle cancellerie”, pensare di estendere oltre l’emergenza la celebrazione dei processi su piattaforme digitali è pure follia. “La garanzia difensiva viene vista come ostacolo al fluire del processo penale - ha spiegato Caiazza. Nel periodo più acuto di lockdown abbiamo fatto cose più urgenti anche da remoto, ma la forzatura culturale e ideologica che si è provato a far passare con questo pretesto e cioè che il processo si potrebbe celebrare da remoto, un tentativo fortunatamente sventato, esprime bene l’idea di una cultura autoritaria e burocratica del processo penale”. Per la vice presidente dell’Università Luiss Guido Carli ed ex ministro della Giustizia, Paola Severino, “bisogna cominciare a vedere la giustizia non solo come un diritto del cittadino, ma anche come un investimento economicamente vantaggioso per il Paese”. Se i tempi dei processi sono troppo lunghi, se la burocrazia è opprimente, gli investitori scappano. E per riformare davvero la giustizia, “lo strumento della tecnologia è indispensabile ma, non basta che tutti sappiano usare il computer, è necessario che vengano assunti giovani in grado di programmare in digitale”. Il pusher ragazzino: “A 15 anni ho iniziato a spacciare droga. Così mi sono rovinato la vita” di Jacopo Storni Corriere della Sera, 30 settembre 2020 La testimonianza di un giovanissimo spacciatore che ora sta seguendo un percorso terapeutico con lo psichiatra: “Guadagnavo oltre 1.000 euro al mese. Ho annullato questa parte della mia vita per arricchirmi spacciando, e fumando dieci canne al giorno. Poi un giorno allo specchio sono scoppiato a piangere”. Per Francesco era tutto semplice e apparentemente bellissimo: “A 15 anni spacciavo droga e guadagnavo più di mille euro al mese”. Non si chiedeva cosa stesse facendo, lo faceva e basta, perché dentro di sé, vedendo tutti quei soldi facili, si sentiva un dio. Il meccanismo, almeno per lui, era semplice: “A Firenze aspettavo il fattorino che arrivava in motorino e mi buttava quasi senza fermarsi un chilo di hashish e marjuana, poi filava via, era alle dipendenze di un signore albanese che ogni mese faceva arrivare, dalla sua villa in Albania, decine di chili di sostanze stupefacenti”. Era così tutti i mesi e Francesco (nome di fantasia), a soli 15 anni, tra una lezione di scuola e una cena in casa coi genitori, era diventato un pusher di riferimento per molte persone a Firenze. Tutto è iniziato con la prima canna e quella presunta sensazione di ebrezza: “La prima canna l’ho fumata a 14 anni, mi piaceva e volevo fumare di più ma vedevo che i soldi della paghetta familiare non bastavano. Allora mi ingegnai e pensai che, se fossi riuscito a diventare non solo acquirente ma anche venditore, avrei potuto fare un po’ di soldi per comprarmi più fumo”. E così è stato, basta uno scambio di telefonate, due messaggi ed ecco il numero di chi conta di più nella gerarchia dello spaccio. “All’inizio cominciai a comprare dieci grammi e guadagnavo 30 euro ogni volta, la vendevo agli amici, poi sempre di più, ho cominciato a comprarne un etto, poi due etti, e poi un chilo. E quando cominci a spacciare così tanto, non vendi più soltanto agli amici, perché la gente ti comincia a cercare, sono gli altri che ti trovano, sono gli altri che hanno il tuo numero e conoscono il tuo volto, come clienti ho avuto anche semplici padri di famiglia che nei giardini, con il figlio e la moglie che giocavano, si avvicinavano per chiedermi le sostanze”. Così Francesco comincia ad arricchirsi e a sentirsi forte: “Il mio scopo era aumentare la droga da vendere per aumentare il guadagno, pensavo soltanto a spacciare e vendere, spacciare e vendere, ogni giorno della mia vita questa era diventata la mia ossessione. Perché? Perché nessun ragazzino adolescente guadagna oltre mille euro al mese, io invece sì, e per questo mi sentivo grande. Ho annullato questa parte della mia vita per arricchirmi spacciando, e fumando dieci canne al giorno, ma adesso, che ho 18 anni, mi sento un coglione”. Adesso Francesco ha smesso di fumare e spacciare. “Un giorno mi sono guardato allo specchio e ho cominciato a piangere a dirotto, avevo realizzato che tutta la mia vita aveva perso valore, avrei potuto fare miliardi di cose, dallo sport allo studio, e invece avevo buttato via alcuni degli anni più belli per un ragazzo”. Così, grazie anche all’aiuto dei genitori, ha cominciato a seguire un percorso terapeutico con lo psichiatra. “Adesso sogno di prendere la patente e trovare un lavoro. Ho mandato tantissimi curriculum e spero che qualcuno mi chiami. Mi va bene tutto, qualsiasi lavoro. E poi ho cominciato ad andare in palestra, pian piano voglio riempire le mie giornate, perché la vita deve essere impegnata seriamente”. E agli altri adolescenti che fanno come lui e che fanno uso di droga, sa bene cosa dire: “Smettete subito, la vera vita è un’altra, quella è soltanto un’illusione”. Le scuse che non troverete su Cosentino di Claudio Cerasa Il Foglio, 30 settembre 2020 L’assoluzione del politico campano offre spunti di riflessione a Saviano & co. La Corte di appello di Napoli ha assolto Nicola Cosentino, già sottosegretario all’Economia nei governi di centrodestra, insieme con un’altra cinquantina di imputati per reati connessi al finanziamento di un centro commerciale a Casal di Principe (peraltro mai realizzato). L’inchiesta era iniziata nove anni fa e in primo grado Cosentino e altri erano stati condannati a pene detentive dai 5 anni in su. Il teorema dell’accusa era basato sulla presunta collusione con il clan dei Casalesi che avrebbe spinto per la realizzazione del centro commerciale e questo aveva portato molti osservatori a impegnarsi in battaglie giustizialiste a senso unico. Tra questi osservatori poco garantisti, diciamo così, vi fu anche Roberto Saviano, che poco garantista fu anche quando considerò un furfante fino a prova contraria anche un altro politico campano di nome Stefano Graziano, allora presidente del Pd campano, prosciolto nel 2016 dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (rispetto a Cosentino, invece, il 28 ottobre vi sarà la prossima udienza in Appello per un altro processo in cui è stato condannato in primo grado a nove anni sempre per concorso esterno in associazione camorristica). Il principio costituzionale secondo cui si è innocenti fino a sentenza definitiva naturalmente non vale per i giustizialisti in servizio permanente effettivo, che poi si presentano come i più autentici interpreti del dettato costituzionale. È una patologia che il nostro sistema istituzionale patisce da decenni e che nonostante i numerosi buchi nell’acqua non accenna a decrescere. E chi viene identificato come nemico viene colpito indipendentemente dalla consistenza o meno degli indizi e anche dopo le assoluzioni viene tenuto in piedi il dubbio: non ci sono innocenti, solo colpevoli che se la sono cavata. Reagire a questo andazzo è difficile, chi cerca di far valere il principio di presunzione di innocenza viene assimilato ai malfattori, le sentenze valgono solo se sono condanne, e da questo cappio non si sa come uscire. Un modo però ci sarebbe: iniziare a dare le notizie delle assoluzioni con la stessa enfasi con cui si danno di solito le notizie delle condanne. Atti in cancelleria, riesame in dieci giorni di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2020 Corte di cassazione - S.U. - Sentenza 27104/2020. I dieci giorni di tempo per il riesame, nel giudizio di rinvio dopo l’annullamento dell’ordinanza che ha disposto o confermato la misura cautelare, decorrono dal momento in cui gli atti trasmessi dalla Cassazione, arrivano alla cancelleria del tribunale. Le Sezioni unite della Suprema corte (sentenza 27104) dirimono un contrasto sulla lettura del comma 5-bis dell’articolo 311 del Codice di rito penale, che impone al tribunale della libertà 10 giorni di tempo per decidere, in caso di annullamento con rinvio di una misura cautelare. I dubbi riguardavano il momento dal quale far decorrere il termine e l’identificazione dell’ufficio giudiziario utile a far partire il countdown al momento della ricezione degli atti: cancelleria centrale del Tribunale o sezione del riesame. Il Supremo consesso ricorda che l’articolo 311, comma 5-bis, dedicato al giudizio di rinvio che prevede il termine perentorio di 10 giorni, è stato introdotto solo con la legge di riforma delle misure cautelari (47/2015, articolo 13). Prima di allora questa fase del procedimento non aveva una disciplina specifica ed era regolata dalle disposizioni previste dall’articolo 309 per l’ordinario giudizio di riesame. Per le Sezioni unite non c’è ragione di ritenere che oggi non sia lo stesso, visto che la riforma del 2015 non ha sovrapposto un’altra norma per governare, in termini altrettanto generali la fase del rinvio. Il giudizio segue quindi lo stesso passaggio procedurale disegnato dall’articolo 309 comma 5 per la trasmissione degli atti al tribunale, in un massimo di 5 giorni, da parte dell’autorità giudiziaria che procede. E il momento della ricezione coincide, come previsto dal comma 10 dell’articolo 309, con la decorrenza del termine. Una conclusione giustificata dalla disponibilità di atti che consentono di decidere e di valutare le prove. La decisione è in linea anche con l’esigenza di celerità e tempi certi che devono contraddistinguere un procedimento che incide sulla libertà personale. Cadenze rapide nelle quali non si possono inserire momenti di stasi dovuti a esigenze burocratiche. Bologna. Detenuto si suicida alla Dozza, il Garante: “Urgente fare prevenzione” redattoresociale.it, 30 settembre 2020 L’uomo, di origini albanesi, aveva 40 anni. Da alcuni mesi era in custodia cautelare. Garante comunale: “Serve formazione per gli operatori locali. Puntare anche a progetti di peer supports di Modena, dove 13 detenuti supportano le persone giudicate a rischio”. Tra la notte di sabato e domenica, un detenuto albanese di 40 anni si è tolto la vita nella Casa circondariale Rocco D’Amato. Si trovava da alcuni mesi in custodia cautelare, in attesa di giudizio per furto e resistenza a pubblico ufficiale. Il compagno che con lui condivideva la camera detentiva non si sarebbe accorto di nulla. Nelle ultime ore aveva chiesto e ottenuto di parlare con la propria famiglia. La notizia arriva da Antonio Ianniello, garante comunale dei detenuti. “Nel corso del 2019 - scrive in una nota - si sono consumati due suicidi di persone detenute presso il carcere di Bologna e nel primo weekend dell’autunno di quest’anno giunge ancora una volta la tragica notizia di un altro suicidio riguardante un uomo straniero che si trovava da alcuni mesi in custodia cautelare, alloggiato in una cella condivisa. Oggi come allora risulta sempre all’ordine del giorno l’urgenza di elaborare strategie che possano rendere più incisiva l’attuazione del Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, le cui indicazioni devono essere tradotte nei protocolli operativi locali, tra il singolo Istituto penitenziario e la competente Azienda sanitaria, costituendo il piano locale di prevenzione. Complesso è lo sforzo dei vari operatori in un contesto detentivo nel quale è ridotta la sostenibilità dei numeri relativi alle presenze in carcere, risultando spesso la coperta troppo corta”. Ianniello, poi, avanza una proposta: “Il Piano nazionale offre spunti essenziali che mettono al centro la formazione degli operatori locali, in particolare quelli a più diretto contatto con la quotidianità detentiva in un quadro di condivisione del complesso degli interventi fra area penitenziaria e area sanitaria, e pone anche l’accento sul potenziale ausilio che può giungere dalle stesse persone detenute, adeguatamente formate a offrire vicinanza e supporto sociale ai soggetti a rischio con l’obiettivo di tentare di costruire interventi concreti per presidiare le (non poche) situazioni che possono essere potenzialmente stressanti in un contesto di privazione della libertà personale”. Il riferimento del garante è un progetto avviato dall’Azienda Usl di Modena. Si chiama Peer supports e coinvolge 13 persone detenute selezionate e ritenute in grado di poter assicurare una funzione di sostegno per le altre persone a rischio, avendo il compito di allertare i medici e gli operatori penitenziari quando sorgano situazioni di allarme circa lo stato emotivo-psicologico della persona. “Se la sperimentazione modenese risultasse efficace - conclude Ianniello - sarebbe auspicabile, ricorrendone i presupposti, valutare l’opportunità di esportare il progetto anche nel territorio bolognese”. Sull’accaduto è intervenuto, interpellato da Repubblica Bologna, anche Francesco Borrelli, dirigente del sindacato della Polizia penitenziaria Sappe: “Il detenuto era ospitato al primo piano, nel reparto infermeria, dov’era stato trasferito a sua tutela dopo aver avuto problemi con dei connazionali. Alla Dozza abbiamo oggi 730 detenuti, siamo in sovraffollamento. E c’è una carenza di organico degli agenti. Grazie alla professionalità degli agenti, evitiamo tantissimi tentativi di suicidio. Ma serve anche una dotazione idonea”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Pestaggi nel carcere, il Pd a Bonafede: “Lo sapevi?” di Giacomo Andreoli Il Riformista, 30 settembre 2020 Il Garante dei detenuti per la Campania conferma: “Ci sono le immagini delle violenze”. Diversi agenti denunciati sono ancora nel reparto? “Ci sono le immagini che provano le violenze. Forse gli agenti pensavano di restare impuniti, ma così non è”. Sulla presunta spedizione punitiva degli agenti penitenziari contro i detenuti al carcere di Santa Maria Capua Vetere (nel casertano), il garante dei detenuti per la Campania, Samuele Ciambriello, non ha dubbi. Per lui lo scorso 7 aprile, dopo le violente proteste per le condizioni disumane dei carcerati aggravate dal Covid 19, il pestaggio c’è stato eccome e l’indagine “potrebbe allargarsi ad altri agenti”. Per ora si indaga per reati di tortura e abuso di potere: sono 57 gli agenti nel mirino dei magistrati della Procura locale. Agenti che erano alle dipendenze un comandante che, per triste ironia della sorte, si chiama Gaetano Manganelli. Secondo il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, si sarebbe trattato solo di una perquisizione straordinaria delle celle, ma i detenuti hanno sempre sostenuto altro, sorretti dall’associazione Antigone che pubblicava le sue denunce sulle irregolarità nelle carceri sotto Covid qui su Il Riformista già a marzo. Un ex detenuto, testimone delle violenze, ha raccontato al quotidiano Domani di aver visto il video che sarebbe in mano ai pm, durante l’interrogatorio cui è stato sottoposto dopo l’uscita dal carcere: sono i fotogrammi probabilmente acquisiti dai carabinieri dalle telecamere di sorveglianza interne del carcere casertano. Immagini che si unirebbero al materiale proveniente dal sequestro dei telefoni di alcuni agenti. Manganellate, schiene sfregiate, denti rotti, occhi gonfi e varie contusioni. Secondo il testimone gli agenti erano 300, provenivano per lo più da altre carceri e ne avrebbero fatte di ogni. Non solo: a quanto dice i detenuti avrebbero solo subito le botte, senza reagire, mentre alcune ricostruzioni a favore degli agenti parlavano di bastoni usati dai carcerati contro le forze dell’ordine. Tra chi è stato picchiato, sostiene, ci sarebbe anche un disabile sulla sedia a rotelle, un uomo legato a un clan perdente di camorra che i suoi compagni chiamavano lo zio. Un altro detenuto, malato, le avrebbe prese per essere poi messo in isolamento e morire un mese dopo. Il caso, ora, si fa politico e rischia di diventare una bomba per la maggioranza: ieri il Partito democratico ha presentato un’interrogazione al ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede, già nell’occhio del ciclone nei mesi scorsi per la gestione delle carceri durante l’emergenza coronavirus. Prima firma del responsabile dei temi giudiziari Walter Verini. “Il ministro è a conoscenza dei fatti riportati?” chiedono i dem, riprendendo quanto scriveva il Direttore del nostro giornale Piero Sansonetti, nell’editoriale di ieri. Il Pd domanda anche “se sia stata avviata un’inchiesta per accertare le eventuali responsabilità”. Tutto questo, perché, conclude l’interrogazione, “le difficili condizioni nelle quali gli agenti svolgono quotidianamente il loro lavoro non possono in alcun modo giustificare, ove fossero confermati, simili gravissimi episodi”. Durissimo il deputato di LeU Erasmo Palazzotto. “Nel carcere è successo qualcosa di spaventoso - ha scritto in una nota - Una totale sospensione dello Stato di Diritto. Quelli massacrati sono cittadini sotto la custodia dello Stato. Garantire la loro dignità e incolumità è compito delle Istituzioni. La funzione del carcere, è bene ricordarlo, è quella di riabilitare e reinserire i detenuti nella società. Quanto accaduto invece ha a che fare con l’annientamento della persona”. Intanto, denuncia Ciambrello, “presunte vittime e agenti denunciati sono ancora nello stesso reparto, faccia a faccia tutti i giorni. Una circostanza che tiene il clima in carcere costantemente teso”. Per questo, aggiunge: “Non capisco perché il Dap non intervenga con i trasferimenti di detenuti o poliziotti”. Ma Giuseppe Moretti, presidente del sindacato degli agenti, l’Uspp, smentisce: “Gli agenti prestano servizio esclusivamente nei settori esterni all’area detentiva”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). La politica tace sui pestaggi, ma qualcuno nel palazzo parla di Nello Trocchia Il Domani, 30 settembre 2020 “Sappiamo quello che è successo: sono entrati e li hanno riempiti di botte”, dice un funzionario dell’amministrazione penitenziaria. La storia si ripete: nel 2000 a Sassari un caso analogo”. “Sappiamo quello che è successo a Santa Maria, sono entrati e li hanno riempiti di botte”, dice un funzionario dell’amministrazione penitenziaria che chiede l’anonimato. Per parlarne si affida ad un caso analogo, accaduto due decenni fa. “Ricorda quello che è successo a Sassari nel 2000? Quel giorno fecero un macello, a Santa Maria Capua Vetere è accaduta la stessa cosa. Una figura indecente, oggi come allora”. Il 6 aprile, nel carcere Francesco Uccella, a Santa Maria Capua Vetere, trecento agenti della polizia penitenziaria sono entrati per una perquisizione straordinaria, finita con pestaggi e violenze. Alle denunce dei detenuti si è aggiunto un tassello importante, la presenza di video che documentano gli abusi, immagini che un testimone ha visto e rivelato e che sono agli atti nel fascicolo giudiziario. Il funzionario è venuto a conoscenza di quello che è accaduto a Santa Maria e per raccontarlo richiama una vicenda ormai dimenticata ma che ha segnato profondamente la storia degli istituti di pena nel nostro paese: le violenze al San Sebastiano di Sassari. Vent’anni fa, in quell’istituto, decine di agenti della polizia penitenziaria entrarono in carcere per un trasferimento di detenuti, dopo una protesta per le condizioni carcerarie. Scattarono pestaggi e violenze. Il caso arrivò anche in parlamento, si celebrò un processo. Alla sbarra finirono agenti, direttore e provveditore. Poche le condanne, molti proscioglimenti per assoluzione e prescrizione. Era aprile, anche allora, precisamente il 3. All’epoca l’Italia non aveva ancora introdotto il reato di tortura e il caso è arrivato, successivamente, in Europa. Il precedente in Sardegna La Corte europea dei diritti dell’uomo, nel 2014, ha condannato l’Italia per aver sottoposto i detenuti a trattamento inumano e degradante: pugni, colpi di bastone, sputi e calci. Affrontando il caso di un detenuto, Valentino Saba, i giudici hanno anche ricordato i tempi lunghi del processo, il fatto che molti colpevoli siano stati prosciolti per prescrizione e i condannati abbiano avuto pene troppo leggere in rapporto ai fatti. L’inchiesta sconvolse il mondo carcerario: un mese dopo, il 3 maggio del 2000, vennero eseguiti 82 ordini di custodia cautelare, dei quali 22 in carcere. Dalle ordinanze di arresto è emerso che durante il trasferimento una ventina di detenuti sono stati “trascinati con la forza, picchiati violentemente con calci, pugni, schiaffi, colpi di bastone e di manganello, inondati con secchiate di acqua gelata, costretti a denudarsi, subire le violenze senza potersi lamentare o muovere, salire sui mezzi dell’amministrazione seminudi, feriti, sporchi di sangue ed escrementi”. Vent’anni dopo ci risiamo. Schiene sfregiate, detenuti in ginocchio, traumi e una violenza inaudita. Il 6 aprile, nel carcere Francesco Uccella, in provincia di Caserta, è andato in scena un analogo film dell’orrore, due decenni dopo. Nei video ci sono immagini di detenuti inginocchiati, trascinati, picchiati da capannelli di quattro, cinque poliziotti. Tra i detenuti pestati c’è anche un disabile; un altro, invece, è stato manganellato, messo in isolamento e, dopo un mese, è morto. Era già affetto da altre patologie. Un copione già visto, esattamente vent’anni fa. “Bisogna imparare dai propri errori. Sassari ha insegnato che quando ci sono situazioni di protesta bisogna intervenire, ma con la massima professionalità”, dice ancora il funzionario. “Mandare un contingente di agenti provenienti da altre carceri, come è accaduto al Francesco Uccella, è un errore madornale. Gli agenti che vengono da fuori sanno che in quel carcere non torneranno più e non si controllano. Alla fine da lì andranno via”. Esattamente quello che è successo il 6 aprile. Sono trecento gli agenti che entrano e partecipano alla perquisizione straordinaria, disposta alla ricerca di oggetti e strumenti pericolosi. In buona parte, gli agenti vengono da altri istituti, arrivano lì tutti coperti, con foulard, mascherine e soprattutto caschi. “Gli errori sono due, il primo è quello che l’intervento non è stata fatto nell’immediato, ma soprattutto l’uso di personale già sottoposto a enormi carichi di lavoro”, aggiunge il funzionario. Questo è un punto centrale. A giugno, infatti, a Santa Maria Capua Vetere, si verificano delle proteste e, questa volta, si decide di fare intervenire il gruppo operativo mobile, il Gom. Come si giustifica l’intervento tardivo e perché non è stato coinvolto personale specializzato? Tra gli indagati c’è Antonio Fullone, provveditore regionale campano dell’amministrazione penitenziaria. Ha reperito le unità necessarie per l’intervento, non ha partecipato all’irruzione, ma è indagato per quella perquisizione. “È una sciocchezza, non bisogna sempre usare sempre il Gom per quei tipi di intervento, non è una regola”, dice, ma non vuole aggiungere altro perché c’è un’inchiesta in corso. Precisa solo che di quelle decisioni è stato costantemente informato l’allora vertice del Dap. All’epoca, il magistrato Francesco Basentini guidava il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, oggi è alla procura di Roma. Contattato al telefono, ha risposto con un messaggio: “Sono impegnato in procura, per le vicende penitenziarie, deve attivarsi presso il Dap”. Quando gli facciamo notare che era lui il capo del Dap, chiediamo se è stata avviata indagine interna e perché non è stato inviato il gruppo operativo speciale, non riceviamo più alcuna risposta. Sui fatti di Santa Maria Capua Vetere abbiamo chiesto conto al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il ministro non rilascia dichiarazioni, fanno sapere dall’ufficio stampa, perché è in corso un’indagine coperta da segreto. Al momento, l’indagine è nella fase preliminare, con la notifica agli indagati di un decreto di sequestro e dell’avviso di garanzia. Decreti notificati, lo scorso 11 giugno, all’esterno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Perquisizione che aveva suscitato l’indignazione di Matteo Salvini, leader della Lega, che era intervenuto definendo quello “un giorno di lutto perché erano stati trattati servitori dello stato come delinquenti”. L’ufficio stampa del leader della Lega non ha risposto alle richieste di commentare la vicenda. Caserta. Detenuti al lavoro nell’Asi, arrivano i delegati Onu per studiare il progetto di Antonio Pisani anteprima24.it, 30 settembre 2020 Una delegazione dell’Onu ha fatto visita al Consorzio Asi di Caserta per valutare l’impatto di alcuni progetti realizzati dall’ente nel campo della sostenibilità ambientale e dell’integrazione socio-culturale, in particolare il piano “Mi riscatto per il futuro”, che prevede l’impiego dei detenuti per lavori di pubblica utilità nell’Area di sviluppo industriale di Caserta. La Presidente del Consorzio Asi Caserta Raffaela Pignetti ha guidato la rappresentanza dell’Onu - Unodc (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), composta da Flavio Mirella (Chief Co-financing and Partnership Section Unodc) e da Claudio La Camera (Senior Advisor Unodc); presente anche Vincenzo Lo Cascio del Dap (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), che ha spiegato, in relazione al progetto per l’impiego dei detenuti, che “la sede di Caserta è stata indicata come una delle più importanti d’Italia per la buona pratica che con questo progetto stiamo acquisendo”. I delegati Onu hanno valutato il “modello Asi Caserta” come best practice di sviluppo sostenibile e di cooperazione pubblico/privato. “L’esperienza di sviluppo che abbiamo trovato nell’area industriale della provincia di Caserta può essere promossa a livello internazionale - ha dichiarato Flavio Mirella - le strategie ambientali, sociali e culturali messe in piedi dalla governance del Consorzio rappresentano un esempio chiarissimo di come si lavora a progetti di sviluppo mettendo in rete le istituzioni”. “Sono orgogliosa - ha detto Raffaela Pignetti - dell’interesse delle Nazioni Unite al modello di sviluppo su cui stiamo lavorando per la crescita del territorio con progetti per il potenziamento delle infrastrutture, la riqualificazione, la sostenibilità, l’integrazione socio-culturale”. Torino. Busta con proiettili alla giudice che ha mandato in carcere la portavoce No Tav di Federica Cravero La Repubblica, 30 settembre 2020 Il plico intercettato al tribunale di sorveglianza. Immediato il collegamento con il contestato arresto di Dana Lauriola. Il movimento prende le distanze: “Che noia, rituale prevedibile”. Solidarietà da Salvini. Sono stati recapitati ieri mattina con la posta due proiettili inviati a Elena Bonu, giudice che aveva respinto la richiesta di misure alternative all’attivista e portavoce dei No Tav, Dana Lauriola, che nei giorni scorsi è andata in carcere. La busta è stata spedita al tribunale di sorveglianza. Gli investigatori della Digos sono al lavoro. Alla giudice è arrivata la solidarietà del leader leghista Matteo Salvini: “La mia solidarietà e vicinanza al giudice Elena Bonu: ogni atto di intimidazione, minaccia e violenza va sempre condannato”. La busta che conteneva i due proiettili calibro 9x21 non ha mittente né un messaggio di rivendicazione ma sembra evidente il collegamento con la lotta contro l’alta velocità che ha caratterizzato la militanza di Dana Lauriola, condannata a due anni di carcere per aver partecipato a una manifestazione in cui al grido di “Paga Monti” erano state alzate le sbarre al casello dell’autostrada Torino-Bardonecchia e fatto passare le auto senza pagare il pedaggio. Una giudice “conosciuta per il suo sadismo”. Così un sito antagonista, alcune settimane fa, definiva Elena Bonu, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Torino cui è stata indirizzata una busta con proiettili. Il testo era un commento alla decisione di non concedere a Dana Lauriola misure alternative alla detenzione dopo una condanna. “Che noia. Puntuale come una cambiale arriva la busta con il proiettile, un rituale inutile e prevedibile che ci annoia a livelli incredibili”. Con questo intervento sui social il movimento No Tav prende le distanze dall’invio di una busta con proiettile a un giudice del tribunale di sorveglianza di Torino. “Ci annoiano - è il testo - i fantomatici postini al pari dei giornalisti che dopo tutto questo tempo fanno ancora articoli sulla busta e sul calibro. Ci sarebbe da ridere se non fosse la noia a prevalere in queste situazioni”. Genova. detenuti dal carcere di Marassi a Italia’s Got Talent, e Salvini s’infuria di Massimo Calandri e Erica Manna La Repubblica, 30 settembre 2020 I cinque partecipano da anni alle attività del Teatro dell’Arca, nato dentro il penitenziario, hanno avuto l’autorizzazione del ministero e hanno passato il primo turno, ma il sindacato Uilpa contesta la trasferta a Roma. Ieri sono stati a Roma, a Cinecittà, per registrare una puntata di Italia’s got talent. La partecipazione alla trasmissione di Italia Uno di un gruppo di detenuti del carcere di Marassi di Genova ha fatto infuriare il sindacato regionale di polizia penitenziaria della Uil, e provocato il tweet infuocato di Matteo Salvini: “Anziché investire in divise, dotazioni e mezzi e pagare gli straordinari agli agenti - scrive il leader della Lega - ecco come butta i soldi il governo: il sindacato Uilpa denuncia che la Polizia penitenziaria ha dovuto essere impiegata per la “gita” dal carcere di Marassi da Genova a Roma (con partenza alle 4 del mattino)”. E attacca: “Il tutto a spese dei contribuenti e con tutti i rischi di spostamenti di questo tipo in epoca Covid. Non ho parole”. Salvini, sempre via social, annuncia interrogazioni parlamentari della Lega al ministro Bonafede per chiarire la vicenda, che definisce “scellerata e vergognosa”. Dall’associazione Teatro Necessario Onlus che anima il teatro dell’Arca, palcoscenico costruito all’interno alla casa circondariale genovese e che da quindici anni porta avanti laboratori teatrali con i detenuti, trapela stupore e amarezza. Lo spirito dell’iniziativa - sottolineano in teatro, dove con i detenuti hanno fondato la Compagnia Scatenati - è quello di focalizzare l’attenzione nazionale sull’importanza della riabilitazione: “Lo spostamento è stato autorizzato a livello ministeriale, e le spese di trasporto sono state sostenute dalla produzione”. I detenuti - cinque - che sono stati a Cinecittà per la registrazione della puntata partecipano da anni alle attività di Teatro necessario. La Onlus genovese è stata contattata dalla produzione di Italia’s got talent, interessata al lavoro della compagnia e in particolare a uno dei loro primi spettacoli, quando i detenuti dicono addio alle proprie famiglie. È proprio questa la scena che hanno recitato davanti ai giudici del programma televisivo, provocando uno scroscio di applausi e ottenendo quattro “sì”. A far infuriare la sigla del sindacato di polizia penitenziaria è stato l’orario del trasporto e soprattutto il momento delicato a causa della pandemia. “La scorta è partita di notte - sottolinea Fabio Pagani, segretario ligure della Uilpa Polizia penitenziaria - in orario non previsto dalla normativa vigente e si è diretta verso la capitale in un momento che vede purtroppo il centrosud con casi di Covid19 in netto aumento”. “Il rischio da evitare in questo momento - continua Pagani - “è la movimentazione dei detenuti”: “Non possiamo permetterci errori, altrimenti gli sforzi messi in atto fino a questo momento saranno inutili”. La prossima puntata del talent è fissata per il 6 gennaio. Al teatro del carcere, la preoccupazione è che la polemica faccia saltare il trasferimento: “È un’occasione per sensibilizzare a livello nazionale sull’importanza di un carcere non punitivo ma riabilitativo”. Perugia. I detenuti premiano i documentari internazionali al PerSo - Social Film Festival perugiatoday.it, 30 settembre 2020 Dal 7 all’11 ottobre torna per la sua sesta edizione il PerSo - Perugia Social Film Festival. L’appuntamento dedicato al cinema documentario, luogo di analisi e riflessione sul contemporaneo e sui linguaggi cinematografici, metterà in scena il meglio delle produzioni internazionali del cinema del reale. Cinque giorni di proiezioni ad ingresso gratuito, tre categorie di concorso, eventi speciali fuori concorso e workshop. Ad assegnare il PerSo Short Jail, il premio per il miglior cortometraggio, sarà una specialissima giuria, formata dai detenuti della Casa Circondariale di Perugia-Capanne. Un progetto nato insieme al festival, nel 2015, e che negli anni ha coinvolto oltre 45 tra detenute e detenuti del carcere perugino. Le visioni nel penitenziario precederanno il festival e si terranno il 2, 3 e 5 ottobre, presso la sala polivalente all’interno della struttura. Si tratta di un percorso che prevede una fase di formazione dove vengono attivate riflessioni sia sul piano tematico e di costruzione della storia, sia sul piano delle tecniche e dei linguaggi. Quest’anno per ovvie ragioni la presenza in carcere si è interrotta nei mesi del lockdown ed è potuta riprendere solo nel mese di settembre. Perciò, i percorsi di formazione che negli ultimi anni avevano previsto visioni durante diversi mesi dell’anno, per garantire un approccio più completo al cinema del reale, non si sono potuti avviare. Per questa ragione, in via eccezionale, sono stati coinvolti nuovamente i detenuti formati per la giuria 2019 (naturalmente quelli ancora in stato di detenzione a Capanne). Durante la giornata del 5 ottobre ci sarà la votazione e la stesura delle motivazioni del premio. Saranno realizzate anche delle interviste ai detenuti che poi saranno proiettate in sala durante la cerimonia di premiazione del festival, l’11 ottobre. Differente. Non indifferente, questo il claim che riassume lo spirito del PerSo. Il festival, che si è ritagliato nel giro di pochi anni un posto importante nel panorama dei concorsi a livello internazionale, presenterà 8 film in anteprima nel concorso principale, il PerSo Award, e 9 cortometraggi internazionali nel concorso PerSo Short. Sassari. All’Asinara “liberata” una giornata dedicata a giustizia e carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 settembre 2020 “Dopo trent’anni carcerato all’Asinara, che vuoi che siano poche ore in una bara”, dice drammaticamente la struggente canzone di Daniele Silvestri ambientata, appunto, nell’ex carcere dell’Asinara, un’isoletta del mar Mediterraneo, vicina alla punta della Sardegna. Dal dopoguerra, l’Asinara diventò a tutti gli effetti un’isola- carcere, famigerato suo malgrado negli anni 70 come “speciale” per i fondatori delle Brigate rosse. Poi, con la sanguinosa rivolta del 2 ottobre 1977 per protestare contro le sistematiche torture, il carcere venne temporaneamente dismesso negli anni 80 per poi riaprirlo dopo le stragi mafiose e quindi ai detenuti in regime di 41bis. Finalmente nel 1998 l’Isola venne liberata dal carcere e oggi è un luogo incontaminato dove la natura trova il suo spazio senza più avere le 11 diramazioni penitenziarie. Parliamo di un Parco Nazionale con fascino misterioso e forza di una natura pressoché incontaminata, paesaggi aspri battuti dal vento, mare cristallino e un ecosistema unico al mondo. In questo splendido contesto, tra memoria e speranza come recita il sottotitolo dell’evento, nell’Isola “liberata” si celebrerà sabato prossimo, il 3 ottobre, una intera giornata dedicata alla giustizia e al carcere organizzata dalla Camera Penale di Oristano, presieduta dall’avvocata Rosaria Manconi, e dall’avvocata Monica Murru, già direttore della Scuola forense di Nuoro e con il patrocinio, tra i tanti, dell’Ente Parco e della Presidenza del Consiglio Regionale. Un programma dei lavori fitto e oltremodo interessante che prevede nella mattinata una tavola rotonda sul tema “I tempi della pena: vite sospese”, alla quale parteciperanno numerosi relatori fra i maggiori esperti nazionali di diritto penitenziario ed esecuzione penale. Saranno presenti anche i magistrati di sorveglianza Fabio Gianfilippi e Riccardo De Vito. A concludere la tavola rotonda sarà il Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Giandomenico Caiazza. Nel pomeriggio, a cura dell’avvocata Monica Murru, ci sarà la presentazione del libro postumo di Mario Trudu “La mia Iliade”. L’opera, che racconta la lunga carcerazione di quest’ultimo (ergastolano di Arzana deceduto in ospedale il 24 ottobre 2019 dopo oltre quarant’anni di reclusione), verrà rappresentata anche in chiave teatrale, con alcune parti portate in scena dall’attore Giovanni Carroni, accompagnato dal Coro polifonico di Nuoro e da alcuni musicisti del Conservatorio di Sassari. Un evento importante quello organizzato dalla Camera Penale di Oristano. L’isola che ospitò anche Falcone e Borsellino prima che iniziasse il maxi processo (dovettero pagare anche il conto su richiesta dell’allora capo del Dap Nicolò Amato) è passata alla storia come l’Alcatraz italiana. Quando fu riaperta come risposta alle stragi mafiose, le sistematiche torture si inasprirono, tanto da ricevere una condanna anche dagli organismi internazionali. Fu lì che venne portato Totò Riina dopo il suo arresto. Precisamente gli venne assegnata la cella di Cala d’Oliva, uno degli undici penitenziari dell’isola. Era soprannominata “la discoteca”, ma non perché si ballava. La cella, senza finestre, era perennemente illuminata dalle lampade che il capo dei capi non poteva spegnere. In poco tempo Totò Riina si rese conto di essere finito in un luogo in cui sarebbe stato davvero isolato e sorvegliato 24 ore su 24. Senza un attimo di intimità, neanche all’interno del bagno. E con la luce sempre accesa, anche di notte. Vi rimase per 4 anni. L’Asinara però riservava l’identico trattamento nei confronti di tutti gli altri detenuti. C’è la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che vi trascorse lunghi anni al 41bis. “Spesso le guardie arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di merda”. “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità”, narra Musumeci. Droghe. Cannabis terapeutica: la parola a Speranza Il Manifesto, 30 settembre 2020 La lettera aperta al Ministro Roberto Speranza promossa da Forum Droghe, Associazione Luca Coscioni, Società della Ragione, Cgil, Cnca, Lila, Meglio Legale, Fatti Segreti, La Casa di Canapa, Radicali Italiani e che in queste ore sta raccogliendo molte adesioni su Fuoriluogo.it. perché assuma una responsabilità politica. Il Ministero della Sanità ha diffuso nei giorni scorsi una nota sulla cannabis terapeutica che ha creato il panico fra pazienti, medici e farmacisti italiani. Con alcune apodittiche affermazioni, assai discutibili, vengono dichiarate non legali le preparazioni di olio e capsule a base di cannabis terapeutica (le forme prescritte più frequentemente) nonché la loro spedizione dalle farmacie direttamente ai pazienti. Una scelta che non può essere affidata a un burocrate. Pubblichiamo il testo della lettera aperta al Ministro Roberto Speranza promossa da Forum Droghe, Associazione Luca Coscioni, Società della Ragione, Cgil, Cnca, Lila, Meglio Legale, Fatti Segreti, La Casa di Canapa, Radicali Italiani e che in queste ore sta raccogliendo molte adesioni su Fuoriluogo.it. perché assuma una responsabilità politica. Al Ministro della Sanità, On.le Roberto Speranza Abbiamo appreso con sorpresa dei contenuti della nota inviata lo scorso 23 settembre dalla Direzione Generale dei Dispositivi Medici e del Servizio Farmaceutico rispetto alle preparazioni a base di cannabis terapeutica. In effetti, quelli che nell’oggetto vengono definiti “chiarimenti” nel testo della nota diventano una complessiva messa in discussione dell’attuale sistema di prescrizione, realizzazione e distribuzione che con tanta fatica il nostro paese aveva costruito fra mille difficoltà. Un sostanziale passo indietro che mette a rischio la stessa continuità terapeutica. In particolare troviamo una forte contraddizione rispetto al lavoro fatto in questi anni affermare, fra le altre cose opinabili, che: - siano di fatto consentite solo le forme farmaceutico del decotto e della vaporizzazione e esplicitamente negare la possibilità di prescrivere resine e oli (omettendo che lo stesso Allegato tecnico per la produzione nazionale di sostanze e preparazioni di origine vegetale a base di cannabis del DM 9/11/15 cita espressamente gli “estratti in olio o altro solvente”, richiedendone la titolazione); - i suddetti oli e resine siano presenti nella Tabella II del Dpr 309/90, dimenticando che questa rimanda a quella dei Medicinali, dove sono citati alla Sezione B “Medicinali di origine vegetale a base di Cannabis (sostanze e preparazioni vegetali, inclusi estratti e tinture)”; - sia negata la possibilità, in particolare in piena emergenza Covid19, della spedizione tramite corriere delle preparazioni, metodo peraltro utilizzato da moltissime persone, sia per la difficoltà ormai insostenibile di reperimento delle preparazioni per le note problematiche rispetto alle disponibilità, che per le difficoltà di spostamento che purtroppo caratterizza molti dei pazienti che utilizzano cannabis terapeutica. È importante notare infine che le preparazioni a base di cannabis in olio sono prescritti da molti anni in Italia ed utilizzate, insieme alle capsule decarbossilate, in particolare per dosare con maggiore facilità e sicurezza la quantità di farmaco assunto. Inoltre la forma del decotto, che di norma viene preparato dallo stesso paziente con metodi casalinghi, è una forma “antica” che non garantisce in alcun modo sulla qualità e quantità del principio attivo estratto. Alla vigilia del voto sulla raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che chiede il riconoscimento formale, all’interno delle Convenzioni internazionali, dell’uso terapeutico della cannabis riteniamo che l’Italia non possa fare passi indietro rispetto a quanto conquistato dal 2007. Anche alla luce del Commento Generale sulla Scienza adottato dalla Nazioni Unite a maggio scorso, saremmo felici di poterle presentare di persona ulteriori argomenti a bilanciamento delle gravi limitazioni sopra ricordate che, se confermate, comporterebbero un attacco al pieno godimento del diritto alla salute nel nostro paese. Droghe. Cocaina, la regina d’Europa ignorata dall’Ue di Federica Valcauda Il Manifesto, 30 settembre 2020 Il piano di azione sulle droghe 2021-2025 presentato ieri a Strasburgo torna all’approccio “Low & Order”. Contro la cannabis. Nel 2018 sono state sequestrate 181 tonnellate di coca, un livello mai raggiunto prima. Impennata di consumi di “bianca” malgrado nel continente circoli molto più hashish. Ieri il Consiglio d’Europa ha presentato agli Stati membri l’Agenda e il piano di Azione sulle droghe per il 2021-2025. Si tratta di un testo che ha un valore strategico e di indirizzo per le politiche sulle sostanze stupefacenti, e per questo già nelle settimane scorse Forum droghe ed altre associazioni avevano inviato al governo italiano dei suggerimenti per portare a quel tavolo proposte efficaci e basate sulle evidenze scientifiche e nel rispetto dei diritti umani. Le nuove proposte Ue, infatti, sembrano voler abbandonare l’approccio equilibrato tenuto finora per un forte ritorno alla centralità dell’approccio “Law & Order”. Inoltre, tendono verso un grave depotenziamento delle politiche sociali e sanitarie. Nel frattempo in Italia il ministero della Salute ha diffuso alcuni “chiarimenti” sulla somministrazione di cannabis medica che di fatto vietano le prescrizioni di olii ed estratti (pur prescritti da 5 anni a questa parte) ed eliminano la consegna a domicilio di farmaci cannabinoidi. Eppure, suggerimenti chiari su come procedere sulle politiche sulle sostanze in Europa sono arrivati, solo pochi giorni fa, dall’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Emcdda). Che nella sua Relazione annuale lancia un nuovo allarme: “Nel 2018 (sono i dati dell’ultima rilevazione, ndr) la quantità di cocaina sequestrata nell’Unione Europea ha raggiunto livelli mai registrati in precedenza”. Il 2018 si è caratterizzato per il sequestro di 181 tonnellate di cocaina (erano 138 nel 2017), evidenziando pertanto un costante aumento della presenza di questa sostanza, in particolare negli ultimi tre anni. I Paesi europei che hanno raccolto i dati in merito segnalano un aumento della presenza di residui di cocaina nelle acque reflue, l’aumentato in purezza della sostanza e un aumento di nuovi utenti presi in carico dalle strutture nell’ultimo anno, secondo le segnalazioni di 17 Paesi. La Germania è il Paese con il numero più alto di utenti presi in carico, seguita dall’Italia, che risulta essere luogo non solo di approdo della sostanza che viene smistata all’interno della nazione, ma anche esportata all’estero. Le problematicità che si riscontrano a livello europeo, secondo i dati forniti dall’Emcdda, sono relative all’assiduità del consumo: il 27% dei soggetti in trattamento fa uso giornaliero di cocaina ed il 34% fa un uso che varia dai 2 ai 6 giorni. Il consumo medio di cocaina all’interno dell’Unione europea è maggiore rispetto al consumo di cannabis, nonostante circoli più cannabis che cocaina all’interno del continente - stando ai numeri dei sequestri e dei consumatori. I dati del nostro paese rispetto a quelli recentemente forniti dall’Ue rispecchiano in qualche modo la situazione generale: nel 2019 i sequestri di cocaina sono aumentati del 127,61% rispetto all’anno precedente. È il dato più elevato dal 2010 ad oggi (rilevazioni della Direzione centrale per i Servizi antidroga). Con questi numeri, è il suggerimento delle associazioni, l’Unione Europea deve assolutamente cambiare l’approccio proibizionista fino ad ora adottato con le politiche sulla droga. Anche l’Italia dovrebbe intraprendere un altro percorso: la legalizzazione della cannabis è un primo passo per liberare i consumatori dal monopolio della criminalità organizzata. Se togliere parte del profitto alle mafie è fondamentale, evitare che le persone si avvicinino alle piazze di spaccio lo è altrettanto. Ed oggi i consumatori di cannabis sono obbligati dallo Stato a farlo, arrivando così più facilmente al contatto anche con altre sostanze, senza peraltro ottenere alcuna informazione sulle stesse. L’invisibilità dietro cui si nasconde la “neve”, che arriva a fiocchi sempre più consistenti nel continente europeo, ha due motivazioni principali: la repressione quasi esclusiva sulla cannabis, che in Italia impegna le forze dell’ordine in una “war on drugs” sostanzialmente solo ad una sostanza che sempre più Paesi stanno invece legalizzando. E la potenza delle narcomafie organizzate in una rete di alleanze che nel tempo cambiano, mutano, ma restano in un modo o nell’altro solide nel loro obiettivo: fare profitto. Solo per fare un esempio: dopo un grande sequestro di sostanze stupefacenti avvenuto nel 2017 a Gioia Tauro, le rotte di approdo si sono immediatamente diversificate: negli ultimi anni infatti, sempre secondo l’Emcdda, Belgio, Spagna e Paesi Bassi sono diventati i Paesi in cui sono stati effettuati il maggior numero di sequestri, e il 78% dei sequestri di cocaina. Che fare, dunque? Intanto avere una strategia comune, basata sulla cooperazione internazionale tra Stati, nell’ottica di un’iniziale depenalizzazione del consumo delle sostanze. E poi provare ad affrontare il tema in modo scientifico, e implementare delle strategie di riduzione del danno, non solamente fisico ma anche mentale: il giudizio che si scaglia sui consumatori e su chi sviluppa un abuso toglie dignità alla persona. Mentre oggi c’è più che mai bisogno di portare al centro la libertà facendo informazione. Solo da qui può partire un’educazione alla responsabilità individuale. *Campagna Meglio Legale India. Rappresaglia del governo: Amnesty sospende le attività di Riccardo Noury Corriere della Sera, 30 settembre 2020 Amnesty International India ha annunciato la sospensione di tutte le sue attività dopo che il governo ha ordinato il congelamento dei conti bancari dell’associazione: l’ennesimo atto di una caccia alle streghe nei confronti delle organizzazioni per i diritti umani che operano nel paese, basata su accuse infondate e fabbricate. L’accanimento mostrato dal governo negli ultimi due anni nei confronti di Amnesty International non è affatto causale. Le costanti intimidazioni da parte di varie agenzie governative, tra cui quella che si occupa di fisco, sono la risposta alle richieste di trasparenza e accertamento delle responsabilità e alle denunce sulle gravi violazioni dei diritti umani nella capitale Delhi e nel Jammu e Kashmir. Per un movimento che non ha mai fatto nulla se non alzare la voce contro l’ingiustizia, quest’ultimo attacco equivale a congelare il dissenso. La persecuzione nei confronti di Amnesty International India era iniziata il 25 ottobre 2018, quando un gruppo di funzionari dell’agenzia delle Entrate aveva fatto irruzione nella sede centrale dell’organizzazione, chiudendo gli ingressi e trattenendosi per 10 ore alla ricerca di documentazione contabile che era disponibile pubblicamente o era stata già trasmessa alle autorità competenti. Erano stati coinvolti anche diversi donatori di Amnesty International India che, dopo aver ricevuto lettere di richiesta di informazioni, avevano cessato di finanziare l’associazione. Nel giugno 2019 ad Amnesty International India era stato impedito di tenere una conferenza stampa per presentare il suo rapporto sulle violazioni dei diritti umani in Jammu e Kashmir. Il 15 novembre dello stesso anno c’era stato un nuovo raid negli uffici dell’associazione e, in questa occasione, anche nell’abitazione del direttore generale. Il 15 aprile 2020 la direzione di polizia per i reati informatici dello stato di Uttar Pradesh aveva chiesto a Twitter di fornire informazioni sull’account di Amnesty International India. Dura la reazione di Julie Verhaar, segretaria generale ad interim di Amnesty International: “È un giorno vergognoso per l’India: una potenza emergente, uno stato membro del Consiglio Onu dei diritti umani, la cui Costituzione contiene impegni per i diritti umani, cerca di ridurre al silenzio chi chiede giustizia. Molti dei nostri colleghi hanno perso il lavoro grazie all’azione del governo indiano. Continueremo a dare loro il massimo sostegno e a chiedere al governo di Delhi di porre fine a questa vergognosa repressione nei confronti di coloro che stanno dalla parte dei diritti della popolazione indiana”. Cina. Dai campi alle prigioni: la nuova grande catastrofe per i diritti umani nello Xinjiang di Gene Bunin* globalvoices.org, 30 settembre 2020 Poco più di dieci anni fa la struttura di via Dongzhan 1327, qualche chilometro a nord di una stazione merci abbandonata nella periferia settentrionale di Urumqi, Xinjiang, era circondata perlopiù da erba e alberi. Il 16 settembre 2009 è diventata ufficialmente la nuova sede della Prigione femminile dello Xinjiang, una mossa avvenuta sulla scia delle famigerate sommosse del 5 luglio [it], e non molto tempo dopo la struttura ha ricevuto quella che sarebbe diventata la sua prima detenuta di alto profilo - la scrittrice, moderatrice di un sito, e dipendente del governo Gulmire Imin [en, come i link seguenti, salvo diversa indicazione], condannata a vita in un processo a porte chiuse. Nonostante la continua attenzione internazionale, a Imin non sono state fatte concessioni negli anni a seguire, ed è stata anzi seguita da altre donne le cui modeste biografie appaiono in netto contrasto con la severità delle loro sentenze. Una di loro, Buzeynep Abdureshit, una ventisettenne i cui soli possibili “crimini” sono l’aver studiato in Egitto e avere un marito all’estero, nel 2017 è stata condannata a sette anni per “aver riunito folle per turbare l’ordine sociale”. In seguito, nel giugno 2019, la prigione è diventata la destinazione di Nurzada Zhumaqan e Erlan Qabden - entrambe donne di etnia kazaka sulla cinquantina, entrambe con problemi di salute, nessuna delle quali ha commesso alcun crimine identificabile. Le loro condanne? Rispettivamente 20 e 19 anni. A parte la loro intrinseca crudeltà, queste recenti sentenze sono particolarmente preoccupanti perché probabilmente indicano la direzione verso cui sta andando la repressione nello Xinjiang. Mentre il mondo si concentra soprattutto sui campi di “rieducazione” nella regione, le statistiche dello stesso governo, alcune limitate indagini giornalistiche e nuove prove, presentate dai parenti delle vittime e dagli ex-detenuti nel confinante Kazakistan, suggeriscono che un numero inconcepibile delle persone detenute tra il 2017 e il 2018 stia ora ricevendo lunghe condanne e che venga trasferito nelle prigioni più grandi, come quella a Urumqi. Per Aibota Zhanibek, la più grande delle figlie di Nurzada Zhumaqan e oggi cittadina kazaka, le notizie sono state particolarmente strazianti perché arrivate nel periodo di Capodanno - un periodo in cui molti in Kazakistan apprendevano che i loro parenti erano stati rilasciati dai campi in una ondata di rilasci di massa nel tardo dicembre 2018. Mentre molti condividevano la buona notizia, Zhanibek ha appreso che sua madre era stata condannata alla detenzione, come emerso successivamente, per aver “usato la superstizione per minare le forze dell’ordine” e “riunito folle per disturbare l’ordine sociale”. Erlan Qabden, un’infermiera di un’altra contea della stessa prefettura di Zhumaqan, era stata condannata per aver “usato l’estremismo per minare le forze dell’ordine” e “provocato litigi e creato problemi”, accuse che - stando ai suoi parenti in Kazakistan - derivano dall’aver partecipato a una cerimonia di alzabandiera indossando un foulard. All’ufficio dell’organizzazione Atajurt Kazakh Human Rights ad Almaty, dove Zhanibek si reca ogni settimana per richiedere il rilascio di sua madre [kk] davanti a una telecamera, la maggior parte dei visitatori che portano testimonianze e appelli non parlano più di campi - come facevano un anno fa - ma di prigioni. Anche se frammentarie e corrotte dalle dicerie, le informazioni ottenute parlando con poco più di una decina dei querelanti è sufficiente per individuare una tendenza comune: le lunghe sentenze, i mesi o addirittura gli anni trascorsi in detenzione prima del processo e il fatto che vengano presi particolarmente di mira gli uomini religiosi. Lo studio statistico dei profili delle vittime - i cui dati provengono da migliaia di testimonianze video pubbliche [kk], raccolte da Atajurt e analizzate dal Xinjiang Victims Database - rende possibile corroborare alcune delle osservazioni qualitative su base quantitativa. Una comparazione delle vittime che risultano aver ricevuto condanne in prigione con quelle che risultano essere state rilasciate dai campi mostra che oltre il 90% delle persone condannate (e il 69% di quelle rilasciate) erano uomini, e più del 75% dei detenuti (27% dei rilasciati) si ritiene sia stato detenuto per motivi religiosi. Un’analisi di 311 vittime e delle relative pene detentive mostra una media di condanne di 11,2 anni, con pene lunghe 5 anni o più per l’89% delle persone, mentre uno studio di 65 vittime detenute per 2 o più mesi mostra che, per queste vittime, in media il periodo di detenzione prima del processo è durato approssimativamente 9 mesi, un anno o più per il 30% di loro. Si ritiene che molte delle persone condannate siano state trasferite in prigione dopo un periodo in una struttura detentiva pre-processo (kanshousuo [it]) - istituzioni tristemente famose per il loro abuso che, stando alle testimonianze degli ex-detenuti, sono luogo di estremi maltrattamenti e terribili condizioni di vita. Inoltre un certo numero di resoconti di testimoni oculari dà ragione di credere che le persone internate illegalmente nei campi di “rieducazione” della regione siano anche condannate mentre sono ancora nei campi. Quattro ex detenuti kazaki, che hanno trascorso la maggior parte del 2018 nei campi, hanno dichiarato di aver visto o sentito parlare di “pubbliche udienze” all’interno delle “scuole”. Due di loro, Ergali Ermek e un detenuto che - avendo scelto di mantenere l’anonimato - sarà qui chiamato “Ruslan”, hanno entrambi dichiarato che le stesse persone che venivano condannate a più di 10 anni venivano poi trasportate nelle prigioni vere e proprie. Un caso noto è quello di Zhiger Toqai, uno studente dell’Università Satbayev di Almaty, la cui detenzione è stata inizialmente denunciata dai parenti in Kazakistan e la cui condanna è stata confermata da Ruslan, suo ex compagno di cella al campo. In un’intervista pubblicata di recente, Rahima Senbai ha ricordato una pubblica udienza in cui sette donne avevano ricevuto una condanna per aver osservato l’iftar [it]. Per i malati e gli anziani, i lunghi periodi di detenzione equivalgono a delle condanne a morte, e mandano in frantumi non solo il morale dei parenti all’estero ma anche ogni finzione di un legittimo sistema penale in Xinjiang. Tuttavia in questa illegittimità c’è anche speranza, perché senza una fondazione solida né argomentazioni convincenti potrebbe essere più facile far revocare queste assurde condanne e rilasciare i detenuti - un fenomeno già osservato con i campi illegali. Le storie di Ergali Ermek e Ruslan - entrambi condannati ma poi comunque rilasciati - sembrano dei primi esempi, come anche il caso di Gulbahar Haitiwaji, che sarebbe stata condannata a 7 anni nel dicembre 2018 ma a cui di recente è stato permesso di ritornare in Francia. Con una sufficiente pressione e condanna da parte della comunità internazionale, non è impossibile che si schiudano persino le porte della Prigione femminile dello Xinjiang, permettendo a persone come Buzeynep Abdureshit, Nurzada Zhumaqan, e Erlan Qabden di godere di nuovo di un certo grado di libertà. E forse persino a persone come Gulmire Imin. *Traduzione di Maria Alessia Nanna