Il carcere rimosso di Alessandro Barbano huffingtonpost.it, 28 settembre 2020 Siamo il Paese dell’ergastolo ostativo o dove la direttrice del penitenziario di Reggio Calabria è tenuta per oltre un mese agli arresti per aver riconosciuto ai detenuti trattamenti umanitari. Nel carcere confiniamo il male del mondo. E buttiamo la chiave, ma davvero. “Sesso in carcere, patteggia 6 mesi. Rapporto orale con la compagna nel parlatorio, celandosi dietro la borsa di lei, mentre il figlio attende nella stanza a fianco. Se non avete pietà di lui, mettetevi nei panni di questa donna”. Il tweet, postato da chi scrive, dopo un giorno vanta appena cinque “mi piace”. Praticamente ignorato. Mentre più di mille ne riceve nello stesso tempo un altro, che ammonisce Bianca Berlinguer a non invitare Mauro Corona a Carta Bianca. Il web si tuffa sul teatrino dello scrittore che offende in pubblico la giornalista, dandole della “gallina”, e resta indifferente alla scena del parlatorio, teatro di uno scambio affettivo sfuggito alla sorveglianza del carcere. Non c’è da stupirsi: l’universo esistenziale della rete è sentimentale, non simpatetico. Pronto a indignarsi, fatica a immedesimarsi. Ci vorrebbero le immagini di Fuga di Mezzanotte, capolavoro di Alan Parker che ci riporta alla ferocia delle carceri turche negli anni Settanta. Susan e Billy nel parlatorio dopo cinque anni di detenzione, lei che si dispera per la sorte del fidanzato condannato all’ergastolo, lui che le chiede di scoprire il seno e si masturba. Forse, molti tra i lettori che ricordano quella scena hanno pianto nel vederla. Stavolta siamo nel carcere di Cremona, ma non è un film. Il protagonista, un quarantenne italiano, sconta un residuo di pena per reati contro il patrimonio. In un parlatorio disadorno incontra la compagna sotto gli occhi delle telecamere, che spiano quello spicchio di intimità. Nella stanza a fianco c’è il figlio della coppia. I due si abbracciano. Poi lei, cedendo a una richiesta dell’uomo, abbozza un improbabile schermo con la borsa e, nascondendosi dietro di questa, si china su di lui. Come chiamereste questa scena? Sesso? Amore? Disperazione? Disgusto? Rabbia? Pietà? Per la legge italiana si chiama ancora “atti osceni in luogo pubblico”. La prova la fornisce un occhio elettronico, ignoto ai due amanti, che li sorprende dall’alto. Non resta loro che patteggiare una pena di sei mesi. Ma stavolta nessuno piange. Perché forse nessuno sa che in Francia, Olanda, Svizzera, Finlandia, Norvegia, Austria, Germania, Svezia, Spagna, ma anche in Russia, Croazia e Albania, i detenuti sono autorizzati a incontrare per ore, e talvolta per intere giornate, la famiglia in miniappartamenti senza alcun controllo. Nessuno sa che il diritto all’affettività in carcere era stato riconosciuto dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, annunciata più volte dall’ex guardasigilli Andrea Orlando e mai portata a compimento. Nessuno sa che quella riforma il governo Conte uno, quello di Salvini e Di Maio, l’ha richiusa in un cassetto e ha riconfermato il vecchio regime. Dovremmo sorprenderci? Siamo il Paese dell’ergastolo ostativo, cioè? una pena senza fine e senza possibilità? di accedere a qualsiasi misura alternativa al carcere e a ogni beneficio penitenziario, a meno che il condannato non decida di pentirsi e collaborare con la giustizia. E siamo, ancora, il Paese dove la direttrice del carcere di Reggio Calabria è tenuta per oltre un mese agli arresti con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per aver riconosciuto ai detenuti trattamenti umanitari giudicati inopportuni dal gip. O il Paese dove la conduttrice di un talk fa l’in bocca al lupo al pubblico ministero alla vigilia di un maxi processo con oltre 400 imputati, come se questi fosse un atleta chiamato a battere il record in una gara olimpica. E non dovesse, per legge, cercare tanto le prove a carico quanto quelle a discarico. Nel nostro universo civile il carcere è il luogo dove simbolicamente confiniamo tutto il male del mondo, proprio per non vederlo più. Perciò ci indigniamo se un magistrato di sorveglianza concede a un detenuto devastato dal cancro il diritto di morire a casa. Perciò, ancora, l’intercalare “chiudeteli dentro e gettate la chiave” ricorre come uno stereotipo nel lessico di molti politici e di altrettanti cittadini comuni. “L’occultamento del delinquente - scrivono Luigi Manconi e Federica Graziani nel bel libro “Per il tuo bene ti mozzerò la testa” - corrisponde alla volontà di esorcizzare una duplice minaccia. Il presunto attentato alla propria sicurezza che il carcere, come incubatore del crimine, evoca. E la minaccia che da noi, dal nostro inconscio si proietta sul carcere, per rimuoverlo e rimuovere con esso i nostri incubi. La prigione per una parte dei cittadini liberi è questo: la sede dove collocare le proprie ansie e le proprie fobie, il luogo dove sono reclusi coloro che saremmo potuti e che ancora potremmo essere noi”. Figuratevi se in questo universo morale c’è spazio per la sessualità nei luoghi di pena. Se la compagna di un detenuto viene condannata, insieme con lui, per aver violato il divieto, nessuno storce il naso, perché nessuno riconosce più l’orrore di una giustizia che diventa la più potente e nello stesso tempo la più occulta macchina di dolore umano. È la terribile ambivalenza del vedere e non vedere. Il detenuto indagato nell’intimità, negli affetti, negli umori e perfino nei bisogni fisiologici, e allo stesso tempo invisibile alla comunità dei cittadini liberi. A cui un tweet sulla condanna per un attimo d’amore rubato nel parlatorio fa lo stesso effetto degli alberi senza foglie in autunno. Come le foglie d’autunno si sta in carcere, direbbe un grande poeta. Se ancora ci fosse. Perché la letteratura potrebbe ancora salvarci. Potrebbe risvegliare l’immedesimazione perduta in questo dolore che ci sta attorno e non vediamo. O forse anche questa speranza “erra dal vero”. Forse anche gli scrittori, di questi tempi, rinunciano a vedere. I loro protagonisti, denuncia Giorgio Montefoschi sul Corriere della Sera, sono quasi sempre commissari. Anche per la letteratura chiudere la cella e gettare le chiavi è il pensiero unico del nostro tempo? Ricordando Massimo Pavarini di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 28 settembre 2020 Era il 2013 quando la Regione Emilia-Romagna, l’ufficio del Garante delle persone private della libertà personale e l’Università stipularono un accordo per favorire una diversa cultura della pena che aveva come presupposto l’utilizzo del carcere solo quando assolutamente necessario. Tra i progetti, poi realizzati, ci fu una importante ricognizione regionale delle risorse del volontariato al fine di favorire in concreto una mappa delle possibili alternative alla detenzione. Massimo Pavarini, incaricato per il Dipartimento di scienze giuridiche di coordinare la ricerca, disse all’epoca che la possibilità di lavorare su questi temi era una grande opportunità per il mondo universitario, per un “sapere” che poteva calarsi nella realtà di una dimensione, quella della privazione della libertà personale, per molti aspetti rimasta sconosciuta (ed anche inalterata). Nel 2013 Massimo Pavarini con chi scrive organizzò a Castelfranco Emilia, nella Casa lavoro, un seminario sul tema delle misure di sicurezza per gli imputabili dal titolo “Poveri o pericolosi?”, per affrontare uno delle questioni più trascurate del diritto penale e della realtà penitenziaria, e cioè il tema della determinazione della pericolosità sociale dell’individuo e della indeterminatezza temporale delle misure di sicurezza per le persone imputabili già condannate e poi sottoposte ad ulteriore limitazione della libertà dopo l’espiazione della pena detentiva, spesso persone indigenti e prive di qualunque riferimento sociale. Gli internati rappresentano la contraddizione perenne del nostro sistema penale: si finisce in casa lavoro perché si è considerati socialmente pericolosi e quindi la pena detentiva (prima) scontata ha fallito il suo scopo. A differenza di ciò che è previsto in tema di misure di sicurezza per le persone non imputabili dalla l.n. 8/2014 sul superamento degli ospedali psichiatrici, che ha comunque introdotto un limite temporale. Neppure gli Stati generali, e l’apposita commissione sul punto, hanno indicato l’abolizione delle misure di sicurezza per le persone imputabili come approdo normativo e superamento del cd.” doppio binario”, ma formulato proposte sulla modifica dei presupposti e sulla durata. Poi più nulla, e così sarà per molto tempo, a prescindere dal tempo di pandemia. Nella distonia attuale degli interventi sul carcere, tra l’invocazione del ricorso continuo alla privazione della libertà e le affermazioni sulla necessità di reinserimento delle persone detenute, a legislazione penale mutata in peius, salvo gli interventi della Corte costituzionale, val pena ricordare chi ha posto con chiarezza quelle domande che dovrebbero appartenere al patrimonio di molti: il carcere è davvero la risoluzione di tutti i mali? L’isolamento aiuta a prevenire la recidiva? Come affrontiamo oggi il tema della pericolosità sociale, senza distinguere neppure i beni giuridici oggetto di tutela? Quel pensiero critico ci mancherà a lungo. *Avvocato della Camera penale “F. Bricola” - Responsabile Osservatorio carcere, già Garante delle persone della libertà personale del Comune di Bologna e della Regione Emilia-Romagna La magistratura processa Palamara e assolve se stessa di Giulia Merlo Il Domani, 28 settembre 2020 Al Csm 11 udienze in 20 giorni per arrivare a sentenza sul pm accusato di gestire le nomine. L’obiettivo è chiudere prima del pensionamento di Davigo. E chi lo cercava non corre rischi. La giustizia disciplinare dei magistrati corre come il vento, quando vuole. Nel caso di Luca Palamara, il pubblico ministero accusato di corruzione e ritenuto il regista occulto delle nomine nelle procure, la volontà c’è tutta: il procedimento davanti alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno delle toghe, è cominciato il 21 luglio e la sentenza è già stata fissata per il 16 ottobre. Mai si è vista, al Csm, una marcia a tappe così forzate. La prossima udienza è fissata per oggi e per i due giorni successivi e si entrerà nel merito dell’accusa. Il cellulare microspia Partiamo da qui per ricostruire la vicenda che ha squassato le fondamenta del terzo potere dello stato, svelando il sistema delle nomine pilotate, delle piccole vanità e degli interessi di bottega della magistratura associata, finito sui giornali sotto forma di chat come prima era successo a politici e faccendieri. Tutto gira intorno a Palamara: magistrato romano abilissimo nel tessere rapporti trasversali, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, leader e manovratore della corrente di centro “Unicost”. Nella primavera 2019 la procura di Perugia, competente a indagare sulle ipotesi di reato dei magistrati del distretto di Roma, apre un fascicolo contro di lui per corruzione nell’esercizio delle sue funzioni. Il reato è grave e rientra nella lista di quelli per i quali è possibile utilizzare il virus spia Trojan horse. Da quel momento, il cellulare di Palamara diventa una microspia che lo segue ovunque. È così che gli inquirenti ascoltano ciò che accade il 9 maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma: Palamara incontra i deputati di Italia viva Luca Lotti e Cosimo Ferri, a sua volta magistrato e capocorrente di Magistratura indipendente, e quattro membri togati del Csm. Al centro della discussione c’è la nomina del nuovo procuratore capo di Roma, al posto del pensionato Giuseppe Pignatone, e come fare in modo che venga eletto un magistrato gradito ai presenti. Poche settimane dopo e molto prima che l’indagine sia conclusa, le intercettazioni finiscono pubblicate dai principali giornali: scoppia l’inchiesta “caos Csm” e viene alla luce un meccanismo di spartizione delle nomine ai vertici degli uffici giudiziari tutto pilotato dalle correnti. Soprattutto si apre quella che il presidente dell’Anm, Luca Poniz, definisce la “questione morale della magistratura”. La reazione del Csm - La procura di Perugia prosegue la sua indagine, che perde alcune ipotesi di reato, ma si conclude nel 2020 con il rinvio a giudizio di Palamara. Contemporaneamente il Csm apre un procedimento disciplinare. Le accuse sono gravi: comportamento scorretto nei confronti dei colleghi e uso strumentale della propria posizione per condizionare il Csm. La pena probabile: la radiazione. Le testimonianze - La difesa di Palamara sceglie la strada della chiamata ideale in complicità. Presenta una lista di 133 testimoni da ascoltare in udienza, tra i quali attuali ed ex consiglieri del Csm e dell’Anm, ex ministri e finanzieri. L’obiettivo: dimostrare che Palamara è stato solo un ingranaggio in un meccanismo di spartizione ben più grande e molto oliato, di cui fa parte tutta la magistratura assodata, compresi i componenti della sezione disciplinare chiamati a giudicarlo. Tanto che il difensore chiede la ricusazione del giudice Piercamillo Davigo, che compare anche nella lista testi. Il Csm, però, è un organo costituzionale atipico perché giudica se stesso e i propri membri, e non tollera cortocircuiti né ingerenze. La sezione disciplinare ritiene infondata la richiesta di ricusazione ed esclude tutti i testimoni chiamati tranne cinque, da ascoltare sul metodo di intercettazione utilizzato. L’intento è quello di circoscrivere il dibattimento all’incontro all’hotel Champagne e alla condotta del singolo incolpato, Palamara, escludendo il teorema di un sistema. Il silenzio su tutti gli altri In questa direzione va anche un’altra scelta. L’ufficio del procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi, che sostiene l’accusa nei procedimenti disciplinari contro i magistrati, si è occupato di spulciare il fascicolo del pm dell’indagine di Perugia, per valutare ulteriori profili disciplinari a carico di altri magistrati. Palamara, infatti, chattava con moltissimi colleghi e gli scambi riguardavano il loro avanzamenti di carriera, alcuni arrivavano a definirlo il “re di Roma” quando riusciva a favorirli in una nomina. Sulla loro posizione è calato un silenzio che somiglia a un’amnistia. La scorsa settimana, Salvi ha pubblicato le linee guida per la verifica dei profili disciplinari e si legge: “L’attività di autopromozione effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari”, perché non è “gravemente scorretta nei confronti di altri e in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari”. Nessun pericolo, dunque, per tutti i magistrati che hanno cercato Palamara per farsi agevolare negli avanzamenti di carriera. Con buona pace del fatto che, se la pratica di auto promozione esisteva, doveva esistere anche un sistema che la giustificasse. La corsa contro il tempo - Il mantra è fare presto perché sul tavolo del collegio disciplinare si presenta un problema: uno dei membri, l’ex magistrato di Mani pulite Piercamillo Davigo, compirà 70 anni il 20 ottobre e sarà costretto ad andare in pensione. Lui non vuole lasciare il Csm, sostenendo che l’essere magistrato in attività sia un requisito per l’elezione, ma non una condizione necessaria per portare a termine il mandato. Su questo deciderà la commissione Titoli del Csm, ma con Davigo presente nel collegio la difesa di Palamara avrebbe gioco facile nel sollevare la questione della “illegittima costituzione del giudice”. Individuato il problema, trovata la soluzione: un tour de force con 11 udienze in 20 giorni in modo da concludere il 16 ottobre, prima del pensionamento. La riduzione del dibattimento La soluzione più semplice, in realtà, sarebbe stata l’astensione di Davigo come chiesto dalla difesa. Nel silenzio del regolamento, però, anche questa accelerazione si può fare. Ma fino a che punto si può ridurre lo spazio del dibattimento? Il rischio è che, per salvarsi dall’accusa di composizione illegittima, il collegio presti il fianco all’impugnazione alle Sezioni unite della Cassazione per compressione dei diritti della difesa. Soprattutto vista la portata del caso. Come si diceva, però: quando vogliono, i magistrati sanno far correre i procedimenti. Gratteri: vi spiego io perché la ‘ndrangheta sfonda al Nord di Pietro Senaldi Libero, 28 settembre 2020 Nicola Gratteri: “La forza dei clan è il basso profilo. Imprenditori e politici usano i boss calabresi come un’agenzia di servizi”. C’è un magistrato che è riuscito a diventare famoso pur non cavalcando le correnti, anzi denigrandole pubblicamente. Naturalmente anche lui è un pm, ma atipico; al punto che viene accusato di essere un giustizialista non dai politici ma dai propri colleghi. Nicola Gratteri sta provando a fare con la ‘ndrangheta in Calabria quello che Borsellino e Falcone tentarono con la mafia a Palermo. Ha la fortuna, a differenza dei due procuratori siciliani, che il governo e l’opinione pubblica si limitano a ignorarlo, anziché mettergli i bastoni tra le ruote. Procuratore, in che stato è la giustizia italiana e quali sono i suoi mali? “Non gode di ottima salute e sta attraversando un momento difficile. Quando si vivono certe situazioni bisogna avere la capacità di individuare rimedi e soluzioni. Sostengo da sempre che si devono realizzare, nel rispetto della Costituzione, le riforme necessarie per rendere sconveniente delinquere. Bisogna andare avanti nella informatizzazione del processo penale, strada intrapresa da tempo, divenuta fondamentale soprattutto ora, in tempi di distanziamento sociale e cautele sanitarie, e modificare una serie di norme che nulla aggiungono e molto tolgono”. Se potesse cambiare o introdurre qualcosa per far girare meglio il sistema, cosa sceglierebbe? “Bisogna eliminare le formalità che nulla aggiungono in termini di reale difesa all’indagato/imputato. Ad esempio, oggi è possibile per il pm fare richiesta di giudizio immediato cautelare - con eliminazione della fase dell’udienza preliminare - solo nell’ipotesi di misura detentiva (carcere o arresti domiciliari) non anche se un soggetto è sottoposto alla misura dell’obbligo di presentazione alla Procura generale, se anche l’indagato ha già avuto piena cognizione di tutti gli atti in quanto vi è stata comunque una discovery completa. Tale limitazione andrebbe rivista. Questa è una delle tante piccole riforme che potrebbero velocizzare il processo penale”. Il mal funzionamento della giustizia è una delle piaghe dell’Italia, ma i più grandi oppositori di ogni riforma sono i magistrati: perché il malato rifiuta la cura? “Io non credo che i magistrati come categoria si oppongano alle riforme. Credo solo che, quali operatori del settore, ben sanno quali sono le modifiche necessarie e quali no, e soprattutto quali cambiamenti non migliorano, anzi peggiorano, la situazione. A questa cura verosimilmente ci si oppone”. La riforma spetterebbe ai politici, ma questi sono sotto schiaffo delle inchieste: come può un politico riformare la giustizia, a meno che non sia San Francesco? “Come si riforma ogni ambito della vita sociale e politica. Bisogna sedersi attorno a un tavolo e discutere le riforme necessarie avendo come unico obiettivo quello di migliorare il sistema giudiziario. E poi smettiamola con questa storia dei politici sotto schiaffo: se uno non ha nulla da temere, non ha ragione di preoccuparsi. Il migliore giudice di ciascuno di noi è la sua coscienza”. Si dice che i magistrati, e i procuratori in particolare, siano il potere più forte in Italia attualmente, concorda? “Non direi. A meno che non si voglia accreditare l’idea che ci siano magistrati capaci di sedersi a tavolino per mettere in piedi inchieste con finalità politiche. Non mi risulta. Non escludo che qualcuno abbia potuto anche farlo. Ma non penso che ci siano magistrati che la mattina si alzino con l’idea di rovesciare un governo o mettere in crisi una coalizione”. I suoi più grandi denigratori sono magistrati: perché molti colleghi la attaccano? “Questo lo deve chiedere a loro, non a me. Preferisco soffermarmi su quanti, magistrati e non, mi incoraggiano invece ad andare avanti coerentemente per la mia strada”. Cosa risponde a chi la accusa di giustizialismo? “Rispondo che non è vero; non sono mai stato a favore di una giustizia “rapida e sommaria”. Ritengo solo che l’Italia si meriti un sistema giudiziario capace di garantire la certezza della pena. Non possiamo pensare di vivere in un mondo abitato solo da gente buona e onesta. Sarebbe bello. Mi piace però pensare a un mondo in cui non sia conveniente delinquere. Chi commette un reato deve sapere che esiste una pena. E quella pena bisogna espiarla. Credo ovviamente all’idea della riabilitazione, soprattutto di chi si rende responsabile di reati ordinari, un po’ meno per i mafiosi. Ma anche i mafiosi hanno la possibilità di redimersi, scegliendo di collaborare con la giustizia”. Buona parte delle persone che ha arrestato nella maxi retata è stata liberata: ha sbagliato qualcosa? “Vorrei specificare, per chi non conosce il codice, che il pm chiede l’applicazione di misure di custodia cautelare a un giudice terzo, che può accogliere o rigettare la richiesta sulla base di quanto viene posto in valutazione. Il pm chiede, il giudice applica. La scarcerazione poi non significa automaticamente riconoscere l’estraneità dell’indagato rispetto all’ipotesi di reato contestata; in molti casi viene fatta una diversa valutazione in merito alle esigenze cautelari, ma questo è un discorso che non è possibile affrontare in termini astratti”. È vero che il Csm può determinare le carriere di chiunque e gli stessi magistrati sono intimiditi dalla cupola che li governa? “Non ho mai fatto parte di alcuna corrente e sono estraneo alle logiche di cui parla. Non nascondo però il fatto che ci siano magistrati che sono riusciti a fare carriera grazie alla loro appartenenza al mondo delle correnti che erano nate con tutt’altra finalità. Il correntismo è uno di quei mali che andrebbero estirpati”. Perché non ha mai aderito a nessuna corrente? “Proprio per la degenerazione che c’è stata delle correnti”. Come ha fatto allora a fare una carriera così brillante? “Questo è un suo giudizio. Quando ho scelto Catanzaro, non mi pare che ci fosse tanta concorrenza. Oggi Catanzaro è diventata una sede appetibile, ma fino a qualche anno fa, pochi avrebbero fatto domanda per fare qui il magistrato. La mia carriera è fatta di indagini che hanno contributo a combattere un fenomeno insidioso, ricco e potente come la ‘ndrangheta”. Cosa pensa dello scandalo Palamara? “Ho letto molte cose che mi hanno ferito. Compreso commenti sul mio conto che non mi sarei mai aspettato di leggere. Mi auguro che il caso Palamara possa servire a fare luce sul correntismo. Palamara non è stato l’unico magistrato a servirsi delle correnti. Spero che questa vicenda possa fare da monito per evitare che certe cose si ripetano”. A cosa è dovuto il crollo di credibilità e autorevolezza della magistratura? “Il magistrato dev’essere, sempre e comunque, al di sopra di ogni sospetto. E poi, come si dice: fa più rumore un albero che cade piuttosto che una foresta che cresce. Nonostante gli scandali, ci sono tantissimi magistrati che ogni giorno fanno il proprio dovere con abnegazione e professionalità”. La sovraesposizione mediatica aiuta o danneggia l’immagine dei magistrati? “Dipende. Se si riferisce alla mia, di esposizione mediatica, le posso dire che ritengo utile e necessario fare conoscere il fenomeno della ‘ndrangheta. Proprio perché se ne è parlato troppo poco negli anni passati, essa è potuta diventare l’organizzazione criminale più potente e forte al mondo”. Perché le inchieste sui politici, anche di secondo piano, hanno una eco mediatica di molto superiore alle sue sulla ‘ndrangheta? “Non saprei. La lotta alle mafie non è mai stata una priorità politica nel nostro Paese. Forse è il momento che lo diventi, perché con le mafie non è più possibile convivere. Quando si parla di mafie, si deve tenere conto di quella zona grigia che alimenta la forza e il potere delle mafie”. Che differenza c’è tra l’attuale ‘ndrangheta e la mafia? “La ‘ndrangheta ha sempre cercato di mantenere un profilo basso. Fino a vent’anni fa, era considerata una mafia stracciona e niente più.” E rispetto alla camorra raccontata da Gomorra? “La ‘ndrangheta non è mai entrata nell’immaginario collettivo. Non ci sono film o serie televisive che l’abbiano saputa raccontare, descrivere, analizzare”. È un problema più grave il malcostume politico o il dilagare della criminalità organizzata? “Sono due facce della stessa medaglia. Nella voce sulla criminalità organizzata che io e il professor Nicaso abbiamo scritto per l’enciclopedia Treccani, abbiamo fatto una riflessione che mi aiuta a risponderle: ci può essere corruzione senza mafia, ma non c’è mafia senza corruzione. Per combattere le mafie, bisogna arginare il malcostume politico, la corruzione e i centri di potere in cui gli interessi dei clan e delle caste si intersecano”. Se dovesse fare una radiografia della ‘ndrangheta in Italia, cosa direbbe? “È la mafia più ricca e potente. Ma non è mai stata un agente patogeno che dal Sud ha infestato il Nord. Al Nord ha trovato le stesse condizioni che l’hanno fatto crescere al Sud: imprenditori e politici che l’hanno scambiata per un’agenzia di servizi”. Nel processo accusa e difesa sono realmente sullo stesso piano o, come lamentano gli avvocati, la bilancia pende a favore delle procure? “Io non credo che il processo sia squilibrato. Ma sul punto sarebbe auspicabile un confronto - sereno e leale - che potrebbe aiutare a risolvere qualunque tipo di problema”. Perché allora è contrario alla separazione delle carriere: quali effetti negativi avrebbe, non aiuterebbe invece a fare chiarezza? “Perché la separazione delle carriere non comporta alcun vantaggio ma solo svantaggi, e non solo in termini di cultura della giurisdizione, ma anche in termini di arricchimento e di sviluppo professionale. Non si deve sperare che le carriere non vengano separate, si deve anzi sperare il contrario e avere sempre più pm che hanno fatto i giudici e sempre più giudici che hanno fatto il pm. Io rivedrei anche le attuali limitazioni, almeno in parte, perché solo questa versatilità può avvicinare le parti del processo e al contempo assicurare una crescita professionale che, invece, verrebbe irrimediabilmente inibita da una separazione delle carriere”. Perché Napolitano non l’ha voluta al governo e perché invece Renzi la voleva così tanto? “Bisognerebbe chiederlo a Napolitano. Mi è stato riferito che mi avrebbe definito un magistrato troppo caratterizzato. Non ho mai capito cosa volesse dire”. Che idea si è fatto delle accuse di Di Matteo a Bonafede, arrivate due anni dopo i fatti? “Non so nulla al riguardo. Di Matteo avrà avuto le sue ragioni. Forse ha scelto il luogo sbagliato. Forse sarebbe opportuno riprendere il dialogo”. Che senso ha un’indagine parlamentare o ministeriale sulle scarcerazioni dei boss: non è questo vero giustizialismo? “Tutt’altro. Bisogna capire come e perché in un determinato momento si è ritenuto di scarcerare detenuti al 41bis per inviarli in zone del Paese caratterizzate da un altissimo numero di contagi. Qualcosa non ha funzionato”. Che idea ha del processo per sequestro di persona a Salvini e delle intercettazioni dove due procuratori dicevano che non c’è reato ma il leghista va processato perché è un rivale politico? “Non conosco nel dettaglio questo dialogo a cui fa riferimento. Se il contenuto è esattamente questo dovranno dare spiegazioni su quanto affermato perché si tratta di affermazioni che danneggiano l’intera magistratura”. Quanto è politicizzata la magistratura italiana? “Come in ogni ambito della vita sociale, anche nella magistratura ci sono mele marce. Ma non credo ci sia una forte politicizzazione della categoria. Il problema è che bastano pochi per rovinare molti”. Si servono più i giudici dei politici o i politici dei giudici? “Questo lo deve chiedere ai magistrati - se ne conosce - che vanno dai politici per chiedere favori personali”. Criteri di computo dello “spazio minimo disponibile” per ciascun detenuto giurisprudenzapenale.com, 28 settembre 2020 Cassazione Penale, Sezioni Unite, informazione provvisoria n. 17 del 2020. Presidente Cassano, Relatore Rocchi. Come avevamo anticipato, era stata rimessa alle Sezioni Unite le seguenti questioni di diritto: a) se i criteri di computo dello “spazio minimo disponibile” per ciascun detenuto - fissato in tre metri quadrati dalla Corte Edu e dagli orientamenti costanti della giurisprudenza della Corte di legittimità - debbano essere definiti considerando la superficie netta della stanza e detraendo, pertanto, lo spazio occupato da mobili e strutture tendenzialmente fisse ovvero includendo gli arredi necessari allo svolgimento delle attività quotidiane di vita; b) se assuma rilievo, in particolare, lo spazio occupato dal letto o dai letti nelle camere a più posti, indipendentemente dalla struttura di letto “a castello” o di letto “singolo” ovvero se debba essere detratto, per il suo maggiore ingombro e minore fruibilità, solo il letto a castello e non quello singolo; c) se, infine, nel caso di accertata violazione dello spazio minimo (tre metri quadrati), secondo il corretto criterio di calcolo, al lordo o al netto dei mobili, possa comunque escludersi la violazione dell’art. 3 della Cedu nel concorso di altre condizioni, come individuate dalla stessa Corte Edu (breve durata della detenzione, sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella con lo svolgimento di adeguate attività, dignitose condizioni carcerarie) ovvero se tali fattori compensativi incidano solo quando lo spazio pro capite sia compreso tra i tre e i quattro metri quadrati. All’esito dell’udienza del 24 settembre 2020, le Sezioni Unite hanno adottato la seguente soluzione: nella valutazione dello spazio minimo disponibile di 3 metri quadri per ogni detenuto si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti “a castello”. Rumori, minacce, animali domestici: quando il vicino diventa uno stalker di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2020 Rumori molesti e ricorrenti, minacce, animali lasciati liberi negli spazi comuni, fino a veri atti di teppismo: sono alcune delle condotte a danno del vicino che passano la soglia delle liti civili e sfociano nel reato di minaccia (previsto dall’articolo 612 del Codice penale) o in quello di stalking, che sanziona (in base all’articolo 612-bis) chi compie atti tali da causare un perdurante e grave stato di ansia o di paura o un fondato timore per l’incolumità propria o di un congiunto o di una persona legata da relazione affettiva o tali da costringere il vicino ad alterare le proprie abitudini di vita. La giurisprudenza ha definito il perimetro del reato, includendo le minacce o molestie ripetute - ne bastano due (Tribunale di Taranto, 202/2020) - astrattamente idonee a sconvolgere la vittima inducendola ad alterare abitudini di vita. I casi - Così, è reato tediare il vicino collegando al telefono una campana elettrica, attivando ogni mattina l’allarme e lasciando il camion in moto per ore sotto le sue finestre (Cassazione, 20473/2018). Per i giudici, sono riconducibili allo stalking - reato di natura abituale (Corte d’appello di Napoli, 1866/2020) che si consuma con l’ultimo atto della serie - pedinamenti, avvertimenti, scarico di rifiuti, intralci al passaggio auto (Cassazione, 17000/2020). Frequente l’uso degli animali per minare la serenità condominiale e irritare il vicino. Se non saper tenere a bada il cane si configura come incuria colposa nella sua gestione (Cassazione, 25097/2019), farlo scorrazzare per il palazzo e lasciare i suoi escrementi negli spazi comuni diventa reato se è un modo di fare volutamente vessatorio e consueto. Stalking indiretto per chi, per snervare una coppia e costringerla a traslocare, sguinzaglia il cane e terrorizza le figlie piccole (Cassazione, 31981/2019). Si tratta di persecuzioni che, nella causa penale, possono essere dimostrate anche con dei video, purché girati dall’esterno dell’abitazione e diretti a parti dello stabile accessibili dall’esterno. Così possono “entrare” nel fascicolo del processo come documenti (Cassazione a Sezioni Unite, 26795/2006). Chi gira i video altrimenti rischia di commettere illecite interferenze nella vita privata (Cassazione 17346/2020). Ci sono poi le situazioni estreme. Condannato per stalking, ad esempio, chi bersaglia il vicino con atti di teppismo: lanci di varechina e imbrattamento dell’uscio (Cassazione 44323/2019), getto di cemento, olii esausti, acqua, sassi ed esplosioni di colpi ad aria compressa (Cassazione 10994/2020). Commette reato anche chi passeggia continuamente davanti casa altrui brandendo bastoni, danneggiando, apponendo e rimuovendo catene (Tribunale di Campobasso 530/2019). I giudici hanno inoltre condannato chi invia lettere anonime con minacce e chiari riferimenti a fatti condominiali (Cassazione 57760/2017). Condannato per stalking (con custodia cautelare in carcere) anche chi pratica un buco sul soffitto, munendosi di tubo su misura e pistola per far deflagrare la famiglia del piano superiore (Cassazione 12515/2020). E, in un condominio teatro di faide familiari, è scattata la condanna piena per il molestatore seriale, a sua volta tempestato da prevaricazioni (Cassazione 2726/2020). Le tutele - Per difendersi dallo stalking condominiale è possibile chiedere misure cautelari da applicare ai vicini. La Cassazione (3240/2020) non ha però riconosciuto il divieto di avvicinamento alla vittima se ciò impedisce al persecutore di rientrare a casa. Sancito, invece, il divieto di dimora nel Comune di residenza con uno stop alla frequentazione del paese natìo per chi assoldi terzi incaricandoli di assalire la condomina che aveva intralciato con un cancello (Cassazione 4473/2020). Custodia carceraria anche per il clan di condòmini che tormenti un altro gruppo con gesti vandalici, provocazioni e incendi, paventando amicizie malavitose per estorcere soldi (Cassazione 28340/2019). “Motivazione rafforzata” se il giudice di appello riforma la pronuncia assolutoria di primo grado di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2020 Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 6 agosto 2020 n. 23594. Quando il giudice di appello riforma la pronuncia assolutoria del primo grado è richiesta l’adozione della cosiddetta “motivazione rafforzata”, consistente, spiega la Cassazione con la sentenza 23594/2020, nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina delle questioni controverse, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore. Ciò, peraltro, vale solo con riferimento alle sole questioni relative all’accertamento e ricostruzione del fatto, perché la necessità, per il giudice di appello, di redigere una motivazione “rafforzata” sussiste solo allorché la riforma della decisione di primo grado si fondi su una mutata valutazione delle prove acquisite, e non anche quando essa sia legittimata da una diversa valutazione in diritto, operata sul presupposto dell’erroneità di quella formulata del primo giudice. È assunto pacifico quello secondo cui, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti (sezioni Unite, 12 luglio 2005, Mannino; cfr., tra le tante, anche sezione III, 26 giugno 2014, Marini, nonché, sezione IV, 20 marzo 2018, Borgnino, laddove si è specificato il significato di motivazione “rafforzata”, da intendere nel senso che il giudice di secondo grado deve confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi redigere una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata a elementi di prova diversi o diversamente valutati). Per converso, è altrettanto pacifico il principio dell’“integrazione” tra la motivazione della sentenza di secondo grado con quella della sentenza di primo grado in caso di decisione di conferma, cosicché non sussiste mancanza o vizio di motivazione allorquando il giudice di secondo grado, in conseguenza della ritenuta completezza e correttezza dell’indagine svolta in primo grado, confermi la decisione del primo giudice: in tal caso, infatti, le motivazioni della sentenza di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione. In questa prospettiva, nella motivazione della sentenza, il giudice di appello non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi logicamente le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di avere tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive, che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (tra le tante, sezione VI, 19 ottobre 2012, Muià e altri). Valutazione giudiziale e onere motivazionale ai fini dell’applicazione della recidiva Il Sole 24 Ore, 28 settembre 2020 Reato - Reo - Reiterazione dell’illecito - Applicazione della recidiva - Elementi di valutazione. Ai fini della rilevazione della recidiva, è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali. • Corte di cassazione, sezione feriale, sentenza 9 settembre 2020 n. 25577. Reato - Circostanze - In genere - Utilizzazione dello stesso fattore per negare le attenuanti generiche e applicare la recidiva - Legittimità - Ragioni. Il giudice può negare la concessione delle attenuanti generiche e, contemporaneamente, ritenere la recidiva, valorizzando per entrambe le valutazioni il riferimento ai precedenti penali dell’imputato, in quanto il principio del “ne bis in idem” sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte lo stesso fattore per giustificare scelte relative ad istituti giuridici diversi. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 19 dicembre 2018 n. 57565 Recidiva - In genere - Applicazione da parte del giudice - Condizioni - Indicazione. Ai fini della rilevazione della recidiva, intesa quale elemento sintomatico di un’accentuata pericolosità sociale del prevenuto, e non come fattore meramente descrittivo dell’esistenza di precedenti penali per delitto a carico dell’imputato, la valutazione del giudice non può fondarsi esclusivamente sulla gravità dei fatti e sull’arco temporale in cui questi risultano consumati, essendo egli tenuto ad esaminare in concreto, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., il rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e le precedenti condanne, verificando se ed in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito quale fattore criminogeno per la commissione del reato “sub iudice”. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 10 luglio 2017 n. 33299. Recidiva - In genere - Recidiva facoltativa - Richiesta di applicazione - Accoglimento - Motivazione implicita - Ammissibilità - Condizioni - Fattispecie. L’applicazione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice, che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente, ove si dia conto della ricorrenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto implicita la motivazione della ritenuta recidiva, desumendola dal richiamo operato nella sentenza alla negativa personalità dell’imputato, quale evincibile dall’altissima pericolosità sociale della condotta da costui posta in essere). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 16 maggio 2016 n. 20271. Recidiva - Contestazione - Recidiva - Contestazione - Obbligatorietà - Applicazione da parte del giudice - Necessità - Esclusione. La recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, ma può non essere ritenuta configurabile dal giudice, a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’articolo 99, comma 5°, del codice penale, nel qual caso va anche obbligatoriamente applicata. • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 5 ottobre 2010 n. 35738. S.M. Capua Vetere (Ce). Spedizione punitiva della polizia in carcere: ecco le prove degli abusi di Nello Trocchia Il Domani, 28 settembre 2020 Il 6 aprile a Santa Maria Capua Vetere uno squadrone di agenti ha picchiato selvaggiamente i detenuti. Salvini ha difeso i poliziotti, ma ora c’è il video. Schiene sfregiate, detenuti in ginocchio, contusioni. Il 6 aprile si è consumato un episodio di inaudita violenza nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. “Ci hanno distrutti”, dice un ex detenuto che chiede di rimanere anonimo. Ora, da uomo libero, ricostruisce i fatti di quelle ore. La sua testimonianza degli abusi agghiaccianti trova conferma nei video che hanno ripreso le violenze. Si tratta di documenti che permettono di scrivere la verità su quella giornata e di raccontare il pestaggio ai danni di decine di detenuti da parte di mi contingente speciale composto da circa trecento poliziotti penitenziari. Dopo le prime denunce dei detenuti e le repliche del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, su questa vicenda è calato il silenzio, interrotto solo lo scorso 11 giugno, con un decreto di perquisizione nei confronti di 57 agenti della polizia penitenziaria. L’arrivo di Matteo Salvini - “Non si possono trattare come delinquenti i servitori dello stato, indegnamente indagati, visto che le rivolte non le tranquillizzi con le margherite, pistole elettriche e videosorveglianza prima arrivano e meglio è, oggi è una giornata di lutto”. Il leader della Lega, Matteo Salvini, davanti alla casa circondariale aveva commentato così il provvedimento della procura di Santa Maria Capua Vetere, guidata dal magistrato Maria Antonietta Troncone, che ordinava di perquisire alcuni agenti e il sequestro dei loro telefoni. Quello che Salvini non sapeva è che proprio nelle registrazioni video del sistema di sorveglianza ci sono le immagini dei pestaggi. Gli operatori carcerari sono indagati per tortura, violenza privata e abuso di autorità per quanto accaduto quel giorno. È stato un terremoto anche istituzionale, perché proprio nel giorno della perquisizione gli agenti della penitenziaria sono saliti sui tetti per protestare contro l’azione portata avanti da altre forze dell’ordine: l’arma dei carabinieri. Lo stato contro lo stato. All’esterno c’era anche Alessandro Milita, procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere che è intervenuto personalmente per riportare la calma. Fino a oggi si è parlato di presunti pestaggi. Ma di dubbi ne restano pochi: i video agli atti dell’inchiesta mostrano minuto per minuto l’azione fuori da ogni regola del battaglione di agenti. Gli indagati sono circa un centinaio, e la perquisizione serviva a ricostruire quanto accaduto nel giorno delle violenze. L’ex detenuto che ha accettato di raccontare quelle ore sotto assedio si trovava nel padiglione Nilo. È lui a confermare l’esistenza delle immagini che provano le violenze. “Mi hanno interrogato, qualche mese fa, e mi hanno mostrato i video, in quelle immagini mi sono rivisto, ho rivissuto quel giorno”, dice. “Mi creda, non ho mai preso così tanti colpi, manganellate e botte in vita mia e non avevamo fatto nulla”. La ritorsione per le proteste - A marzo c’erano state diverse proteste nelle carceri a causa delle restrizioni previste per l’emergenza del Covid-19, con quattordici detenuti morti per intossicazioni da metadone e psicofarmaci sottratti negli ambulatori durante le rivolte. La situazione si è aggravata a causa della gestione del Dap, guidato dal magistrato Francesco Basentini, che poi si è dimesso in seguito alle polemiche per la scarcerazione di alcuni boss. Al carcere di Santa Maria Capua Vetere detenuti e guardie penitenziarie, all’inizio della pandemia, non avevano neanche le mascherine. Una prima protesta all’inizio di marzo si era risolta senza conseguenze. Qualche settimana più tardi ai detenuti è arrivata una notizia. Alla sezione Tamigi, quella dei reclusi con reati associativi, si è scoperto il primo caso di contagio da Covid-19, cosa che ha rinfocolato la paura e le proteste. Si arriva così al 6 aprile quando in carcere entra il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, che parla con una rappresentanza dei detenuti “Gli abbiamo detto che avevamo paura, paura di morire”, dice l’ex detenuto. Ma nel primo pomeriggio entra il contingente di trecento uomini per quella che viene presentata come una perquisizione straordinaria. Arrivano agenti anche dagli altri istituti di pena campani. “All’improvviso abbiamo sentito passi pesanti, abbiamo visto dalle finestre decine e decine di poliziotti, quasi tutti a volto coperto, avanzare verso il nostro padiglione, il Nilo, da lì a poco l’inferno”. I poliziotti entrano. “Aprono una cella alla volta. Entrano nella mia e dicono “avete fatto la protesta?” e giù manganellate, botte. Ci hanno devastato”. In cella il testimone era con altri tre detenuti. “Mi hanno fatto spogliare, e mentre mi abbassavo i pantaloni sono arrivati gli schiaffi, i calci”. In quel momento si sentivano le urla degli altri. Quello che stava accadendo nelle celle era solo l’inizio. “Nel corridoio c’erano poliziotti a destra e sinistra, al nostro passaggio partivano con calci, pugni, manganellate, fino al piano terra”. I video confermano il racconto. C’erano guardie penitenziarie nell’intero padiglione Nilo, arrivavano fino al piazzale dove i detenuti fanno l’ora d’aria. Ogni cella, che contiene in media quattro detenuti, è stata aperta e i reclusi dovevano guadagnarsi l’uscita attraversando il corridoio e le scale. Detenuti inginocchiati, schiacciati contro il muro, finiti con costole rotte e traumi di ogni genere. “Sono tornato in cella in ginocchio, non riuscivo a stare in piedi”, racconta il testimone. Nei giorni successivi, i reclusi hanno comunicato ad avvocati e familiari la brutale azione di cui sono stati vittime, con il supporto dell’associazione Antigone e di Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, garanti dei detenuti della Campania e di Napoli. In decine hanno presentato denuncia. “Chi ha la testa rotta, chi ha perso i denti, mi hanno manganellato ovunque”, dice un altro detenuto in lacrime alla moglie. “Ci hanno trasformato in prigionieri. Non ci vedo più, ho l’occhio gonfio”. La procura ha aperto un fascicolo d’inchiesta. Ma per ogni denuncia è arrivata puntuale la nota del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che chiarisce che gli agenti non sono armati e in caso di agitazione dei detenuti “l’ordine è quello di contenere. E il contenimento “non prevede mai in alcun caso la violenza”. Una nota ormai cancellata dai fatti del 6 aprile, che hanno trasformato il Francesco Uccella in un carcere degli orrori. Napoli. Mattone: “Nelle carceri ho respirato il dolore” di Marianna Vallone La Città di Salerno, 28 settembre 2020 Il portavoce della “Sant’Egidio” incontra i detenuti di Poggioreale da 15 anni “Mi hanno scritto 600 lettere. Il mistero del male non si risolve solo in cella”. I detenuti gli affidano sogni e speranze, ma anche rabbia, frustrazione, delusioni e paura. Lui li ascolta, li rassicura, li perdona. La sua voce è rasserenante. Lo sguardo è quello di quelli di cui ci si può fidare. Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio della Campania, da 15 anni vive parte della sua esistenza con uomini e donne che hanno perso il bene più prezioso, la libertà. Da volontario all’interno del carcere di Poggioreale, ne racconta, attraverso i suoi editoriali e libri, l’avventura inedita all’interno di mura dove si pensa regni male e violenza. Ed invece sono storie d’umanità, di solitudine e di sofferenza. Si sa poco e male delle carceri. Se ne parla in termini aggressivi, rancorosi, magari senza conoscere. C’è chi parla del carcere senza esserci mai stato. Invece è una realtà molto complessa che merita approfondite discussioni. Com’è iniziata la sua vita nelle carceri? Da una proposta, più di 15 anni fa: dovevamo iniziare un nuovo servizio nel carcere di Poggioreale. Qualcuno doveva andarci ed è toccato a me. Da lì è nata una passione, è nato un percorso. Sono diventato volontario, poi ho iniziato a scrivere. Da giornalista ho anche quella fortuna di girare liberamente nel carcere e cogliere quegli aspetti che poi ho la possibilità di raccontare, a partire dall’”Estate calda”, con 16 detenuti per cella, mentre si parlava di hotel a 5 stelle, e vedevo come si soffriva. In una cella con tante persone quanta solitudine c’è? Tanta. Ce n’è tanta, soprattutto quando ci sono più nazionalità diverse, quando magari non si conosce la lingua, quando hai parenti lontani, quando non hai nessuno con cui parlare. Com’è la situazione nelle carceri campane? Dopo il Covid c’è stato un aumento di detenuti. E aumentano anche i suicidi: come lo spiega? È sempre una sconfitta: è un dramma, che però non è solo dei familiari e della persona, ma di tutti. È una cosa orribile. Le motivazioni nascono dallo sconforto. C’è gente che si toglie la vita poco prima di uscire, perché mancano le prospettive e allora si avvilisce. È frequente che il suicidio lo scelga chi sconta la pena per i reati di violenza, non reggono la vergogna. Cosa le dicono i detenuti, cosa le scrivono? In genere i detenuti studiano chi hanno di fronte. Si parla del carcere come se fossero tutti uguali ma non è così, sono storie completamente diverse. Cercano di sfogarsi, di raccontare, di avere qualcuno che possa parlare per loro: nel caso dei separati, mi chiedono di dire all’ex coniuge di fargli visita. Si crea un legame tra me e loro, perché vedono quel qualcosa che a loro è mancato, ad esempio un legame familiare. Ho 600 lettere di detenuti, molti li vedo da 10 anni fuori dal carcere. Le lettere le raccoglierà? Le raccolgo. Adesso sto scrivendo un libro sulla storia di Giuseppe Salvia, un libro molto tosto e faticoso, ci lavoro da 4 anni: ho anche incontrato Cutolo e penso che non ne scriverò altri. Quali sono le esperienze che le sono rimaste dentro? Sono tante, sono gli incontri personali, ed anche vedere come questi giovani sono attratti dal male. Un’esperienza che mi ha colpito molto è quella con gli ex ergastolani, che facevano parte della mafia, della ‘ndrangheta: per un periodo ne ho incontrati alcuni, facevamo incontri settimanali. Il male è un mistero, il carcere non é l’unica soluzione per combattere la criminalità. Ne ricorda una in particolare, d’esperienza? Una di un ragazzo che tornò in carcere. Andai a trovarlo e lo trattai malissimo. Lui quel giorno scrisse una lettera bellissima. Da volontario cosa fa in carcere? Faccio colloqui con loro: con alcuni prosegue, con un gruppo facciamo incontri di catechesi, con altri momenti di musica, incontri culturali, presentazioni di libri. Ad esempio una volta ho portato in carcere Gianni Morandi. Sono anche direttore dell’ufficio Lavoro della diocesi, con cui abbiamo fatto un progetto, insieme al Ministero, per una pizzeria nel carcere di Poggioreale. È un modo per aiutare i detenuti a trovare un lavoro. Il cardinale ha messo a disposizione una chiesa del centro storico, non più adibita al culto, nella quale realizzeremo una pizzeria, all’interno della quale transiteranno i detenuti per essere accompagnarli al mercato del lavoro. Quanti innocenti ha incontrato? Sicuramente qualcuno. Non sono giudice, per fortuna; sono un volontario, sempre per fortuna. Non chiedo mai dei loro reati, a volte se ne parla durante i discorsi. Alcuni sono certo fossero innocenti, sono quelli che spesso si sanno difendere di meno. Esiste la certezza della pena? È un discorso importante, certezza della pena non vuol dire certezza della galera. L’articolo 27 della Costituzione parla di pene al plurale: devono attenersi al principio di umanità, anche le misure alternative siano una pena. Le misure alternative sono importanti, chi esce di galera da un giorno all’altro è più fragile. Chi esce piano, nel frattempo trova un lavoro, si affaccia alla vita di tutti i giorni con gradualità. Cos’altro non si racconta delle carceri? Dei bambini che stanno con le madri, è un grande dramma. Crescono male, non è giusto che le colpe delle madri ricadano sui figli. Napoli. Detenuto colpito da ictus riportato in carcere: “Non riesce neanche a muoversi” di Gennaro Scala cronachedi.it, 28 settembre 2020 La visita dei Garanti dei detenuti. Ciambriello: “Comprendeva quello che dicevamo, ma non poteva sollevare la testa dal cuscino”. La famiglia: “Vogliamo solo che sia curato in maniera adeguata”. L’attesa è stata lunga, ma alla fine l’incontro c’è stato. Parliamo della visita annunciata dei Garanti dei detenuti, il regionale Samuele Ciambriello, e il cittadino Pietro Ioia che, insieme a una loro collaboratrice si sono recati presso la Casa circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale per verificare le condizioni di salute di Francesco Petrone, il 43enne del rione Traiano che è stato riportato in carcere malgrado versi in gravi condizioni. Il direttore sanitario ha incontrato Ciambriello e successivamente si sono recati entrambi da Petrone che si trova in isolamento all’interno del padiglione San Paolo, nel “Servizio di assistenza integrata”. Il “San Paolo” è un Centro diagnostico terapeutico, che raccoglie degenti anche provenienti da altre strutture penitenziarie, uno dei punti in cui si presta assistenza sanitaria ai detenuti all’interno del carcere di Poggioreale, dove è presente anche il Servizio di assistenza integrata, il cosiddetto “Sai”. “Già da venerdì sera ha avuto un piantone, ovvero un detenuto più giovane deputato dargli una mano - ha affermato Ciambriello, che ha aggiunto - Sono rimasto molto turbato quando ho visto Petrone perché non è riuscito a muoversi, neppure sollevare la testa dal cuscino. Eppure sembrava vigile. Comprendeva, ma non riusciva a muoversi. Un altro detenuto con cui ho parlato sempre ieri e che ha un tumore si è alzato, è venuto a parlare con noi, ma Petrone no. Ne ho viste tante in 40 anni, ma un detenuto ridotto così mai”. Ma la visita non si è limitata al solo Petrone. “Abbiamo visto Francesco, un altro detenuto che deve scontare altri due anni. Doveva farsi una visita specialistica, un’ecografia total body. Al Cardarelli avevano predisposto tutto, ma il giorno in cui avrebbe dovuto spostarsi, non c’era la scorta. Bisogna salvaguardare la sicurezza certo, ma quello alla salute è un diritto inviolabile”. I garanti hanno avuto un incontro con il direttore sanitario del carcere che già venerdì aveva incontrato i familiari di Francesco Petrone, chiedendo loro quali farmaci assumesse per poter continuare la terapia. “Una vita non può valere una condanna”. Era questo lo striscione affisso all’esterno del carcere di Poggioreale nella giornata di venerdì, quando è stata organizzata una protesta da parte dei familiari del 43enne rione Traiano. Una protesta organizzata perché per lui era arrivata la decisione di revoca del regime dei domiciliari e un nuovo trasferimento a Poggioreale. “Vergogna, vergogna” scandivano le persone presenti all’esterno della casa circondariale. La manifestazione è poi rientrata dopo un faccia a faccia con un ispettore e un dirigente sanitario. Ha 43 anni Francesco Petrone detto ‘o nano, ed è indicato dall’Antimafia come un personaggio di spicco della mala del rione Traiano. Fu arrestato nel 2017 e in aprile fu colpito da ischemia. Il mese successivo arrivò per lui una anche una condanna a 19 anni di reclusione. Venerdì il ritorno in carcere perché, secondo i giudici, Petrone può avere un’assistenza sanitaria adeguata anche in carcere. Ma cosa ne pensano i familiari? “Non insistiamo per farlo scarcerare, ma non vogliamo che muoia in carcere. È necessario che abbia assistenza a tutte le ore e che venga curato in maniera adeguata”. Napoli. Polo universitario in carcere e diritto allo studio caserta24ore.altervista.org, 28 settembre 2020 Venerdì 2 ottobre prossimo, arrivano nel carcere di Secondigliano il Sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis e il Ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi. “Il ruolo centrale dell’istruzione nell’edificare una società inclusiva e consapevole, la sua valenza di strumento di riabilitazione e riscatto culturale nelle carceri, ai fini del reinserimento sociale dei detenuti, sono i presupposti che mi hanno portato a volere fortemente un incontro su questo tema. Esso avrà luogo venerdì 2 ottobre a Napoli, presso l’Istituto penitenziario di Secondigliano, nella forma di un seminario dal titolo “Polo Universitario in Carcere: Diritto allo studio per costruire il futuro”. L’occasione impegnerà i relatori in una riflessione comune sulla materia, darà modo di fare il punto della situazione e di valutarne le prospettive sottolineando il contributo fondamentale del volontariato operante in questo settore, delle istituzioni locali, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e della scelta coraggiosa e rilevante dell’Università Federico II, di aprire un polo. Il seminario avrà luogo dalle 15.00 alle 17.00. Le conclusioni sono affidate al Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis e al Ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi”. È quanto dichiarato in una nota dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Campania, Samuele Ciambriello. Pesaro. Si allaga un’intera sezione del carcere e salta l’impianto elettrico di Luigi Benelli Corriere Adriatico, 28 settembre 2020 Piove all’interno del carcere di Pesaro, una sezione allagata e detenuti costretti in alloggi di fortuna. È quanto fanno sapere Osapp, Uilpa, Uspp, Cnpp, Fp Cgil, Fns Cisl. “Siamo costrette a denunciare l’ennesima emergenza che ha colpito la Casa Circondariale di Pesaro. Nella giornata di venerdì scorso, in concomitanza dei lavori di rifacimento dei solai dell’Istituto, tuttora in corso, per i quali sono state rimosse le vecchie e deteriorate coperture dei tetti ed a causa delle copiose piogge di questi giorni, un’intera sezione detentiva si è completamente allagata. Il corridoio e quasi tutte le camere detentive nel giro di poche ore si sono trasformate in delle vere e proprie piscine. L’impianto elettrico, già di per sé obsoleto e fatiscente, è andato in tilt in quanto compromesso dall’abbondante acqua che cadeva dal soffitto”. I sindacalisti della polizia penitenziaria aggiungono che i detenuti sono stati “dislocati in spazi di fortuna, si trattava di una sezione di detenuti protetti quindi non potevamo unirli ad altre sezioni. Per fortuna nessuno è rimasto folgorato, l’acqua usciva dagli impianti elettrici”. Gli agenti sono stanchi e continuano. “Evidenti e gravi sono state le ripercussioni sulla sicurezza e l’ordine dell’Istituto sin dalle prime ore del mattino, fino ad arrivare al tardo pomeriggio di ieri, quando la Direzione del Carcere è stata costretta a chiudere e rendere inagibile l’intera sezione detentiva coinvolta dall’allagamento, trasferendo ben quaranta detenuti in tutti gli spazi e locali disponibili all’interno dell’Istituto, impiegando tutto il personale al momento presente il quale ha potuto terminare il proprio turno di servizio solo nella tarda serata”. Secondo le sigle “ci sono sicuramente gravi responsabilità per quanto accaduto, soprattutto ci si chiede chi e perché abbia ritenuto idoneo procedere con i lavori senza effettuare lo sfollamento di almeno una sezione detentiva. Era facilmente prevedibile che si sarebbero verificate delle problematiche, che si potevano evitare, chiudendo, prima dell’inizio dei lavori, i reparti detentivi come solitamente avviene in altri Istituti Penitenziari. “Purtroppo i primi a subire le conseguenze di decisioni prese da “altri”, sono gli uomini e le donne della polizia penitenziaria, ai quali dopo viene chiesto di intervenire per far fronte alle emergenze. A nome di tutto il Personale di Polizia Penitenziaria costretto a doppi turni e a subire continue aggressioni, ci riserviamo di avviare azioni concrete ed incisive, affinché si ottenga la dovuta considerazione e quei cambiamenti che tutto il personale chiede ad alta voce”. Massa Carrara. Prove di salvataggio in mare con i detenuti di Margherita Badiali La Nazione, 28 settembre 2020 Quattordici carcerati si sono prestati a farsi soccorrere dai cani-bagnino per l’iniziativa “Mi fido di te”. C’era chi da 23 anni non faceva un bagno. Era da 23 anni che non faceva un bagno in mare ed ha vissuto una “bella sensazione di libertà”. Si tratta di uno dei 14 detenuti del carcere di Massa che si è prestato a buttarsi in acqua e a farsi salvare dai cani-bagnino in merito all’iniziativa “Mi fido di te”, promossa dalla Casa di reclusione di Massa in collaborazione con Telefono Azzurro, Capitaneria di Porto, Associazione Sogit, Carrefour e Tassoni Salumi e Formaggi. È successo ieri al bagno Rap di Marina di Massa, lo stabilimento balneare in uso della polizia penitenziaria. Una giornata di spensieratezza per i detenuti e le loro famiglie che grazie alla presenza dei cani sono stati coinvolti in attività di ‘pet therapy’ ed hanno condiviso momenti di gioia. Nala, Balù, Pluto, Spirit e Marino sono solo alcuni degli amici a quattro zampe che hanno eseguito la dimostrazione di alcune tipologie di salvataggio in mare insieme ai propri addestratori. Tanta soddisfazione e commozione per Maria Giovanna Guerra presidente del Telefono Azzurro di Massa Carrara che ha voluto fortemente il protocollo d’intesa con Enci (Ente Nazionale Cinofilia Italiana) per permettere ai figli minorenni dei detenuti di essere accompagnati dai cani durante i colloqui presso la casa di reclusione, per rendere gli incontri e i controlli all’entrata meno traumatici. “Le regole predisposte per il Covid hanno fortemente penalizzato gli incontri tra le famiglie e i detenuti - ha detto la direttrice della casa di reclusione di Massa Maria Cristina Bigi- Ci sembrava opportuno fare un po’ di formazione e avendo i cani a disposizione abbiamo messo in piedi l’iniziativa. Quello che vorremmo fare è far capire anche ai detenuti che l’amministrazione penitenziaria è sensibile alle loro problematiche”. I detenuti presenti all’evento fruiscono già di permessi premio: “Abbiamo presentato l’iniziativa in carcere e alcuni di loro hanno scelto spontaneamente di aderire - ha aggiunto la direttrice del carcere di Massa. È importante per noi fare leva sulla loro curiosità. La grande fortuna è stata anche quella di avere la presenza della Capitaneria di Porto che ha dato lustro all’iniziativa. L’idea che vorrei cercare di mettere in atto, anche qui a Massa, è quella di creare una rete intorno al mondo carcere, ovvero non far sì che la realtà carceraria sia isolata. Creare un ponte con la cittadinanza, come ad esempio far fare ai detenuti corsi, o altre attività e questo possiamo farlo grazie all’inserimento di altre realtà associative. Vogliamo mettere in atto il nostro compito istituzionale più importante, che è quello di reintrodurre le persone all’interno della collettività”. Il conflitto migliora e ci rende più sottili di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 28 settembre 2020 Una nuova intolleranza, sia a destra che a sinistra, mostrifica le opinioni degli avversari e squalifica il valore immenso del dissenso. Stiamo andando paurosamente indietro, nella dimensione pubblica, sui social, ma anche in tv, sui giornali, nei libri, nelle aule universitarie persino. Tutti funzionari della scomunica, tutti sacerdoti della censura. Nel suo “In prima persona” appena tradotto e pubblicato da Marsilio. Alain Finkielkraut, un pensatore formidabile e coraggioso che in Francia viene spesso linciato dalle vestali intellettuali del perbenismo neo-dogmatico, riporta un meraviglioso elogio della polemica e del dissenso scritto da Lessing: “Sembra che ci dimentichiamo a quante domande importanti si è potuto rispondere solamente grazie agli avversari, e che gli esseri umani non sarebbero d’accordo su nessuna cosa se non avessero litigato su nulla”. Una boccata d’ossigeno in un’epoca sempre più oscurantista, allergica alla discussione, che tende sempre più a cancellare la disputa, il dibattito, il conflitto di idee per rimpiazzarli con la “feroce pratica della scomunica”, come scrive Finkielkraut, “con la gogna al posto della polemica” in un crescendo di intolleranza e di arroganza sbrigativa in cui ci si arroga il “monopolio della parola legittima”, un clima “pedante, teso, opprimente” che soffoca ogni diversità di opinione (anche di opinioni sgradevoli) per “regnare sulla società senza confronti e senza interlocutori”. La forza delle parole di Lessing è che mettono a fuoco il valore della differenza e del conflitto, non come ostacolo da superare per arrivare a una lugubre uniformità, ma come prova e rafforzamento delle nostre opinioni che accettano il confronto anche aspro per vincere sul piano delle argomentazioni e non su quello della censura. Il conflitto migliora, ci rende più sottili, ci costringe ad aver ragione sulle obiezioni, rafforza le nostre posizioni esposte all’aria aperta, e non nel chiuso di una gabbia in cui tutti dicono la stessa cosa e fanno il coro. Una nuova intolleranza che, sia a destra che a sinistra, mostrifica le opinioni degli avversari e squalifica il valore immenso del dissenso. Stiamo andando paurosamente indietro, nella dimensione pubblica, sui social, ma anche in tv, sui giornali, nei libri, nelle aule universitarie persino. Tutti funzionari della scomunica, tutti sacerdoti della censura. Prepotenti convinti di possedere la verità rivelata e che non sopportano la contestazione anche aspra a ciò che sostengono. E per fortuna che c’è un giovane come Pietro Castellitto che a Venezia, ringraziando per il premio al suo film, lo ha voluto dedicare “a chi non è d’accordo” con lui. Un piccolo gesto di resistenza. Grazie. Cina, quanto costa la mancanza di libertà di Milena Gabanelli e Luigi Offeddu Corriere della Sera, 28 settembre 2020 La Repubblica Popolare ha poco rispetto dei diritti umani, la pandemia ha mostrato qual è il prezzo (per tutti). Dal dissenso alle minoranze: i lati oscuri di un Paese. accaduto anche con la pandemia da Coronavirus: la Cina, dal 1945 membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto, tace o nega da sempre quando le si chiede conto di come rispetta i diritti umani, in questo caso la libertà di informazione. Stavolta però il suo silenzio viene pagato anche da molti altri Paesi. Il South China Morning Post, storico quotidiano di Hong Kong, riporta più volte informazioni da fonti governative: il primo contagio del nuovo morbo è stato registrato in Cina il 17 novembre 2019. L’informazione all’Oms dovrebbe essere immediata, ma le autorità attendono fino al 31 dicembre prima di comunicare al corrispondente ufficio di Pechino una “strana polmonite” sviluppatasi a Wuhan nel mercato di animali vivi. I “wet market” erano già i principali indiziati del precedente Sars-Cov1 del 2002. Però solo il 9 gennaio 2020 Pechino parla di “nuovo coronavirus” simile al precedente Sars. Il 30 gennaio l’Oms dichiara l’emergenza internazionale. Nel frattempo il business e il turismo mondiale va e viene dalla Cina come se nulla fosse. Solo nel mese di dicembre e solo con l’Europa i voli sono 5.523 (dati Eurocontrol). Secondo fonti dell’Enac - l’Ente nazionale italiano dell’aviazione civile - il 13 gennaio, mentre si prepara il lockdown di Wuhan, Pechino firma con l’Italia (ignara) un memorandum d’intesa per un aumento fino a 164 voli settimanali per parte, di cui 108 con decorrenza immediata. Poi c’è stato il blocco. Il prezzo di quel mese e mezzo di silenzio è incalcolabile. La Cina nega ogni responsabilità e reagisce alla perdita di credibilità aumentando la repressione con lo schiacciamento della libertà a Hong Kong, con le nuove mire strategiche nel Mar Cinese Meridionale, con il pugno sempre più pesante sulle minoranze etniche, sulla libertà di espressione interna, con il gelo nei rapporti con la chiesa cattolica, con arroganti minacce agli Stati sovrani. La notte di Hong Kong - È stata tenuta segreta fino a poche ore prima della pubblicazione, la notte del 30 giugno: settemila parole, 66 articoli. La nuova “legge sulla sicurezza” punisce con condanne fino all’ergastolo ipotesi di reato come “secessione, sovversione, collusione con Paesi stranieri per minacce alla sicurezza nazionale”. Elaborata a Pechino, ha posto fine a un anno e mezzo di proteste a Hong Kong, oggi regione amministrativa speciale, ma con il patto Pechino-Londra di conservarne alcune libertà civili fondamentali fino al 2047: “un solo Paese, due sistemi”. Le proteste erano iniziate perché la Cina pretendeva di processare nei tribunali di Pechino gli imputati di presunti reati (anche politici) commessi a Hong Kong. La pretesa è stata poi ritirata, ma intanto “Pechino - spiega una fonte - ha approfittato della distrazione dell’Occidente causata dalla pandemia per varare la legge sulla sicurezza nazionale”. Così, rinviate di un anno le elezioni previste per metà settembre (i sondaggi davano già al 60% l’opposizione liberal), fuggiti in esilio i principali leader democratici, centinaia di arresti solo nei primi giorni, in manette anche l’editore liberal Jimmy Lai, con i due figli, ufficialmente per “collusione contro l’unità dello Stato cinese”. Dodici cittadini di Hong Kong sono invece stati arrestati nelle ultime settimane, mentre cercavano di raggiungere Taiwan in barca. Londra ha offerto “una nuova via di immigrazione” ai 3 milioni di cittadini residenti a Hong Kong che nel 1997 scelsero, con l’accordo di Pechino, di conservare il loro passaporto inglese. La risposta di Pechino: “non considero validi quei passaporti”. Il nodo Taiwan - Dal gennaio 2021 Taiwan avrà un nuovo passaporto. In copertina la parola “Repubblica di Cina” non si legge quasi più, al suo posto “Taiwan”. Un segno preoccupante per Pechino che ha sempre ammonito: se “quelli dichiareranno l’indipendenza, attaccheremo militarmente”. Perché Taiwan, indipendente di fatto dal 1949, non è uno Stato indipendente di diritto, non siede - per volontà di Pechino - nelle organizzazioni internazionali. Per la Cina è una “entità ribelle”, e solo 14 Stati la riconoscono diplomaticamente. Un solo esempio: Pechino ha impedito che l’Oms invitasse al suo vertice annuale 2020 Taiwan come esempio di buona gestione sanitaria. E l’Oms ha obbedito. Non è solo questione di orgoglio imperiale, ma soprattutto geostrategica, perché il Mar Cinese Meridionale è al centro dei suoi piani di espansione: gremito di isole artificiali cinesi, è una miniera sottomarina con 11 miliardi di barili di petrolio e 190 trilioni di piedi cubi di gas naturale. Taiwan si è attrezzata: tutti i suoi piani militari sono calibrati su un’ipotesi di invasione anfibia proveniente dalla Cina, che a sua volta si è armata con tecnologia in grado di distruggere e uccidere senza intervento umano. Le esecuzioni - Secondo Amnesty International la Cina ha il primato mondiale delle esecuzioni capitali, previste per 46 diversi reati, inclusa la sovversione. Le esecuzioni sarebbero “migliaia all’anno”, ma Pechino dice che non esistono “statistiche separate”, che il numero include gli ergastoli e le pene oltre i 5 anni. In pratica le considera un segreto di Stato. Solo nel 2014 l’Onu ha approvato 20 raccomandazioni contro la pena di morte, tutte non vincolanti, lasciate cadere da Pechino come “inapplicabili e in contrasto con la realtà cinese”. Senza risposta anche le proteste del Consiglio Onu per i diritti umani: anzi, nell’aprile 2020, proprio in quel Consiglio da cui nel 2018 si è dimesso il rappresentante americano, la Cina, bocciata dalle periodiche “revisioni” del Palazzo di Vetro in tema di libertà e giustizia, ha ottenuto un suo seggio fino al 2021. Forse perché, sostiene il “Centro per una Nuova Sicurezza Americana”, sta riempiendo il vuoto lasciato da Trump nelle organizzazioni internazionali, e perché ha appena promesso una donazione all’Onu di 2 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi due anni. Repressione delle minoranze etnico-religiose - Il Tibet è una regione autonoma, i suoi 3,1 milioni di abitanti sono quasi tutti buddisti, con una loro lingua e una identità nazionale risalenti al 127 a.C. Hanno sempre rivendicato l’indipendenza da Pechino e hanno pagato un prezzo: templi distrutti e repressione sanguinosa. Il Dalai Lama, premio Nobel per la Pace, vive in esilio nell’India del Nord, ha rinunciato a ogni potere temporale e alla linea indipendentista. Chiede però ancora “compassione” e il rispetto dei diritti umani. Nella regione autonoma occidentale dello Xinjiang vivono 23 milioni di abitanti, il 47% sono musulmani uiguri. Inaccettabile per Pechino la loro richiesta di libertà religiosa. Alla repressione violenta si alterna la “rieducazione politica” o “formazione ideologica e civile” attraverso il lavoro forzato. Lo scorso 1 settembre il World Uyghur Congress, in occasione della visita a Berlino del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, chiede aiuto al governo tedesco: da 1 a 3 milioni di uiguri sono detenuti senza accuse nei campi di “rieducazione”, dove avvengono torture e sterilizzazioni forzate. La Germania ha protestato più volte, anche se nello Xinjiang si trovano fabbriche tedesche come la Volkswagen (a Urumqi), la Siemens, la Basf. I 4022 campi di rieducazione sono stati formalmente aboliti nel 2013, ma un drone inglese ha catturato immagini di un campo nello Xinjiang dove migliaia di persone produrrebbero giocattoli, abiti, e merce a basso costo poi venduta in Occidente. Pechino l’ha liquidata come propaganda trumpiana, ma non autorizza l’accesso agli ispettori Onu chiesto nel 2019 da 22 Stati con una lettera del Consiglio per i diritti umani. Dalla lettera mancava la firma americana, ritirata ormai da un anno. Intanto gli uiguri emigrati in Europa, e ormai cittadini di Olanda o Finlandia, quando denunciano il dramma dello Xinjiang vengono minacciati da agenti cinesi: “Pensa alla tua famiglia”. Nella Mongolia esterna, indipendente dal 1921 e popolata dagli eredi di Gengis Khan, da quest’anno l’insegnamento non avverrà più nella lingua locale, ma sarà obbligatorio il mandarino. Rapporti Cina-Vaticano - Oggi in Cina ci sono 10 milioni di cristiani, 101 vescovi, 146 diocesi, 4000 preti, circa 4500 suore. È in scadenza l’accordo provvisorio Pechino-Roma del 2018. Dovrebbe confermare che l’ultima parola nell’ordinazione dei vescovi spetta al Papa. Un compromesso teorico, insomma. Ma la situazione reale è ben diversa, sostengono proprio fonti cattoliche: i patti non sono stati rispettati dal regime, le chiese sono sbarrate e dominate dalla bandiera del partito, e chi aspira a essere assunto in un ufficio governativo deve prima rinunciare a ogni fede religiosa. O meglio: lo Stato proclama la libertà religiosa e riconosce ufficialmente 5 fedi, ma poi spiega ai membri del partito che ogni culto è “anestesia spirituale”, incompatibile con l’iscrizione al partito. Però la tessera di quel partito è almeno nei fatti indispensabile per accedere agli impieghi pubblici. Intanto i missionari italiani devono tornare a casa, incluso Bernardo Cervellera, direttore di Asia News. Le minacce agli Stati sovrani - Che succede alle voci critiche? Cheng Lei, cittadina australiana di nascita cinese e nota conduttrice di una Tv pubblica di Pechino, è finita agli arresti domiciliari in un luogo sconosciuto, senza un’accusa esplicita. I leader di Tienanmen sono in esilio fra Usa, Francia, Australia e anche Italia. Le minacce si estendono anche agli Stati sovrani. “Con gli amici noi usiamo del buon vino, e i fucili con i nemici”, ha ringhiato l’ambasciatore cinese a Stoccolma quando il governo svedese ha annunciato di voler premiare l’editore e scrittore Gui Minhai, svedese nato in Cina, dove era stato condannato a 10 anni per presunto spionaggio. Durante il suo tour europeo il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha fatto tappa il 3 settembre nella Repubblica Ceca, e rivolgendosi al Presidente del Senato Miloš Vystr?il, che era appena stato in visita a Taiwan, ha dichiarato testualmente “pagherete caro il vostro opportunismo politico”. Il 31 agosto era passato dalla Norvegia. Un giornalista aveva chiesto al ministro cosa pensasse della possibilità di estendere “ai ragazzi di Hong Kong” il Nobel per la Pace. Risposta: “la Norvegia non usi il Premio per interferire nei nostri affari interni, pensi piuttosto a coltivare relazioni “sane” che si sono finalmente realizzate dopo il “gelido inverno” seguito al Nobel conferito nel 2010 al dissidente incarcerato Liu Xiaobo”. Il prezzo del silenzio - Quanto conta la libertà di parola in un mondo sempre più interconnesso, che dovrà fare i conti con minacce sanitarie e riscaldamento globale, e dove la Cina ha un ruolo centrale? Il giurista dell’università di pechino He Weifang ha dichiarato: “l’assenza in Cina di libertà di parola e di espressione ha favorito il diffondersi del contagio”, lo aveva ribadito un suo illustre collega, Xu Zhangrun, arrestato. Li Wenliang, l’oculista cinese che per primo individuò il virus è stato prima fermato, poi censurato, e infine ne fu vittima. Oggi nel mondo si contano quasi un milione di morti, e una recessione globale. La Cina non si è scusata, ed esalta la superiorità del modello cinese, che avrebbe gestire in modo straordinario la pandemia, mentre i paesi democratici non sono in grado. Oggi dichiara di avere solo 8 casi su 1,4 miliardi di abitanti. Impossibile sapere se quel numero sia reale. Non c’è dubbio che Stati Uniti, Brasile, e qualche Paese europeo abbiano sottovalutato, ma come sarebbero andate le cose se le autorità cinesi avessero subito informato la comunità internazionale della gravità di ciò che stava succedendo? Non lo sapremo mai, come non sapremo esattamente cosa è successo perché l’inchiesta internazionale indipendente votata all’Oms all’unanimità a maggio, è ancora un pezzo di carta. Iran. Quattro uomini condannati per furto all’amputazione delle dita di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 28 settembre 2020 Mentre scrivo questo post (è venerdì 25) la sentenza è stata solo annunciata. Forse, quando lo leggerete, sarà stata già eseguita. La Corte suprema iraniana ha recentemente confermato la condanna all’amputazione di quattro uomini giudicati colpevoli di furto e attualmente detenuti nella prigione di Urmia: Hadi Rostami (33 anni), Mehdi Sharfian (37), Mehdi Shahivand (42) e Kasra Karami (40). Secondo quanto dispone meticolosamente l’articolo 278 del codice penale islamico, “saranno tagliate quattro dita della mano destra in modo che restino solo il palmo della mano e il pollice”. Karami è stato condannato il 12 febbraio 2017, gli altri tre il 19 novembre 2019. Non vale neanche la pena sottolineare che due prigionieri abbiano denunciato di essere stati torturati affinché confessassero la loro colpevolezza e che altri due si siano difesi dichiarando di essere stati costretti a rubare a causa delle estreme condizioni di povertà. Il punto è che pene quali le amputazioni, le frustate e gli accecamenti sono vietate dal diritto consuetudinario e anche dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui l’Iran è Stato parte, che proibiscono la tortura in ogni circostanza e senza alcuna eccezione. A poco valgono le affermazioni delle autorità iraniane, secondo le quali l’amputazione di quattro dita di una mano è un efficace deterrente contro i furti. Secondo il Centro Abdorrahman Boroumand, solo quest’anno sono state emesse almeno 237 condanne all’amputazione delle dita, 129 delle quali eseguite. *Portavoce di Amnesty International Italia California, i detenuti transgender potranno scegliere la prigione in base all’identità di genere di Massimo Basile La Repubblica, 28 settembre 2020 La nuova legge voluta dal governatore democratico Newsom sottrae alle autorità penitenziarie la facoltà di decidere la destinazione dei carcerati in base ai dati anagrafici. Per Michelle Kailani Calvin è la fine di un calvario: nata uomo, in un corpo che ha avviato la transizione verso quello femminile, da quindici anni Michelle è rinchiusa in carcere, circondata solo da uomini vestiti di azzurro. Presto non sarà più così. Il governatore della California, il democratico Gavin Newsom, ha firmato una legge che autorizza i detenuti transgender a indicare la prigione in cui stare, in base all’identità di genere. Nigeria. Omar, in carcere a 13 anni per blasfemia di Viviana Mazza Corriere della Sera, 28 settembre 2020 Una lettera da Auschwitz cerca di salvarlo. Un ragazzo nigeriano condannato a 10 anni. Il direttore del memoriale: mi offro al posto suo. E un avvocato contesta l’intero sistema delle Corti della Sharia in vigore nel Nord. Una lettera scritta ad Auschwitz può aiutare a salvare un tredicenne musulmano dalla prigionia in Nigeria. “Non posso restare indifferente”, spiega Piotr Cywinski in una missiva indirizzata al presidente della Nigeria, nella quale propone di scontare insieme ad altri 119 volontari di tutto il mondo la pena - dieci anni di carcere - inflitta per blasfemia a Omar Farouq, tredicenne di Kano, nel nord del Paese. “In quanto direttore del memoriale di Auschwitz, che commemora le vittime e preserva i resti del campo di concentramento e di sterminio della Germania nazista dove anche i bambini venivano imprigionati e uccisi, non posso restare indifferente di fronte a una sentenza disgraziata per l’umanità”. Lo scambio - Lo storico polacco Cywinski, che dirige il memoriale di Auschwitz-Birkenau dal 2006, è noto per le iniziative di dialogo tra ebrei e cristiani ed è stato premiato anche con la Legion d’Onore francese, ma la lettera inviata al presidente Muhammad Buhari è un intervento insolito per il museo. Solo nelle prossime settimane si capirà se è servita a smuovere le coscienze. Cywinski chiede la grazia per un “ragazzo che non può essere ritenuto completamente consapevole e responsabile, data la sua età” e offre di pagare per la sua istruzione, in modo che “la Nigeria guadagni un cittadino anziché un giovane distrutto”. Ma, aggiunge, “se le parole di questo bambino devono assolutamente essere pagate con 120 mesi di prigionia e persino Lei non può cambiare le cose, suggerisco che 120 volontari adulti, io ed altri che mi occuperò di radunare, servano ciascuno un mese della sentenza al suo posto in un carcere nigeriano”. Il caso di Omar Farouq - Del caso di Omar si sa poco. Avrebbe “insultato Dio” mentre discuteva con un amico. L’avvocato nigeriano Kola Alapinni lo ha scoperto per caso, mentre rappresentava un musicista, Yahaya Sharif-Aminu, condannato a morte lo stesso giorno dallo stesso tribunale per aver offeso Maometto con una canzone. In appello la sentenza di morte del musicista è stata revocata, come spesso accade, ma l’avvocato, legato alla Foundation for Religious Freedom, vuole portare il caso alla Corte Suprema per contestare l’intero sistema usato in 12 Stati del Nord per giudicare i musulmani. “I genitori hanno paura” - Alapinni non è ancora riuscito a incontrare Omar. “I genitori hanno paura, non vogliono l’attenzione dei media, avevano rinunciato a difenderlo. Ma lo zio ci ha dato l’autorizzazione a rappresentarlo”, spiega il legale al Corriere. Il tredicenne è stato giudicato come un adulto, perché avendo raggiunto la pubertà ha piena responsabilità legale secondo la sharia. La condanna, afferma Alapinni, non è solo incompatibile con la convenzione Onu sui diritti dell’Infanzia, come evidenzia l’Unicef, ma anche con la Costituzione nigeriana per cui la blasfemia non è neppure un crimine. “Il sistema stesso delle Corti della Sharia è incostituzionale. La Nigeria non è una teocrazia, ma un Paese multi religioso e laico. Queste Corti sono strumenti di potere nelle mani degli Stati del Nord. Non sono sotto giurisdizione federale, bensì sotto quella dei governatori. E il governatore di Kano ora usa casi come questi per placare i fondamentalisti islamici in uno Stato che è da decenni un focolaio di conflitti religiosi”. Verso la Corte Suprema - La lettera da Auschwitz può aiutare? “Certo! È già fonte di imbarazzo e pressioni sul governo”, dice l’avvocato. “Ma è improbabile che il presidente conceda la grazia. Mi aspetto che il caso vada alla Corte d’appello federale e alla Corte suprema. Dovremo stare a vedere che cosa succede”. Yemen, mega-scambio di prigionieri. L’Onu punta al cessate il fuoco La Repubblica, 28 settembre 2020 Più di 1000 uomini rilasciati: ma soprattutto un raro avvicinamento di posizioni fra il governo e i ribelli Houthi. Per le Nazioni Unite un buon punto di partenza per arrivare a una svolta nel conflitto che dura da cinque anni e mezzo. Al termine di una settimana di negoziato in Svizzera, il governo yemenita e i ribelli Houthi hanno concordato uno scambio di 1.081 prigionieri. L’inviato speciale dell’Onu per lo Yemen, Martin Griffiths, ha definito l’accordo come “il più importante” nella storia del sanguinoso conflitto, che va avanti dal 2014. I rispettivi capi delle delegazioni, che non hanno rilasciato dichiarazioni, si sono però stretti la mano e si sono baciati, hanno fatto notare Griffiths e il direttore regionale del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) per il Vicino e il Medio Oriente, Fabrizio Carboni. Nell’ambito dell’accordo di pace raggiunto in Svezia nel 2018 sotto gli auspici delle Nazioni Unite, il governo, sostenuto da una coalizione militare guidata dai sauditi, e i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran avevano concordato un scambio di circa 15 mila detenuti in totale. Ma finora gli scambi erano stati sporadici. Il rilascio di centinaia di lealisti e ribelli rappresenterebbe il primo scambio su larga scala dall’inizio della guerra. La guerra in Yemen è iniziata cinque anni fa, quando una coalizione internazionale sostenuta dall’Arabia Saudita è intervenuta contro i separatisti Houthi e a sostegno del governo, attualmente in esilio a Riad. Secondo il bilancio fornito dalle Nazioni Unite a marzo, in occasione del quinto anniversario dell’inizio del conflitto ci sono quasi 250mila morti (di cui circa 100mila come conseguenza diretta dei combattimenti e circa 130mila a causa di fame e malattie acuite dal conflitto). Oltre 20 milioni di persone - circa i due terzi della popolazione - sono ridotte alla fame, con 1,6 milioni di bambini affetti da malnutrizione acuta severa. Su un totale di 30 milioni di abitanti, 24 milioni hanno bisogno di aiuti umanitari. Una situazione drammatica a cui è andato ad aggiungersi il Covid, che sta facendo molte vittime - impossibile quantificare - in un Paese di fatto privo di sistema sanitario. Nagorno-Karabakh, combattimenti fra Armenia e Azerbaigian: vittime e feriti fra i civili di Francesco Battistini Corriere della Sera, 28 settembre 2020 Riparte la guerra dei 30 anni. Offensiva azera dopo che gli indipendentisti armeni avevano attaccato nella notte. Mosca chiede un cessate il fuoco immediato, Erevan dichiara la legge marziale. Sullo sfondo, lo scontro nel Caucaso tra la Russia e la Turchia, e la più delicato conflitto alle porte dell’Europa. Riecco la guerra dei trent’anni. Armeni contro azeri: per ora il bilancio è di sedici soldati armeni morti e oltre un centinaio di feriti. Torna il più lungo conflitto ereditato dalla fine dell’Unione Sovietica. La più dimenticata delle ostilità nell’atlante internazionale. Che apparve al mondo nel 1988, quando non era ancora caduto il Muro di Berlino e il Nagorno-Karabakh, 143 mila abitanti, una regione grande meno della metà della Sardegna, aveva deciso di rifiutare “l’azerificazione forzata imposta fin dai tempi di Stalin” per unirsi alla vicina Armenia. Che è proseguita prima con 30 mila morti e migliaia di sfollati, poi a bassissima tensione nella piccola pace siglata nel ‘94 e in quest’ultimo trentennio, mentre s’accendevano e si spegnevano i fuochi in Cecenia e in Georgia, mentre ci si scannava in Dagestan o esplodeva l’Ucraina. Fino alla crisi del 2016, 110 ammazzati. Fino allo scorso a luglio, coi primi tamburi di guerra. Fino a questa domenica, con la provincia contesa che riprecipita in uno scontro aperto e nelle solite accuse reciproche delle prime ore di trincea: Erevan ad additare gli azeri per aver bombardato a freddo, Baku a replicare che è stata una ritorsione alle provocazioni armene. Con l’Armenia che dichiara la legge marziale in tutto il Paese, mobilita chiunque abbia più di 18 anni e annuncia la distruzione di due elicotteri, tre droni e tre carri armati. Con l’Azerbaijan che denuncia la violazione della Convenzione di Ginevra del 1949, avverte che non accetterà comportamenti aggressivi ed elenca un elicottero abbattuto nel Tartar, assieme a dodici batterie missilistiche polverizzate. Con l’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, riconosciuta solo dall’Armenia, che denuncia d’essere sotto tiro azero e invita i 53 mila abitanti di Stepanakert, la sua capitale, a rifugiarsi il meglio possibile. Con l’Europa che si ritrova a maneggiare un’altra polveriera ai suoi confini: “Grande preoccupazione”, dice il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, appellandosi ai negoziati perché “un ritorno immediato” a trattare “senza precondizioni, è l’unica strada da percorrere”. Già, i negoziati. Per anni, ogni mese, azeri e armeni si sono incontrati in una tenda dell’Osce montata e smontata al confine. A discutere, litigare, rompere, riaggiustare. Sempre inutilmente. Sempre rivendicando le stesse posizioni. L’Armenia decisissima a difendere i diritti dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaijan a non mollare un millimetro sulla sovranità perduta di fatto nel 1994, dopo la proclamazione della repubblica indipendentista. Entrambi a contendersi la zona demilitarizzata e minatissima che corre per 50 chilometri lungo il confine, un posto dove ogni mese gli osservatori Osce sono chiamati a registrare decine di violazioni del cessate il fuoco. S’è vivacchiato per anni, in questa tensione ridotta quasi allo zero e tenuta sotto controllo da russi, francesi e americani nel cosiddetto Gruppo di Minsk. A luglio, sfruttando l’emergenza Covid e la partenza di molti funzionari internazionali, le prime scintille e le contestazioni dei negoziati ormai limitate via video, causa virus. La scorsa settimana, la pubblica denuncia di un’escalation militare. Ora, la guerra. Pericolosissima. Che rischia di sconvolgere il Caucaso, compromettere la fragilità di Paesi vicini come la Georgia, coinvolgere nell’eterno Great Game di questa parte d’Asia gli antichi attori che già compaiono nel nome della regione contesa: laddove Nagorno è una parola russa che significa montagna e Karabakh, invece, è d’origine turco-persiana e sta per “giardino nero”. Tutti in gioco: l’attivissima Russia, alleata e garante della sicurezza armena, da sempre cauta sulla questione del Nagorno-Karabakh, la sola ad avere ottenuto un vero successo diplomatico nel 2008 con una dichiarazione distensiva (l’unica) firmata dalle due parti; la Turchia, che dal 1993 è legata al turcofono e ricco (di petrolio) Azerbaijan in un accordo d’assistenza militare reciproca (modello di cooperazione che ora vorrebbe replicare in Libia, col governo tripolino del dimissionario Serraj) ed è subito intervenuta, condannando “la provocazione” dell’immortale nemico armeno. Se sia l’inizio d’una nuova stagione bellica o solo un blitz, favorito dalla disattenzione internazionale, si capirà nelle prossime ore. Le parole di queste settimane sono state perfino più violente delle mitragliate. L’Armenia promette a giorni “una risposta proporzionata”: è quella che sembra una sconfessione della linea trattativista garantita da Nikol Pashinyan, il premier della “rivoluzione di velluto”, il primo leader armeno che non sia cresciuto al fronte combattente del Nagorno-Karabakh. L’Azerbaijan accusa lo stesso Pashinyan, che pure un tempo incoraggiava al dialogo, d’avere fatto deragliare i negoziati Osce cercando di coinvolgervi i leader della repubblica indipendentista, ricordando come perfino la moglie e il figlio del premier armeno siano impegnati in prima linea. Toni pesantissimi. Finora però erano solo parole, appunto. Che guerra sarà, si vedrà.