L’estate in carcere di Paolazzurra ecointernazionale.com, 2 settembre 2020 Com’è andata l’estate in carcere? Come hanno vissuto agenti e detenuti questa estate difficoltosa tra pandemia, caldo e carenze edilizie? Un mese drammatico quello di agosto nelle carceri italiane. L’aumento dei suicidi dimostra come questo sia uno dei mesi più terribili dell’anno. Da Como a Palermo il numero dei casi è in aumento non soltanto tra i detenuti ma anche tra gli agenti. È infatti di qualche settimana fa la notizia di un’agente della polizia penitenziaria in servizio al carcere Pagliarelli di Palermo che si è tolta la vita con la pistola di ordinanza e ancora la settimana prima un agente mentre era in servizio nel carcere di Latina ha compiuto l’estremo gesto. Questi suicidi tra i poliziotti penitenziari sono la prova che a morire di carcere non sono soltanto i detenuti ma che il malessere penitenziario si estende a tutti senza fare alcuna distinzione. Dal rapporto Antigone di metà anno si evince non soltanto come questa piaga non intenda arretrare ma che è in continua crescita anche tra i detenuti più giovani: “In circa il 60% dei casi si tratta di italiani e nel 40% di stranieri. Il 20% di loro aveva fra i 20 e i 29 anni (i due più giovani ne avevano solo 23), il 43% ne aveva fra i 30 e i 39, per entrambe le fasce d’età 40-49 e 50-59 troviamo il 17% dei suicidi, il detenuto più anziano aveva 60 anni. Il 40% dei suicidi è avvenuto in un istituto del nord Italia, il 36% al sud e il 23% al centro; in tre istituti sono avvenuti due suicidi: Como, Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere. A gennaio, marzo e aprile sono avvenuti 9 suicidi (3 per ciascun mese), a febbraio e a luglio ne sono stati commessi 12 (6 per ciascun mese) mentre a maggio e a giugno ne sono avvenuti rispettivamente 4 e 5. Il metodo prevalente per togliersi la vita è rimasto quello tragico dell’impiccagione (ben 26 persone). Nel 2019 sono stati 53 in totale i suicidi negli istituti penitenziari italiani per un tasso di 8,7 su 10.000 detenuti mediamente presenti, a fronte di un tasso nel paese di 0,65 suicidi su 10.000 abitanti. In carcere nel 2019 ci si è tolti la vita 13,5 volte di più che all’esterno”. È chiaro che l’autolesionismo e i suicidi costituiscano due fra gli argomenti più delicati quando si parla di carcere. Il suicidio di una persona privata della libertà personale costituisce il fallimento più evidente del ruolo punitivo dello Stato. Nel 2007, durante un’intervista Luigi Ferrajoli dichiarò: “Uno Stato che nel punire non impedisce la morte del condannato perde, parte delle funzioni che ne giustificano la potestà punitiva”. A far da sfondo in tutta questa vicenda ci sono le grandissime difficoltà che il periodo estivo porta con sé: il caldo, la mancanza d’acqua, l’uso limitato delle docce. Una sofferenza che riguarda tutti, sia i detenuti che il personale che lavora all’interno degli istituti che si ritrova costretto a svolgere il proprio lavoro in condizioni di emergenza, non soltanto per via dell’attuale emergenza sanitaria che viviamo ma anche a causa di tutti i disagi edilizi pregressi che tutte le strutture portano con sé. Quest’anno la morsa sul carcere è stata ancora più dura a causa del coronavirus, che ha ulteriormente messo in ginocchio un sistema già precario. “Questa epidemia ha il rischio di trasformare il carcere in una RSA, ecco perché è importante non fermarsi nelle politiche dirette a ridurre la popolazione detenuta perché il rischio che da settembre in poi si crei un focolaio resta molto alto”. Sono queste le parole di Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone durante la presentazione del secondo rapporto del 2020. È infatti di poche settimane fa la notizia che un detenuto recluso nel carcere Dozza di Bologna è positivo al Covid. Ecco perché è necessario intervenire: non possiamo pensare di anteporre il diritto alla salute che per Costituzione è garantito a tutti alla paura delle misure alternative alla detenzione o anche alle scarcerazioni stesse. Nel 2020 di carcere si continua a morire. “La giustizia ha tanti nemici, perciò è ferma. Vassallo? Ucciso dai narcos, si insista” di Errico Novi Il Dubbio, 2 settembre 2020 Intervista a Franco Roberti, europarlamentare, ex Procuratore nazionale antimafia. “Sono persone eccezionali. Con le quali ho conservato un legame forte. È grazie ai fratelli e al figlio di Angelo Vassallo che la memoria del sindaco ucciso è ancora viva. Fanno benissimo a battersi ancora con determinazione perché le indagini proseguano. La verità sembrava a un passo già nel periodo in cui seguivo direttamente il caso, ma non si è mai arrivati a costruire la massa probatoria necessaria per sostenere l’accusa in giudizio”. Franco Roberti è oggi il parlamentare europeo più votato fra gli eletti nelle liste del Pd. Ma prima è stato procuratore nazionale Antimafia, e prima ancora capo della Procura di Salerno, chiamata a far luce sull’assassinio del sindaco-pescatore di Pollica, sull’uomo appassionato, la pelle scavata dal sole di Acciaroli, trucidato con i suoi sogni esattamente dieci anni fa, il 5 settembre del 2010. “Sono preoccupato dal messaggio sotteso alla mancata soluzione del caso di Angelo. Un messaggio micidiale”, lo definisce Roberti, “anche per chi segue le orme di Vassallo, l’ideale della buona amministrazione rivolta a valorizzare il proprio territorio nell’interesse dei cittadini. Le indagini mai chiuse stendono un’ombra, insinuano il timore che nell’impegnarsi per la propria terra si debba fare sempre i conti con forze maligne”. Non si è mai arrivati al processo, ma si continua a indagare sulle connessioni fra spaccio di droga, circuiti malavitosi non autoctoni e complicità estese fino a uomini dell’Arma: resta la strada giusta? Sono ipotesi emerse fin da subito, già nel periodo in cui ho guidato le indagini come procuratore di Salerno, quando iscrivemmo a registro figure che ricorrono tuttora. Crede, almeno in astratto, in un accertamento della verità deliberatamente ostacolato da forze superiori? Non ho elementi per avvalorare una simile tesi. Se ne avessi còlti, nei tre anni del lavoro condotto a Salerno o nei quattro successivi da procuratore nazionale, lo avrei immediatamente denunciato. Posso dire che in quei sette anni si è spesso avuta la chiara sensazione di essere a un passo dalla verità, senza però mai riuscire a chiudere la raccolta delle prove. D’altra parte il nostro è un Paese strano, per tanti misteri che opprimono la storia della nostra democrazia. Sono passati quarant’anni dall’omicidio Mattarella, c’era l’indizio sui Nar, ma sarebbe stato importante capire chi ne armò la mano. Si va da Ustica alla morte di Borsellino. Nelle indagini serve determinazione, professionalità, anche un po’ di fortuna. Ma a volte il risultato non arriva per ostacoli oggettivi. Cosa si sente di dire alla famiglia Vassallo? Sono persone straordinarie: è solo grazie a loro se la memoria di Angelo si conserva, senza la determinazione dei fratelli e del figlio, quella figura si sarebbe persa nell’oblio. A loro va tutta la mia solidarietà, il mio incoraggiamento, non si arrendano. Siamo stati in contatto per anni, è una famiglia alla quale sono legato profondamente. A proposito di giustizia negata: possibile che in Italia si parli della scuola ma non dei tribunali che faticano a ripartire? È sconcertante. È assolutamente vero, non è concepibile che le difficoltà provocate nella giustizia dall’emergenza Covid restino in ombra. Ma la cosa non mi sorprende. Le condizioni in cui oggi versa la macchina giudiziaria sono la conseguenza di un’ostilità strisciante, covata in diversi settori della nostra società. Mi riferisco ai circuiti della corruzione ma anche all’area dell’evasione fiscale. Mi torna spesso uno slogan: una magistratura davvero indipendente e un sistema giustizia efficiente fanno paura a un sacco di gente. Possibile che la maggioranza degli italiani sia complice della sottovalutazione della giustizia? Il punto è che nel nostro Paese giustizia e sicurezza sono state sempre concepite come un onere sul bilancio dello Stato, non come investimento. E invece servono risorse straordinarie, sia per modernizzare l’apparato informatico sia per rinnovare il personale. Riguardo al primo aspetto, da parlamentare europeo ho personalmente lavorato a una direttiva sull’informatizzazione della giustizia in tutti i Paesi dell’Ue, in particolare nel settore civile. Ma la tecnologia può sostituirsi al processo? Non lo penso affatto, sono nettamente contrario al dibattimento penale da remoto. Ma diverse attività possono e devono essere svolte con gli strumenti digitali. In Italia i cancellieri in smart working non possono neppure accedere al registro generale... Ma qui incrociamo anche il secondo aspetto: serve un ringiovanimento ampio e diffuso del personale della giustizia. La gran parte dei dipendenti oggi è, per ragioni anagrafiche, difficilmente compatibile con l’uso ampio dei nuovi strumenti digitali. C’è da augurarsi che una parte non marginale del recovery fund venga destinata proprio alla modernizzazione della giustizia. E anche alla revisione di alcuni errori pregressi. A cosa si riferisce? Alla giustizia di prossimità. Nel 2012, con la riforma della geografia giudiziaria, sono state sacrificate molte sedi strategiche. Solo per restare al Cilento, posso citare il Tribunale di Sala Consilina. Da ex procuratore nazionale Antimafia mi viene in mente una sede come quella di Lucera, soppressa nonostante l’avanzata della mafia foggiana, che ora dilaga. In Abruzzo alcuni uffici come quello di Sulmona si sono salvati solo in virtù del terremoto. Serve un progetto: vogliamo una giustizia che associ il massimo delle garanzie all’efficienza? Bene, servono uomini, mezzi e risorse. Ha citato la tecnologia: la possibilità di usare i trojan “a strascico”, appena entrata in vigore, non rende troppo pervasivo un mezzo già pesante? Si contesta soprattutto la possibilità, introdotta con le nuove norme, di utilizzare intercettazioni autorizzate nell’ambito di un determinato procedimento anche per indagini diverse, persino se non collegate al filone originario. Si vede tradito il principio per cui l’intercettazione deve sempre essere indispensabile alla prosecuzione delle indagini. Ma a me sembra che il quadro normativo nel suo complesso non abbia scalfito quel presupposto: un’intercettazione di mafia acquisita da un procedimento diverso continuerà a essere ammessa agli atti solo se effettivamente indispensabile. Ma così non si consegna uno strumento troppo forte nelle mani del pm? È uno strumento forte, certo. Ma ciò che conta, mi permetta, è il modo in cui ce ne si serve. Nelle richieste e nelle ordinanze va riportata solo quella parte del materiale intercettato davvero necessaria alla formazione della prova. Il resto, cioè tutte quelle comunicazioni utili solo per portare discredito alle persone, non devono finire agli atti, e solo così non finiranno sui giornali. Serve grande senso di responsabilità dei pubblici ministeri nel selezionare le captazioni, e anche attenzione degli avvocati nel partecipare alla selezione in quei passaggi in cui è loro consentito. La vera riforma è nell’uso che i protagonisti del processo decideranno di fare del materiale raccolto, prima ancora che nel rispetto dovuto dalla stessa stampa alla dignità delle persone. L’intercettazione col “trojan” è legge. Ampio utilizzo per i reati contro la Pa di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020 Con l’entrata in vigore, ieri, della legge 7/ 2020 (conversione del decreto-legge 30 dicembre 2019, n. 161, Modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni) l’uso del captatore informatico trova finalmente un assetto normativo. Si tratta dello strumento investigativo meglio noto come trojan, reso più famoso dal caso Palamara che dalla stessa prima regolamentazione nel decreto legislativo n. 216 del 2017, di fatto mai entrato in vigore benché più volte rimasticato dalla giurisprudenza. Forse per le suggestioni di cronaca, e per l’indagato eccellente prima vittima del captatore, il trojan è destinato a suscitare ancor più timori e polemiche rispetto alle stesse intercettazioni telefoniche, anche per l’ampio spettro di utilizzo che il governo gli ha aperto. Ferme le condizioni tassative per l’installazione del programma di registrazione universale dello smartphone, di fatto le stesse previste per le intercettazioni telefoniche - le captazioni del trojan - equiparate alle intercettazioni tra presenti. hanno la peculiarità di poter essere utilizzate anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, qualora risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti di mafia, terrorismo e, tra gli altri, traffico di droga e di immigrazione clandestina, in sostanza per tutte le fattispecie di competenza della Direzione distrettuale antimafia. Ma siccome anche nella comunicazione istituzionale il trojan è stato presentato come arma letale per i reati contro la cosa pubblica, l’àmbito di maggiore ed auspicato utilizzo dovrebbe essere appunto quello dei delitti contro la pubblica amministrazione per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. Se ormai è chiaro a larga parte dell’opinione pubblica come si inocula il “virus di giustizia” nel cellulare di chiunque (nel caso Palamara bastò un insospettabile e comunissimo allegato) il percorso disegnato dalla nuova legge è un po’ più complesso, considerato che spetterà a un decreto del Ministro della giustizia stabilire i requisiti tecnici dei programmi informatici funzionali all’esecuzione delle intercettazioni mediante captatore informatico. Requisiti ovviamente stabiliti secondo “misure idonee di affidabilità, sicurezza ed efficacia al fine di garantire che i programmi informatici utilizzabili si limitano all’esecuzione delle operazioni autorizzate”. Il tema dell’invasività del trojan - che di fatto può vedere, sentire e registrare tutto ciò che l’indagato vive e scrive - è presente al legislatore che ne affida le cure (qui come nelle intercettazioni telefoniche) al pubblico ministero che “dà indicazioni e vigila affinché nel verbali (di trascrizioni del registrato, ndr) non siano riportate espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano dati personali definiti sensibili dalla legge, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini”. Non è detto - come il caso Palamara tra gli altri insegna - che sia sufficiente a delimitare l’area dell’indagine sul reato da quella dello stigma sociale. Intercettazioni, via alla riforma Bonafede. Il ministero: “Investiti 60 milioni di euro” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2020 Da ieri è entrata in vigore la riforma delle intercettazioni. È quella modificata dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e approvata dalla maggioranza giallorossa a febbraio. Doveva entrare in vigore il primo marzo, ma l’emergenza Covid ha fatto slittare l’entrata in vigore. È la riforma che ha cancellato parti sostanziali dell’originale, mai entrata in vigore, targata Andrea Orlando, quando il vicesegretario del Pd era ministro della Giustizia. Bonafede, nel frattempo diventato il nuovo Guardasigilli, ha firmato tre proroghe nel periodo del governo M5S-Lega e poi ha dato il via alla riforma modificata con il Pd. Il nuovo regime delle intercettazioni vale per le nuove registrazioni autorizzate dal primo settembre. A differenza della riforma Orlando, sarà il pm e non la polizia giudiziaria ad avere la supervisione delle registrazioni e quindi l’ultima parola su quale materiale considerare rilevante e quale no. Gli avvocati potranno fare copia delle intercettazioni rilevanti, inoltre potranno chiedere al giudice di acquisire intercettazioni ritenute irrilevanti dal pm ma importanti secondo la difesa. Nei provvedimenti agli imputati non devono esserci dati sensibili o irrilevanti ai fini delle indagini. Ci sarà in ciascuna procura un archivio digitale dove saranno custodite le intercettazioni di ogni tipo, comprese quelle con il trojan. I procuratori avranno la responsabilità di vigilare sull’archivio anche se possono delegare come, per esempio, ha fatto il procuratore di Roma, Michele Prestipino, con una circolare del 4 agosto in cui indica come responsabile il procuratore aggiunto Paolo Ielo. Per i giornalisti restano le norme attuali sulla violazione di segreto d’ufficio in caso di pubblicazione di materiale di indagine riservato. Niente carcere. A chi, come alcuni consiglieri del Csm e avvocati penalisti, ha espresso dubbi o sui mezzi forniti alle procure per mettere in atto la riforma o sulla effettiva protezione della privacy, il ministro Bonafede ha risposto che “non è stata una riforma a costo zero. Ci siamo mossi per tempo in modo da ridurre al minimo le inevitabili difficoltà applicative della nuova disciplina”. Da Via Arenula fanno sapere che sono stati investiti “60 milioni” e che il ministero “rimarrà in contatto con i procuratori e l’avvocatura per raccogliere le segnalazioni circa le eventuali criticità per approntare le soluzioni”. I trojan e quel super potere dato ai pm di Angela Stella Il Riformista, 2 settembre 2020 “I trojan? Si parla del captatore per quanto attiene alle telefonate ma sappiamo bene - commenta il professore Giorgio Spangher - che prende anche i messaggi, le fotografie, tutto ciò che è nella nostra memoria, quindi si spinge ben oltre il necessario. Inoltre il problema che si pone riguarda chi lo usa, ossia i pubblici ministeri che sono i padroni assoluti della fase delle indagini. I giudici dovrebbero controllare maggiormente quelli che sono i presupposti, ossia la qualificazione dei reati, la necessità di ricorrere a questi strumenti. Purtroppo invece i giudici il più delle volte autorizzano”. Ieri è entrata in vigore la riforma delle intercettazioni. Oggi ne discutiamo con Giorgio Spangher, Professore emerito di Diritto Processuale Penale presso l’Università di Roma “La Sapienza”. A suo parere la parte peggiore della riforma è quella che concerne l’inedita disciplina della cosiddetta “pesca a strascico” mediante il captatore informatico: il trojan. Professore qual è il suo parere su questa riforma? Sotto certi profili è una riforma che accentua l’uso dello strumento delle intercettazioni. È chiaro che tale strumento è da tempo fortemente usato dai pubblici ministeri, insieme all’uso delle video riprese. Le indagini ormai non sono governate più dalla prova dichiarativa ma da altro tipo di riscontri. L’aspetto positivo è quello dell’aver iniziato ad aggiornare gli strumenti tecnologici, sulla strada del futuro processo penale telematico. Ovviamente ci vorrebbero garanzie sugli strumenti tecnici: bisogna fidarsi e pensare che chi utilizzerà lo strumento lo farà in modo corretto, mi riferisco anche ai privati che forniscono la strumentazione. Quindi possiamo dire che si scrivono delle norme che sembrano positivamente ispirate - riservatezza, tutela dei terzi, non divulgazione - però poi dipende da come vengono interpretate ed applicate. A proposito dell’applicazione, assistiamo ultimamente ad un ampio uso del trojan... Si parla del captatore per quanto attiene alle telefonate ma sappiamo bene che prende anche i messaggi, le fotografie, tutto ciò che è nella nostra memoria, quindi si spinge ben oltre il necessario. Questo è l’aspetto di carenza della legge. Inoltre il problema che si pone riguarda chi lo usa, ossia i pubblici ministeri che sono i padroni assoluti della fase delle indagini. I giudici dovrebbero controllare maggiormente quelli che sono i presupposti, ossia la qualificazione dei reati, la necessità di ricorrere a questi strumenti. Purtroppo invece i giudici - non voglio dire che si appiattiscono sui pm - ma se il pubblico ministero prospetta un certo quadro investigativo, una certa qualificazione del fatto, il più delle volte autorizzano. E anche se poi quel fatto non è esattamente qualificato negli stessi termini, i risultati intercettati si utilizzano. E poi i giudici autorizzano le proroghe, anche per lungo tempo. E invece dovrebbero controllare i risultati. Per quanto riguarda l’ampliamento dei reati, possiamo dire che questa riforma è anche figlia della spazza-corrotti... Questa riforma si inserisce sull’onda lunga della legge spazza-corrotti, ed accentua anche i reati ampliando il raggio di operatività del captatore ai reati di criminalità economica. Lo spazza-corrotti rappresenta quell’elemento che ha saldato la criminalità economica e quella organizzata: tale parificazione, omologazione ha condotto all’utilizzo delle intercettazioni e alla possibilità di accedere tramite trojan anche nel domicilio privato a prescindere dal fatto che vi si svolga l’attività criminosa. È pertanto complesso non vedere in questa norma un pesante pregiudizio per i diritti costituzionalmente garantiti che mette a rischio la riservatezza del domicilio. Nella riforma ci sono dei limiti anche all’attività difensiva... Una intercettazione va interpretata, una voce va riconosciuta; il difensore però ha poco tempo per valutare una montagna di intercettazioni telefoniche. E questa è una operazione complessa. Inoltre il legale può ascoltare solo quelle che il pubblico ministero ha depositato davanti al giudice: per quelle che potrebbero portare dei risultati favorevoli all’indagato occorre che il difensore aspetti che vengano depositate. Il pubblico ministero - ripeto - è il padrone: decide quanto iscrivere, decide chi indagare, come qualificare il fatto, che mezzi utilizzare, se prorogare, e decide quando comunicare alla difesa quello che decide di voler comunicare. Ma il problema più grave a parer mio è un altro. Quale? La modifica che riguarda l’allargamento dei risultati delle intercettazioni: io intercetto Lei per un reato ma poi vado a cercarne altri. Si tratta della cosiddetta pesca a strascico: avviata una intercettazione, sulla base di una ipotesi delittuosa prospettata dall’accusa, sarà utilizzabile tutto ciò che emergerà dall’attività di captazione, andando così di fatto alla ricerca di nuovi reati, nonostante la sentenza Cavallo delle Sezioni Unite della Cassazione. Il Ministro Bonafede ieri ha dichiarato tramite una nota stampa: “Il Ministero rimarrà in contatto con i Procuratori e l’Avvocatura per raccogliere le segnalazioni circa le eventuali criticità che dovessero manifestarsi e approntare le relative soluzioni”. Non sarebbe stato meglio dialogare prima? Questa riforma che entra a regime è frutto di quattro rinvii: Bonafede aveva un problema politico di immagine. Un quinto rinvio sarebbe stato per lui inconcepibile. Del resto anche la fase Covid ha rallentato le interlocuzioni sul punto. Probabilmente il Ministro ha voluto marcare il punto: “ho fatto la riforma”. Come al solito se poi ci saranno problemi li risolviamo dopo. Però paradossalmente è una riforma che scontenta non solo l’avvocatura ma anche parte della magistratura... Bonafede ragiona in questi termini - e ha fatto bene lei a pormi la domanda: invece di discuterne prima, ne discuto semmai dopo. Lui fa la legge e poi se ne parla. Adesso deve riformare il codice di procedura penale: non convoca i tavoli, non si sanno i progetti in cantiere. Si tratta di una tecnica per evitare forse i rinvii delle commissioni e i tavoli di studi dove è difficile mettere d’accordo tutti. Ha fatto lo stesso con le carceri: prima durante l’emergenza Covid ha permesso che uscissero i detenuti per ragioni di salute, poi sono nate le polemiche per la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari, e poi i dibattiti da Giletti e allora ci ha ripensato. Le leggi per avere un minimo di credibilità devono essere un punto di convergenza: lui per non rischiare di rimanere impantanato decide di andarsene per conto suo. Poi nascono i problemi e deve per forza affrontarli. Magistrati con licenza di tortura: il Parlamento che fa? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 settembre 2020 In attesa del maxiprocesso allestito da Gratteri, prosegue la barbarie verso un avvocato, tenuto in galera perché difensore di mafiosi, quindi mafioso, e di un ex onorevole, recluso da otto mesi senza avere il diritto di parlare con il pm. Siamo ormai arrivati alla tortura. Quella dei Paesi totalitari che umilia, poi annienta, poi uccide. Due avvocati, Giancarlo Pittelli e Francesco Stilo, sono in carcere da nove mesi senza processo e senza la consistenza di accuse che non siano quelle evanescenti del reato che non c’è, quello cui si ricorre quando non ci sono prove, il concorso esterno in associazione mafiosa. I due detenuti sono sicuramente innocenti, e non solo perché lo dice la Costituzione, ma sono anche colpevoli. Colpevoli di essere calabresi, prima di tutto. E poi di indossare la toga sbagliata, quella di chi difende, non quella di chi accusa. La toga “giusta” la indossa il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, colui che vuole smontare la Calabria come un lego, per poi ricostruirla a modo suo. Colui che fa le retate che poi i suoi colleghi provano a smontare, causa inconsistenza, superficialità e improvvisazione nella ricerca delle prove. Colui che è riuscito persino a far trasferire e degradare dal Csm in modo fulmineo il suo superiore di grado, il procuratore generale Otello Lupacchini, che si era permesso di criticare le modalità con cui era stato tenuto all’oscuro delle retate. Via, a Torino a fare il vice di un altro. I due avvocati calabresi con la loro toga sbagliata sono invece stati spediti uno in Sardegna e l’altro in Lombardia, sbattuti come sacchi di patate lontano dalle famiglie e dai difensori. Così imparano una volta per tutte quel che vuol dire nascere e crescere in una regione come la Calabria, che non solo è la più povera d’Italia, non solo ha la mafia più potente di tutte, la ‘ndrangheta, ma ostenta anche una magistratura squassata da risse e faide interne, spesso protagonista di denunce e controdenunce. Apparentemente forte, ma debolissima. E la propria fragilità la fa pagare sempre a chi finisce nelle sue ragnatele. L’episodio Lupacchini è solo l’ultimo, e non è detto che segni il capitolo conclusivo. Certo è che Nicola Gratteri è un uomo potente. Vuol passare alla storia per questo maxiprocesso dal nome Rinascita Scott, con cui vuol far concorrenza alla storia di Giovanni Falcone. Il quale non era potente per niente, e fu invece combattuto persino dai suoi stessi colleghi, fino a dover cambiare strada. E quando fu indebolito, la mafia lo azzannò. Chissà se si farà mai, questo maxiprocesso calabrese. Per ora si attende l’udienza preliminare per 456 indagati, di cui moltissimi a piede libero dopo le decimazioni degli arresti da parte di gip, riesame e Cassazione, mentre 23 posizioni sono state già stralciate prima ancora dell’udienza. Ci sono ben 224 parti offese, comprese le massime istituzioni, tra cui la Regione Calabria, la cui giunta il 14 luglio scorso ha sorprendentemente deliberato di mettere a disposizione un’area di tremila metri quadri per l’aula, in vista del processo che ancora non c’è. Cioè dando per scontato che centinaia di indagati, ancora innocenti secondo la Costituzione, saranno rinviati a giudizio. Dando per scontato che se il dottor Gratteri fa una retata di mafiosi, gli arrestati siano tutti mafiosi, quindi vadano tutti processati. E condannati, va da sé. Ma il procuratore di Catanzaro ha anche un’altra ambizione, quella di cercare il famoso terzo livello su cui Giovanni Falcone ebbe tanti dubbi. Ha bisogno di passare alla storia come quello che ha sconfitto la ‘ndrangheta “dei colletti bianchi”. Ma non ci sono altro che picciotti, purtroppo, nell’inchiesta Rinascita-Scott. Ecco perché è importante tenere sequestrati in carcere i due avvocati. Ecco perché i corpi martoriati di Pittelli e Stilo devono essere torturati fino all’annientamento. Il primo è in isolamento nel tremendo carcere di Badu e Carros, e ai suoi legali, ma anche al deputato Vittorio Sgarbi che è andato a visitarlo proprio per controllare le sue condizioni di salute, è parso irriconoscibile, “in uno stato di forte depressione, psicologicamente provato”. Sarà giudicato con il rito abbreviato, su sua richiesta. E vedremo se ci sarà un giudice in grado di comportarsi come quello di Berlino. Quanto a Francesco Stilo, detenuto a Opera, ha un quadro clinico raccapricciante: in seguito a un incidente, ha un ematoma all’aorta toracica con rischio dissecazione, e difficilmente può essere operato perché pesa circa 150 chili. Inoltre è cardiopatico, iperteso, con continue crisi di panico e due tentativi di suicidio del passato. A Opera è capitato in cella con un detenuto positivo al Covid-19. Ne è stato quindi disposto il trasferimento a Bologna. Sentite che cosa scrivono gli uomini del Dap di lui alla direzione del nuovo carcere: “Si segnala che trattasi di soggetto appartenente ad associazione per delinquere di tipo mafioso”. Si raccomanda quindi, “in considerazione dell’elevata pericolosità del soggetto”, di stare all’erta per “impedire tentativi di evasione, anche mediante complicità esterne” nel corso del trasporto da Opera a Bologna. Chiaro, dottor Gratteri? Concorso esterno, eh? L’equazione, anche nella testa dei burocrati del Dap, è chiara: il difensore è colpevole degli stessi reati di cui è indagato il suo assistito. Non più solo un intralcio (ogni pm sogna di avere tra le mani un uomo solo al mondo e senza avvocato, per poterselo manovrare a piacere), è ormai l’avvocato, ma un colpevole. Ma gli uomini della criminalità organizzata non sono mai soli. Gli avvocati Pittelli e Stilo invece sì. Il presidente della Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, su questo giornale ha detto parole molto chiare, soprattutto sull’uso della custodia cautelare, le sue regole sempre disattese, il degrado e la superficialità con cui l’istituto viene applicato. La parola “tortura” la pronunciamo noi, senza timore di esagerare. Giancarlo Pittelli è anche stato deputato, i suoi ex colleghi non hanno niente da dire? In Parlamento esiste ancora qualcuno che abbia un minimo senso di giustizia, qualcuno che vada a visitare i detenuti (anche se è un’attività che non porta voti), come è prerogativa di deputati e senatori (e non del solo Sgarbi) per verificarne le condizioni di salute? Nelle due commissioni giustizia e all’antimafia esiste ancora qualcuno che ricorda quali siano le condizioni necessarie per restare così a lungo in custodia cautelare? Cari (ex) colleghi, non siate conigli, fate interrogazioni, fate casino. Un bel question time al ministro Bonafede. Non vi si chiede di giurare sull’innocenza di persone che non conoscete. Ma di non consentire che una volta di più nel nostro Paese si celebri l’ingiustizia sulla pelle di qualcuno nel silenzio generale. Dimostrate che questo Parlamento conta ancora qualcosa, che sa alzare la propria voce anche a rischio di andare contro un potere più forte di lui. La giustizia non va in ferie: i Sindacati contro il presidente delle Camere penali di Sandro Iacometti Libero, 2 settembre 2020 Una cosa sono le udienze, un’altra gli uffici giudiziari. Per questo, di fronte all’allarme lanciato dal presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, che invoca un monitoraggio delle attività per evitare la paralisi, il sindacato Confsal-Unsa scende in campo a difesa dei lavoratori del settore. “Forse”, ha replicato il segretario generale della federazione Massimo Battaglia, “l’avv. Caiazza era in ferie, ma vorremmo ricordargli che sin dal principio della pandemia - come per ospedali e pubblica sicurezza- gli uffici del Ministero della Giustizia, dai Tribunali alle Procure, dagli Unep agli Istituti Penitenziari per adulti e minori, sono rimasti aperti. Inoltre non si comprende - se non a fine strumentale - quale utilità possa avere l’attività di monitoraggio cui si fa cenno quando è eseguita a cavallo della fine della sospensione feriale prevista per il 2 settembre, sospensione tra l’altro che impatta solo sulle udienze e non già sul resto dell’attività che continua ad essere svolta”. Per Battaglia sono cinque mesi che “amministrazione e sindacati lavorano e si confrontano per gestire un’emergenza sanitaria senza precedenti - che non ha inventato il sindacato - al fine di tutelare la sicurezza di lavoratori, avvocati e utenza degli uffici giudiziari, ed evitare casi di contagi negli Uffici che hanno portato da ultimo alla chiusura dell’Ufficio nep di Roma”. Quanto all’efficienza del sistema giudiziario, prosegue il sindacalista, “non accettiamo lezioni da nessuno, anche perché come è scritto nei Tribunali ove operiamo tutti giorni, la Giustizia si amministra nel nome del popolo italiano e non nel nome di qualche associazione. Oggi viviamo un momento delicatissimo, e dobbiamo tutti - amministrazione, dirigenza, lavoratori, sindacati, avvocati, parti in causa - trovare un punto di equilibrio tra efficienza giudiziaria in epoca Covid e sicurezza necessaria per abbattere la diffusione dei contagi e vincere questa guerra comune contro un virus subdolo che per trasmettersi non guarda né professione, né attività svolta”. Praticanti avvocati in rivolta: “L’esame è incostituzionale” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 settembre 2020 Abilitazione forense, solo il 35% ha superato lo scritto. “L’esame per l’abilitazione forense è antiquato e presenta profili di incostituzionalità”. Sta montando in queste ore la protesta degli aspiranti avvocati che sono stati esclusi dalle prove orali. Solo il 35 per cento dei candidati ha superato le prove scritte dell’esame per l’abilitazione forense. I risultati sono stati resi noti questa settimana. La correzione degli elaborati quest’anno è stata particolarmente complessa. A causa dell’emergenza Covid-19, il sistema adottato non è stato uniforme. Diverse commissioni hanno proceduto alla correzione da remoto altre, e con una tempistica eccessivamente ridotta, in presenza. Tale modus operandi avrebbe finito per condizionare le aspettative di decine di migliaia di candidati che, dopo otto mesi di attesa (le prove scritte si erano svolte a dicembre 2019), hanno ricevuto una valutazione negativa dei loro elaborati priva di motivazione. Il risultato di quest’anno è, dunque, molto al di sotto di quello degli anni precedenti. Sul punto sono tanti i dubbi sollevati da Artan Xhepa, presidente di Aipavv (Associazione italiana praticanti avvocati). L’alto numero di bocciati “testimonia il fallimento di un sistema di verifica anacronistico e che presta da sempre il fianco a numerose illegittimità”, afferma Xhepa che annuncia di aver dato mandato allo studio legale Leone-Fell di Palermo, specializzato nelle azioni legali verso le illegittime delle procedure abilitative e concorsuali, di presentare un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica contro l’attuale impianto dell’esame d’abilitazione. Nonostante i principi di trasparenza che dovrebbero uniformare tutte le procedure selettive, l’esame d’abilitazione forense non prevede un obbligo di motivazione. “In altre parole - spiega i Xhepa - si viene bocciati ma i commissari d’esame non devono neanche spiegare il perché con due righe di motivazione”. I commissari, per altro, sono “altri avvocati che potrebbero avere l’interesse a bocciare per non subire la futura concorrenza dei concorrenti”. In particolare, “verrà rilevata l’illegittimità costituzionale dell’impianto normativo che disciplina l’accesso alla professione forense per violazione dei vincoli comunitari che garantiscono il rispetto della cosiddetta libertà di stabilimento e di concorrenza e che vietano l’introduzione di ostacoli ingiustificati all’accesso al lavoro”. Poi “verrà rilevata la violazione e/ o la falsa applicazione della direttiva comunitaria 958/ 2018 che regolamenta gli esami di accesso alle professioni con titolo abilitante e che sarebbe rispettata ove entrasse integralmente in vigore la disciplina della legge 247/ 2012 sull’ordinamento forense”. La norma sull’ordinamento forense, si ricorderà, non è ancora completamente entrata in vigore. “Con tale ricorso - aggiunge Xhepa - chiederemo di essere ammessi alla successiva fase orale del concorso o, in subordine alla ricorrezione degli elaborati a seguito della disapplicazione delle norme contestate”. Contestualmente, “chiederemo che venga sollevata, ove ritenuto necessario, questione di legittimità costituzionale o questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia”, prosegue Xhepa, sottolineando che “nel caso in cui l’esito del ricorso non fosse immediatamente quello sperato valuteremo l’opportunità di avanzare ricorso alla Cedu. Il nostro obiettivo non è soltanto tutelare il candidato non ammesso alla prova orale della sessione 2019 - conclude - bensì quello di rompere gli schemi antiquati che reggono questa modalità di esame così strutturato”. Vassallo, dieci anni senza giustizia di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 2 settembre 2020 Sono passati dieci anni da quell’omicidio del “sindaco pescatore” che scosse l’Italia e soprattutto il mondo dell’ambientalismo, il quale aveva in Angelo un punto saldo di riferimento. Dieci anni, e come ricostruiscono il fratello Dario e Vincenzo Iurillo nel libro Omicidio Vassallo. La verità negata, ancora non si sa chi siano gli assassini. Vassallo, dieci anni senza giustizia - “Tu amavi il mare, / tu adoravi pescare / era la tua grande passione / che svolgevi come una missione. / Poi sindaco sei diventato / E volevi il meglio per tutto il Creato / soprattutto per quell’acqua blu / che della tua terra è una grande virtù...” È solo una piccola poesia in rime baciate scritta da un bambino della 5ª Elementare del II° Circolo Didattico “don Peppe Diana” di Acerra. Leggendola, però, tutti quelli che hanno in mente la foto di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica, in piedi su un gruppetto di scogli, blu-jeans, camicia, fascia tricolore, mentre mostra un calice di acqua cristallina del “suo” mare che bagna il Cilento, sentono un tuffo al cuore. Sono passati dieci anni da quell’omicidio del “sindaco pescatore” che scosse l’Italia e soprattutto il mondo dell’ambientalismo, il quale aveva in Angelo un punto saldo di riferimento. Dieci anni, e come ricostruiscono il fratello Dario e Vincenzo Iurillo nel libro Omicidio Vassallo. La verità negata, ancora non si sa chi siano gli assassini (“Sono convinto che siano tre e ho fatto i loro nomi alla magistratura, finora senza risultato”, dice Dario), chi i mandanti, chi i complici: “Tutto coperto da una coltre di omertà”. Misteri sui colpi sparati. Sui silenzi di chi vide. Sui depistaggi. Sul ruolo di un paio di carabinieri. Sugli appalti per varie “strade fantasma”. Sulle indagini aperte ed evaporate nel nulla. Troppi misteri. Riconosciuti dallo stesso Giuseppe Conte: “Sento il dovere di esprimere i miei profondi sentimenti di partecipazione per la grave mancanza di risposte dinanzi ad un fatto di sangue così grave”. Dieci anni senza uno straccio di verità. Fitte dolorose che tornano nei ricordi di Dario, medico a Roma, quella sera, alla notizia della uccisione del fratello: “Uscii in giardino, la testa tra le mani, piangevo disperato, incredulo, senza la forza di reagire. Mi sarei aspettato di vedere un cielo stravolto, un mondo inesorabilmente finito con la morte di mio fratello. E invece il cielo era pieno di stelle luccicanti e immobili, esattamente come accadeva da miliardi di anni”. Poi, il viaggio in auto nella notte verso un mondo “a noi sconosciuto, fatto di morte, lacrime, dolore, mafia, camorra, carabinieri, querele, ingiustizia, politica sporca e non, miseria umana...” Fondo di garanzia vittime della strada, risarcimenti senza l’obbligo di denuncia contro ignoti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020 Corte di cassazione - Ordinanza 31 agosto 2020 n. 18097. Nessun obbligo per la vittima di un sinistro stradale, da parte di un veicolo non identificato, a sporgere denuncia contro ignoti. E dunque nessun “automatismo tra mancata presentazione della denuncia di sinistro, e assenza di prova circa il fatto che il sinistro fu cagionato da veicolo non identificato”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 18097 del 31 agosto scorso circostanziando meglio un indirizzo già presente nella giurisprudenza di legittimità. Dopo il rigetto da parte del giudice di pace e del Tribunale di Nola, un motociclista ha così visto finalmente accolta la propria domanda risarcitoria nei confronti di Generali quale impresa designata dal Fondo di garanzia delle vittime della strada. Il ricorrente aveva infatti lamentato di essere stato tamponato e di essere rovinato al suolo senza però riuscire ad identificare la targa del mezzo ma soltanto la marca ed il modello. Per negare il risarcimento, l’assicurazione aveva opposto la mancata denuncia contro ignoti e il non aver dichiarato al momento del referto di essere stato investito da un conducente poi datosi alla fuga. Proposto nuovamente ricorso, la Cassazione ha chiarito che “la vittima di un sinistro stradale causato da un veicolo non identificato non ha alcun obbligo, per ottenere il risarcimento da parte dell’impresa designata dal Fondo di garanzia vittime della strada di presentare una denuncia od una querela contro ignoti, la cui sussistenza o meno non è che un mero indizio”. Infatti, prosegue la Corte, “a differenza di quanto affermato dalla controricorrente l’accertamento da compiere non deve concernere il profilo della diligenza della vittima nel consentire l’individuazione del responsabile, ma esclusivamente la circostanza che il sinistro sia stato effettivamente provocato da un veicolo non identificato”. “Sicché, argomenta la Sezione, il giudice di merito potrà tener conto delle modalità con cui, fin dall’inizio, il sinistro è stato prospettato dalla vittima e del fatto che sia stata presentata una denuncia o una querela, ma ciò dovrà fare nell’ambito di una valutazione complessiva degli elementi raccolti e senza possibilità di stabilire alcun automatismo fra la presentazione della denunzia o querela e accoglimento della pretesa come pure fra mancata presentazione e rigetto della domanda”. “Erra, dunque - conclude la Corte - la sentenza impugnata laddove reputa indispensabile la denuncia del danneggiato (o la menzione della mancata identificazione del veicolo danneggiante, in occasione della redazione del referto sulle lesioni subite), giacché, cosi pronunciandosi, il giudice di merito, in sostanza, introduce il dato della collaborazione del danneggiato con le autorità inquirenti (anche solo mediante la tempestiva denuncia) quale elemento necessario a integrate il requisito della “impossibilità incolpevole” della identificazione la cui mancanza comporterebbe il rigetto della pretesa”. Rimpatrio minori nati in Italia, vulnerabilità presunta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Ordinanza 1 settembre 2020 n. 18188. In caso di minori stranieri nati in Italia, il giudice nel decidere sul rimpatrio dei genitori, o anche solo di uno, deve far prevalere la presunzione di vulnerabilità dei figli minori sulle norme che regolano il diritto di ingresso e di soggiorno dei cittadini stranieri sul territorio nazionale. La Cassazione, con l’ordinanza 18188, rafforza la posizione dei minori che sono nati e che frequentano le scuole in Italia estendendo il principio della cosiddetta comparazione attenuata, affermato per la protezione umanitaria. Un criterio di giudizio che si risolve in una relazione di proporzionalità inversa tra due fatti giuridicamente rilevanti “ed impone un peculiare bilanciamento tra la condizione soggettiva della persona interessata e la situazione oggettiva che deriverebbe dal suo eventuale rimpatrio”. Partendo da questo presupposto i giudici di legittimità accolgono il ricorso di una coppia di albanesi, contro il via libera, dato in ogni grado di giudizio, al loro rimpatrio. Il permesso di soggiorno chiesto per ricongiungimento familiare era stato negato perché i giudici non avevano rilevato i gravi pregiudizi per lo sviluppo psicofisico dei bambini in caso di rientro in Albania. Per la Cassazione però la dimostrazione dei gravi motivi alla quale può essere subordinata l’autorizzazione a restare in Italia (Dlgs 286/1998, articolo 23) può ritenersi necessaria quando la famiglia non è ancora presente sul territorio nazionale. Mentre le gravi ragioni e dunque il pregiudizio per i minori è presunto quando, come nel caso esaminato, i figli sono nati in Italia dove frequentano le scuole. Va allora assicurata una tutela tarata sull’età e sull’integrazione sociale. La Cassazione afferma che “va presunta la vulnerabilità dei minori nati in Italia che siano integrati nel tessuto socio territoriale e nei percorsi scolastici, in applicazione dei criteri di rilevanza decrescente dell’età, per i minori in età prescolare, e di rilevanza crescente del grado di integrazione, per i minori in età scolare”. Il giudice di merito deve applicare il criterio della comparazione attenuata, in base al quale la vulnerabilità del minore prevale sulle norme in tema di diritto di ingresso e di soggiorno degli stranieri. Va tenuto prima di tutto presente il danno che un’eventuale rimpatrio provocherebbe sul minore e sulle sue aspettative di vita nel paese in cui è nato, allo stesso modo, considerando che il minore di 18 anni non può essere espulso, il pregiudizio che deriverebbe da un eventuale allontanamento dei genitori o anche solo di uno. Il giudice non può dunque, come avvenuto nel caso esaminato, non considerare l’effetto del rimpatrio in un contesto socio territoriale con il quale il minore non ha alcun rapporto. La Suprema corte precisa ancora che è irrilevante, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, la circostanza che l’esigenza espressa dai ricorrenti non abbia un carattere temporaneo. Nulla vieta, infatti, se necessario un successivo riesame. Sempre tenendo presente che oggetto del giudizio “è pur sempre la persona, i suoi diritti fondamentali, la sua dignità di essere umano”. Evasione fiscale: se il contribuente paga si applica la circostanza attenuante di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 2 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 1° settembre 2020 n. 24614. In caso di evasione fiscale se l’imputato decide di versare quanto dovuto al Fisco, si applica la circostanza attenuante. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 24614. Nel caso di specie il giudice di del tribunale di Macerata ha applicato a un soggetto uno sconto di pena pari a 6 mesi e 20 giorni di reclusione. Proseguono poi i Supremi giudici nell’esaminare la confisca e hanno stabilito che “quando la misura cautelare sia diretta o per equivalente non opera per la parte del profitto o del prezzo del reato che il contribuente si impegna a versare all’Erario, anche in presenza di sequestro, va intesa nel senso che, per la parte coperta da tale impegno, la confisca può essere comunque adottata nonostante l’accordo rateale intervenuto ma non è eseguibile, producendo i suoi effetti solo al verificarsi del mancato pagamento del debito, da cui a contrario la conclusione che qualora il pagamento sia avvenuto, non è possibile disporre la confisca”. Modena. Morti in carcere, le prime perizie confermano l’overdose Il Resto del Carlino, 2 settembre 2020 Le prime perizie depositate dai consulenti nominati dalla procura confermerebbero il decesso per overdose dei detenuti. Litri di metadone ingurgitati dopo il saccheggio nella farmacia del carcere. Non vi sarebbero segni di violenza sulle cinque salme. Ma questa è solo una parte della “storia”: in questi giorni altri detenuti hanno parlato di violenze inaudite avvenute durante la nota rivolta dello scorso 9 marzo al Sant’Anna ma ancora nulla si sa delle perizie sulle salme degli altri quattro carcerati; deceduti durante il trasporto negli altri penitenziari italiani o all’interno delle stesse celle. “Sulla vicenda sono in corso indagini - ha chiarito il procuratore Giuseppe Di Giorgio - chiaramente verranno esaminati tutti gli aspetti legati alle cause del decesso. Abbiamo intanto i risultati delle prime perizie legate ai detenuti deceduti in carcere; i documenti sono stati messi a disposizione delle parti in questi giorni. Ovviamente è in corso la ricostruzione della dinamica dei disordini; una dinamica complessa - sottolinea Di Giorgio - perché la ricostruzione della stessa non è semplice. Ovviamente la procura prende atto delle notizie diffuse in queste ore e che riguardano un detenuto deceduto altrove; ove ci arrivassero elementi specifici provvederemo ad integrare i fascicoli. Le consulenze hanno confermato le prime conclusioni che il medico legale aveva ipotizzato prima dell’analisi dei tessuti: la causa esclusiva del decesso è l’abuso di sostanze stupefacenti e non sono stati riscontrati segni di violenza sul corpo. Il consulente medico ha depositato in questi giorni la relazione conclusiva - conferma il procuratore - e gli accertamenti sono stati svolti in forma garantita, ovvero con l’invito alle parti a partecipare con propri consulenti”. Alcuni giorni fa, però, due detenuti hanno denunciato di avere subito “abusi” al Sant’Anna e che le persone decedute nel trasporto verso altri penitenziari subito dopo la rivolta non sarebbero state visitate dai medici prima di essere trasferite altrove, nonostante stessero male. Palermo. Domiciliari senza casa, una struttura per accogliere e orientare al lavoro di Serena Termini redattoresociale.it, 2 settembre 2020 Progetto sperimentale in Sicilia per far scontare la pena a chi non ha o non può utilizzare un domicilio. Roberto Cascio (Cammino d’amore): “Previste attività ludico ricreative e orientamento per reinserimento lavorativo”. Accoglienza domiciliare e reinserimento sociale e lavorativo. Sono questi gli obiettivi principali del progetto “Revival”, coordinato dalla Unità di Mediazioni e Giustizia riparativa dell’assessorato comunale per la cittadinanza solidale, che prevede la possibilità di accogliere in una struttura convenzionata con il Comune di Palermo chi deve scontare un periodo di detenzione domiciliare non superiore a 18 mesi, e non ha un domicilio o, per esigenze sanitarie legate al Covid-19, non può svolgerlo presso il proprio domicilio. La struttura, ospitata presso una Opera Pia (Ipab) cittadina, è gestita dall’associazione “Cammino d’Amore” che è già operativa con una decina di operatori in via sperimentale dai primi di agosto per tre mesi durante i quali saranno utilizzate le risorse del Fondo nazionale contro la povertà. Una parte del personale dell’Ipab si occupa inoltre di guardanìa e pulizia degli ambienti. Pensata per un massimo di 32 persone, al momento ne ospita 5 ma il numero è destinato a crescere. Si tratta di cittadini, italiani e stranieri, per i quali la magistratura ha autorizzato forme alternative alla detenzione. Per ognuno di loro l’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) del Ministero della Giustizia, elabora un piano personalizzato che, se autorizzate dal magistrato competente, può anche prevedere attività di volontariato, culturali e sociali da svolgere all’esterno della struttura. Proprio in tal senso si sta attivando l’Unità operativa del Comune, che già da anni coordina e promuove attività di giustizia riparativa, mediazione penale e facilitazione dei percorsi di recupero. Nell’ottica della responsabilizzazione e dello sviluppo di percorsi di comunità, gli ospiti del progetto Revival sono responsabili della co-gestione, in particolare della pulizia degli spazi comuni e del supporto alle attività. Trattandosi comunque di cittadini con provvedimenti restrittivi decisi dalla magistratura, le visite possono essere svolte solo previa autorizzazione e all’interno vigono comunque regole stringenti rispetto agli orari, alla gestione degli spazi, al divieto di utilizzo di alcol e stupefacenti. “Il progetto nasce in primo luogo per quei detenuti senza un domicilio che, con l’emergenza Covid, non potevano stare in strada - spiega Roberto Cascio vice presidente dell’associazione Cammino d’amore. In questo modo il comune in collaborazione con l’Uepe ha emanato l’avviso per l’attivazione di un centro di accoglienza a cui abbiamo risposto considerato che da oltre 20 anni facciamo assistenza dentro il carcere e abbiamo avuto pure diverse esperienze di messa alla prova. Oggi l’’accoglienza è aperta a 32 persone detenuti, uomini e donne, non solo per l’emergenza Covid, distribuiti in due piani. Devono essere persone autosufficienti perché il progetto è volto, oltre alla fruizione delle attività ludico ricreative, al loro recupero e reinserimento nella vita sociale e lavorativa attraverso formazione ed orientamento al lavoro. Considerato il bisogno attuale, a conclusione dei tre mesi, contiamo in una sua continuazione in modo da potere aiutare e rispondere ai bisogni di più persone. Da settembre oltre ad organizzare partite di calcio, prenderemo contatto pure con le realtà lavorative che hanno dato la loro disponibilità al progetto”. “La prima esperienza bella è stata quella di un giovane - aggiunge - che, nonostante ci avessero messo in guardia per le sue presunte problematiche psichiatriche, abbiamo scoperto, valorizzandolo in vario modo, che è una persona davvero in gamba”. “Si tratta di un primo progetto sperimentale - ha detto l’assessore Giuseppe Mattina - che conferma la visione di una città che in misura ampia vuole prendersi cura di tutti, anche di chi, avendo commesso errori e reati, sta facendo un percorso di reinserimento sociale concordato e monitorato dalle strutture del Ministero della Giustizia.” Per il sindaco Orlando il progetto “conferma che a Palermo tutti hanno diritti e doveri e che tutti devono avere la possibilità di rimediare ai propri errori con percorsi umani, rispettosi anche se rigorosi. Si conferma anche quanto sia importante la collaborazione fra le istituzioni pubbliche e gli enti del privato sociale”. Viterbo. “Il mio compagno è vittima di torture e pestaggi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2020 Valerio Mazzarella, dal 2 marzo nel carcere Mammagialla, ha riferito di una serie di episodi e ha mostrato via skype le cicatrici. “Durante le videochiamate ho visto il mio compagno recluso nel carcere di Viterbo con le cicatrici che prima non aveva e una volta ancora l’ho visto con le vesciche alle mani che a detta sua sono ustioni provocate dagli agenti tramite piccoli pezzi di plastica incandescente”. A raccontarlo a Il Dubbio è Alessia, compagna del detenuto Valerio Mazzarella, 41enne, ristretto nel carcere viterbese Mammagialla. L’aiuto di Pietro Ioia e di Rita Bernardini - Quando ha saputo dal compagno che sarebbe stato pestato dagli agenti a più riprese, si è vista crollare il mondo addosso. Lei che dorme solo tre ore al giorno visto che fa due lavori per poter sopravvivere, si è messa in moto e tramite una ricerca su internet ha contattato l’attivista dei diritti umani Pietro Ioia, ex detenuto e ora garante dei detenuti del comune di Napoli. Si è attivato subito e le ha consigliato di mettersi in contatto con l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, la quale già nel passato si è mossa per un caso analogo accaduto proprio nell’oramai famigerato penitenziario di Viterbo, conosciuto non a caso per essere un “carcere punitivo” perché meta di detenuti problematici. Un istituto penitenziario finito al centro della cronaca per casi di strani sucidi e diversi presunti pestaggi di recente attenzionati dall’autorità giudiziaria. Casi riportati, come in questo caso, in esclusiva dalle pagine de Il Dubbio. Le difficoltà per la denuncia - Alessia ha presentato, non senza difficoltà, la denuncia presso la caserma dei carabinieri. Per legge quest’ultimi sono pubblici ufficiali obbligati a ricevere l’esposto, altrimenti - in caso contrario - commettono il reato di rifiuto di atti di ufficio. Nel paese in provincia di Latina dove Alessia abita, ha ricevuto un rifiuto da parte dei carabinieri. Lei che ha sfruttato quelle poche ore libere dagli impegni lavorativi, reduce dal lavoro di notte si è vista respinta dai pubblici ufficiali con motivazioni del tipo “ma che ne sa lei se il suo compagno abbia detto la verità, sa che può passare i guai se dichiara il falso?”. A quel punto non si è arresa e appena ha trovato altre due ore di buco, è andata in un’altra caserma, quella del comune di Ardea, dove finalmente l’esposto è stato verbalizzato. Ma cosa sarebbe accaduto al compagno? Il 2 marzo scorso è stato trasferito dalla casa circondariale di Rebibbia in quella di Viterbo. Da un po’ di tempo a questa parte ha raccontato alla sua compagna fatti gravissimi che lui avrebbe subito ad opera di alcuni agenti di polizia penitenziaria. “I primi episodi mi vengono comunicati a partire dal 25 marzo - si legge nell’esposto: quel giorno, poco prima del cambio di guardia, quattro agenti prelevavano Mazzarella Valerio dalla propria cella per portarlo in una stanza dove iniziavano a picchiarlo”. Il tutto, sarebbe avvenuto - secondo quanto ha riferito alla compagna tramite videochiamata e lettere - senza alcun reale motivo se non le legittime richieste riguardanti la vita penitenziaria che il detenuto avrebbe rivolto agli agenti. “Richieste - continua il racconto di Alessia nell’esposto -, peraltro, puntualmente disattese. In quella occasione, due agenti lo tenevano e due lo picchiavano lasciando segni evidenti sulla testa, in particolare, un taglio profondo ad oggi tramutatosi in evidente cicatrice. Pur essendo stato medicato - aggiunge la compagna nell’esposto - è da verificare se sia stato refertato e se ciò risulti nella cartella clinica”. Scrive di sentirsi “sepolto vivo” - Alessia è venuta a conoscenza di ciò sia tramite la corrispondenza con lui intrattenuta (Il Dubbio ha potuto leggere le lettere del compagno), sia con le conversazioni Skype autorizzate attraverso le quali ha potuto vedere i postumi del pestaggio. Il problema è che non sarebbe stato l’unico. “Il 12 agosto 2020 - si legge sempre nell’esposto - lo hanno messo in isolamento in una cella vicina all’infermeria, una stanza piccola e sporca, maleodorante con escrementi sulle mura”. Lì gli avrebbero consentito di fare solo mezz’ora d’aria al giorno. “Lui chiede - continua il racconto verbalizzato dai carabinieri - di poter parlare con gli psicologi e di essere sottoposto a visita medica, ma gli viene negato. Mi fa sapere di sentirsi sepolto vivo e che ogni giorno gli fanno rapporti disciplinari per fatti non accaduti per provocare la sua reazione”. Alessia riferisce che il suo compagno avrebbe cercato di denunciare tutto ciò ma non sarebbe stato preso in considerazione. Anzi, secondo quanto denunciato dal compagno “si infittiscono i pestaggi (ad opera di tre/ quattro agenti); pestaggi durante i quali vengono usate violenze sempre più raccapriccianti come quando gli hanno ustionato le mani con piccoli pezzi di plastica incandescente. Il giorno dopo sono comparse sulle sue mani vesciche - racconta Alessia - che io ho potuto vedere personalmente il 22 agosto tramite colloquio visivo via Skype”. Ma non solo. Sempre secondo quanto riferito alla compagna, lo scorso 13 agosto Valerio avrebbe ricevuto l’ennesima irruzione notturna. “I soliti tre o quattro agenti- si legge nell’esposto - lo hanno colpito alla testa per cui, ad oggi, sono quattro le cicatrici evidenti”. Il detenuto ha chiesto ad Alessia, nelle loro rapide chiamate telefoniche, di denunciare questi fatti e di esporre che oltre alla violenza fisica “c’è anche quella psicologica perché gli agenti lo istigano per indurlo a reagire magari compiendo gesti irreparabili come già accaduto con un altro detenuto il quale si è tolto la vita”. Alessia ha paura, teme per l’incolumità del compagno. “Chiedo - racconta Alessia - di poter essere ascoltata e che quanto prima si possa intervenire per mettere fine agli abusi che sta subendo la persona che amo, che è soprattutto un uomo che se pure può aver commesso degli errori non può certo pagarli con la vita, prevedendo la legge come pena solo la privazione della libertà che non può, secondo Costituzione, essere contraria al senso di umanità”. Ovviamente sarà tutto da verificare, ma la vicenda appare seria e quindi dovrà essere chiarita il più presto possibile. Pietro Ioia che conosce molto bene la questione ha detto di non sottovalutare il problema e denunciare. C’è anche Rita Bernardini, esponente radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino, che - una volta ricevuto la lettera da parte della compagna del recluso - ha immediatamente inviato la segnalazione urgente agli organismi preposti, dal garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma a quello regionale Stefano Anastasìa. Possibile che a Viterbo, dopo anche la recente ispezione del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) e la mozione approvata dalla regione Lazio a prima firma del consigliere Alessandro Capriccioli di +Europa, la situazione sembrerebbe rimasta invariata? Ci sarà finalmente una iniziativa decisiva da parte del Dap e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per mettere fine a questi presunti abusi? Milano. Carcere di Opera, rivolta tra le fiamme e minacce agli agenti: “detenuti a processo” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 2 settembre 2020 Chiuse le indagini sui fatti del 9 marzo: in 22 sotto accusa. I detenuti si ribellarono agli agenti della polizia penitenziaria chiedendo l’amnistia per il rischio coronavirus devastando le celle e i corridoi. Il tam-tam che trasmetteva in piena pandemia segnali della rivolta lungo tutta la Penisola non avrebbe non potuto raggiungere anche il carcere di Opera il 9 marzo scorso. Anche nel più grande istituto di pena milanese, in cui sono reclusi al 41 bis i boss di spicco della criminalità organizzata, i detenuti si ribellarono agli agenti della polizia penitenziaria chiedendo l’amnistia per il rischio coronavirus devastando le celle e i corridoi, distruggendo e incendiando i mobili. Le indagini della Procura della Repubblica di Milano si sono focalizzate su 22 di loro che, chiusa l’inchiesta, ora rischiano concretamente di finire sotto processo per resistenza e minacce a pubblico ufficiale, danneggiamento e incendio doloso. Per identificare i responsabili degli episodi di danneggiamento e minacce è stato necessario un lungo ed impegnativo lavoro degli agenti della Polizia penitenziaria durante le indagini coordinate dal sostituto procuratore milanese Enrico Pavone che fa parte del pool antiterrorismo guidato dal pubblico ministero Alberto Nobili. Gli investigatori inizialmente avevano puntato l’attenzione e denunciato un centinaio di detenuti, ma il loro numero si ridotto dopo l’esame dei filmati delle telecamere di sorveglianza e grazie alle dichiarazioni di alcuni degli indagati che hanno scagionato molti dei compagni assumendosi tutta la responsabilità dei principali episodi di violenza. A rischiare il processo sono 15 italiani e sette extracomunitari. Le proteste, i danneggiamenti e gli scontri tra detenuti e agenti della Polizia penitenziaria ebbero come teatro le celle e i corridoi delle sezioni A, B e C al quarto piano del carcere, mentre all’esterno un gruppo di familiari dei reclusi e di antagonisti incitavano alla rivolta chiedendo la liberazione dei parenti a causa del rischio di contagio da coronavirus, cosa che per fortuna è avvenuta solo per numero molto ridotto di loro. La rivolta terminò nella serata quando i manifestanti furono convinti a tornare in cella dalla direzione. Mentre al quarto piano i manifestanti sfondavano i vetri delle finestre e appiccavano il fuoco a mobili e suppellettili, un gruppo di detenuti utilizzò un carrello portavivande come ariete per sfondare un cancello minacciando di morte gli agenti che erano impegnati ad impedire che gli stessi detenuti raggiungessero altri reparti. La Procura sta anche per chiedere il processo in relazione alla rivolta che contemporaneamente a quella di Opera riguardò San Vittore. Le accuse, in questo caso, vanno da sequestro di persona (alcuni agenti della polizia penitenziaria furono bloccati e minacciati) a devastazione, saccheggio, lesioni personali e rapina. Monza. Processi da remoto e in videoconferenza per chi è detenuto Il Giorno, 2 settembre 2020 Ancora (se c’è il consenso delle parti) udienze da remoto e in videoconferenza per gli imputati detenuti e deposito degli atti per via telematica fino al 31 ottobre. È quanto dispone l’ultimo provvedimento della presidente del Tribunale di Monza Laura Cosentini, che si basa sulla conversione in legge a luglio del decreto legge di giugno secondo cui, “tenuto conto delle esigenze sanitarie derivanti dalla diffusione del Covid-19, fino al 31 ottobre ripropongono la facoltà del giudice, su consenso delle parti, di ricorrere a trattazione scritta dell’udienza civile, ovvero a celebrazione a distanza mediante sistemi audiovisivi dell’udienza civile e dell’udienza penale con imputati in stato di custodia cautelare o detenzione”. Cautele ritenute dalla presidente del Tribunale monzese “auspicabili di massima applicazione, ancor più presso il Tribunale di Monza di cui sono note le dimensioni anguste della maggior parte delle stanze dei giudici e il limitato numero e l’ampiezza contenuta delle aule di udienza”, così da poter “ridurre l’affluenza di parti e difensori all’ufficio, nonché i trasferimenti da e per il carcere di imputati che vi sono detenuti, con ciò evitando di dover ricorrere a possibili rinvii di udienza dove incompatibile con la celebrazione in presenza” e questo “al fine di celebrare un maggior numero di processi”. Laura Cosentini, rilevando che “la possibilità di ricorrere alla trattazione scritta o all’udienza da remoto, nei casi consentiti, presuppone l’accordo delle parti” aggiunge di “confidare” nell’adesione degli avvocati difensori “nella consapevolezza di tutti che si tratta di modalità eccezionale destinata a protrarsi per il solo periodo dell’emergenza sanitaria”. Una richiesta di restare uniti negli intenti per combattere il Sars-Cov-2 che al momento gli avvocati brianzoli non sembrano voler accogliere di buon grado. Intanto manca poco alla totale ripresa dell’attività giudiziaria ordinaria dopo la pausa estiva. Al settore civile le prime udienze sono già iniziate, mentre i processi riprenderanno la prossima settimana. La carenza di aule adeguate per celebrare le udienze senza assembramenti ha costretto a dirottare quelle con tanti imputati nell’auditorium della sede della Provincia, mentre l’ex ufficio del procuratore nell’ala destra del Tribunale prima del trasloco in via Solera diventerà un’aula per i gip. Un carcere nella foresta amazzonica, o la nostra idea assurda della pena di Adriano Sofri Il Foglio, 2 settembre 2020 Walter Saxer è nato nella Svizzera tedesca di St. Gallen, ha 73 anni, e da quando ne aveva una ventina fa il produttore, e a volte attore, di molti film di Werner Herzog, da Aguirre, furore di Dio (1972) a Nosferatu e Woyzeck (1979) a Cerro Torre: Grido di pietra (1991) e ancora: cinque volte con Klaus Kinski protagonista. E di Fitzcarraldo (1982). Là si mostrava come chi sogna possa spostare le montagne. Farlo davvero, impiegare 600 indios asháninkas, far passare una nave di 300 tonnellate sopra un monte con una pendenza di 40 gradi, fu anche e soprattutto affare di Saxer, e durò quasi cinque anni di fatiche disgrazie e accidenti leggendari. In compenso, nel 1980 a Iquitos nacque sua figlia, e il Perù diventò la sua casa. Alla fine del 1986 gli capitò una pausa e, dopo aver assistito a una rivolta sanguinosa al Sexto, un famigerato carcere di Lima, conclusa inesorabilmente con l’uccisione di ostaggi e la strage di detenuti, Saxer prese con sé una camera da 11 mm e un formidabile operatore, Rainer Klausmann, svizzero anche lui, e andò a trascorrere cinque giorni - e cinque notti, le notti fanno la galera - nel fitto della foresta amazzonica, a El Sepa, favolosa colonia penale istituita nel 1951 dal governo peruviano. Erede di una colonia polacca dismessa, il Sepa prometteva di sperimentare una detenzione aperta, cui potessero partecipare le famiglie, e che permettesse ai detenuti, scontata la pena, di restare ad allevare animali, raccogliere il legname e coltivare un proprio pezzo di terra. Come in tutte le colonie penali, qui con una più rigida impossibilità di fuga, i buoni propositi rieducativi andavano insieme, e per lo più cedevano, al desiderio di sbarazzarsi dei prigionieri più fastidiosi e “incorreggibili”, e magari di cavarne qualche vantaggio economico. Proposito, l’ultimo, presto caduto. Quando ci arriva Saxer la colonia è ancora un paradiso terrestre rispetto alle sordide celle di Lima, i condannati si muovono a cielo aperto, un direttore bonario dimenticato come tutti dalle autorità, che quando sorride mostra, come i suoi dannati, qualche buco fra i denti, rimpiange le possibilità sprecate, e intanto si vive. Le autorità, corrotte e remote, dimenticano perfino di liberare i detenuti che sono arrivati a fine pena, per mesi, per anni. Non mandano le carte, ignorano chi non ha parenti che paghino sottobanco, sono troppo lontane per render conto. Saxer rinuncia presto alle interviste, e lascia che le persone si presentino alla macchina da presa, nome, cognome, soprannome chi ce l’ha (quasi tutti), durata della pena e reato per cui si è stati condannati. Poi gira. L’ambiente è il più suggestivo per una cinepresa, vegetazione lussureggiante capace di tenere a bada gli spiriti maligni, il rio Urubamba, acqua a perdita d’occhio, pappagallo ara sulla spalla del gringo spacciatore “Colonnello” come nell’isola del tesoro, e i colori sognati dal doganiere Rousseau. Ho letto poi un sacco di storie su Saxer, gran tipo, quasi tutte avventurose. Quelle su Fitzcarraldo specialmente: nella contesa fra Klaus Kinski e Herzog, regolata dal secondo solo postumamente, Saxer era piuttosto per Kinski. Non è stato Herzog a fare Kinski, dice, piuttosto il viceversa. È difficile avere a che fare con Kinski dopo il racconto di sua figlia Pola. Lo conobbi, Herzog era di là da venire, a Fregene, al Villaggio dei pescatori, dov’era una colonia ospitale di gente di cinema, Lionello Massobrio, Franco Solinas, Gillo Pontecorvo, Giorgio Arlorio. Veniva anche lui da Mastino, era scontroso e taciturno, qualcuno diceva: È pazzo, qualcun altro diceva: Fa il pazzo. Senza i racconti tristi, mi sarebbe caro il doppio nome che diede all’altra figlia, Nastassja Aglaia, le due donne dell’Idiota, e lui aveva fatto tante volte il principe Myškin. Herzog racconta, del “suo miglior nemico”, che si guardava dall’addentrarsi nella giungla se non per i pochi metri necessari al fotografo, e dichiarava che il solo paesaggio interessante fosse il volto umano. Saxer ha fatto tesoro della mezza verità del suo amico Kinski: sono le facce e i torsi nudi dei detenuti del Sepa, molti nativi peruviani, a segnare il suo paesaggio. Ed è inevitabile, davanti ai tatuaggi - non erano ancora superflui - e alle mappe di cicatrici di incidenti sul lavoro, battiture, torture, ricordare i ghirigori dell’erpice della colonia penale di Kafka. C’è tutto, in quel pugno di giorni. I racconti. L’americano e la canadese, discendenti del movimento, che hanno avuto il permesso di sposarsi e convivere qui, e dicono che non se ne andrebbero più comunque - cose che si dicono. Il condannato che ha ricevuto la visita della giovane moglie, uno dei pochissimi - bisogna avere i soldi, e il permesso, e da Lima sono quattro giorni di viaggio - e la tiene stretta come se volesse incorporarsela, e come se temesse che gliela portassero via - fra poco succederà. La messa di fine anno, coi bravi cani di nessuno che gironzolano e si grattano accanto all’altare, il prete in missione a denunciare l’ingiustizia terrena, com’è giusto che facciano i preti della fine del mondo, e guardie e ladri che si scambiano il segno di pace. La festa e lo spettacolo dei detenuti, musica nostalgica, musica da ballo, l’indio mangiafuoco, i pochi bambini intimiditi e beniamini. La cucina collettiva e “il cacciatore”, faccia di caratterista e avambraccio teso e pistola alla cintura, che caso mai inseguirà e riporterà indietro chi tentasse l’evasione impossibile. Dopo un po’, dice Saxer, si fa come se si fosse tutti una gran famiglia. Basta ascoltare, dice, e poi si vedrà che cosa era interessante. La giustizia, per esempio. Quasi nessuno dei prigionieri si protesta innocente, ma tutti sanno che la giustizia è una farsa e che la punizione è fine a sé stessa, ignora i moventi, non ha bisogno di pretesti. La colonia del Sepa è stata chiusa nel 1993. Il documentario è l’unica testimonianza filmata. Era restato chiuso per trent’anni, custodito, come succede, da una donna. La Cineteca di Bologna e quella svizzera l’hanno restaurato e presentato al Festival del cinema ritrovato. Saxer non ha potuto venire per la pandemia, è restato a Iquitos, nella sua famosa “Casa Fitzcarraldo”. Ora il film farà un gran giro, immagino. È bellissimo. Mostra, lascia dire ai fatti, che idea assurda abbiamo della pena, e che mutilazione, che dilapidazione facciamo dell’umanità. E come l’umanità resista e allarghi le braccia e lo sguardo, se appena le si offra un pezzo di cielo aperto. L’Italia non profit alla sfida del post-Covid: rinnovarsi o morire di Giulio Sensi Corriere della Sera, 2 settembre 2020 Indagine tra i protagonisti dell’emergenza sanitaria: difficoltà nella gestione e donazioni ridotte. “Ma solo noi ci occupiamo dei più fragili”. Anziani, bambini e disabili: dove il servizio è essenziale. La sfida dell’era Covid il Terzo settore italiano l’ha vinta: non solo uscirne vivo, ma aiutare il Paese a resistere. Il prezzo pagato è stato però alto: secondo un’indagine condotta dal Centro di Ricerca Aiccon dell’Università di Bologna per il Forum Nazionale del Terzo Settore, più di nove realtà su dieci hanno risentito in maniera significativa o elevata dell’impatto della pandemia sulle proprie attività, in termini sia di realizzazione sia di qualità dei servizi erogati. Più di 7 su 10 prevedono una contrazione delle entrate derivanti da contributi e donazioni. Un po’ di respiro la cassa integrazione e le misure governative l’hanno dato anche agli enti del Terzo settore, ma la tempesta vera potrebbe arrivare in autunno e abbattersi sul grande mondo delle 350mila realtà non profit censite dall’Istat che valgono in termini economici 80 miliardi di euro e muovono il 5 per cento del Pil, impiegando 1,14 milioni di lavoratori e 5,5 milioni di volontari. Il ruolo fin qui è stato fondamentale. Prendiamo gli anziani: “In Italia - spiega Enzo Costa, presidente nazionale di Auser, una delle più grandi associazioni italiane impegnate in questo campo - il 30 per cento degli ultraottantenni vive da solo e ha deboli legami familiari. È stato soprattutto il volontariato a prendersi cura di loro. Non ci sono state fornite nemmeno le mascherine e abbiamo dato fondo ai risparmi messi da parte per continuare ad operare nella massima sicurezza a favore degli anziani”. Costa, che è anche il coordinatore della Consulta del Volontariato del Forum Nazionale del Terzo settore, racconta episodi edificanti: “In Lombardia si sono uniti a noi nei primi giorni di pandemia più di 200 ragazzi che volevano aiutare i nonni”. Ma adesso? “Il Terzo settore racchiude sia le dimensioni dell’associazionismo e del volontariato sia quelle di impresa sociale: in questa emergenza abbiamo dato il massimo, adesso è importante che nessuno ci metta da parte”. In Italia secondo i dati Istat il 64,5 per cento delle realtà del Terzo settore si occupa di sport, cultura, socialità, aggregazione: si tratta di 226mila associazioni che sono quasi ferme da marzo e che dipendono per l’80 percento dai fondi privati ora diminuiti o interrotti e per la prima volta nella loro storia chi ci lavora è andato in cassa integrazione. Poi ci sono quelle impegnate in sanità, assistenza sociale e protezione civile: quasi 45mila enti, buona parte di essi hanno assicurato, con fatica e difficoltà, un sostegno fondamentale alle comunità colpite dal virus. In Italia sono attive 15.764 cooperative sociali che impiegano più di 441mila dipendenti: secondo un’indagine svolta da Swg per Legacoop un terzo di queste ha ridotto fortemente le proprie attività; più della metà, il 58 per cento, ha faticato a pagare gli stipendi; il 40 per cento non è riuscit0 a tenere aperti i servizi che offre alla collettività nei settori dell’educazione, dell’assistenza, dell’inserimento lavorativo. Circa il 25 per cento prevede di dover licenziare personale nel giro di un anno. Ovunque nel Terzo settore c’è preoccupazione. Ma anche tanta voglia di ripartire. Forte è l’attesa per i mesi autunnali nelle parole dei rappresentanti delle reti nazionali del Terzo settore e le nuove sfide sono molte e complesse. “La pandemia - spiega Stefano Granata, presidente nazionale di Federsolidarietà, la sigla che riunisce le oltre 6.000 cooperative sociali aderenti a Confcooperative - è stata un grande acceleratore: ha esteso e fatto emergere le fragilità e le vulnerabilità della società italiana ed è cambiata totalmente la domanda di sostegno. A queste nuove domande non si può che rispondere in modo più complesso”. E l’impresa sociale, quella parte del Terzo settore che ha una vocazione più orientata alla produzione di beni e servizi, può farsene carico. “È necessario - aggiunge Granata - riuscire ad aggregare saperi, risorse e capitali sia umani sia economici, altrimenti non riusciremo ad aggredire i fenomeni di esclusione. Il Terzo settore, alla vigilia della pandemia, si stava guardando dentro ed era in mezzo a una fase di trasformazione: molte realtà avevano capito che stava cambiando la domanda dei cittadini, che si doveva dipendere meno dalle risorse pubbliche, costruire nuovi percorsi di welfare più estesi e che non guardassero solo alle filiere classiche, come quelle delle fragilità, delle disabilità, degli anziani, ma alla creazione di lavoro, alla riqualificazione delle periferie e delle aree interne. Adesso abbiamo davanti questa sfida, con la voglia di innovare e di avviare processi di ibridazione e alleanza con le imprese profit e il mondo finanziario”. Con che prospettive? “Con gli ammortizzatori sociali un po’ tutti hanno resistito, ora il governo deve aiutare a patrimonializzarci: non abbiamo bisogno del salvagente, ma di energia per nuotare, partecipazioni e capitali pazienti che ci permettano di investire e innovare, di fare impresa”. “Il tema centrale - aggiunge Eleonora Vanni, presidente di Legacoop Sociali, l’altra grande sigla che racchiude il mondo delle cooperative sociali - è riuscire a mantenere attivi tutti i servizi con i problemi di liquidità che ci saranno a breve termine. In un contesto difficile dobbiamo riuscire a garantire la continuità di risposte alle persone e ai loro bisogni. Volendola vedere in modo positivo, dobbiamo riuscire a ripensarci continuando nel lavoro intrapreso prima dell’emergenza: svolgere un ruolo attivo e di riferimento nelle comunità in cui operiamo. Ma abbiamo bisogno di un sostegno per gli investimenti per ripensare e riprogettare i servizi. E dobbiamo superare e difficoltà che ci sono in molti contesti a lavorare con le amministrazioni locali”. Migranti. “Inguaiò” Lucano demolendo lo Sprar di Riace, ora è indagato di Simona Musco Il Dubbio, 2 settembre 2020 “Ha falsificato una relazione sull’accoglienza”. Il funzionario della Prefettura di Reggio Calabria accusato di falsità ideologica: avrebbe taciuto sulle irregolarità del centro d’accoglienza di Varapodio. Inguaiò Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, firmando la relazione che gli costò l’avvio di un’indagine e la chiusura dei progetti d’accoglienza. Ma ora è lui, Salvatore Del Giglio, funzionario della Prefettura di Reggio Calabria, ad essere indagato, con l’accusa di aver confezionato una relazione falsa nella quale avrebbe omesso di indicare le criticità rilevate all’interno del Centro d’accoglienza di Varapodio, a pochi chilometri dalla città dei Bronzi. Del Giglio è accusato assieme al collega Pasquale Modafferi di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Ai due è stato notificato, nei giorni scorsi, un avviso di conclusione delle indagini, che ha raggiunto anche il sindaco di Varapodio, Orlando Fazzolari, di Fratelli d’Italia, accusato di una gestione personale e discrezionale del centro di accoglienza “Villa Cristina” dal settembre 2016 all’aprile 2018, la titolare della cooperativa sociale “Itaca” Maria Giovanna Ursida e due commercianti di abbigliamento, Carlo Cirillo ed Ernesto Cruciani. Il nome dei due dipendenti della Prefettura, per molti giorni, è rimasto segreto: nessuno osava rivelarne l’identità, nonostante fossero noti i nomi degli altri indagati. Ora, però, è emerso il collegamento con un passato nel quale il funzionario si trovava dall’altra parte della barricata: nel dicembre del 2016, infatti, Del Giglio firmò, assieme ad altri due colleghi della Prefettura di Reggio Calabria, la famosa relazione sulla gestione dello Sprar da parte del Comune di Riace, contestando, tra le varie cose, proprio la mancata manifestazione di interesse nella scelta delle associazioni che lavoravano per i migranti. Una relazione che, di fatto, avviò la distruzione del modello Lucano, evidenziando “situazioni fortemente critiche”. A partire dalle convenzioni con gli enti gestori, a chiamata diretta, passando per l’assunzione sempre fiduciaria degli operatori, parentele tra questi e amministratori comunali (in comune di 2300 anime) e scarsa chiarezza nelle fatturazioni. Dopo quella relazione ve ne fu un’altra, che esaltava fortemente le caratteristiche positive del modello Riace, raccontando l’accoglienza come una favola. Una relazione che, però, fu a lungo negata a Lucano - che per ottenerla, dopo diversi tentativi di accesso agli atti, fu costretto a sporgere denuncia in Procura - e che non piacque in Prefettura (come ha riferito durante il processo a carico dell’ex primo cittadino una delle autrici di quella relazione), tanto da costare al primo firmatario, Francesco Campolo, il trasferimento dal settore immigrazione a quello del raccordo con gli enti locali ed elezioni. Dopo le ispezioni, si avviò la macchina del ministero dell’Interno che, prima sotto la guida di Marco Minniti, poi con quella di Matteo Salvini, portò alla chiusura dello Sprar di Riace e al trasferimento dei migranti. Ma gli atti che hanno decretato la morte dei progetti, hanno sentenziato prima il Tar e poi il Consiglio di Stato, erano illegittimi. “Che il “modello Riace” fosse assolutamente encomiabile negli intenti ed anche negli esiti del processo di integrazione - si legge nella decisione del Tar - è circostanza che traspare anche dai più critici tra i monitoraggi compiuti”. Insomma, quell’atto non aveva fondamento. Ma ciò non ha impedito al Viminale di svuotare il paese dei Bronzi e cancellare un modello d’accoglienza studiato in tutto il mondo. Il tutto mentre, sempre in provincia di Reggio Calabria, un altro sistema di accoglienza, oggi considerato “malato” dagli inquirenti, prosperava tranquillamente, anche grazie, secondo l’accusa, all’aiuto di chi ha contribuito alla fine dell’era Lucano. Secondo il procuratore della Repubblica di Palmi Ottavio Sferlazza e il pm Salvatore Rossello, in concorso con Ursida, Del Giglio e Modafferi, “a seguito di un controllo effettuato presso il centro di accoglienza “Villa Cristina”, finalizzato alla verifica del regolare funzionamento del centro e del corretto impiego dei fondi stanziati dalla prefettura di Reggio Calabria”, avrebbero redatto “falsamente il verbale ispettivo del 5 settembre 2017 omettendo di indicare l’assenza di trasparenza in ordine alla regolarizzazione contrattuale delle cuoche e alla fornitura degli alimenti acquistati dal Comune di Varapodio”. I due ispettori avrebbero inoltre omesso di indicare “la mancata manifestazione di interesse da parte del Comune di Varapodio per altre cooperative oltre la “Itaca”, affidataria della convenzione per la gestione dei servizi relativi al terzo settore del medesimo Comune”. Le droghe in tempi di Covid, pensando a nuovi scenari di Stefano Vecchio Il Manifesto, 2 settembre 2020 L’emergenza sanitaria legata alla pandemia da Covid-19 sta introducendo nei nostri modelli e stili di vita sostanziali cambiamenti nel modo di concepire le relazioni sociali e le stesse modalità di funzionamento dei servizi sociosanitari e sociali e la connessa nozione di salute. Molti sono gli interrogativi aperti sul modello della sanità italiana prevalentemente centrata sul modello ospedalo- centrico, con ampie realtà privatizzate, sulla contrazione del sistema territoriale dei servizi determinata nel corso degli anni dalle diverse leggi di riordino, dai tagli e da una regionalizzazione disarticolata. Come hanno retto, in questo contesto, i servizi che si occupano di persone che usano droghe, da quelli ordinari (SerD e Comunità terapeutiche) a quelli a bassa soglia di Riduzione dei Danni e Limitazione dei Rischi? Il consueto appuntamento della Summer School organizzata da Forum Droghe e dal Cnca (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza) nei giorni 3, 4 e 5 settembre, quest’anno si interrogherà su questi temi e proverà a configurare nuovi scenari e prospettive. Considerata la realtà di emergenza la Summer School si realizzerà online, utilizzando le competenze presenti nei nostri circuiti con un format che ci consentirà di dialogare sia nell’ambiente degli iscritti che sulla rete con chi vorrà interagire con le tematiche poste alla discussione. Il dibattito e l’approfondimento utilizzerà le numerose ricerche indipendenti e osservazioni sul campo realizzate tra operatori, associazioni comprese quelle che coinvolgono le persone che usano droghe, che rappresenteranno il serbatoio ricco di stimoli e indicazioni dal quale partiremo per ricercare e elaborare ipotesi e scenari che sviluppino il sottotitolo della Summer: “Perché nulla sia come prima”. Come abbiamo scritto nella presentazione sul sito fuoriluogo.it: “La percezione è stata non solo quella di una urgenza - capire cosa stava (e sta) avvenendo nei consumi, nel mercato, nei servizi - per far fronte a una situazione eccezionale, ma anche e in prospettiva soprattutto quella di ‘apprendere lezioni’ da uno stato eccezionale per una messa a punto dello ‘stato ordinario’ dei nostri approcci ai consumi di droghe, delle politiche e del nostro sistema di intervento”. Per sviluppare queste idee abbiamo organizzato l’evento in quattro tematiche: - L’area dei modelli di consumo nella quale analizzeremo i risultati delle ricerche e le importanti indicazioni che emergono dai comportamenti dei consumatori, in controtendenza rispetto alla vulgata dei media, confrontate con la realtà dei mercati, osservate attraverso il nostro orizzonte culturale centrato sulle relazioni tra “droga, set e setting” secondo lo schema di Norman Zinberg. - L’area dei servizi. L’emergenza pandemica è stata “una cartina al tornasole dell’ordinario”. Luci e ombre nella realtà dei servizi: dalla tenuta nei ridimensionamenti, alla flessibilità e alle innovazioni ma anche le interruzioni, la crisi della prossimità, la resilienza e la creatività dei servizi di Riduzione del Danno e Limitazione dei Rischi. Un tema che interroga lo statuto del sistema pubblico e l’esigenza di rivederne i modelli attuali organizzativi e culturali. - Il carcere: un’intera sessione è dedicata a questa istituzione totale che rischia di chiudersi sempre più, di peggiorare il clima interno già fortemente asfittico e generatore di sofferenze e interrompere e ostacolare ogni processo di cambiamento sia delle pratiche dei servizi che normativo. - L’ultima sessione di sabato mattina abbiamo voluto dedicarla alla relazione tra il modello di emergenza realizzato e i possibili scenari biopolitici che già iniziano a delinearsi sui comportamenti, sulle nostre vite, sui corpi, la relazione con i contesti delle persone che usano sostanze psicoattive, l’influenza sul mondo della politica e dei servizi. Stati Uniti. A Los Angeles gli agenti uccidono un altro nero di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 2 settembre 2020 Il presidente promette di rinforzare le forze dell’ordine: “Razzismo? Parliamo di violenze e saccheggi”. A Kenosha Donald Trump visita le zone della città devastate da incendi e saccheggi dopo gli incidenti razziali seguiti al ferimento di Jacob Blake, colpito per sette volte alle spalle da un agente. Non parla del caso, limitandosi a notare che a volte anche gli agenti, sotto pressione per minacce potenzialmente mortali, sbagliano. Ma poi, in un incontro con le forze dell’ordine e con i politici conservatori che hanno accettato di incontrarlo - non il governatore del Wisconsin, il democratico Tony Evers, che l’aveva invitato a non andare - elogia la polizia e promette di rinforzarla ulteriormente, senza parlare di riforme: “È quello che vuole la gente, comprese le minoranze nere e ispaniche: le più colpite da disordini e saccheggi” che avvengono soprattutto nei loro quartieri. Come previsto, Trump punta a rilanciare la sua immagine di presidente che si batte per l’ordine e la sicurezza dei cittadini. In realtà, dopo quattro anni di Trump alla Casa Bianca, l’America è scossa da proteste oceaniche e da episodi di guerriglia urbana come non avveniva da decenni. Ma, anche se nell’America di Obama la situazione era assai meno tesa, il presidente si sottrae alle critiche e mette sotto accusa i suoi rivali politici sostenendo che incendi e saccheggi avvengono tutti in città che hanno eletto amministrazioni locali democratiche. Mentre a Los Angeles la polizia uccide un altro nero - ancora un episodio controverso, nato dall’uso improprio di una bicicletta, con la vittima che si era ribellata agli agenti prendendoli a pugni - Trump annuncia un piano da 42 milioni di dollari per rafforzare polizia e sistema giudiziario in Wisconsin e poi promette il pugno di ferro anche nelle altre città del Paese sconvolte dai disordini, a partire da Portland. E il ministro della Giustizia, William Barr, promette di punire i responsabili di centinaia di episodi di guerriglia urbana che si sono verificati negli ultimi mesi da un capo all’altro dell’America: “Abbiamo testimonianze e filmati di moltissimi episodi. Ci vorrà tempo ma perseguiremo chiunque ha incendiato un’auto della polizia o lanciato pietre rischiando di uccidere”. Il presidente non solo non condanna i poliziotti responsabili degli episodi più gravi - si limita a parlare di poche mele marce - ma, nel giustificare i loro eccessi, ricorre addirittura a un linguaggio sportivo mostrando una scarsa sensibilità per le vittime: paragona gli errori commesse dagli agenti “che a volte devono prendere una decisione di vita o di morte in un quarto di secondo” a quelli fatti sul campo di golf quando si sbaglia un colpo apparentemente facile. E, prima di recarsi in Wisconsin, il presidente aveva giustificato anche Kyle Rittenhouse il miliziano 17enne che durante i disordini di una settimana fa ha ucciso due attivisti di sinistra: “Aspettiamo i risultati dell’indagine, ma era stato attaccato: penso che, se non avesse reagito, sarebbe stato ucciso”. Insomma, una sortita sulla linea law and order con la quale Trump, in ritardo nei sondaggi rispetto a Biden, spera di recuperare terreno tra i cittadini che temono per la loro sicurezza. Del resto siamo ormai ad appena due mesi dal voto. E, puntuali, tornano anche i tentativi di infiltrazione informatica dei servizi segreti russi attraverso la centrale della Internet Research Agency di San Pietroburgo, già attivissima durante la campagna 2016. Per ora le attività intercettate dall’Fbi (che ha messo sull’avviso Facebook), diffuse attraverso un sito sconosciuto, Peace Data, sono limitate e sembrano voler seminare scontento senza favorire un candidato in particolare. Ma probabilmente in rete c’è anche altro che l’Fbi non ha ancora intercettato. Turchia. La morte di Ebru parla anche a noi, ora Italia ed Europa non possono più tacere di Giuliano Pisapia Il Dubbio, 2 settembre 2020 Ebru Timtik è morta dopo un digiuno di 238 giorni. Era in un carcere turco colpevole solo di essersi battuta per un processo equo e contro la sistematica violazione dei diritti umani e del diritto di difesa. Condannata a 13 anni di carcere dopo un processo in cui è stato totalmente impedito il diritto di difesa, malgrado che l’istituto di medicina legale avesse dichiarato la incompatibilità col regime carcerario. Ebru Timtik è stata lasciata morire di fame in una situazione detentiva inaccettabile e non degna di un Paese che si definisce civile. Un gesto disperato ed estremo di protesta contro la violazione di ogni elementare diritto in un sistema giudiziario che l’ha vista passare da avvocata a imputata solo per aver fatto il suo lavoro: difendere chi è accusato dal regime. Questo in Turchia è considerato un reato e viene definito “terrorismo”. Nei regimi antidemocratici l’avvocato difensore, e gli stessi giudici, sono considerati funzionali agli obiettivi dell’accusa e un avvocato che prova a fare il suo dovere diventa automaticamente “terrorista”. Anche i magistrati che credono nello stato di diritto sono incarcerati o immediatamente sostituiti se decidono la scarcerazione di indagati o imputati, come è accaduto per chi aveva deciso per il rilascio di Ebru Titmtik. Il processo penale diventa così strumento di repressione e non di verità e giustizia. Il caso di Ebru Timtik non è il primo, né purtroppo sarà l’ultimo, di una lunga serie. Pochi mesi fa si sono lasciati morire di fame i tre componenti della band musicale Grup Yorum. ll loro sacrificio non ha però minimamente cambiato la politica del presidente turco. Non è successo allora, non è avvenuto oggi con Timtik e bisogna sperare che a questo terribile elenco non si aggiunga anche Aytac Unsal, collega di Ebru Timtik, che rifiuta il cibo da mesi. Il 21 settembre inizierà un processo contro oltre 100 avvocati turchi detenuti da oltre due anni e accusati di terrorismo per il solo fatto di aver difeso persone accusate di terrorismo. Sono continuamente arrestati, e non raramente torturati, docenti, giornalisti, cittadini che si oppongono alle ingiustizie Erdogan vuole che si sappia che non sono ammesse critiche, non è ammesso chiedere giustizia o semplicemente il rispetto delle regole minime di uno stato che si dichiara democratico. Chi fa questo rischia il carcere per lungo periodo, con o senza processo, con o senza regole. L’arbitrio è assoluto, nessuno può stare tranquillo se non segue la politica del governo. Anche il Presidente della Corte Costituzionale della Turchia ha dovuto ammettere che oltre il 50% delle condanne in Turchia sono la conseguenza di violazione dei diritti di difesa Quanto vediamo oggi con Erdogan non è cosa nuova per la Turchia. Da avvocato mi è capitato, negli anni ottanta, di assistere a Istanbul a processi contro deputati arrestati e e condannati a decenni di carcere, per il solo fatto di aver parlato curdo nelle aule parlamentari. Centinaia sono i sindaci incarcerati per essersi opposti a leggi ingiuste e ingiustificate. È importante che in Italia - come sta accadendo in altri paesi europei - associazioni di avvocati, magistrati e docenti universitari, facciamo sentire la propria voce per la giustizia. Ma non basta: è indispensabile, oltre che doveroso, che chi crede nella democrazia e nello stato di diritto non taccia o si volti dall’altra parte. Anche l’Unione europea e i singoli Paesi che ne fanno parte non possono tacere, e neppure limitarsi a sterili proteste. Sono necessarie prese di posizioni concrete e sanzioni economiche che possano portare a risultati concreti. Nei mesi passati abbiamo visto una escalation aggressiva da parte di Ankara: alla continua violazione dei diritti umani e civili si sono aggiunte il bombardamento della Siria, l’intervento militare in Libia, le provocazioni verso la Grecia e Cipro. In alcuni casi abbiamo sentito solo rituali voci di condanna o assordanti silenzi dai singoli Paesi europei e dall’Unione europea. La politica estera europea si gioca sul fronte turco una delle partite più importanti. Continuare a far finta di nulla e a finanziare Erdogan con alcuni miliardi di euro all’anno per limitare l’arrivo dei migranti dalla rotta mediorientale non può essere una politica accettabile. È importante, che anche l’Italia si faccia portatrice di un’azione forte e solleciti l’adozione di sanzioni capaci di far recedere Erdogan dalla continua violazione delle libertà democratiche fondamentali. La Commissione Europea ha deciso recentemente sanzioni, anche economiche, nei confronti di Paesi quali La Bielorussia e Venezuela. Perché con la Turchia non si fa altrettanto? Non si rischia di apparire forte con i deboli e deboli con i forti? Per troppo tempo abbiamo sopportato arresti ingiustificati, processi viziati, minacce a giornalisti, giudici e avvocati. Ebru Timtik ha sacrificato la sua vita per mettere tutti davanti alle proprie responsabilità: dai governi ai singoli cittadini. Lo ha fatto in nome della giustizia, per il popolo turco e per tutti noi europei. Turchia. Salvate il prigioniero Aytac di Luigi Manconi La Repubblica, 2 settembre 2020 Mettiamola così: se l’Europa, questa comunità che si vuole fondata su valori democratici e liberali, sarà in grado di strappare alla morte uno, almeno uno, degli avvocati turchi impegnati in un inesorabile sciopero della fame, allora la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione non sarà solo stucchevole retorica. Uno, almeno uno: come il 32enne Aytac Unsal, condannato a 10 anni e 6 mesi, ora nell’ospedale Kanuni Sultan Siileyman di Istanbul. Unsal ha iniziato lo sciopero della fame i12 febbraio scorso insieme alla collega Ebru Timtik, 42 anni, che ha finito di vivere cinque giorni fa, dopo 238 giorni di digiuno. Entrambi appartenenti allo Studio legale del popolo, erano stati condannati il 20 marzo 2019 (sentenza confermata in appello) insieme a numerosi colleghi a seguito di un dibattimento che non ha rispettato alcuna delle garanzie proprie di uno stato di diritto. Un “processo farsa”, come è stato definito da osservatori internazionali, che ha visto giudici sostituiti d’autorità, testimoni anonimi e non sottoposti a controinterrogatorio, e l’accusa trasformare l’ordinaria attività di assistenza legale in materia di reato e fattispecie penale. Per protesta contro questa sentenza iniqua, Aytac Unsal ed Ebru Timtik hanno intrapreso lo sciopero della fame, proseguendolo anche dopo che altri sei avvocati lo avevano sospeso per gravi motivi di salute; e dopo che il 29 luglio l’Istituto di medicina legale aveva dichiarato l’incompatibilità delle condizioni psicofisiche dei digiunatori con la detenzione in carcere, il trasferimento dei due avvocati in un reparto ospedaliero si è risolto in un ulteriore peggioramento del loro stato di salute: clima gelido a causa dell’aria condizionata, luce sempre accesa, finestre serrate. Ma tutto ciò non ha fiaccato la loro volontà di resistenza. Lungo i tornanti più erti della storia individuale e collettiva, si danno circostanze che impongono scelte estreme. Come quella che, per affermare la vita e la sua irriducibilità ai dispotismi di ogni natura, porta a considerare la morte come un’occasione di liberazione. Accade così che la sovranità sul proprio corpo passi attraverso la più inerme esposizione alla violenza di chi, quella sovranità, vuole mortificare. In altre parole, per affermare la dignità della vita può diventare necessario accogliere la morte. Questa sembra essere la sorte di Aytac Ùnsal, se non gli verrà resa giustizia. Da parte del presidente Erdogan e delle autorità politiche e giudiziarie turche non si è manifestata la più esile disponibilità a un gesto di conciliazione e, al contrario, si sono moltiplicati i segnali (e i concretissimi atti) di una ancor più crudele repressione. E i Paesi democratici e gli organismi internazionali? Per carità di patria, qui si tace dell’Italia, ma a colpire, in particolare, è l’afasia dell’Europa. Eppure sono in gioco, palesemente, il patrimonio di credibilità dell’Unione e il suo sistema di valori. La Turchia è Europa per mille ragioni storiche, culturali e geo-politiche. Non fa parte dell’Unione, delle sue istituzioni e dei suoi organismi, ma la rete di rapporti e di interessi comuni è fitta e robusta. Si pensi solo all’enorme massa di risorse economiche che la Turchia riceve dall’Unione Europea per “contenere” all’interno dei propri confini (e in condizioni spesso disumane) centinaia di migliaia di migranti e profughi. E si pensi al ruolo crescente che il regime di Erdogan va conquistando all’interno dello scenario mediorientale e, in specie, di quello libico. Dunque, le autorità europee, se lo volessero, potrebbero esercitare - proprio in ragione di quei molti legami - una funzione di concreto controllo sugli standard di tutela dei diritti umani in quel Paese, e non limitarsi a deprecare. L’occasione è questa, e si presenta ora con una vividezza quale forse mai in passato. Se l’Europa non sarà in grado di strappare al regime di Erdogan e alla morte annunciata almeno questo giovane avvocato, tutte le sue nobili parole si riveleranno carta straccia: e il suo intero discorso pubblico sui diritti umani apparirà come una miserevole ideologia. Colombia. L’ombra del militarismo sull’omicidio di Mario Paciolla di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 2 settembre 2020 Emergono dubbi sul ruolo del sottoufficiale dell’esercito a cui è stata affidata la sicurezza della Missione delle Nazioni unite, in passato impegnato nella guerra alle Farc e poi assunto da imprese estrattiviste. Ancora silenzio da parte dell’Onu dopo più di un mese e mezzo dall’omicidio di Mario Paciolla. Se non fosse stato per i familiari di Mario, per la sua amica e giornalista Claudia Duque, per i ricercatori, le attiviste e le inchieste indipendenti che sono state portate avanti in queste settimane il caso sarebbe rimasto archiviato come suicidio. Le verità che sono emerse dallo sforzo collettivo per fare luce sul delitto hanno demolito la tesi della polizia colombiana, fin da subito accolta dalle Nazioni unite che hanno sbrigativamente comunicato alla famiglia che Mario si era tolto la vita. Gli agenti della polizia criminale che sono accorsi sulla scena del crimine sono finiti sotto inchiesta per aver permesso ai funzionari dell’Onu di far ripulire la stanza di Mario e disfarsi dei dispositivi elettronici che gli erano stati dati in dotazione. Mentre i poliziotti sono finiti sotto processo, la magistratura colombiana ha insistito per ricevere il via libera per poter interrogare i membri dello staff della Missione di Verifica delle Nazioni unite che godono dell’immunità funzionale. L’ambasciatrice italiana all’Onu Mariangela Zappia, intervistata dal quotidiano Il Mattino, ha lamentato la mancata collaborazione delle Nazioni unite dichiarando che i suoi funzionari “ancora non si sono resi disponibili a essere interrogati”. Nel frattempo aumentano le ombre intorno alla figura del responsabile della sicurezza della Missione, Christian Thompson,che, secondo la ricostruzione di Claudia Duque, era in comunicazione con Mario poco prima della sua morte ed è stato il primo a presentarsi sulla scena del crimine compromettendola gravemente. Thompson è un sottufficiale dell’esercito colombiano con una formazione di prim’ordine nell’ambito della gestione della sicurezza privata e della diplomazia militare. Occorre ricordare che la Missione dell’Onu a San Vicente del Caguán, in Colombia, dove stava lavorando ed è stato ucciso Mario Paciolla, si occupa di verificare la messa in vigore degli Accordi di pace tra il governo colombiano e il gruppo guerrigliero delle Farc, ormai diventato un partito legale dopo aver consegnato le armi nel 2016. Le forze armate colombiane sono state l’attore principale coinvolto nella guerra contro le Farc durante la quale hanno implementato una violenza sistematica contro i gruppi guerriglieri e spesso anche nei confronti della popolazione civile e degli attivisti che difendono diritti umani. Il fatto che a un sottufficiale dell’esercito venga affidata la responsabilità della sicurezza della Missione che si occupa di verificare il reintegro pacifico degli ex guerriglieri nella società colombiana può far sollevare dei dubbi sull’imparzialità e neutralità di tale processo di verificazione. Contraddizioni, che come riportato da Claudia Duque, venivano sollevate anche da Mario Paciolla. Prima di lavorare con le Nazioni unite, Thompson si occupava di sicurezza per un progetto dell’Usaid, l’Agenzia degli Stati uniti per lo Sviluppo internazionale in Colombia, un’organizzazione che si occupa di promuovere la politica estera statunitense attraverso interventi umanitari. Usaid è considerata un attore che favorisce l’espansione dell’ingerenza statunitense in America latina e che non a caso è stata coinvolta in scandali legati allo spionaggio di alcuni governi latinoamericani. Nel suo profilo professionale compaiono anche altri incarichi nella gestione della sicurezza legati a imprese private tra cui la Fidelity Security Company con cui Thompson garantiva ai clienti del settore minerario ed energetico la risoluzione di problemi logistici, tra cui le opposizioni ai progetti da parte delle comunità locali. Questa commistione tra militari ed estrattivismo non è una novità in Colombia dove nel 2018 sono stati creati dei battaglioni armati che si occupano di proteggere il settore energetico e minerario e che garantiscono l’estrazione di materie prime alle multinazionali che depredano i territori. Proprio a San Vicente del Caguán sono state assegnate 22 licenze petrolifere che permettono alle imprese di estrarre barili di greggio sotto la protezione dell’esercito. La militarizzazione della zona sembra inoltre favorire gli interessi di gruppi imprenditoriali legali e illegali per la vasta quantità di risorse idriche, minerarie e per l’accesso alla regione amazzonica dove è in corso una pesante deforestazione per impiantare monocolture e coltivazioni illecite. Mentre le ambiguità continuano a sommarsi, il silenzio dell’Onu diventa sempre più pesante e viene da chiedersi come sia possibile che un militare con una preparazione di alto livello e un’esperienza internazionale come Thompson abbia potuto commettere un errore così grossolano compromettendo la scena del crimine ed entrando in possesso del computer e del cellulare utilizzati da Mario Paciolla. Secondo Anna Motta, le ragioni della preoccupazione di suo figlio Mario nei giorni antecedenti alla morte andrebbero ricercate proprio negli hard disk di quei dispositivi elettronici di cui ancora non si conosce il contenuto. Capo Verde. Come è morto David Sollazzo? di Andrea Bucci La Stampa, 2 settembre 2020 I punti oscuri dell’inchiesta sul cooperante scomparso nel 2019. La famiglia ha scritto al Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Il 1 maggio del 2019 è stato trovato senza vita nella casa in cui abitava da solo. Com’è morto David Solazzo, il cooperante fiorentino trovato senza vita e avvolto in lago di sangue nel suo alloggio a Sào Felipe, nell’isola di Fogo, a Capo Verde, il 1º maggio 2019? Se lo chiede la famiglia perché a distanza di 15 mesi quella morte è avvolta da un mistero. È di qualche giorno fa l’intervento del Governo italiano dopo una lettera inviata dalla famiglia Solazzo al Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ad interessarsi della questione è ora la vice ministra degli Esteri Emanuela Del Re, che ha avuto un colloquio con il ministro degli Esteri di Capo Verde, Luis Filipe Tavares ricordando l’importanza che l’Italia dà al caso di David Solazzo. “Riteniamo che sia un nostro dovere morale giungere alla verità su quanto accaduto a David quanto più rapidamente possibile. Per l’Italia, fare luce sulle cause della sua scomparsa è una priorità. In tal senso, la cooperazione tra le Autorità giudiziarie di Roma e Praia (la capitale di Capo Verde, ndr) è fondamentale, ed è necessario che le interlocuzioni avvengano prontamente e senza ritardi” scrive la vice ministra italiana. La magistratura di Capo Verde aveva, sin da subito, parlato di incidente domestico escludendo il coinvolgimento di qualcuno: David Solazzo è morto dissanguato. Su un braccio erano stati trovati tre tagli probabilmente provocati cadendo sui vetri in frantumi della porta d’ingresso della sua abitazione. Secondo le prime indiscrezioni raccolte quella notte, David Solazzo, rincasando dopo una festa, nel tentativo di aprire la porta dell’alloggio, avrebbe mandato in frantumi i vetri probabilmente con un pugno, e a quel punto si sarebbe tagliato al braccio. Ma per la Procura di Roma qualcosa non torna in questa storia. Il pm Erminio Amelio ha aperto un fascicolo per “omicidio volontario” e nei mesi scorsi, attraverso una rogatoria internazionale, ha chiesto all’autorità di Capo Verde, l’invio di alcuni documenti. Papà Vincenzo, mamma Donella e la sorella maggiore Alessandra pretendono la verità e per ottenerla hanno sin da subito affidato tutto al legale Giovanni Conticelli. “Non ce la faccio più a vivere senza sapere com’è morto mio fratello” rompe il silenzio la sorella Alessandra, che per qualche mese ha vissuto a Nairobi come dipendente delle Nazioni Unite. “A gennaio mi sono licenziata dal lavoro e sono ritornata in Italia perché non potevo più restare nel continente dove è morto mio fratello” confessa. Il caso non è ancora chiuso e per evitare che venga archiviato troppo in fretta, Alessandra Solazzo, convinta che qualcuno possa aver ucciso suo fratello, è pronta a tutto. “Vorrei anche sottolineare che la casa di mio fratello era stata dissequestrata solo dopo 48 ore dalla sua morte e che la polizia scientifica non è mai stata fatta intervenire. Come famiglia stiamo sostenendo le spese dell’affitto della sua casa per preservare le tracce nella speranza di un’indagine approfondita da parte delle autorità di Capo Verde” conclude Alessandra. E poi c’è il giallo del cellulare di David Solazzo, ancora in possesso delle autorità capoverdiane. “Qualcuno, a settembre 2019 ha cancellato tutta la messaggistica di whatsapp. Perché?”. Se lo chiede l’avvocato Giovanni Conticelli. Chi era David Solazzo - David Solazzo aveva 31 anni e lavorava per conto della Onlus fiorentina Cospe ad un progetto di rafforzamento del turismo rurale e sostenibile dell’isola di Fogo a Capo Verde. Venezuela. Indulto per 110 detenuti: ci sono anche prigionieri di coscienza di Riccardo Noury pressenza.com, 2 settembre 2020 Il 31 agosto il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha annunciato un decreto d’indulto per 110 detenuti con procedimenti in corso o che stanno scontando condanne. Tra coloro che beneficeranno del provvedimento vi sono alcuni prigionieri di coscienza di cui Amnesty International si è recentemente occupata denunciando come ingiusto il loro imprigionamento: il dirigente sindacale Rubén González, in carcere dal novembre 2018; i deputati Gilber Caro e Renzo Prieto, arrestati rispettivamente nel dicembre 2019 e nel marzo 2020 e infine gli oppositori politici Maury Carrero e Nicmer Evans, arrestati ad aprile e a luglio di quest’anno.