Il problema delle carceri italiane è che i detenuti vengono puniti, non rieducati di Sara Mauri linkiesta.it, 29 settembre 2020 La situazione nelle carceri è una faccenda seria, una questione che non va sottovalutata, perché come pensiamo o trattiamo i condannati delinea il nostro essere civili, il nostro essere persone all’interno di una comunità che pensa senza agire di pancia. E forse, di questo, ci dimentichiamo troppo spesso. Lo scopo del carcere, occorre sempre ricordarlo, non è rinchiudere una persona, pensarla senza speranza e “sbattere via la chiave”. Lo scopo del carcere, quello vero, fondante e costituzionale, è rieducare; permettere alle persone che hanno scontato una pena di rientrare in società e di ricostruirsi un’identità, una vita. E anche se non sempre questo avviene, a causa di diversi fattori, pensare che ci sia un ideale che vada oltre la pena e che riabiliti la persona, ci rende comunque cittadini migliori. La funzione della pena non è punitiva, ma rieducativa ed è la Costituzione stessa che ne riconosce dignità. Articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sarà che, nei tempi moderni, la foga dell’esposizione del condannato ha trovato nuova linfa in primitivi processi sommari mediatici, dove la tv e i social decidono se uno è colpevole o innocente prima ancora che lo faccia la legge. Ma le persone sono sempre state attratte da pene esemplari. “Devono soffrire, devono pagare”. Ne sono esempio le ghigliottine in pubblica piazza, le impiccagioni del passato. La storia insegna che se c’è un delitto, bisogna dare il carnefice in pasto alla folla come essere umano finito. La spettacolarizzazione della pena, “sorvegliare e punire”. Ah, Foucault. Siamo tornati indietro, l’essere umano non si smentisce mai: abbiamo sostituito le piazze con arene social e processi televisivi. La pubblica gogna. Assoluzioni che sui titoli dei giornali pesano meno di accuse infondate. Sarà che il reale è diverso dall’ideale, che se un carcerato vive in un ambiente degradato e sovraffollato non avrà imparato nulla e se lo Stato non gli avrà dato gli strumenti necessari per ricostruirsi un’esistenza, sarà difficilissimo per lui tornare dalla parte del bene. Le pene, però, prima o poi, finiscono. E quelli che erano detenuti dovranno ritornare alla vita normale. C’è un libro che analizza la realtà delle carceri italiane, non lesinando su particolari della vita in quei luoghi, riportandoci alla vera funzione dello Stato e rispondendo a due cose importanti: “a cosa serve il carcere? A che cosa serve la pena?”. Il libro si chiama “Vendetta pubblica”, edizione Laterza, è appena uscito ed è stato scritto da un giornalista e un magistrato. Gli autori Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze ed Edoardo Vigna, giornalista del Corriere, sono convinti che “la pena come vendetta non è compatibile con uno Stato democratico. E occuparci del carcere vuol dire occuparci dello stato di salute della nostra democrazia”. Nel libro si descrive la vita vera nelle carceri, si parla di semilibertà, dei permessi premio, del valore del lavoro, della violenza, del durante e del dopo. E si parla di numeri: al 30 aprile 2020, i detenuti in Italia sono 53.904. Di questi, 37.098 si trovano in carcere per condanna definitiva. Quelli che scontano l’ergastolo sono il 4,4 per cento del totale. La media europea è invece di 3,5 per cento dei condannati. Il “buttiamo via la chiave” come slogan di un populismo penale è a pagina sette, già nel l’introduzione. In Italia si sta in carcere di più e quindi c’è un elemento maggiormente de-socializzante rispetto ad altri paesi, dice il libro. Il che vuol dire che gli ex carcerati fanno più fatica, dopo aver scontato la pena, a trovare una normalità e a ricostruirsi una vita civile dopo il carcere. Nel nostro Paese la recidiva degli ex carcerati è molto alta: sette su dieci tornano sulla strada sbagliata. Mentre - scrivono gli autori - solo due su dieci tra coloro che hanno trascorso la parte finale della pena in misura alternativa, tornano a delinquere. Ed è ancora meglio per chi, durante gli anni trascorsi tra le sbarre, ha lavorato: la percentuale di recidiva scende all’1%. Il problema, scrivono, è che solo a tre detenuti su dieci viene concessa la possibilità di lavorare. Insegnare al detenuto i principi dello stato di diritto e della sua esistenza come persona è un altro tassello importante. Se il detenuto si percepisce come persona con diritti e doveri, anziché venir trattato come non-persona, è più probabile che rispetti l’altro, una volta fuori. I crimini esisteranno sempre, il male esiste e fa parte dell’essere umano. Ma secondo Costituzione, nessuno è irrecuperabile, anche il delinquente peggiore. Se il movimento di pancia prevede una “vendetta pubblica”, dove si gioisce quasi nel veder un uomo o una donna dati per perduti, ottimale sarebbe vedere il ritorno a una vita civile che permetta alla persona che entra in un carcere di uscirne migliore di quando è entrata, con l’aspettativa che non torni a delinquere. No? Perché, alla fine, come scrivono gli autori, “la società dovrà fare i conti con una persona che viene sbattuta fuori dalla porta del carcere, e che quando si troverà lì davanti, con la sua valigia in mano e le spalle alla prigione in cui ha vissuto un certo numero di anni, avrà di fronte un bivio”. Un bivio verso cui dovremmo imparare a guardare. Gli “scarcerati” incompatibili con il carcere perché malati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 settembre 2020 La Circolare del Dap non poteva determinare le misure adottate dai giudici di sorveglianza. “Con quella Circolare del 21 marzo del Dap, che ha consentito a boss mafiosi di uscire dal carcere, il segnale di resa dello Stato è nei fatti. Ed è un segnale devastante, perché evoca, appunto, resa e arrendevolezza da parte dello Stato”. Sono le parole del magistrato Nino Di Matteo, intervistato domenica scorsa da Massimo Giletti per “Non è l’arena”. Una circolare è un atto amministrativo, non decide la “scarcerazione” dei reclusi. Sullo specifico si parla di una nota circolare maturata in un periodo di grave emergenza, quella del Covid 19 che si stava diffondendo nelle carceri. Quindi il pensiero è andato a tutti qui soggetti che per età e patologie potessero essere più esposti alla mortalità una volta contratto il virus. A spiegare davanti alla commissione Antimafia com’è andata è stato lo stesso Giulio Romano, l’allora direttore del Trattamento detenuti del Dap che scrisse quella nota. “Durante la videoconferenza - spiegò Romano - le presidenti dei tribunali di sorveglianza Milano e Brescia confermano la drammaticità della situazione nelle carceri. Chiedo se può essere d’aiuto che si facciano giungere ai tribunali le segnalazioni sui detenuti più esposti. La risposta è positiva ma non entusiasta”. È in questo modo che viene partorita l’ormai famosa nota. Il 21 marzo mattina alle 8.31 Romano scrive una mail a Basentini “dicendo che mi pare che nella videocall del giorno precedente fosse emerso l’ok. Lui mi risponde: per me va benissimo”. La nota ha dato il via alle “scarcerazioni”? No. In realtà già prima della diramazione, alcuni giudici avevano iniziato a concedere i domiciliari anche ai detenuti in regime di Alta sicurezza. Di tutti quelli che hanno usufruito della detenzione domiciliare, una parte era relativa al pericolo Covid, ma la gran parte era dovuto dalle patologie gravi che li rendevano incompatibili con la carcerazione. Infatti, come il caso di Carmelo Terranova, c’è chi è rientrato nonostante le patologie ed è morto. Oppure, ancora prima, durante l’emergenza, c’è chi - come Vincenzo Sucato era in carcere nonostante gravemente malato e vecchio: istanze di scarcerazione rigettate ed è morto una volta contratto il Covid. Chi parla di “resa dello Stato” aver concesso la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute, probabilmente non ha colto il problema. Quando parliamo di diritti inderogabili, ci riferiamo a diritti che hanno un nucleo incomprimibile, mai sacrificabile, qualunque siano le circostanze del caso concreto. Tra questi c’è il diritto alla salute, tutelato dall’art. 32 della Costituzione e anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che qualificano come inderogabili il divieto di trattamenti inumani e degradanti (articolo 3) e la protezione della vita e dell’integrità fisica, che lo Stato deve perseguire anche attraverso l’adozione di misure “positive” nei confronti dei soggetti affidati alla sua custodia (art. 2). Lo Stato, e di conseguenza i giudici, deve essere tenuto a dare applicazione di tali principi, anche nei confronti dei reclusi che si sono macchiati per crimini mafiosi. Se viola tali principi, c’è la resa allo Stato di polizia. Di Matteo: “Far uscire dal carcere i mafiosi è stato un segnale devastante di resa dello Stato” Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2020 “Con quella circolare del 21 marzo del Dap, che ha consentito a boss mafiosi di uscire dal carcere, il segnale di resa dello Stato è nei fatti. Ed è un segnale devastante, perché evoca, appunto, resa e arrendevolezza da parte dello Stato”. Sono le parole del magistrato Nino Di Matteo, intervistato da Massimo Giletti per “Non è l’arena”. L’ex pm antimafia sottolinea: “Quel provvedimento segue di poco le rivolte organizzate in varie strutture penitenziarie di tutta Italia. E, come era facilmente sospettabile, sembrerebbe che quelle rivolte siano state concepite e anche organizzate da Cosa Nostra e da altre organizzazioni mafiose”. Di Matteo condivide in toto le parole pronunciate lo scorso giugno, nella stessa trasmissione, da Sebastiano Ardita, per nove anni direttore dell’ufficio detenuti del Dap e oggi componente del Csm. E spiega: “I mafiosi hanno ciclicamente condotto delle battaglie strategiche, anche a colpi di attentati, di bombe, di ricatti, di rivolte organizzate per ottenere degli scopi precisi, come l’abolizione dell’ergastolo, l’abolizione o l’attenuazione del 41bis, l’ottenimento di arresti domiciliari che consentissero ai mafiosi di tornare a casa e di tornare a comandare, anche durante l’esecuzione della pena. È avvenuto tante volte e anche recentemente. Chi conosce il modo di agire di Cosa Nostra, di ieri e di oggi, sa che la questione carceraria è centrale e che sulla questione carceraria si gioca una partita fondamentale e importante nel contrasto ai vertici della criminalità organizzata”. Chi finisce in carcere perde la salute mentale di Azzurra Barbuto Libero, 29 settembre 2020 Più della metà dei carcerati soffre di disturbi psichici, ma i ministeri della Giustizia e della Salute non se ne interessano. A farne le spese sono anche gli agenti penitenziari. Non tutto il Covid viene per nuocere, almeno nelle carceri italiane dove il sovraffollamento era diventato cronico da lustri fino all’esplosione dell’epidemia e pure delle conseguenti rivolte dei detenuti che hanno condotto all’adozione urgente (e non priva di aspre polemiche) di provvedimenti volti a ridurre il numero dei detenuti, che nel giro di sei mesi è passato da 61.230 (dati del 29 febbraio 2020) a 53.921 (dati del 31 agosto 2020) unità a fronte di una capienza regolamentare di 50.574. In cella dunque i ristretti non dispongono ancora del minimo spazio vitale personale, eppure non stanno più appiccicati come sardine, condizione che di fatto rende impossibile la realizzazione di un percorso individuale di recupero e quindi annulla la finalità fondamentale della detenzione, che è - e occorre sempre tenerlo presente - non la mera punizione bensì la rieducazione, indi il reinserimento in società. Tuttavia, l’esistenza in gattabuia non è migliorata. Il malessere che affligge parte della popolazione civile a causa della tensione in cui abbiamo vissuto immersi da marzo ha valicato anche le mura degli istituti di pena, insinuandosi nei lunghi corridoi e penetrando nelle tetre celle. Ed è lì che sulle spalle dei condannati, oltre alla durezza della quotidianità in galera, si è aggiunto un ulteriore fardello, ossia il terrore della malattia unito alla impossibilità di mantenere il distanziamento sociale in luoghi in cui si campa, si dorme e si mangia uno sull’altro. Insomma, è lievitato il disagio mentale, che dietro le sbarre si trasmette da un individuo all’altro come fosse un virus: chi non arriva recando già delle patologie mentali è frequente che si ammali per effetto delle difficoltà connesse alla vita “al fresco” nonché della convivenza forzata con soggetti problematici, i quali dovrebbero avere un’altra collocazione e seguire un altro percorso, specificamente di cura. Invece la promiscuità regna sovrana, cosa che nuoce a tutti. In base ai dati diffusi in occasione del XX° Congresso Nazionale Simspe - Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, tenutosi lo scorso ottobre, oltre un detenuto su due presenta una malattia o un disturbo mentale (disturbi psicotici, nevrotici o della personalità, depressione, dipendenza da alcol o droghe, e altri). Facile considerare il reo una sorta di scarto della comunità ed esclamare: “Ma tanto se sta male, chi se ne importa?”. Invece, quello che accade in carcere ci riguarda e non per niente gli istituti penitenziari sono stati edificati nel cuore delle nostre città. Il livello di civiltà e di democraticità di un Paese si misura pure dalla qualità delle sue galere, dove peraltro può capitare a chiunque di noi di soggiornare se teniamo conto dell’altissima quantità di detenuti ancora in attesa di giudizio o di quelli rivelatisi poi innocenti. Ad ogni modo, si assiste nelle ultime settimane ad un aumento delle aggressioni da parte dei carcerati nei confronti delle guardie penitenziarie. In particolare in Sardegna, dove è importante la presenza di detenuti con patologie psichiatriche. In queste ore diversi agenti in servizio nelle carceri di Oristano e Cagliari hanno dovuto fare ricorso alle cure dei sanitari a seguito delle violenze subite, mentre la scorsa settimana nel penitenziario di Uta (Cagliari) un condannato si è avventato su un poliziotto e gli ha sputato sugli occhi. “Il nostro è un vero e proprio bollettino di guerra. La polizia penitenziaria deve fronteggiare giornalmente le difficoltà del carcere, dovute a diverse cause che vanno dalla carenza di organico alle inefficienze strutturali, ma la criticità maggiore è quella relativa alla gestione dei ristretti con patologie di natura psichiatrica”, dichiara Luca Fais, segretario regionale per la Sardegna del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Fais parla di “atti vandalici”, detenuti che distruggono arredi e sanitari, che si armano come possono sfidando i poliziotti di vigilanza. Secondo Donato Capece, segretario generale del Sappe, la situazione, ormai sempre più drammatica, sarebbe peggiorata con la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.), “da allora - spiega il segretario - le carceri si sono riempite di reclusi affetti da seri problemi psichiatrici, ubicati adesso nelle celle con altri detenuti che non hanno le medesime difficoltà”. E in tutto questo il corpo di polizia penitenziaria viene lasciato da solo. Non si interessano alla questione spinosa né il Ministero della Giustizia né quello della Salute. Le persone con malattia mentale che hanno commesso reati dovrebbero trascorrere il periodo di detenzione all’interno delle Rems, strutture sanitarie regionali per la esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno preso il posto degli O.P.G., chiusi nel 2015 per le scandalose condizioni di degrado in cui venivano costretti i condannati. Le Rems dello stivale sono 30, per la maggior parte site in edifici fatiscenti e provvisori, e ospitano circa 600 persone (dati del 2019). La disponibilità di posti è insufficiente e soprattutto manca un organismo di coordinamento nazionale che vigili altresì su codeste residenze eliminando le differenze tra un territorio e l’altro. Insomma, la chiusura degli O.P.G., che avevamo salutato come la messa al bando di una vergognosa crudeltà, non solo non ha giovato ai detenuti con patologie mentali, peraltro sempre più copiosi, ma ha reso ancora più penosa la condizione dei ristretti senza patologie. L’ennesimo bel pasticcio. 30° anniversario della Carta di Treviso: il 45% dei detenuti in Italia è genitore vicenzapiu.com, 29 settembre 2020 A pochi giorni dal 30° anniversario della Carta di Treviso, la città veneta ha ospitato un confronto tra istituzioni e associazioni su infanzia e detenzione. Si è tenuto nel weekend infatti presso la sede di Telefono Azzurro a Treviso l’incontro su “Bambini e Carcere”, un progetto attivo dal 1993, ideato e coordinato dalla Onlus con la collaborazione di una fitta rete di volontari sul territorio, per tutelare i bambini con uno o due genitori detenuti. Il 45% dei detenuti in Italia è genitore e sono 35 i bambini (0-6 anni) che vivono negli Istituti di prevenzione e pena con le proprie madri (dati Dap, 2020). Di seguito il resoconto dell’iniziativa. Si è tenuto nel weekend, presso la sede di Telefono Azzurro a Treviso, l’incontro su “Bambini e Carcere” - un progetto attivo dal 1993, ideato e coordinato dalla Onlus con la collaborazione di una fitta rete di volontari sul territorio, per tutelare i bambini con uno o due genitori detenuti - con l’intento di tornare alla piena operatività dopo qualche rallentamento dovuto all’emergenza sanitaria. L’attività si prefigge di salvaguardare il rapporto tra minore e genitore, nonché il diritto dei detenuti a una pena conforme al senso di umanità (secondo l’articolo 27 della Costituzione italiana) che quindi possa includere la continuità di rapporto con i figli. In questo periodo di convivenza con il coronavirus, è stato fondamentale l’utilizzo del digitale per garantire i colloqui familiari a distanza tramite videochiamata e i seminari di sensibilizzazione online verso gli operatori a contatto con detenuti genitori, le famiglie e il mondo della scuola. Secondo le statistiche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia (aggiornato al 31 agosto 2020), la popolazione carceraria ammonta a 53.921 detenuti (2.263 di genere femminile). Sul totale, 24.233 sono genitori. Inoltre, sono 35 i bambini (0-6 anni) che vivono negli Istituti di prevenzione e pena con le proprie madri (33 detenute). Il progetto di Telefono Azzurro, “Bambini e Carcere”, prevede una profonda attività di dialogo, sostegno e animazione, gestita da una squadra di volontari formati e aggiornati - circa 200 su tutto il territorio, tra i 18 e i 75 anni - che presidiano 23 strutture carcerarie (17 Case circondariali e 6 Case di reclusione), 20 città e 10 regioni italiane, in collaborazione con il personale penitenziario. “Fin dalla sua nascita, il progetto Bambini e Carcere ha sottolineato l’importanza del volontariato nel tutelare le fasce più deboli e nel creare una cultura dell’infanzia. L’incontro di Treviso, città che da anni si impegna per diventare una vera e propria “Città dei Bambini”, ha voluto essere l’occasione di dare risposte concrete ai bisogni di bambini e adolescenti e di supportarli nel rapporto con i genitori, dentro e fuori dal carcere.” - ha dichiarato il Presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo. Sabato 26 settembre, nella prima giornata di incontro, oltre al Professor Caffo per Telefono Azzurro, sono intervenuti i portavoce di diversi progetti nazionali. Tra gli altri: Alberto Gianello (Comunità Nuova Onlus) ed Elisabetta Rizzetto, Presidente dell’Associazione Amici di San Patrignano Treviso. Il confronto si è concentrato sul benessere dei minori e sulle possibili conseguenze legate al disagio di un rapporto difficoltoso con i genitori detenuti, come devianze e delinquenza, nonché sul piano di intervento di Telefono Azzurro che comprende la formazione dei volontari coinvolti nel progetto, anche e soprattutto alla luce della pandemia in corso. Nel corso della giornata, il Dott. Giuseppe Magno (del Consiglio Direttivo di Telefono Azzurro) ha condiviso una lettera di riconoscenza che il Dott. Claudio Marchiandi, Direttore dell’Ufficio Trattamento e Lavoro penitenziario (della Direzione Detenuti e Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dap), ha scritto al Prof. Caffo e a tutti i volontari del progetto: una testimonianza di quanto l’attività dell’associazione sia fondamentale per l’ecosistema penitenziario e per tutta la collettività. Gli interventi di domenica, invece, a cura dei gruppi di volontariato delle diverse città italiane tra le quali, oltre a Treviso, anche Firenze, Milano, Napoli, Palermo, Prato, Roma e Torino, hanno rappresentato un momento di aggiornamento e confronto sugli sviluppi concreti del progetto “Bambini e Carcere”, sulle criticità sperimentate nei mesi dell’emergenza sanitaria e sulle prospettive di ripresa a pieno regime, ampliando il discorso ai bisogni educativi, scolastici, sociali ed economici dei bambini e degli adolescenti figli di detenuti, e delle loro famiglie. Nello specifico, si è evidenziata la necessità di intervenire concretamente a supporto di chi non possegga strumenti tecnologici adeguati per il collegamento online con i parenti detenuti; oltre all’esigenza di riattivare le attività ludiche in presenza, sperimentando nuove modalità nel rispetto del distanziamento interpersonale. Alla fine del seminario si è concordato un piano progettuale per i prossimi mesi che comprende un intervento capillare declinato in: webinar formativi per sensibilizzare i giovani detenuti e la collettività sulla giustizia minorile; interventi di sensibilizzazione, laboratori e attività di mentoring sul tema dei bisogni socio-educativi dei figli dei detenuti; attività mirate al contesto scolastico (rivolte ad alunni e insegnanti) sul tema della genitorialità negli istituti penitenziari; percorsi di sensibilizzazione e formazione degli operatori penitenziari e delle forze dell’ordine sulle difficoltà socio-economiche delle famiglie dei detenuti e sulle tecniche di comunicazione alle famiglie in merito al percorso giudiziario. L’evento di Treviso ha confermato il forte impegno della città veneta nei confronti della tutela dei minori. Un coinvolgimento già dimostrato dal 1990 con il contributo fondamentale dell’amministrazione locale nella redazione del protocollo - “Carta di Treviso” appunto - che disciplina i rapporti tra informazioni e infanzia ed è frutto degli accordi tra l’Ordine dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana e Telefono Azzurro. Il prossimo 5 ottobre ricorre il 30esimo anniversario della firma della Carta di Treviso. A questo proposito, durante il dibattito è intervento Antonio Dotto, Presidente della Commissione IV-Persone e Comunità, Consigliere del Comune di Treviso, portando i ringraziamenti dell’Amministrazione comunale a Telefono Azzurro, per il supporto ai minori in difficoltà. Da 25 anni, Dotto è attento all’infanzia e alle difficoltà nel rapporto con i genitori, nonché impegnato a promuovere un utilizzo consapevole e controllato dei dispositivi tecnologici e dei social network da parte di un pubblico sempre più giovane. Giustizia, senza una riforma strutturale il Paese non riparte di Barbara Pontecorvo Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2020 Dopo anni di approfondimenti e discussioni, il tema della riforma della Giustizia non ha ancora assunto la rilevanza necessaria ad attribuirgli il carattere di urgenza che merita. Per sollecitare un più incisivo dibattito pubblico e politico, occorre una puntuale valutazione dell’impatto che una corretta amministrazione della giustizia avrebbe sulla vita dei cittadini e del Paese. Banca d’Italia ha stimato nel 2018 che le inefficienze ed i ritardi nella giustizia generino una perdita annuale pari all’1% del Pil nazionale. Questo dato già nell’anno successivo è stato stimato in misura maggiore, pari a quasi il 2% di incidenza sul Pil, con un sempre più crescente impatto sulla crescita. I dati Eurostat sulla spesa sostenuta per il funzionamento dei tribunali, indicano che l’Italia spende per i propri tribunali una cifra pari allo 0,33 per cento del Pil, con un altro effetto diretto sull’economia. Gli effetti della giustizia inefficiente non si limitano alla mancata crescita o addirittura alla decrescita, ma hanno un effetto a cascata su occupazione (che si stima potrebbe crescere del 3% all’anno), sull’erogazione del credito e sulla percezione di maggiore sicurezza da parte di imprese e privati. La lentezza dei processi e la mancata percezione della certezza della giustizia sono drammaticamente percepiti sia in Italia che all’estero, in quest’ultimo caso scoraggiando nuovi investimenti nel Paese. Una giustizia efficiente, viceversa, alimenterebbe la fiducia nei mercati e nelle relazioni economiche, garantendo maggiore equilibrio e stabilità nello sviluppo dell’economia. Per queste ragioni, la riforma della giustizia, sia in termini di adeguamento ai sistemi di altri Stati Europei, sia in termini di riduzione dei costi, è oggetto di una delle principali raccomandazioni che vengono rivolte all’Italia dall’Unione Europea ed alle quali quest’ultima subordina il finanziamento del Recovery Fund, attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che è il fulcro del Next Generation Eu. Le risorse che vengono messe a disposizione per una riforma strutturale non devono diventare, però, una nuova occasione di investimento con un aumento strutturale dei costi, ma piuttosto un mezzo per l’efficientamento del sistema e la necessaria riduzione degli sprechi. Va compreso che il cronico e patologico ricorso ai Tribunali ed il ritardo della risposta giudiziaria non possono essere analizzati solo concentrando l’attenzione sul processo e sui codici, le cui norme possono essere smontate e ricomposte infinite volte alla ricerca di una combinazione migliore, ma devono essere inserite in un contesto cognitivo più ampio. La riorganizzazione del lavoro degli uffici giudiziari, l’implementazione degli incentivi, l’elaborazione di nuovi strumenti di risoluzione extra-giudiziale delle controversie, l’elaborazione legislativa di mezzi di contrasto delle cause seriali, l’intervento sui compensi opportunistici sono solo alcuni spunti di elaborazione. D’altro canto, la crisi della pandemia da Covid 19 ha fornito degli elementi di riflessione, tanto forzosi quanto interessanti, imprimendo un’accelerazione alla rielaborazione di alcune consolidate prassi e dei modelli di organizzazione. Lo smart working, la digitalizzazione dei processi, l’istruzione stragiudiziale all’interno del processo telematico sono tra i fattori di accelerazione più incisivi. Per queste ragioni, il raggiungimento di obiettivi fondamentali per imprimere un progresso, quali, fra tutti lo smaltimento dell’arretrato giudiziale (che confina il nostro Paese fuori dagli standard dei Paesi G7 secondo la Banca Mondiale), deve essere demandato non solo al dibattito giuridico, che ha certamente il compito di valutare gli effetti del progresso stesso sui diritti fondamentali dei cittadini, primi fra tutti i diritti costituzionali, ma va inquadrato anche nel più vasto contesto dei settori dell’economia e dell’innovazione. La letteratura economica ha già da tempo chiarito il nesso tra il funzionamento del sistema giudiziario e la crescita economica nel medio-lungo periodo, chiarendo i motivi di causa ed effetto. Ma quello economico non è l’unico settore di impatto. L’innovazione, attraverso il reperimento di soluzioni efficaci e senza precedenti, è anch’esso un tema strutturale del Paese, nel quale si registrano drammatici ritardi. Se si potesse ragionare non più per compartimenti, ma facendo dialogare esperti dei diversi settori (quali appunto giustizia, economia ed innovazione), si potrebbero raggiungere risultati sostenibili nel medio e lungo termine, con benefici ad osmosi in tutti i settori. Infatti, non basta prefiggersi un obiettivo, senza valutarne l’impatto in tutti i settori strategici ai quali è legata la crescita ed ai quali è vincolata la decrescita. Trasformare uno dei principali fattori di decrescita e disinvestimento nel nostro Paese in un’occasione di ammodernamento e competitività rappresenta oggi una delle sfide più grandi. Palamara al Csm: “Mai accordi con Lotti, non sono un corrotto” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 29 settembre 2020 Il magistrato, che rischia la radiazione, non risponde alle domande dell’accusa: “le intercettazioni sono inutilizzabili”. “Non invoco pietà e di comprensione non ne ho mai avuta”. “Io non ho mai fatto accordi con l’onorevole Luca Lotti per scegliere un procuratore di Roma che lo agevolasse nella sua vicenda processuale”, si difende Luca Palamara davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, dove rischia la radiazione dall’ordine giudiziario. L’ex componente dell’organo di autogoverno dei giudici prova a sostenere che la famosa riunione notturna all’hotel Champagne dell’8 maggio 2019 nella quale lui, Lotti e l’altro deputato renziano Cosimo Ferri, insieme a cinque consiglieri del Csm (poi dimissionari) discutevano strategie e alleanze per la nomina del nuovo capo degli inquirenti romani, fu un incontro poco più che casuale. Niente trame occulte, niente summit segreti con il deputato-imputato Lotti. Il quale, secondo Palamara, quando raggiunse nottetempo quel drappello di magistrati nemmeno sapeva che si sarebbe parlato della scelta del successore di Giuseppe Pignatone, fresco di pensione. Spartizioni e mercanteggiamenti tra correnti - “Allora perché - chiede il vice-procuratore generale della Cassazione Piero Gaeta, rappresentante dell’accusa - appena arrivato Lotti si dedica al conteggio dei voti, e dice “si vira su Viola”, o “si arriva a Viola”, “com’è che quello non vota Creazzo?”, “io vi consiglio di chiudere tra il 27 e il 28 maggio”?”. Palamara non risponde, rifugiandosi dietro l’inutilizzabilità (reclamata da lui e dal collega-deputato Ferri, anch’esso sotto procedimento disciplinare) delle intercettazioni con un parlamentare: “Non avrò difficoltà a spiegare quando la Camera avrà sciolto la riserva sulla questione posta dall’onorevole Ferri”. Quindi per ora non spiega. E cerca di riportare l’attenzione - come fa da mesi, ad ogni occasione - sull’andazzo generale di spartizioni e mercanteggiamenti delle nomine che comprendevano tutte le correnti e molti altri componenti del Csm. Le conversazioni con il deputato-imputato - Cita una conversazione con un ex consigliere, sempre sul procuratore di Roma, ma un componente della disciplinare, il “laico” Emanuele Basile, lo interrompe: “Visto che all’hotel Champagne, a un certo momento, avete cominciato a parlare del nuovo procuratore, e lei sapeva che Lotti era un imputato proprio della Procura di Roma, non ha pensato che fosse opportuno fermarsi?”. Palamara torna a ripararsi dietro lo stesso muro: “Risponderò dopo la decisione della Camera sulle intercettazioni”. Poi prova ad alzare e allargare il tiro: “Lotti si trovava in una situazione simile anche quando frequentava l’attuale vicepresidente del Csm David Ermini, della cui nomina ho discusso anche con lui, e questo può avermi portato a sottovalutare il problema”. Il toto-nomine sulla Procura di Roma - Quello di Ermini è uno dei nomi che Palamara pronuncia più spesso nella sua autodifesa, insieme all’ex procuratore Pignatone (“Anche con lui ho frequentato Lotti e ho discusso della sua successione”) e altri magistrati, per dimostrare che lui era amico di tutti, parlava con tutti, riceveva richieste da tutti; e che sulla Procura di Roma c’era un continuo totonomine. Con l’accusa questo c’entra poco, e Gaeta contesta le divagazioni: “Con tutta la comprensione giuridica e umana... qui non si fanno comizi né talk-show”. Palamara sbotta: “Io non invoco pietà, non faccio comizi e comprensione umana non ne ho avuta”. Le richieste dell’accusa e l’arringa difensiva - Il presidente della disciplinare, Fulvio Gigliotti, chiarisce all’incolpato che dovrebbe rispondere alle domande, per le “dichiarazioni spontanee” ci sarà un altro momento, ma lui insiste: “Io devo poter spiegare. Io per le nomine parlavo con tutti i magistrati e con i rappresentanti di tutte le correnti, ma non ho mai barattato la mia funzione, né volevo danneggiare qualche collega. Forse non ho focalizzato certi rapporti nella giusta maniera, e sull’opportunità di certe frequentazioni oggi farei valutazioni diverse, ma a passare per un traffichino o un corrotto davanti a voi non ci sto!”. La prossima settimana potrebbero già arrivare le richieste dell’accusa, l’arringa difensiva e altre eventuali dichiarazioni di Palamara. Poi la sentenza. Palamara, altro giallo: quelle anomalie sul trojan che potrebbero far crollare tutto di Errico Novi Il Dubbio, 29 settembre 2020 I giudici dovranno decidere se il trojan è stato usato, come si adombra nella relazione, in modo irregolare. Nel caso, franerebbe l’intero castello, di accuse e di punizioni purificatrici. Non ha parlato di tutto. Non delle intercettazioni, almeno nel loro dettaglio, non ha spiegato in tutti i particolari la cena all’hotel Champagne del 9 maggio 2019, il palcoscenico fatale disvelato dal trojan. Ma Luca Palamara neppure si è nascosto, nell’udienza del procedimento disciplinare al Csm dedicata proprio all’esame della sua figura di incolpato. Semplicemente, la difesa dell’ex presidente Anm ritiene improprio offrire al collegio giudicante - presieduto da Fulvio Gigliotti e segnato dalla presenza, tra gli altri giudici, di Piercamillo Davigo - informazioni su un materiale che, in teoria, potrebbe anche rivelarsi non utilizzabile. Sulla “prova regina” sia del processo a Palazzo dei Marescialli sia dell’indagine penale di Perugia, Palamara ha infatti chiesto di valutare la perizia tecnica di un proprio consulente. I giudici disciplinari hanno dato l’ok. E venerdì prossimo dovranno decidere se il trojan è stato usato, come si adombra nella relazione, in modo irregolare. Nel caso, franerebbe l’intero castello, di accuse e di punizioni purificatrici. Palamara ha comunque parlato in generale del suo rapporto con Luca Lotti, del fatto che la presenza del deputato alla cena del 9 maggio non sarebbe stata connessa alle pressioni su Palazzo dei Marescialli affinché nominasse Viola quale successore di Pignatone: “Non ho stipulato alcun accordo con Lotti per indicare a Roma un procuratore che dovesse agevolarlo nelle sue vicende processuali”, cioè nel filone consip che vede coinvolto l’ex sottosegretario. In teoria il destino del giudizio disciplinare sembrerebbe segnato, e ancora più compresso nelle tempistiche: dal 16 ottobre, il giorno della discussione finale e della sentenza è stato ieri ufficialmente anticipato a giovedì 8. Vuol dire che in 10 giorni la magistratura completerà probabilmente l’esecuzione capitale nei confronti del predestinato. Il calendario è ora più puntuale. Eppure si dovrà prima fare i conti con l’iniziativa assunta dal consigliere di Cassazione che assiste l’ex capo dell’Anm, Stefano Giaime Guzzi: ha ottenuto che fosse messa agli atti la perizia di parte. È stata accolta anche una richiesta della Procura generale, rappresentata dall’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta: prima di valutare le ombre avanzate dalla perizia, dovrà riascoltare il direttore della società, Rcs, che ha materialmente effettuato le captazioni. Secondo Guizzi, le analisi condotte dal perito della difesa fanno emergere incertezze sulla regolarità del procedimento di archiviazione dei colloqui “catturati” dal trojan. Che non sarebbero confluiti direttamente nei server della Procura di Perugia, come impone la legge. Aspetto non irrilevante riguardo la riservatezza della fatale indagine perugina. Quelle captazioni erano sì legittimamente autorizzate dal gip umbro, ma il Tribunale ancora non si è pronunciato, con l’eventuale rinvio a giudizio, sulla consistenza dell’accusa che fa da presupposto a quell’autorizzazione, i reati corruttivi ipotizzati dai pm di Perugia (che nulla c’entrano con la nomina alla Procura di Roma). Qualora l’ex capo Anm fosse prosciolto dal gup, non decadrebbe, certo, la legittimità delle intercettazioni. Eppure resterebbe più un’ombra relativa al fatto che le sole conseguenze processuali dei colloqui tra Palamara e decine di colleghi finirebbero per consistere nell’incolpazione disciplinare al Csm. È evidente come proprio tale paradosso renda cruciale l’accertamento sulle garanzie di riservatezza assicurate durante l’acquisizione, da parte del Gico, delle conversazioni scoperte col virus spia. Sono aspetti delicatissimi. Sui quali la sezione disciplinare del Csm scioglierà la riserva presto. Sentito mercoledì il dirigente della Rcs, l’ingegnere Duilio Bianchi, deciderà appunto venerdì se le intercettazioni avevano seguito un percorso regolare, cioè sicuro: dal cellulare di Palamara direttamente, come da articolo 268 del codice di rito, al server della Procura. Poi si arriverà a giovedì 8 ottobre, in tempo per pronunciare la sentenza Palamara ben prima che, con il congedo di Davigo, ci debba interrogare sulla legittima presenza nel collegio da parte dell’ex pm di Mani pulite. Anche se quel tarlo sul senso delle intercettazioni minacciato da un non impossibile proscioglimento a Perugia, avrebbe forse dovuto indurre il Csm a sospendere il processo disciplinare fino alla decisione del gup. Chissà che la fretta non si spieghi anche con tale, possibile corto circuito. Al di là di quanto sia fondata la contestazione che potrebbe costare a Palamara l’addio alla toga (è già sospeso da funzioni e stipendio, da un anno ormai) resta il vero enigma dell’intera vicenda: se l’ex capo Anm non fosse responsabile, penalmente, dei reati di corruzione che erano i soli a poter giustificare l’installazione del trojan sul suo cellulare, è davvero accettabile far pagare solo (o quasi) a lui gli scambi di favori sulle nomine, le pressioni e le strategie tra Csm e capicorrente, che senza quel trojan, forse “immotivato”, sarebbero rimaste, nella percezione comune, come abitudine diffusa nell’intero ordine giudiziario? Buone notizie per i magistrati, hanno legalizzato le autopromozioni: ora sono tutti autoassolti di Guido Salvini Il Dubbio, 29 settembre 2020 Finalmente una buona notizia. La Procura Generale presso la Corte di Cassazione, che è titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati, ha “depenalizzato” con una sua direttiva le raccomandazioni ed il traffico di influenze all’interno della magistratura. Non saranno punibili le autopromozioni e la ricerca dei vantaggi contattando Consiglieri del Csm o esponenti dell’Associazione Nazionale Magistrati quando si concorra per un posto purché non si denigrino gli altri candidati e non si promettano vantaggi elettorali. In pratica comportamenti che, se commessi da un politico o da un amministratore per un concorso pubblico o un appalto, spesso non portano neanche ad un procedimento disciplinare ma direttamente al registro degli indagati. Anch’io voglio approfittarne subito, partendo per ora dal basso. C’è il concorso per diventare uno dei responsabili del settore informatico del Tribunale, non un granché ma qualcosa che serve per iniziare un cursus honorum che promette incarichi più prestigiosi. Anche se di informatica capisco poco telefonerò o cercherò di incontrare un autorevole esponente di corrente a Milano affinché influisca in mio favore sulla Commissione. Gli farò capire che ho votato e voterò sempre, questo è implicito, per la sua corrente e i suoi amici e che comunque resterò a disposizione. Per quanto riguarda gli altri candidati non li denigrerò, gli ricorderò solamente che non sono dei nostri. Di quello che starò facendo non avrò niente di cui preoccuparmi perché sarà deontologicamente del tutto lecito. Un primo passo, poi si vedrà. Magari, dandomi un po’ da fare, diventerò Presidente di qualche Tribunale. Ovviamente questo è uno scenario ironico e un po’ provocatorio come la famosa proposta di Jonathan Swift di nutrirsi dei bambini poveri per ridurre il problema della povertà. Nella sostanza i vertici della magistratura sembrano cercare una strada per autoassolvere la categoria nel suo complesso ed evitare che troppo marcio venga a galla. Anche senza attribuire alla direttiva intenzioni maligne, gli sviluppi più probabili sembrano questi. Giudicare in fretta Palamara e mandarlo da solo al rogo entro il 20 ottobre sfruttando una coincidenza fortunata, l’impuntatura di Piercamillo Davigo - che a quella data avrà raggiunto il limite dei 70 anni - a restare al Csm e alla Sezione disciplinare. Con questa giustificazione, finire subito per disinnescare il problema Davigo, si spiega meglio il “taglio” di quasi tutti i testimoni richiesti dall’incolpato, tra cui alti magistrati e politici. Sarebbe stato del resto imbarazzante chiedere loro di spiegare pubblicamente gli assidui contatti con Palamara per ottenere favori per sé o per altri e per “combinare” le decisioni del Csm sugli incarichi e sarebbe stato difficile a quel punto continuare a sostenere che l’albero della magistratura è sano se ha centinaia di mele marce. È vero che il procedimento disciplinare in corso nei confronti di Palamara riguarda solo la notte dell’Hotel Champagne e quindi potrebbe concludersi con pochi testimoni Ma questo deriva dal fatto che non è mai stata formulata un’incolpazione generale sui traffici correntizi, a quanto sembra in larga parte “depenalizzati”, che avevano come collante Palamara e che portavano a nomine decise, questo è il punto, al di fuori delle Commissioni di concorso, sulla base dei rapporti di forza e dei reciproci favori. Un procedimento disciplinare ad ampio raggio in cui sarebbe stato inevitabile far venire alla luce tutto con centinaia di testimoni, con il rischio anche di chiamare in causa qualcuno dei Consiglieri che sedevano o anche siedono all’attuale Csm o quelli delle consiliature precedenti. Un processo che però non ci sarà mai perché Palamara con ogni probabilità fra pochi giorni sarà espulso dalla magistratura e uscirà dall’ordine giudiziario con il sollievo di tutti. Questa è la volontà di far pulizia che è mancata. Tutti coloro che compaiano nelle intercettazioni di Palamara quindi non saranno chiamati a testimoniare e molto probabilmente, visto il messaggio della Procura Generale, nei loro confronti non sarà nemmeno iniziata l’azione disciplinare, o vi saranno processi a singoli frammenti di questa vicenda che non interesseranno più a nessuno. Con la probabile conseguenza che grazie all’impunità i favori e i traffici continueranno appena con un po’ più di cautela rispetto a prima. Quindi Palamara con pochissimi altri resterà il reprobo colpevole di tutto, un singolo travolto dalla sua personale hybris, quasi un delirio, che lo ha portato a vivere - non c’è in realtà molto da invidiarlo- tutto il giorno al telefono cellulare ad ascoltare e rassicurare i suoi clientes. In realtà non è affatto così o solo così perché l’ex presidente dell’Anm non ha inventato nulla, ma ha utilizzato, magari migliorandolo con la sua efficienza, un sistema collaudato da molto tempo e che aveva centinaia di corresponsabili e di beneficiari nella magistratura, in basso e in alto, soprattutto Procuratori o aspiranti tali anche prestigiosi. Un sistema che tutti conoscevano sin dai primi passi in magistratura. Quanto alla riforma del Csm probabilmente, travolta dalle mille emergenze della politica italiana, finirà presto, anche grazie alla via di uscita che ho descritto, nel dimenticatoio, riposta anche per questa legislatura nell’armadio delle scope. Sembra proprio che finirà così. Lo sapevamo tutti. *Magistrato “Giletti & C. usano il dolore delle vittime” di Angela Stella Il Riformista, 29 settembre 2020 Intervista a Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane. “Giletti era rimasto male per un articolo pubblicato dal Riformista e mi ha invitato lo stesso. Lo ho apprezzato. Nella cultura giustizialista si fa un uso strumentale del dolore delle vittime”. Avvocato Caiazza, durante la puntata di domenica di “Non è l’Arena” appena lei ha citato il codice penale e la Costituzione per spiegare perché anche per i condannati per mafia è possibile accedere alla detenzione domiciliare per motivi di salute Massimo Giletti ha sbottato: “Mi sono rotto le balle di giocare con i numeri, con i dati e con gli articoli. Vedere i mafiosi a casa mi dà lo schifo”... Intanto ci tengo a dire una cosa: Giletti ha detto con molta lealtà che era rimasto molto male per il mio articolo sul vostro giornale. Nonostante ciò ha scelto di invitarmi nella sua trasmissione. Ed io ho apprezzato questo suo gesto. Detto questo, è evidente che la trasmissione è stata impostata su un piano emotivo e suggestivo, quindi indifferente agli argomenti che ho pacatamente cercato di proporre. Si sta facendo una campagna su un certo numero di provvedimenti dei tribunali di Sorveglianza che pochissimo hanno a che fare con l’emergenza covid e con la circolare del Ministro Bonafede. Però poi alla fine parliamo sempre di quei due o tre detenuti che erano al 41bis. Anche per loro vale il diritto alla salute... Il diritto alla sospensione della pena in caso di gravi condizioni di salute vale per tutti, anche per i detenuti per fatti di mafia; è chiaro che se a queste argomentazioni si contrappone il ricordo di Carlo Alberto dalla Chiesa, la storia degli attentati a Rino Germanà, e l’intervista a Di Matteo che racconta la sua vita sotto scorta si sceglie di non confrontarsi con gli argomenti razionali e giuridici. Qualche anno fa il professor Daniele Giglioli in “Critica della vittima” ha scritto: “La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. È tempo però di superare questo paradigma paralizzante, e ridisegnare i tracciati di una prassi, di un’azione del soggetto nel mondo: in credito di futuro, non di passato”. È d’accordo nel dire che politica e stampa spesso strumentalizzano le vittime e il loro dolore per chiedere sempre più carcere e pene più severe? Sicuramente questo è un problema cruciale che nasce da un equivoco di fondo: il reclamare il rispetto di principi costituzionali basilari umanità della pena, diritto alla salute senza distinzione rispetto alla gravità dei reati - viene inteso e rappresentato come una forma di distanza dal dolore delle vittime di quei reati. Questo è quanto di più ingiusto, gratuito e per certi versi violento si possa fare nei confronti di chi ha una cultura liberale del diritto e della garanzie. Il richiamo alle regole non ha nulla a che fare con il giudizio sociale sul crimine e sulle vittime del crimine. Giletti l’ha accusata di attaccare i giornalisti indipendenti come lui. La stessa cosa ha fatto Nino di Matteo qualche giorno fa quando ha detto che l’avvocatura ha attaccato i magistrati liberi... In questa cultura populista e giustizialista, che fa un uso strumentale del dolore delle vittime, l’avvocato diviene un fiancheggiatore dei suoi assistiti. E infatti ad un certo punto Giletti le ha detto: “Noi siamo persone oneste”. Lei ha risposto: “Anche gli avvocati”... Esatto, in quella esclamazione sincera e convinta di Giletti la categoria che rappresento viene percepita come estranea al mondo delle persone perbene. Secondo lui abbiamo una morale borderline perché c’è un equivoco clamoroso, grossolano per cui veniamo sovrapposti ai nostri assistiti. Le Sezioni Unite e lo spazio minimo per i detenuti di Italo Grillo ivl24.it, 29 settembre 2020 Prima dell’estate la Quarta Sezione della Cassazione Penale, con Ordinanza dell’11 maggio 2020 n.ro 14260, rimetteva alle Sezioni Unite alcune questioni di diritto in materia di criteri di computo dello “spazio minimo disponibile” per ciascun detenuto. Nel dettaglio, la sezione semplice chiedeva alle Sezioni Unite di decidere: a) se i criteri di computo dello “spazio minimo disponibile” per ciascun detenuto - fissato in tre metri quadrati dalla Corte Edu e dagli orientamenti costanti della giurisprudenza della Corte di legittimità - debbano essere definiti considerando la superficie netta della stanza e detraendo, pertanto, lo spazio occupato da mobili e strutture tendenzialmente fisse ovvero includendo gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita; b) se assuma rilievo, in particolare, lo spazio occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura di letto “a castello” o di letto “singolo” ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello e non quello singolo; c) se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo (tre metri quadrati), secondo il corretto criterio di calcolo, al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della Cedu nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte Edu (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati. Anche sulla scorta della giurisprudenza Cedu in materia, appare evidente che la modalità di calcolo della superficie a disposizione del detenuto è una questione di fondamentale importanza. Includere o meno lo spazio occupato dai servizi igienici, dagli armadi e dal letto può determinare un diverso tipo di presunzione di violazione dell’art. 3 Cedu. Notevolissime, peraltro, sono anche le conseguenze in relazione alle richieste dei risarcimenti all’autorità statale. Infine, rilevantissime sono pure le ricadute pratiche in materia di edilizia carceraria. Nei giorni scorsi, l’Informazione provvisoria n.ro 17/2020 dalle Sezioni Unite della Cassazione ci ha indicato l’esito del giudizio: in tema di conformità delle condizioni di detenzione all’art. 3 Cedu, nello spazio minimo disponibile di 3 metri quadri per ogni detenuto si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento. Le SS.UU. insomma statuiscono che gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui anche i letti a castello, devono essere detratti. Considerato che le norme interne italiane non offrono chiarezza in materia e che nessun parametro per calcolare la superficie delle celle è previsto dalla legge n.ro 354/1975 sull’Ordinamento Penitenziario e dagli articoli 6-8 del regolamento di attuazione (D.P.R. n.ro 230 del 30 giugno 2000), questa sentenza delle Sezioni Unite potrebbe davvero segnare un punto fermo sulla questione. Restiamo, comunque, in attesa di leggere le motivazioni per capire fino in fondo l’effettiva portata della pronuncia. Sì alla ricusazione del giudice se anticipa la sua convinzione sul reato contestato dalla parte civile di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 28 settembre 2020 n. 26974. Via libera alla ricusazione della presidente del collegio del tribunale che esprime indebitamente le sue valutazioni su una prova testimoniale, anticipando così la sua valutazione. La Corte di cassazione, con la sentenza 26974, accoglie il ricorso della parte civile, presunta vittima di una truffa. Un procedimento finito all’attenzione della presidente del collegio della quale chiedeva una ricusazione esclusa dalla corte d’appello. Ad avviso dei giudici territoriali, infatti, la toga si era sì lasciata andare ad espressioni enfatizzate, ma che non potevano essere considerate tali far scattare la ricusazione. In particolare la giudice, di un collegio composto da ex colleghi di sezione, si era espressa sul capo di imputazione con il quale si ipotizzava l’occultamento dell’importo effettivo dei premi assicurativi. Cifre effettivamente indicate nel contratto, ma in misura non rispondente a quelle effettivamente richieste. La giudice, ascoltando un teste della difesa, si era lasciata andare alla considerazione che non c’era “nulla di stupefacente tutto si sapeva dal primo giorno” spiegando, su sollecitazione della difesa, che “le coperture assicurative avevano quel costo scritto chiaro”. In più aveva aggiunto che “il bel signor…” ovvero il dante causa della parte civile, aveva illustrato una serie di vantaggi a quest’ultima che evidentemente c’erano. Per la Cassazione basta a dimostrare che il magistrato è andato oltre il limite consentito. La Suprema corte ricorda infatti che il carattere indebito della manifestazione del convincimento del giudice, su fatti oggetto di imputazione, c’è quando l’esternazione viene espressa senza alcuna necessità e al di fuori di ogni collegamento con le funzioni esercitate nella specifica fase procedimentale. Ad avviso dei giudici di legittimità le espressioni nel caso esaminato, implicano una valutazione della infondatezza dell’accusa indicata nella contestazione e “palesano un anticipato convincimento circa la portata delle clausole contrattuali controverse e, quindi, un’impropria manifestazione di giudizio sulla consistenza dell’addebito”. Evita l’omicidio il naturopata che “cura” il cancro con la dieta di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 settembre 2020 Corte di cassazione - Sentenza 28 settembre 2020 n. 26951. L’ignoranza del naturopata in materia medica lo salva in corner dalla condanna per omicidio volontario per aver curato con fanghi e diete una donna malata di cancro. È scattato infatti il diverso e molto meno grave reato di aver cagionato la “morte come conseguenza di altro delitto” - l’esercizio abusivo della professione -, per un uomo che “proprio in ragione dell’orientamento culturale seguito” non si sarebbe accorto della gravità della situazione, ritenendo “la naturopatia alternativa alla medicina”. La Prima Sezione penale, sentenza n. 26951 depositato il 28 settembre, ha così respinto il ricorso della Procura generale della Corte di Appello che insisteva invece sul carattere notorio della gravità e della letalità del cancro. Le sentenze di merito, ricorda la decisione, hanno riconosciuto che l’imputato era consapevole della diagnosi oncologica, ed anche dell’aumento delle dimensioni del tumore, “ma hanno valutato che l’assenza di competenze mediche impedisse al soggetto di essere consapevole, al di là della generica cognizione della gravità di qualsiasi diagnosi oncologica, del fatto che nel caso specifico l’accesso alle terapie indicate dalla scienza medica fosse necessario e indifferibile”. D’altra parte, argomentano i giudici, “è incontestato il dato della assoluta ignoranza nella scienza medica da parte dell’imputato, come il fatto che medesimo esercitasse la naturopatia non tanto come supporto complementare alla medicina, bensì come scienza alternativa alla medicina”. Così, venendo all’elemento soggettivo del reato, per la Corte è stato correttamente escluso che il naturopata “avesse previsto la prossima morte della donna proprio in ragione dell’orientamento culturale seguito”. “Tale dato è pacifico e costituisce, da una parte, riscontro dell’assenza di dolo omicidiario e, dall’altra, la colpa dell’imputato”. Bologna. Detenuto si suicida, allarme del Garante Antonio Ianniello Corriere di Bologna, 29 settembre 2020 Aveva 40 anni ed era in attesa di giudizio per furto e resistenza a pubblico ufficiale il detenuto albanese che si è tolto la vita alla Dozza nella notte tra sabato e domenica. L’uomo si è impiccato mentre il compagno in cella con lui al piano giudiziario dormiva e non si è accorto di niente. In carcere da qualche mese, nelle ultime ore aveva chiesto e ottenuto di parlare con la famiglia. Per il garante bolognese dei detenuti, Antonio Ianniello resta “l’urgenza” di “rendere più incisiva l’attuazione del piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere”. Comunicato del Garante Nel corso dell’anno 2019 si sono consumati due suicidi di persone detenute presso il carcere di Bologna e nel primo weekend dell’autunno di questo anno giunge ancora una volta la tragica notizia di un altro suicidio riguardante un uomo straniero che si trovava da alcuni mesi in custodia cautelare, alloggiato in una cella condivisa. Oggi come allora risulta sempre all’ordine del giorno l’urgenza di elaborare strategie che possano rendere più incisiva l’attuazione del Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, le cui indicazioni devono essere tradotte nei protocolli operativi locali, tra il singolo Istituto Penitenziario e la competente Azienda Sanitaria, costituendo il piano locale di prevenzione. Complesso è lo sforzo dei vari operatori in un contesto detentivo nel quale è ridotta la sostenibilità dei numeri relativi alle presenze in carcere, risultando spesso la coperta troppo corta. Il Piano nazionale - si legge - offre spunti essenziali che mettono al centro la formazione degli operatori locali, in particolare quelli a più diretto contatto con la quotidianità detentiva in un quadro di condivisione del complesso degli interventi fra area penitenziaria e area sanitaria, e pone anche l’accento sul potenziale ausilio che può giungere dalle stesse persone detenute, adeguatamente formate a offrire vicinanza e supporto sociale ai soggetti a rischio con l’obiettivo di tentare di costruire interventi concreti per presidiare le (non poche) situazioni che possono essere potenzialmente stressanti in un contesto di privazione della libertà personale. In questo senso - continua il comunicato stampa - pare particolarmente interessante il progetto - di cui si è appreso recentemente - avviato dall’Azienda Usl di Modena: il progetto Peer supports coinvolge 13 persone detenute selezionate e ritenute in grado di poter assicurare una funzione di sostegno per le altre persone a rischio, avendo il compito di allertare i medici e gli operatori penitenziari quando sorgano situazioni di allarme circa lo stato emotivo-psicologico della persona. Se la sperimentazione modenese risultasse efficace, sarebbe auspicabile, ricorrendone i presupposti, valutare l’opportunità di esportare il progetto anche nel territorio bolognese”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Pestaggi e torture nelle celle: il ministro sapeva di Piero Sansonetti Il Riformista, 29 settembre 2020 Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il 6 aprile scorso, è successo il finimondo. Una squadra di circa 300 guardie è entrata nella prigione, ha invaso le celle, ha picchiato selvaggiamente, torturato e umiliato centinaia di detenuti. Perché? Per vendetta, dopo le rivolte nelle carceri di marzo. Il Domani ha pubblicato un articolo di Nello Trocchia nel quale un testimone oculare parla e racconta di come esista un video in mano agli inquirenti che documenta l’orrore e il punto altissimo di illegalità raggiunto. La Procura sta indagando. Benissimo. Però noi dobbiamo porre una domanda. L’associazione Antigone - anche con articoli pubblicati sul Riformista - aveva denunciato in marzo il clima che si era creato nelle carceri. Aveva detto di avere ricevuto molte segnalazioni di pestaggi da parte delle guardie. Il ministro, dunque, sapeva cosa stava covando. Perché non ha fatto accertamenti? Perché non ha verificato? Perché non è intervenuto e ha lasciato che la situazione degenerasse del tutto fino ad arrivare all’orrore di Santa Maria Capua Vetere? Non so se le forze politiche e i gruppi parlamentari avranno la forza e l’ardore per porre questa questione in Parlamento. Mettersi a difesa dei prigionieri non porta mai voti. Lo sa bene Salvini, che in giugno, quando il Riformista pubblicò le prime notizie sul pestaggio, commentò schierandosi nettamente dalla parte dei picchiatori. Intanto sulle carceri c’è un’altra novità. La Cassazione ha stabilito che lo spazio vitale minimo per ogni detenuto deve essere di 3 metri quadrati, esclusi i letti. Prima era di 3 metri, compresi i letti. Quindi ha di fatto raddoppiato lo spazio. Che ora, finalmente, è appena la metà di quello che la legge riserva ai maiali, che invece hanno diritto a sei metri quadrati, secondo le direttive europee. La Corte di Cassazione ha stabilito qual è lo spazio minimo del quale deve disporre, nella cella, un detenuto. Tre metri quadrati. Letti esclusi. Ci sono migliaia di detenuti che vivono, oggi, in uno spazio molto più piccolo di quello deciso dalla Cassazione. Già questo è un trattamento contrario ai principi di umanità, e dunque contrario alla Costituzione, e dunque illegale. Ma in fondo è piccola cosa se messo a confronto con quello che è successo in alcune carceri italiane - non sappiamo ancora quante e quali - nel mese di aprile. È successo che centinaia o forse migliaia di guardie hanno picchiato a sangue i detenuti. In un clima da Argentina di Videla. Noi avevamo denunciato in giugno quel che era successo a Santa Maria Capua Vetere il 7 aprile, e prima ancora, in marzo, avevamo denunciato quel che stava succedendo in altre carceri. Ci fondavamo sulle denunce raccolte dall’associazione Antigone. Enzo Scandurra ha scritto il primo pezzo sul Riformista del 21 marzo. Quindi due settimane prima della spedizione punitiva nella prigione di S.M. Capua Vetere. Perché in quelle due settimane nessuno è intervenuto, ha indagato, ha accertato cosa stesse succedendo, ha impedito che la situazione degenerasse? Qualcuno chi? Le autorità, il Dap, magari il ministro. Ieri la questione è stata ripresa dal Domani - il nuovo quotidiano di De Benedetti diretto da Stefano Feltri - con un articolo molto informato di Nello Trocchia che ha parlato con uno dei testimoni del pestaggio del 7 aprile. Il testimone è un detenuto che ora è uscito dal carcere e che non solo ha parlato di quello a cui aveva assistito direttamente, ma anche di quello che è stato ripreso dalle telecamere, e cioè di un filmato che ora è nelle mani della Procura e che dimostra che le denunce non erano affatto inventate. Il Domani racconta dell’arrivo di circa 300 guardie, col volto coperto, e dell’irruzione nelle celle, e poi dei detenuti fatti spogliare, e poi picchiati a sangue, e poi fatti uscire nudi nel corridoio e fatti correre in mezzo a due file di guardie che li colpivano ancora coi pugni, i calci, le manganellate. Vedremo cosa uscirà dall’inchiesta della magistratura. Per ora ci sono una cinquantina di indagati per tortura. Intanto cerchiamo di ricostruire la cronologia degli avvenimenti. L’8 marzo in diverse carceri italiani scoppia la rivolta. I detenuti protestano per le condizioni della prigionia, per lo stato di isolamento nel quale si trovano anche a causa del Covid che ha provocato la fine delle visite di parenti e l’interruzione di ogni comunicazione con l’esterno. La rivolta è molto dura, la polizia interviene, centinaia di detenuti vengono trasferiti coi cellulari, 14 di loro muoiono, in gran parte per l’uso esagerato dei farmaci raccolti nelle infermerie saccheggiate. 14 morti sono un numero enorme. Forse senza precedenti nel dopoguerra. Il ministro va in Parlamento e trascina via un discorsetto burocratico nel quale non spiega niente e sembra non cogliere la gravità di quel che è successo. Anche i gruppi parlamentari non appaiono molto colpiti da questa strage. In fondo - pensano - erano solo detenuti. I detenuti, oltretutto, sono in genere considerati colpevoli dalla gente perbene. Anche se la metà delle vittime - chissà se è lecito usare la parola vittima per un detenuto - erano in attesa di giudizio e dunque, forse, innocenti. L’unico gruppo parlamentare che protesta un po’ è quello di Renzi. Neppure Renzi, però, osa chiedere la rimozione del ministro, perché la rimozione del ministro potrebbe provocare la caduta del governo. Quindi chiede solo la cacciata del capo del Dap. Il quale, effettivamente, dopo qualche settimana sarà cacciato: però non sarà cacciato per la sua responsabilità nella morte di 14 persone, ma perché non ha impedito la scarcerazione, da parte dei tribunali di sorveglianza, di alcuni detenuti in cattive condizioni di salute o molto vicini alla fine della pena. Da quel che si può capire, dopo la rivolta qualcuno decise che i detenuti andavano puniti. Bisognava dargli una lezione. E, secondo le denunce raccolte da Antigone, iniziano i pestaggi in diverse carceri. Nessuno si muove per accertare se è vero. Il ministero, al solito, dorme. Nessuno prende misure perché i pestaggi non si ripetano. E così, nonostante gli allarmi lanciati, il 7 aprile si arriva all’episodio terribile di Santa Maria Capua Vetere. È probabile che a spingere le guardie a questa azione dissennata sia stato anche il clima che si era creato nell’opinione pubblica. La caccia al carcerato, l’ideologia della chiave delle celle da buttar via, l’auspicio che i prigionieri possano marcire e morire in cella. E di questo la responsabilità non è solo della politica e del governo. Ma non ci si può fare niente: non è che puoi vietare ai giornali e alle tv di correre tutti appresso a Marco Travaglio e di provare a superarlo in amor di forca. La libertà di stampa ha tanti effetti collaterali, ma se non ci fosse sarebbe una tragedia superiore. La politica invece deve rispettare certi limiti. Anche la politica populista. E non lo fa mai. Qualcuno adesso chiederà a Bonafede che provvedimenti intende prendere? Se darà retta ai filmati o preferirà allinearsi a Salvini che dopo le notizie sul pestaggio si era schierato al fianco dei picchiatori e contro la Procura che aveva aperto un’indagine? Ma ora Bonafede dovrà rispondere anche su un’altra questione. E cioè lo spazio in cella per i detenuti del quale accennavamo all’inizio di questo articolo. È stato lui a porre il quesito alla Corte di Cassazione per sapere se i tre metri quadrati ritenuti lo spazio minimo per ogni detenuto (per ogni essere umano) dovessero essere considerati metri quadrati “liberi” e cioè interamente a disposizione del detenuto, o invece spazi occupati anche dai letti e dai mobili. La differenza è notevole, perché se pensate che comunque una branda occupa circa un metro quadrato e mezzo, e poi ci mettete il cucinino e l’armadietto, capite che i tre metri diventano un metro. E su questa idea del metro quadrato si basava il ministero per sostenere che il sovraffollamento non era fuorilegge. Ora questa idea cade, almeno in parte, perché la Cassazione ha stabilito che almeno il letto non può essere conteggiato nei tre metri. E Bonafede dovrà provvedere. E l’unico modo per provvedere è bloccare l’uso selvaggio delle carcerazioni preventive (riducendole al minimo e cioè facendole rientrare nell’ambito della legge) e una misura di clemenza (amnistia e indulto) o almeno la scarcerazione delle migliaia di detenuti che devono scontare meno di un anno di galera. Sulla questione dei tre metri quadri come spazio minimo vitale - per concludere - trascrivo qui un post su Facebook dell’avvocata Maria Brucale che ho trovato particolarmente acuto: Direttiva n. 2008/120/CE del consiglio del 18 dicembre 2008: “Il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 metri quadri. Qualora i recinti siano utilizzati per l’accoppiamento, il verro adulto deve disporre di una superficie al suolo di 10 metri quadri e il recinto deve essere libero da ostacoli”. Il detenuto adulto può disporre di ben tre metri quadri e senza gli arredi saldamente fissi al suolo! E non può accoppiarsi. La sessualità del verro è un diritto, quella del detenuto no. Si potrebbe obiettare che dal verro verrà un maialetto che poi sarà porchetta, lardo, prosciutto, mortadella ecc. ecc. E, insomma, eccolo l’interesse sociale. Da un uomo trattato come uomo, cosa possiamo ricavare? Magari che se è entrato uomo non esca verro. O che se è entrato verro non esca cinghiale. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Picchiato detenuto disabile, nuove rivelazioni sulle violenze di Nello Trocchia Il Domani, 29 settembre 2020 Nella spedizione punitiva degli agenti penitenziari a Santa Maria Capua Vetere è stato preso a manganellate anche un detenuto in carrozzina. Un testimone: “Ho visto il video degli abusi”. “Ricordo che c’era anche un detenuto sulla sedia a rotelle. Anziano e diabetico. Hanno colpito con il manganello anche lui. Di questa violenza c’è il video, l’ho visto”. A parlare è l’ex detenuto che, insieme ad altre decine di persone, ha presentato denuncia per i fatti avvenuti, il 6 aprile, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il testimone, uscito dal carcere, racconta quanto accaduto e i video che ha visto durante l’interrogatorio al quale è stato sottoposto. Il 6 aprile scorso, un contingente di trecento agenti della polizia penitenziaria, provenienti da altri istituti di pena, è entrato nell’istituto e ha picchiato i detenuti. “Le guardie manganellavano quel disabile e gli urlavano: “ti mettiamo il pesce in bocca, non conti nu cazzo qua dentro e neanche fuori”. Il detenuto in sedia a rotelle, legato a un clan perdente della camorra, è stato colpito sulle braccia nonostante la disabilità. Il pestaggio è documentato anche da un video agli atti dell’indagine. Ci sono anche immagini di reclusi inginocchiati, trascinati, picchiati da quattro, cinque poliziotti. Il testimone ha ricostruito anche la catena di comando e chi c’era quel giorno. Un detenuto morto L’ex detenuto, quando è stato ascoltato dai magistrati della Procura di Santa Maria Capua Vetere, ha visto un album fotografico per riconoscere gli agenti presenti. “Molti erano coperti dal casco, ma uno di quelli che mi ha picchiato l’ho riconosciuto perché aveva gli occhi chiari, era esagitato e ci sfidava, è quello che ha colpito lo zio, così chiamavano il disabile”. Uno degli agenti aveva i guanti rossi, l’hanno ribattezzato “l’animale”: “Picchiava forte, era incontrollabile”, dice il testimone. Molti avevano i volti coperti, tranne gli agenti interni. Il testimone ha riconosciuto, per esempio, la commissaria di reparto. “Guardava mentre ci massacravano, ma non interveniva, un ragazzo detenuto di vent’anni mi ha detto “poteva essere mia madre, ma non ha mosso un dito”. Gli interni erano presenti, ma assenti: “Alcuni ci dicevano “questi sono i fanatici, abbassate la testa e incassate”. Emergono così altri particolari inquietanti su quella giornata. C’è il caso di un detenuto che viene pestato e, successivamente, messo in isolamento. Era già malato, è morto a inizio maggio, un mese dopo la galleria degli orrori. Quella perquisizione straordinaria era finalizzata anche alla ricerca di oggetti contundenti, presumibilmente usati nelle proteste dei giorni precedenti. E qui si apre un altro capitolo dell’inchiesta, quello cioè relativo a un possibile depistaggio delle indagini subito dopo i fatti. Quel 6 aprile, come emerso da alcune ricostruzioni a difesa degli agenti, sarebbero stati trovati anche bastoni. “Non è vero”, racconta il testimone, “noi non avevamo niente, abbiamo solo subito, sono le classiche “pezze d’appoggio” per giustificare gli abusi, ad alcuni detenuti hanno tagliato le barbe, il massimo dell’umiliazione”. Nei video, ha ricostruito il testimone, si vedono gli stessi detenuti che, il giorno prima, durante la protesta rimettono in ordine le sedie. Nessuna traccia di bastoni. C’è anche un altro episodio, relativo proprio ai video del circuito di sorveglianza, che amplia il capitolo dei possibili falsi. “Quello che ho notato quando ho visto i video è che non disponevano delle immagini di alcune videocamere, alcune erano spente”, dice il testimone. Vista la violenza dell’azione, in molti, tra gli agenti, ritenevano che quel sistema di videosorveglianza fosse spento o comunque neutralizzabile. Il sequestro di tutti i video eseguito dai carabinieri ha vanificato ogni eventuale tentativo. Quei video sono ora nelle mani dei pubblici ministeri e sono una prova determinante. Sarà la procura di Santa Maria Capua Vetere ad accertare possibili falsi e calunnie, sulla base delle decine di video, ma anche del materiale che proviene dal sequestro dei telefoni di alcuni agenti, eseguito lo scorso giugno. La catena di comando Ma chi ha ordinato quella perquisizione? “Io ho mandato gli uomini di supporto, le perquisizioni vengono disposte dai vertici dell’istituto”, spiega Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria. Il direttore del carcere, però, quel giorno non c’era, per problemi di salute. In carcere c’era il comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Manganelli, anche lui indagato, e trasferito successivamente in un altro istituto di pena, quello di Secondigliano. Fullone, che non era presente durante l’irruzione degli agenti, è indagato, ma non vuole rispondere alle domande perché “c’è un’indagine in corso”. “Comunque sono sereno, accertare la verità è un bene per tutti”, dice. Della perquisizione, precisa Fullone, è stato informato il vertice del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’epoca guidato dal magistrato Francesco Basentini, che non è coinvolto nell’indagine. “Quelli che picchiavano venivano da fuori, da altri istituti: erano coperti con mascherine, foulard, caschi”, dice il testimone. Decine di detenuti hanno riportato traumi di ogni genere, ma subito dopo il pestaggio in carcere i detenuti sono rimasti rinchiusi in cella. “Io non ho potuto chiedere la visita medica, bisognava aspettare, minimo quindici giorni. Un mio amico, al quale hanno spaccato il labbro, non ha potuto neanche denunciare perché è ancora dentro. Nei giorni successivi si è instaurato un regime di silenzio”. La sua testimonianza, come quella di un’altra cinquantina di detenuti, è agli atti dell’indagine. Un’inchiesta giudiziaria che deve appurare le responsabilità della catena di comando, eventuali depistaggi e gli autori che hanno firmato questa pagina degli orrori. Santa Maria Capua Vetere (Ce). In quel carcere è stato sospeso lo Stato di diritto: chi sa parli di Ilaria Cucchi Il Domani, 29 settembre 2020 Non ho mai smesso di chiedermi il perché di tanta violenza. Non riesco a cancellare dalla mia mente l’immagine del corpo di mio fratello Stefano, martoriato dai colpi e poi abbandonato dagli innumerevoli pubblici ufficiali che lo hanno visto durante il suo calvario, sei giorni dopo il violentissimo pestaggio. Una sospensione del diritto. Come accaduto nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere. Video e testimonianze raccolte dai magistrati ricostruiscono una violenza spietata, scientificamente coordinata. Ho assistito, durante il lockdown, chiusa in casa con i miei figli, alle immagini dei convogli militari che portano via da Bergamo le bare dei morti di Covid-19. pensato alle carceri. Alle celle sovraffollate dove vige la sospensione dei diritti umani. Mi sono chiesta cosa potessero pensare quelle persone, perché di persone si tratta, quando ascoltavano le raccomandazioni pressanti su distanziamento sociale, cautela e mascherine. Mi sono chiesta se qualcuno avesse a cuore la sorte di quei detenuti. La loro paura e la profonda frustrazione che dovevano provare nell’ascoltare quei drammatici appelli a cui loro, per destino e pena, dovevano rimanere estranei. A Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile è accaduto qualcosa di spaventoso. Sono arrivati in trecento, da altri istituti, in tenuta anti sommossa, coperti dai caschi, anonimi. Hanno picchiato, picchiato e ancora picchiato. Calci, schiaffi, insulti e altre violenze. Non hanno risparmiato nemmeno un detenuto sulla sedia a rotelle. “Avete fatto la protesta?” dicevano. La mente corre alla “macelleria messicana” di Genova della scuola Diaz, nel luglio del 2001 durante le proteste per il G8. Erano in trecento, a Santa Maria Capua Vetere. Giovani e forti ma tutt’altro che nobili e valorosi. A tutto ciò hanno assistito, in silenzio, forse impotenti, i loro colleghi di servizio in quel carcere. Mi rifiuto di pensare che si tratti soltanto di mele marce. Chi avrà la tentazione di parlare di questo mancherà di rispetto all’intelligenza di tutti noi cittadini. Sarebbe un’intollerabile ipocrisia cui preferirei le violente e strampalate difese di politici privi di scrupoli e umanità. Ma non voglio nemmeno sentire parlare di violenza di Stato. Vi prego non fatelo perché questo non è lo Stato. Non lo può essere. Questo è anti stato. Questo è crimine efferato commesso verso persone indifese. Qualcuno si affretterà a dire che, in fin dei conti, si tratta di delinquenti: lo considero inaccettabile perché, nella migliore delle ipotesi, sono uomini e donne che hanno sbagliato, che magari hanno anche commesso gravi errori. Il carcere, però, non può e non deve essere questo. Il carcere in uno stato di diritto ha una funzione sociale: il reinserimento, non l’annientamento. “In galera e buttiamo via le chiavi” sento dire sempre più spesso. Tutto questo è disumano e fa paura perché appartiene a una cultura disumana. Cinica e desolatamente priva di ogni parvenza di sensibilità. Facile parlare in questo modo quando queste tragedie le si vive come se fossero un film americano fantascientifico. Quando da esse non ci si sente in alcun modo toccati. Tanto di cappello ai magistrati che stanno facendo il loro dovere con competenza e dedizione. Non sarà facile per loro, quando accadono questi fatti così terribili e inaccettabili, è più semplice negarli. Offuscarne i contorni diluendone il ricordo con anni di processi e di propaganda deviante e deviata. L’ Italia è un grande paese democratico. Un modello di diritto. Vero. Ma assecondare e negare distorsioni e crimini ne incrina le fondamenta. Pescara. A Montesilvano i detenuti colorano l’ingresso del parco cityrumors.it, 29 settembre 2020 Ieri mattina, all’ingresso principale del Parco Giovanni Paolo II tra via Sospiri e via Gramsci, si è svolta l’inaugurazione della riqualificazione muraria di “Varcobaleno”. L’iniziativa è stata promossa dai Giovani imprenditori edili di Chieti Pescara, in partnership con aziende ed enti tra cui il Comune di Montesilvano, il Tribunale di Sorveglianza, il Garante dei detenuti d’Abruzzo. Un’esplosione di colori rappresentata dalle tinte della bandiera della pace rivisitate e ricomposte a “puzzle” sulla superficie del vecchio muro d’ingresso rimasto sempre al grezzo dal 2006. Il parco è stato inaugurato durante l’amministrazione Fusilli nel 1979 e nel corso degli anni ha subito varie riqualificazioni con l’apertura di altri ingressi. “Un ringraziamento ai due detenuti volontari, che hanno eseguito i lavori, alla direzione del carcere di Pescara, al suo staff, al tribunale di sorveglianza e al garante dei detenuti regionale Gianmarco Cifaldi, molto sensibile a questo genere di iniziative, che hanno un importante ruolo sociale in città - ha spiegato il sindaco Ottavio De Martinis. Teniamo molto al decoro urbano e questo ingresso rappresenta molto per Montesilvano. Un’opera è ancora più bella se pensiamo che è stata realizzata da due detenuti e che hanno deciso di offrire un servizio riparando a degli errori commessi in passato. Speriamo sia l’inizio di un percorso da sviluppare insieme anche in altre località del territorio”. “Una iniziativa importante per tre motivi - ha affermato il prefetto Giancarlo Di Vincenzo - perché consente la riqualificazione del territorio, il reinserimento sociale dei detenuti e la partnership pubblico privati. Tre obiettivi di grande modernità e di grande interesse per il territorio”. Milano. Riapre il Cpr di via Corelli. Ira a sinistra: “è un carcere” di Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 29 settembre 2020 Inaugurato il centro: ospiterà 140 persone in attesa di rimpatrio. “Era e sarà un lager. Inutile per la città e per il Paese. Si tratta di una scelta sbagliata che poteva e doveva essere evitata”. Anita Pirovano (Milano progressista), presidente della sottocommissione carceri, annuncia l’intenzione di chiedere “al più presto” un sopralluogo. E l’eurodeputato dem Pierfrancesco Majorino sprona il governo giallorosso ad avere “più coraggio” sulle politiche in materia: “Credo che quella dei rimpatri sia una pratica indispensabile nella gestione dell’immigrazione. Il come li realizzi non è però un dettaglio da poco”. “Tra pochi giorni pare si superino i decreti Salvini” prosegue l’ex assessore al Welfare e ideatore della “Milano senza muri”: “Un bel passo avanti che purtroppo a Milano sarà sporcato da questa scelta”. Se il centrosinistra si divide, il centrodestra saluta la svolta securitaria. Per l’assessore regionale Riccardo De Corato, “è un grande giorno per la sicurezza degli italiani. Da tempo continuo a ribadire l’importanza di questo centro: in Lombardia, infatti, sono quasi 112mila gli irregolari, 51.400 solo a Milano”. Ma è Matteo Salvini a intestarsi la decisione: “Ho lavorato io per riaprire i centri dove mettere i clandestini, perché altrimenti gironzolano per l’Italia”. Roma. Il Festival della letteratura “Insieme” censura Mario Trudu, morto all’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 settembre 2020 “Sono stati proprio gli organizzatori a invitarmi a proporre un titolo da presentare nel programma ufficiale, ma poi improvvisamente hanno fatto un passo indietro con la scusa di non essere riusciti ad accogliere tutte le proposte arrivate”. Grida alla censura Marcello Baraghini, storico editore border line fondatore di Stampa Alternativa. È lui a guidare la protesta contro la decisione del festival romano della letteratura “Insieme” di escludere il libro di Mario Trudu “La mia Iliade. Un’odissea di quarant’anni a inseguire la vita” dal programma ufficiale delle presentazioni. “Insieme” è un grande festival del libro a ingresso gratuito per tutti che si terrà dall’uno al 4 ottobre, nato con l’obiettivo di restituire luoghi di incontro a tutti gli appassionati di libri e letteratura. “Come Strade Bianche di Stampa Alternativa - spiega l’editore Baraghini - saremo presenti con uno stand a questo evento, perché offre accesso gratuito ai lettori, a differenza degli storici saloni del libro”. Denuncia sempre l’editore che sono stati, poi, proprio gli organizzatori a invitarlo a proporre un titolo da presentare nel programma ufficiale. “Eppure - denuncia hanno fatto un passo indietro, quando ho scelto questo potente e provocatorio testo di Mario Trudu, pastore sardo ed ergastolano ostativo, morto mesi fa per un male senza aver avuto la possibilità di farsi curare all’esterno del carcere, dopo 40 anni di detenzione estrema. Un libro che ha suscitato interesse in molti ambienti culturali”. Un rifiuto, secondo l’editore di Stampa Alternativi, senza plausibili motivazioni, con la scusa di non essere riusciti ad accogliere tutte le proposte arrivate. “Per questo - sottolinea Baraghini - parliamo di censura politica e culturale. Hanno accolto domande giunte l’ultimo giorno utile, e, sebbene la nostra richiesta di chiarimenti, ad oggi non è arrivata risposta dagli organizzatori”. Quella di Mario Trudu che, poco prima di morire, consegna il manoscritto a Francesca de Carolis, giornalista che lo ha seguito per anni nei suoi pellegrinaggi nelle carceri, è una storia scomoda, che si intreccia con la denuncia di una carcerazione senza spiragli. “Oggi - conclude Baraghini - seppelliamo Trudu una seconda volta. L’appello ora va ai lettori che credono in una letteratura lontana dal perbenismo delle scuole di scrittura, dall’impersonale conformismo dello storytelling: veniteci a trovare per rafforzare il patto di complicità tra editore, autore e lettore, per riscrivere insieme le regole del mercato editoriale. Un dialogo che parte da una letteratura di sangue, che urla dal carcere, che resiste, pulsa e vive tra gli ultimi, i dimenticati, i reietti, i confinati, come Mario Trudu, per arrivare al futuro editoriale e culturale”. Ricordiamo che l’ultimo libro di Trudu è purtroppo postumo. La sua è una tragica vicenda raccontata anche su queste pagine de Il Dubbio. Muore dopo quaranta anni di carcerazione senza l’alito di uno spiraglio, nell’ottobre dello scorso anno. L’ultimo respiro lo ha emesso nell’ospedale di Oristano, dove era stato ricoverato quando ormai era troppo tardi, nonostante le sollecitazioni, le richieste, le denunce perché, ammalato da tempo, ricevesse le cure necessarie, e in una struttura adeguata. I “no”, le “distrazioni”, le lentezze sono stati l’ultimo accanimento nei suoi confronti. Di Mario Trudu, l’editore Marcello Baraghini si era da subito innamorato, fin da quando, ormai quasi una decina d’anni fa, la giornalista Francesca de Carolis gli aveva portato i primi manoscritti. A proposito del suo ultimo libro, come ricorda De Carolis, Trudu conosceva a memoria il poema omerico, ne aveva registrata una versione anche in lingua sarda e, potenza liberatoria dell’immaginario, lo vediamo attraversare le mura delle sue prigioni e incontrare i protagonisti di quel mondo in cui “gli eroi erano eroi veri, non erano fatti di cartone come lo sono oggi”, dove “il nemico lo dovevi affrontare mano a mano, dovevi lottare corpo a corpo, dovevi avere le palle, mentre oggi con una pistola ti può uccidere un qualsiasi vigliacco”. Incontri che, come lui stesso scrive, “mi hanno accompagnato e reso meno insopportabili i decenni passati chiuso dentro queste mura”. Un peccato questo passo indietro da parte del festival “Insieme”, perché un libro così andava presentato per far comprendere il suo valore letterario a un pubblico ignaro della violenza dell’ergastolo ostativo che può abbattersi verso quelle persone che nel frattempo sono cambiate, hanno fatto i conti con i propri sbagli e pronti per vivere nel mondo libero per contribuire addirittura a migliorarlo. Campobasso. “Scrittodicuore 2020”, il premio alla migliore lettera d’amore scritta dal carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 29 settembre 2020 All’interno della quarta edizione della manifestazione “Scritti di cuore, l’amore e le parole per raccontarlo” è stato inserito un concorso di scrittura, “Scrittodicuore”, riservato ai detenuti, organizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con il partenariato della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso nell’ambito della manifestazione “Ti racconto un libro 2020”. La cerimonia di chiusura della kermesse si terrà venerdì 2 ottobre a Campobasso, nel teatro della casa circondariale. Nel corso dell’incontro di venerdì saranno anche premiati gli autori delle più belle lettere d’amore dal carcere secondo le valutazioni delle giurie. Il concorso di scrittura era rivolto a persone detenute di tutti gli istituti penitenziari italiani. Quest’anno la partecipazione è stata molto ampia e gran parte delle lettere è stata scritta durante il periodo del lockdown. Agli scrittori Franco Arminio, Camilla Baresani e Pino Roveredo, che hanno fatto parte della giuria che ha valutato i testi sotto il profilo tecnico, è stata affiancata una giuria giovanile, composta dagli autori emergenti Salvatore Dudiez, Roberta Tanno, Elena Sulmona, Angelica Calabrese e Alessandro Taviano. Dopo la sospensione delle attività per la pandemia, si è scelto di tornare per l’evento conclusivo di “Scrittodicuore” all’interno del carcere “dove la scrittura - spiegano gli organizzatori - diventa un importante strumento di contatto indiretto con l’esterno, veicolo fiduciario di una riflessione rispetto a sé stessi e rispetto agli ‘oggetti’ d’amore”. Nel corso dell’incontro l’attrice Palma Spina leggerà brani e poesie sul tema del concorso. Oltre a Rosa La Ginestra, direttrice della casa circondariale molisana, e Brunella Santoli, direttrice artistica dell’Unione Lettori Italiani, saranno presenti Angelica Calabrese, in rappresentanza della giuria giovani, Paola Felice, vice sindaca e assessora alla Cultura del Comune di Campobasso e Luca Praitano, assessore alle Politiche per il Sociale. La necessaria ricerca del compromesso di Dacia Maraini Corriere della Sera, 29 settembre 2020 In questo Paese anarcoide la disapprovazione nei riguardi di tutto e tutti diventa una questione di identità. Non è tanto importante ciò che si disapprova ma l’atto stesso del disapprovare. Il nostro è il Paese della critica personale, rabbiosa e denigratoria. Giudicando negativamente qualsiasi scelta politica o culturale ci si mette immediatamente su un piedistallo alto due metri, e da lì si guarda il genere umano con sufficienza. Naturalmente, stando così in alto e separati dal mondo, sarà difficile creare rapporti di affinità e simpatia con gli altri, che nel frattempo si stanno costruendo i loro piedistalli, sempre più alti e di difficile accesso. Chi giudica e critica infatti si esenta da ogni responsabilità. La colpa degli insuccessi è sempre di qualcun altro: dello Stato prima di tutto, del Governo in carica, dei politici avversari, degli amministratori pubblici, dei giornalisti, degli intellettuali, degli insegnanti, dei sindacati e via di seguito. Mai che si ammetta di avere partecipato, se non addirittura provocato ciò che si disapprova. E naturalmente chi biasima e condanna pretende di farlo in nome di un popolo che nessuno sa in chi consista. Finché questi battibecchi avvengono al bar, mentre si sorseggia un caffè, lo si può capire, ma quando a prendere le distanze da ogni scelta con sdegno e riprovazione sono proprio coloro che erano all’origine di quella scelta, salta fuori l’aspetto grottesco della protesta che si trasforma in pretesto. La mancanza di solidarietà, di sollecitudine, di senso della collettività fanno sì che diventi sempre più difficile governare. E la disaffezione nei riguardi della partecipazione etica si allarga a macchia d’olio. C’è tanta vanità, tanta arroganza in questa pratica del giudizio superiore, in nome di una purezza allusiva. Tutti contro tutto, anche all’interno delle alleanze. Guai a mostrarsi comprensivo, a rispettare l’avversario, a cercare il dialogo. In nome di una purezza apodittica si buttano all’aria i possibili compromessi. Compromessi? Per carità! Chi è disposto ad accettare compromessi? Ma governare non vuol dire rispettare le diverse anime del Paese? Non vuol dire cercare un accordo su temi comuni che mirano al benessere della nazione? Decreti sicurezza, i 5 Stelle provano a far saltare l’accordo di Carlo Lania Il Manifesto, 29 settembre 2020 Di Maio frena e parla di “trattativa in corso”, ma l’intesa è già firmata. E il nuovo testo avrebbe il via libera dei Comuni. L’ultima motivazione, non ufficiale, per giustificare l’ennesimo slittamento riguarda ovviamente Matteo Salvini. Sabato il leader della Lega sarà a Catania per l’udienza preliminare sul caso della nave Gregoretti e la scadenza per ora si annuncia soprattutto come un evento mediatico, con il Carroccio che ha organizzato tre giorni di iniziative nel capoluogo etneo sotto il titolo “Gli italiani scelgono la libertà”. Chiaro che a palazzo Chigi non c’è nessuna voglia di offrire a Salvini l’ennesima occasione di cavalcare lo spauracchio dell’immigrazione attaccando il governo che ha cancellato i decreti sicurezza. Per questo nonostante le continue pressioni di Pd, LeU e Iv, la messa in soffitta definitiva dei provvedimenti anti immigrazione potrebbe slittare ancora, almeno fino alla prossima settimana, al “primo consiglio dei ministri utile” come va ripetendo ormai da troppo tempo il premier Conte. Potrebbe, perché Salvini a parte, che di certo non ha bisogno di pretesti per attaccare il governo giallorosso, la vera incognita è rappresentata come al solito dal Movimento 5 stelle. L’accordo sul nuovo testo destinato a sostituire i decreti salviniani è stato firmato davanti alla ministra dell’Interno Lamorgese alla fine di luglio da tutti i rappresentanti della maggioranza, compreso il presidente della commissione Affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia del M5S. Parlando però domenica sera alla trasmissione “Che tempo che fa” Luigi Di Maio ha fatto finta di non saperlo: “C’è una discussione politica in corso su una modifica, dialogando troveremo una soluzione”, ha detto l’ex capo politico del Movimento. Parole che rappresentano un salto indietro nel tempo, a prima dell’estate, e che hanno fatto suonare più di un campanello d’allarme nell’esecutivo dove una presa di distanze dei dissidenti pentastellati metterebbe in crisi la tenuta del governo, specie al Senato dove i numeri sono sempre traballanti. “Non c’è nessuna marcia indietro”, assicuravano ieri i parlamentari 5 Stelle più governisti. “Con l’arrivo dell’inverno gli sbarchi diminuiranno e il governo ha stretto un accordo con la Tunisia per aumentare il numero dei rimpatri, quindi non c’è bisogni di rassicurare quanti, tra noi, sull’immigrazione sono più vicini alla Lega”. Un incoraggiamento all’esecutivo perché acceleri i tempi potrebbe arrivare presto dagli Enti locali. Alla fine di luglio la bozza del nuovo decreto è stata inviata per consultazione all’Anci e dai Comuni starebbe per arrivare un giudizio positivo sul provvedimento. A convincere i sindaci sono soprattutto la possibilità per i richiedenti asilo di potersi iscrivere di nuovo alle anagrafi comunali e il ripensamento del sistema di accoglienza che coinvolge i Comuni. Misure che, come è stato spiegato al viceministro dell’Interno Mauro Mauri nella Conferenza sull’immigrazione che si è tenuta a luglio, permettono a quanti sono stati spinti verso una condizione di irregolarità dai decreti Salvini di tornare visibili, permettendo così una maggiore sicurezza nei territori. L’unico dubbio riguarderebbe il numero di richiedenti asilo da accogliere. Nel decreto si fa riferimento a una generica “capienza massima” senza specificare a cosa si riferisce, se a quella dei centri di accoglienza oppure alla capacità di accoglienza di ogni singolo Comune in base alla sua popolazione. Intanto nel Mediterraneo si continua a morire. Alarm Phone ha denunciato ieri come solo nel mese di settembre si sono registrati sei naufragi nei quali hanno perso la vita quasi 200 persone. L’eterna questione migranti è sempre in alto mare: il Piano di Ursula non decolla di Zeffiro Ciuffoletti* Il Dubbio, 29 settembre 2020 La proposta della presidente della Commissione europea affondata dal “Gruppo di Visegrad”. La questione migratoria costituisce, da anni, il fattore di maggiore conflittualità sociale e politica sia all’interno degli Stati dell’Unione europea, sia nel quadro, sempre più delicato, delle relazioni fra i diversi paesi membri. La prova sta nell’incrocio fra la revisione dei decreti Sicurezza prevista dal governo giallorosso, ma sempre rinviata, il processo all’ex ministro degli Interni Salvini, per il “presunto” sequestro dei migranti sulla nave Gregoretti, davanti al tribunale di Catania e la discussione per il Piano migranti presentato dalla Presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Il “Piano”, in realtà, sembra un “piano inclinato” che sta affondando sotto i colpi dei paesi del gruppo Visegrád, che hanno manifestato le loro critiche alla stessa Presidente von der Leyen. Viktor Orbán ha dichiarato che l’approccio di base del piano che dovrebbe superare l’infelice accordo di Dublino, dichiarato defunto dalla stessa Angela Merkel, è lo stesso. Un approccio che si preoccupa solo di gestire l’accoglienza, senza porre dei freni all’immigrazione. Mancano nel Piano serie politiche di contenimento dell’immigrazione irregolare e poca chiarezza fra il trattamento dei profughi e dei migranti economici. In realtà il Piano, anche sull’onda dei pericoli della pandemia, sembrava dovesse rottamare gli astratti principi di Dublino. In effetti riafferma i principi di solidarietà, anzi, in casi particolari, li dovrebbe rendere addirittura “obbligatori”. Parla di soluzioni distributive “precise e prefissate” per i migranti. Poi si prevedono negoziati in Africa e accordi di rimpatrio in cambio di aiuti economici. Cose in sé assai importanti, ma inficiate da una sorta di ipocrisia perbenista. Primo nel non distinguere i migranti dai rifugiati, che sono minoranza. Poi quelli che arrivano per terra o coi barchini o quelli con le Ong, che costituiscono un problema molto serio, come dimostra il caso di queste ore della nave Alan Kurdi, respinta dalla Francia e dirottata in Sardegna tra aspre polemiche. Infine si parla di ricollocamenti “obbligatori” dei migranti che in realtà non saranno accettati, come si è visto subito per il rifiuto dei soliti “cattivi”, i paesi di Visegrád. Viene il sospetto che a mettere insieme la notizia della nave della Ong, Alan Kurdi, con 125 migranti a bordo, e la notizia del respingimento della stessa nave da parte della Francia verso le coste italiane (Sardegna), si stia consumando il solito gioco dei finti buoni che si nascondono dietro i cattivi e, diciamolo pure, i fessi che sarebbero gli italiani. Con ogni probabilità, mentre il Piano della von der Leyen affronterà un lungo itinerario di compromessi, in Italia la revisione dei decreti Sicurezza servirà a rifinanziare il sistema Sprar e le società che garantiscono i servizi, e un rilancio delle Ong davanti alle coste italiane. Trovare un equilibrio fra solidarietà vera e sicurezza è difficile. Ma non si può ignorare, questa è l’ultima ipocrisia, che il traffico dei migranti dalla partenza all’arrivo, spesso, molto spesso, è in mano a delle organizzazioni criminali. Sappiamo che molte Ong sono navi battenti bandiera di paesi membri dell’Unione europea. Ong che sono spesso finanziate dalla stessa Unione europea per il lavoro umanitario che stanno svolgendo. Vorrei fare una proposta semplice e non provocatoria. Ogni nave delle Ong, che salva emigranti nel Mediterraneo, si dovrebbe attrezzare per portare i naufraghi nei paesi di cui batte bandiera. Politici di buona volontà e giuristi dovrebbero affrontare la questione che, allo stato attuale, fa dell’Italia il paese obbligato ad accogliere tutti i migranti, insieme con la Grecia e con Malta. *Storico Turchia. Ricordando il coraggio di Ebru, gli avvocati di Bologna in piazza Il Dubbio, 29 settembre 2020 La manifestazione a un mese dalla morte dell’attivista turca nelle prigioni di Erdogan. Domenica ricorreva il trigesimo dalla morte di Ebru Timtik, la collega turca morta dopo 238 giorni di sciopero della fame, che ha dato la propria vita per il diritto ad un giusto processo, motivo per cui da pochi giorni è stata insignita, insieme alla sorella Barkin ancora in carcere, del premio internazionale Ludovic Trarieux, per gli avvocati difensori dei diritti umani nel mondo. L’Ordine degli Avvocati di Bologna ha seguito da vicino le vicende di Ebru, intervenendo più volte per chiedere la sua liberazione e quella degli altri colleghi come lei detenuti, nominando Ebru membro della Commissione di studio sui diritti umani ed anche indirizzando nel mese di luglio un’istanza alla Corte di Cassazione per supportare la richiesta presentata dai suoi difensori quando le condizioni di salute sue e di Aytac Ünsal, a causa dello sciopero della fame, si erano aggravate. Purtroppo la decisione è arrivata solo dopo la conclusione delle ferie giudiziarie, un lasso di tempo troppo lungo, durante il quale il cuore di Ebru ha ceduto. Nell’immediatezza della sua morte l’Ordine degli Avvocati di Bologna ha firmato, insieme ad altri Ordini ed Associazioni forensi di tutto il mondo, il necrologio per la collega pubblicato su due quotidiani turchi, ricordato Ebru con un comunicato stampa e con l’apposizione di questo pannello commemorativo fuori dai locali dell’Ordine. Molte vicende sono occorse durante questo mese dalla morte di Ebru: il collega Aytac Ünsal è stato liberato temporaneamente e si sta riprendendo, e questa è l’unica cosa che ci rinfranca perché purtroppo le altre informazioni che ci giungono dalla Turchia sono tutte negative: la condanna in via definitiva di Aytac e di tutti gli altri colleghi dell’associazione degli avvocati progressisti con lui coimputati, le indagini nei confronti dei colleghi che hanno esposto lo striscione per commemorare Ebru al balcone dell’Ordine degli Avvocati di Istanbul, l’arresto nella notte dell’ 11 settembre di 47 colleghi ad Ankara, illegalmente prelevati dalle loro case. Si avvicina poi la data delle elezioni forensi ed il rischio concreto che si paventa, a causa della nuova legge approvata in luglio sulla moltiplicazione degli Ordini forensi in ogni distretto, è che l’indipendenza dell’avvocatura e di chi la rappresenterà possa essere seriamente compromessa. Questi accadimenti ci confermano la gravità della situazione in Turchia ed il grado di esposizione dei nostri colleghi, e dunque la necessità che la voce dell’avvocatura italiana si levi alta e forte non solo per commemorare Ebru ma per chiedere giustizia per lei, per verificare le responsabilità di chi non le ha garantito cure mediche immediate che, come è avvenuto per Aytac, avrebbero potuto salvare la sua vita, per tutte/ i coloro che ancora sono detenuti in Turchia ai quali non vengono garantiti i diritti fondamentali, per tutte/ i coloro a cui viene negato un giusto processo, per chiedere con forza l’impegno di tutte le Istituzioni affinché la Turchia, che fa parte del Consiglio d’Europa, si impegni a garantire nei confronti di tutti, inclusi gli oppositori politici, le persone indagate per terrorismo ed i detenuti, i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. È questa l’occasione per ribadire con forza la richiesta di liberazione della Collega iraniana Nasrin Sotoudeh, detenuta dal dicembre 2018 e condannata alla pena di 38 anni di reclusione e 148 frustate per essersi opposta al regime iraniano assumendo la difesa delle donne apparse in pubblico senza velo, condotta da Lei stessa posta in essere, battendosi per la democrazia ed il rispetto dei diritti umani. È anche l’occasione per nuovamente richiedere allo stato egiziano di liberare lo studente Patrick Zaki, privato della libertà al rientro in patria per un periodo di vacanza, e per chiedere al Governo italiano di porre in essere a tal fine ogni utile azione in vista della prossima udienza che si terrà il 7 ottobre, affinché Patrick possa fare ritorno nella nostra città per proseguire il master che stava seguendo all’Università. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna Il Comitato pari opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bologna Egitto. L’agonia senza fine di Patrick Zaki di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 29 settembre 2020 Ancora un rinvio dell’udienza. Amnesty International: il governo si muova. Sette mesi senza Patrick. L’infinita agonia dello studente egiziano dell’Alma Mater recluso in carcere dal regime di Al Sisi per il suo impegno in favore dei diritti umani, si allunga ancora. L’ennesima udienza in Egitto che deve decidere della sua sorte è stata rinviata al 7 ottobre. Gli amici e gli studenti ricordano che il suo master è iniziato senza la sua presenza. mentre Amnesty International incalza il governo: “Ora rimetta Zaki nella sua agenda”. Ancora un’udienza di rinnovo della detenzione preventiva senza che Patrick Zaki si sia potuto difendere davanti a un giudice dalle accuse di istigazione al terrorismo che gli vengono rivolte. Sabato scorso avrebbe dovuto tenersi una nuova udienza al Tribunale del Cairo, ma dopo aver atteso invano, gli avvocati dello studente egiziano hanno scoperto che, a causa di una tentata evasione di condannati a morte dal carcere di Tora, per motivi di sicurezza non è stato accompagnato in Tribunale e la custodia cautelare gli è stata rinnovata per l’ennesima volta fino al 7 ottobre. Stavolta non si tratta di Covid ma - almeno ufficialmente - della tensione creata da un sanguinoso tentativo di evasione da parte di quattro condannati a morte che hanno ucciso un ufficiale di polizia e due reclute del prima di essere abbattuti dai secondini nel complesso carcerario dove è detenuto anche Patrick. In Italia intanto da più parti arriva l’appello al governo ad alzare il tiro della protesta per interrompere l’agonia del giovane, iscritto al master in studi di genere dell’Alma Mater, che va avanti da ormai otto mesi. “Questi giorni che ci separano dal 7 ottobre sono giorni in cui Amnesty International chiede al governo di rimettere nella propria agenda il nome di Patrick Zaki” è la strigliata di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia che esorta anche i parlamentari italiani a prendere “iniziative”. “Continuiamo a insistere. Teniamo alta la pressione su Zaki. Non molliamo” ha scritto ieri su Twitter l’ex premier Enrico Letta. L’ambasciatore italiano al Cairo Giampaolo Cantini ha inviato la scorsa settimana un intervento scritto al nostro ministero degli Esteri per ricordare che “monitora attentamente il caso nell’ambito del monitoraggio europeo e continua a seguire l’esito delle udienze”, confidando di “riprendere a presenziare fisicamente” quando la pandemia di coronavirus “lo permetterà”. Ma la senatrice 5 Stelle Michela Montevecchi, membro della commissione Diritti Umani, ha ricordato che il garante egiziano dei diritti umani non ha mai risposto a una lettera del 12 giugno in cui gli si chiedeva “che si attivasse per richiedere la liberazione di Patrick al più presto. Auspichiamo - aggiunge Montevecchi - dunque una risposta”. E ieri amici e compagni di studi che animano da febbraio la campagna social per la liberazione del 28enne, sono tornati a ribadire la richiesta. “Oggi, lunedì 28 settembre, inizia l’anno accademico presso l’Università di Bologna, dove Patrick avrebbe dovuto conseguire la sua laurea postuniversitaria” hanno scritto su Facebook. Patrick “è un brillante accademico, è sempre stato una voce per chi non ha voce e ha fatto in modo di promuovere i valori umanitari. Ha chiesto in ogni visita e in ogni lettera dei suoi studi - sottolineano - è la cosa che lo preoccupa di più”. Sinistra universitaria, invece, chiede al sindaco Virginio Merola di “farsi portavoce con l’aeroporto Marconi affinché venga affisso all’ingresso lo striscione che chiede la liberazione per Patrick e perché venga disposta l’interruzione dei voli da e per l’Egitto”. “Se il governo non ha il coraggio - l’affondo -, che parta da Bologna la battaglia per il rispetto dei diritti umani”. Nigeria. L’Onu chiede il rilascio del cantante Yahaya Sharif-Aminu di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 29 settembre 2020 Esperti indipendenti dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno chiesto al governo della Nigeria di rilasciare immediatamente il cantante Yahaya Sharif-Aminu, 22 anni, condannato a morte per blasfemia lo scorso 10 agosto da un tribunale della Sharia nella provincia di Kano, in Nigeria, dopo aver condiviso una canzone che aveva scritto ed eseguito tramite un gruppo WhatsApp. Dopo la condanna, una folla di persone si è radunata nei pressi dell’abitazione della famiglia del cantante dandola alle fiamme e sollevando minacce di morte nei confronti dello stesso e dei suoi familiari. “Siamo profondamente preoccupati per la grave mancanza di un giusto processo nel caso di Sharif-Aminu, in particolare per quanto riguarda le notizie secondo cui sarebbe tenuto in isolamento e non avrebbe avuto diritto ad un avvocato durante il suo processo iniziale, un processo che non è stato aperto al pubblico”, hanno affermato in un comunicato. Gli esperti chiedono che la condanna a morte venga annullata e che le autorità garantiscano l’incolumità e il diritto a un giusto processo dell’imputato in attesa dell’appello contro il verdetto. “Siamo anche seriamente preoccupati per la sicurezza di Sharif-Aminu, alla luce delle minacce di morte contro di lui” hanno aggiunto gli esperti. Per l’Onu l’espressione artistica di opinioni e credenze attraverso canzoni o altri media - compresi quelli in grado di offendere la sensibilità religiosa - va protetta in conformità con il diritto internazionale. La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti culturali, Karima Bennoune, ha affermato che l’applicazione della pena di morte “per espressione artistica o per la condivisione di una canzone su Internet è una flagrante violazione della legge internazionale sui diritti umani, così come della Costituzione della Nigeria”, e ha invitato le autorità nigeriane ad adottare “misure efficaci per proteggere Sharif-Aminu sia durante la detenzione che dopo il suo rilascio”.