In Europa calano i reati e i detenuti. In Italia sempre meno delitti, ma le carceri esplodono di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 27 settembre 2020 Qualcosa non torna. L’Eurostat ha recentemente pubblicato i dati, aggiornati al 2018, sulla capienza delle carceri e sulle persone detenute in Europa. La notizia non ha avuto una vasta eco, come spesso accade alle informazioni riguardanti il pianeta carcere. Il dato principale riguarda il numero di detenuti in Europa nel 2018 per 100.000 abitanti: 111, la cifra più bassa degli ultimi anni. Numeri che dimostrano un generalizzato e diffuso calo delle persone detenute e confermano anche la diminuzione dei reati commessi. I fatti smentiscono la retorica allarmistica che denuncia il continuo aumento della criminalità, smascherando i populisti che fomentano e cavalcano le paure dei cittadini. Sono, infatti, molti i politici che hanno sfruttato per fini elettorali l’insicurezza diffusa promettendo “legge ed ordine”. Vi sono, inoltre, gli organi di informazione che contribuiscono a creare questo clima sia dando ampio e morboso risalto ai fatti di cronaca nera sia rinunciando ad una corretta informazione sui dati reali. Non si può, però, negare o sottovalutare la preoccupante divergenza tra il numero dei crimini e la percezione diffusa di insicurezza. Soltanto dimostrando l’infondatezza della loro narrazione distorta e l’inutilità delle soluzioni offerte si potrà vincere il confronto con gli impresari dell’insicurezza. Quanto all’Italia, emergono alcuni spunti interessanti. Innanzitutto, nel 2018 i ristretti erano 101,07 per 100.000 abitanti, cifra che attesta l’Italia al sedicesimo posto su ventisette. Il nostro Paese non è, quindi, un Eldorado per i delinquenti in cui nessuno va in carcere. Inoltre, resta alto il tasso di sovraffollamento: 115%, quarti su 27. Ancora una volta l’Italia si piazza ai primi posti in Europa per questo drammatico ed annoso problema, negato o trascurato da molti. La lettura dei dati sul numero di ristretti dal 2009 al 2018 mostra un netto calo a partire dal 2013 (per gli effetti della sentenza Torreggiani della Cedu) seguito, però, da una rapida risalita che ha portato ai 61.131 detenuti del 2018. Numero rimasto sostanzialmente costante fino all’esplosione dell’emergenza da Covid-19 (al 29 febbraio 2020 vi erano ancora 61.230 detenuti). Vero che i provvedimenti adottati per gestire l’emergenza sanitaria negli istituti penitenziari hanno comportato una netta riduzione del numero dei detenuti (52.520 al 5 giugno 2020, secondo il bollettino del Garante nazionale), ma ciò non è stato sufficiente a risolvere il problema del sovraffollamento: la capienza regolamentare è, infatti, di circa 51.094 detenuti, ma quasi 4.000 posti non sono disponibili per lavori in corso. Peraltro, i numeri dimostrano un continuo aumento della capienza delle carceri italiane (dai 44.838 posti del 2009 ai 51.141 del 2018), a dimostrazione di come non sia sufficiente costruire nuovi istituti per risolvere il problema del sovraffollamento. La considerazione più significativa da trarre dai dati dell’Eurostat, ma soprattutto dall’assenza di reazioni alla loro pubblicazione, è il costante e diffuso (da parte della politica, dei media e dell’opinione pubblica) disinteresse per le condizioni dei detenuti, considerati cittadini di serie b, privabili anche dei loro diritti fondamentali. Giustizia, la riforma che chiede l’Europa per il Recovery Fund di Giorgio Oldoini blitzquotidiano.it, 27 settembre 2020 L’Unione Europea ha posto all’Italia condizioni molto strette per procedere all’erogazione del Recovery Fund. Tra queste spicca la Riforma della Giustizia. Si chiede, in vista del Recovery fund, di riformare le istituzioni e le burocrazie pubbliche, che devono garantire la certezza del diritto. Senza la certezza del diritto, queste istituzioni sono inutili, dannose e finiscono col trasformarsi in parassitarie. L’Italia è il paese occidentale con la più alta incidenza di sentenze creative che minano in radice la certezza del diritto, il bene supremo delle nazioni più avanzate. L’incertezza delle leggi genera subalternità, legittima la prevaricazione e incentiva il servilismo e l’inefficienza. Ai tempi di Di Pietro ministro - All’interno delle stesse burocrazie nessun funzionario si assume responsabilità dirette in presenza di un sistema di norme approssimativo o incerto. Il ministro Antonio Di Pietro aveva osservato che, per mancanza di leggi chiare e per paura dei giudici, i funzionari del ministero dei lavori pubblici si erano fatti venire la sindrome della penna. Il ministro doveva aver sentito l’intima esigenza di prendere in mano il timone del potere per far ripartire l’iter di approvazione delle opere pubbliche che l’attività di Mani pulite aveva di fatto interrotto. Giustizia e giurisprudenza - L’incertezza della giurisprudenza, crea un problema di affidamento per gli utenti. E, particolarmente, per i difensori delle parti. Che hanno ritenuto di adattare la propria strategia e i propri comportamenti processuali alle regole. E ai principi fino a quel momento costantemente affermati dal giudice di legittimità. E tali da poter essere considerati diritto vivente. Nel sistema anglosassone si definisce over-ruling il cambio improvviso dell’orientamento giurisprudenziale rispetto alla precedente situazione consolidata. Che può incidere retroattivamente sulla decisione16. Nel Regno Unito (e negli Usa), secondo la regola dello stare decisis, il giudice è obbligato a conformarsi alla decisione adottata in una precedente sentenza. Qualora la fattispecie portata al suo esame sia identica a quella già trattata nel caso in essa deciso. In questo modo, i precedenti operano come fonte di diritto. In Germania si prevede che un atto impositivo non possa essere revocato o modificato in forza di un sopravvenuto mutamento giurisprudenziale o della prassi amministrativa. I principi della Corte di Giustizia europea - Sulla base dei principi stabiliti dalla Corte Europea (art. 7, comma 1, Cedu) “nessuno può essere condannato per una azione od omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”. Il principio comprende tanto la norma di origine legislativa quanto quella di creazione giurisprudenziale. In Italia, il cambio dell’orientamento giurisprudenziale trova applicazione in tutte le cause non ancora prescritte. In questo senso, si afferma, la giurisprudenza (al contrario della legge) ha effetto retroattivo. Uno studio della Banca d’Italia rileva come la maggiore criticità del sistema giudiziario italiano, quello della eccessiva durata dei procedimenti, dipenda dalla maggiore domanda rispetto a quella degli altri paesi europei. Si aggiunge che il fattore di più elevata “domanda” è costituito dalla qualità della legislazione sostanziale e processuale e dalla (minore) uniformità degli orientamenti giurisprudenziali. Nell’ambito del “diritto vivente” aumenta lo spazio creativo dell’interprete. E tale ruolo è svolto dalla giurisprudenza che parla attraverso decisioni che nascono da casi concreti. Le regole del libero mercato - La fissazione delle regole del libero mercato è affidata a istituzioni, burocrazie, Autority. I codici stabiliscono precetti generali di comportamento, come l’obbligo di perseguire l’interesse sociale, l’integrità, l’obiettività, la competenza, la diligenza, l’indipendenza, la sana e prudente gestione. Si tratta di principi astratti che si realizzano attraverso la prassi e la giurisprudenza, in continua evoluzione. La giurisprudenza può essere influenzata da dottrine che si sviluppano in circoli ristretti. La circostanza è verificabile allorché il giudice dichiara in sentenza di aderire a qualche dottrina. Non meno grave è la situazione in campo penale. I magistrati impegnati affermano che gli arresti eccellenti sono anche socialmente educativi. Perché la gente può così verificare che la legge è uguale per tutti. Può essere tuttavia opportuno considerare l’altra faccia della medaglia. Una gran parte dell’opinione pubblica perde fiducia nella propria classe dirigente. Che esce delegittimata dalle iniziative giudiziarie, come sta accadendo nei confronti della stessa magistratura di cui vengono messi in piazza i panni sporchi. Si pone così nel nostro Paese il problema relativo alla certezza del diritto in economia, che coinvolge, in particolare, il sistema delle imprese. L’Europa ci chiede di intervenire anche per ripristinare un adeguato flusso di investimenti esteri in Italia. Col decreto intercettazioni trionfa il populismo giudiziario di Fabio Anselmo* Il Domani, 27 settembre 2020 Nuovi limiti. In nome della privacy si impedisce alla difesa l’accesso a prove decisive. Cacciamo gli stranieri extra-comunitari che minacciano la nostra sicurezza, rimandiamoli a casa loro”. Poco importa se vengono calpestati i più elementari diritti umani, se sono stati torturati nei campi libici o annegano in mare. Questo semplicismo non è rimasto confinato nel tema sicurezza ma ha invaso anche la giustizia con una forma di populismo giudiziario figlio di quest’epoca post ideologica: la negazione dei fondamentali diritti civili non è un fatto cosi inusuale per le nostre aule giudiziarie. Soprattutto se parliamo degli ultimi, dei derelitti, degli immigrati. Prendiamo il tema prescrizione. Più di un magistrato di indiscusso rilievo ha approfittato della tribuna offertagli dai talk-show per far passare il concetto che i problemi e le lentezze della giustizia sono colpa degli avvocati. L’allarme e il giusto sdegno per il rischio che la prescrizione cancelli alcuni processi di grande rilevanza pubblica e il rischio impunità per gli autori di gravi reati ha fatto il resto. Si è invocata una riforma della giustizia, questa volta, però, le conseguenze nefaste degli interventi legislativi sono notevoli. La battaglia politica su questi temi è stata condotta per guadagnare il consenso del grande pubblico. Quel grande pubblico che difficilmente può comprendere la reale portata dei provvedimenti “urgenti” invocati come soluzione di tutti i mali. Di qui le pseudo riforme sulla legittima difesa o sulla prescrizione, che a mio avviso andrebbero cancellate o quantomeno riviste unitamente a quelle in tema di sicurezza citate dall’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando. Anche il processo per la morte di Stefano Cucchi nelle sue molteplici articolazioni rischia la prescrizione: non possiamo, tuttavia, immaginare di riformare un intero sistema sull’onda emotiva di una o più singole vicende giudiziarie. Tuttavia il primo tra tutti i recenti provvedimenti legislativi che dovrebbe immediatamente essere cancellato o revisionato è quello che riguarda il delicatissimo argomento delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Esigenze di privacy è la motivazione alla base di questa nuova procedura che mette a rischio il diritto alla difesa garantito dalla Costituzione. Partendo dal presupposto errato che a dare ai giornalisti le intercettazioni, imbarazzanti magari per qualcuno di importante, sono sempre e solo gli avvocati e consci del fatto che una legge bavaglio in materia era stata già più volte osteggiata con successo nei precedenti governi, è nata la norma che impedisce agli avvocati di poter disporre di una prova spesso decisiva. Fino al primo di settembre avevo, al termine delle indagini, la possibilità di recarmi negli uffici delle procure della Repubblica e ottenere copia di tutti gli audio delle intercettazioni eseguite indipendentemente dal fatto che queste potessero essere indicate o meno come elemento d’accusa dei magistrati. Potevo ascoltarle, risentirle, senza sosta. Così ho trovato frammenti, per l’accusa inutili, che hanno portato a scoprire verità importanti. Questi frammenti, nella migliore delle ipotesi, erano sfuggiti agli inquirenti. Dal primo settembre, però, questa possibilità è stata abolita per legge. Sarà di fatto la polizia giudiziaria e il magistrato che decideranno a priori quali conversazioni saranno rilevanti per il giudice e solo di queste l’avvocato potrà avere copia degli audio. Tutte le altre verranno negate. Certo, mi si può obiettare, potrò eventualmente ascoltarle negli uffici giudiziari ma senza farne copia. Ma ascoltare mesi di intercettazioni negli uffici giudiziari, spesso con audio di pessima qualità, è una vera limitazione per la parte del processo che deve difendere. Immaginate, nei maxi processi, centinaia di avvocati che rappresentano gli imputati andare tutti ad ascoltare le intercettazioni loro negate nelle procure? Oltre a quelli di parte civile, che rappresentano la parte offesa, ovviamente. Con una sola norma è stato spazzato via il diritto di accesso alla prova agli avvocati difensori cosi come a quelli di parte civile creando una signoria assoluta su di essa di polizia giudiziaria e pm. Gli effetti saranno devastanti. Ho rappresentato tutto questo al ministero, che ringrazio per avermene data occasione. Questo il risultato: “La Camera ha impegnato il governo a valutare la possibilità di prevedere, attraverso ulteriori iniziative normative, la facoltà per il difensore anche di estrarre copia degli atti visionati, al fine di avere la possibilità di una preliminare analisi completa di quanto raccolto dall’accusa e di fatto eliminare lo svantaggio giuridico ed ingiustificato per l’indagato”. È poco ma è già qualcosa. Questa facoltà andrebbe estesa anche alle parti civili, cioè le vittime. Ovviamente. Poniamo fine alle strumentalizzazioni politiche palesi o occulte in materia di giustizia. Restituiamole quel dovuto sacro rispetto senza utilizzare scorciatoie. Diversamente, il rischio è l’irrimediabile perdita di fiducia dei cittadini in tutto il sistema e nelle sue istituzioni. *Avvocato Il processo a Palamara può diventare una guerra per bande di Iuri Maria Prado Libero, 27 settembre 2020 È vero: il processo a Palamara non è, e non deve essere, il processo alla magistratura. Ma nemmeno dovrebbe essere il modo con cui la magistratura assolve sé stessa dalle responsabilità gravi che l’esplodere di quel caso ha reso tanto evidenti. L’altro giorno il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, con un suo articolo pubblicato dal Corriere della Sera ha spiegato che nel caso di Palamara si tratta di accertare se sia lecito o no che un magistrato si riunisca con politici e amministratori per decidere chi andrà a guidare l’accusa in faccende che vedono implicati proprio i partecipanti a quei conciliaboli. Tutto qui, spiega Salvi, mentre “le incolpazioni non riguardano affatto la legittimità dei rapporti tra magistrati e politici, né le spartizioni correntizie”. Che sarà anche vero e basterà dal punto di vista del processo, ma non è vero e non basta dal punto di vista dell’opinione pubblica, la quale ha qualche buona ragione per credere che sessantamila chat di mastruzzi aumm aumm denuncino un sistema più che un’isolata vicenda di malcostume. E il punto è esattamente questo: è ammissibile che sia quel sistema a governare le carriere e i movimenti di potere in un’amministrazione incaricata di questa bazzecola che è la giustizia resa in nome del popolo italiano? Ed è ammissibile che quel sistema reagisca facendo credere - perché questa è la sostanza, al di là delle giustificazioni rituali - che il coperchio si sia levato sul caso di un tipaccio disinvolto anziché su una tradizione diffusa? E infine: credono forse che non sia chiaro a tutti che le limitazioni del diritto di difesa del dottor Palamara servono poco a fare il processo contro di lui e molto a evitare quell’altro, quello che pure occorrerebbe a superamento di quel sistema diffusamente corrotto? Checché se ne dica in contrario, questo ridicolo processo ha assunto la fisionomia bugiarda della requisitoria finalmente imbastita dalla parte sana che trionfa nell’estirpazione della cellula maligna. E se questo accade non è per colpa di quelli vi assistono, ma per responsabilità di quelli che lo celebrano. Flick: Davigo non può restare al Csm anche dopo il congedo di Errico Novi Il Dubbio, 27 settembre 2020 Il caso dell’ex pm che “deve” giudicare Palamara: intervista al presidente emerito della Consulta. “Intanto il Consiglio superiore della magistratura mi pare già sovraccarico di nodi irrisolti, per pensare di complicarne l’esistenza anche con l’equivoco fra durata soggettiva del mandato e durata del mandato collegiale”. Giovanni Maria Flick parla del caso del togato Csm prossimo al congedo e aggrotta la fronte. Non è colpito tanto dalle polemiche e dai retroscena, quanto dai controsensi connessi alla permanenza in carica dell’ex pm di Mani pulite. C’è il rischio di “confondere la durata quadriennale prevista dall’articolo 104, evidentemente riferita al suo limite massimo, con il mandato del singolo consigliere”, nota il presidente emerito della Consulta, “il che equivarrebbe a sbilanciare la natura del Csm dalla funzione gestionale verso sembianze da organo costituzionale. Come se il Consiglio superiore si trovasse sullo stesso piano della Consulta: ma proprio il raffronto con la Consulta ci dimostra quanto sia improponibile l’ipotesi che un consigliere togato del Csm resti in carica come tale anche dopo che sia andato in quiescenza come magistrato”. Insomma, presidente Flick, lei ritiene che quando, il prossimo 20 ottobre, Davigo compirà 70 anni e si congederà dalla magistratura per raggiunto limite di età, dovrà concludersi anche il suo mandato a Palazzo dei Marescialli... Sì, e mi sorprende che adesso ci si scervelli per asserire il contrario. In ultima analisi, tutto sta nel raffronto con la Corte costituzionale: in tal caso, è esplicitamente previsto all’articolo 135 che il mandato dei giudici è di nove anni “per ciascuno di essi”. Non si parla di durata della Corte, di un suo determinato collegio, ma della permanenza del singolo componente. Se per il Csm i costituenti avessero voluto, nella sostanza, riferire la durata quadriennale della carica non al Consiglio ma al singolo consigliere, indipendentemente dal presupposto della nomina, l’avrebbero scritto a chiare lettere esattamente come hanno fatto per la Corte costituzionale. Perché finora un’osservazione così semplice non è stata avanzata? Con tutto il rispetto per il diverso ragionamento fondato su un profilo solo formale e letterale, penso alla norma costituzionale che regola la rieleggibilità del presidente della Consulta. La carica ha una durata triennale. Poi può essere rinnovata per tre anni ancora. Ma a condizione che quel presidente della Corte si trovi, al momento della rielezione, ancora in carica come giudice costituzionale, ossia a condizione che non siano ancora trascorsi i nove anni di durata del mandato. Ancora: se trascorsi i primi tre anni si è rieletti al vertice della Consulta, si decade da presidente non appena scade il mandato di giudice, anche se il secondo triennio non è stato completato. Cosa vuol dire? Che la carica successiva, l’elezione a presidente, è sempre indissolubilmente subordinata alla condizione che ne è il presupposto: lo status di giudice costituzionale. Allo stesso modo, se il presupposto per essere eletti al Csm, nel caso dei componenti togati, è lo status di magistrato ordinario appartenente alle varie categorie e quindi, evidentemente, in servizio, quando tale specifico status viene meno, si interrompe anche il mandato a Palazzo dei Marescialli. Di nuovo: perché non lo si è ancora detto? Mi limito a osservare che si pretende di conferire stabilità all’organo di autogoverno dei magistrati attraverso la stabilità nella carica di un singolo consigliere. Strano. Ma per tentare di sezionare la stranezza in tutti i suoi aspetti, serve un breve excursus cronologico. Cosa intende dire? Il cosiddetto caso Palamara non è nuovo. Negli ultimi giorni gli osservatori più misurati e acuti hanno notato che non si è fatto praticamente nulla per oltre un anno, dopo aver denunziato a suo tempo con vigore l’urgenza di provvedere subito, e che d’improvviso si accelera. Adesso, anziché concentrarsi sulla riforma del Csm o almeno sulla vicenda oggetto del noto procedimento disciplinare, si è preoccupati della permanenza in carica di uno dei giudici di quel procedimento. Ci si trova dinanzi a un bivio: o quel giudice decade il giorno in cui entra in quiescenza, a processo ancora non concluso, e allora si rischia di dover rinnovare tutto dal principio; oppure si tenta la strada intrapresa, cioè dopo un anno di nulla assoluto si cerca di portare a termine il processo prima che quel giudice entri in quiescenza. Come si fa a non trovarlo strano? Senta, presidente Flick: la necessità di arrivare alla sentenza Palamara con Davigo ancora giudice del collegio disciplinare può dipendere, secondo lei, dall’idea di estremo rigore che Davigo personifica e dal timore di rinunciarvi proprio in una vicenda ritenuta squalificante per la magistratura? Ah, ma quindi adesso vorrebbe farmi parlare di politica? No, mi spiace. A me del fatto che quel procedimento sia considerato un simbolo, e che quel consigliere Csm sia a propria volta un simbolo di rigore, non può e non deve interessare. I principi di regolazione di un organo come il Csm devono prescindere dalla politica e dal sentimento dell’opinione pubblica. Ribadisco: la permanenza in Consiglio richiede necessariamente il presupposto della qualità di magistrato in servizio. Già ho ricordato come emerga con chiarezza dalla differenza tra la norma costituzionale sulla Consulta e quella sul Csm. Potrei fermarmi qui. Ma giacché ci siamo, consideriamo anche le conseguenze problematiche di una valutazione diversa. Prima di tutto: un magistrato in quiescenza che continuasse a essere consigliere superiore non sarebbe sottoposto alla responsabilità disciplinare, per non dire della responsabilità deontologica, deficitaria anche per le toghe in servizio. Potrebbe, un ex magistrato, essere sottoposto alla responsabilità disciplinare tipica di chi è in servizio solo perché è componente del Csm? No, servirebbe una legge. Prima contraddizione. Le altre? Passiamo a vedere cosa discenderebbe dalla pretesa di equiparare il Csm alla Corte costituzionale, e di intendere dunque la durata quadriennale dell’organo come durata soggettiva del singolo mandato di consigliere Csm in difetto della qualità che ne è il presupposto ineliminabile. Innanzitutto, si creerebbe una sfasatura, nel senso che alcuni componenti togati del Csm resterebbero consiglieri anche dopo che siano stati rinnovati i membri laici, con tutti i relativi problemi di sintonia fra le due componenti. Dovremmo, di fatto, avere elezioni lontane nel tempo, tra laici e togati e anche all’interno della componente magistratuale. Terzo, potremmo trovarci ad attribuire, all’organo, una durata di fatto ultra-quadriennale legata alla circostanza soggettiva del mandato di un singolo, entrato in carica dopo gli altri. Mi pare tutto davvero problematico. Intanto si attendono nuovi pareri dall’Avvocatura di Stato e dall’Ufficio studi del Csm... A me sembra che nella vicenda vi sia una sorta di omaggio all’identificazione tra il profilo di un singolo componente e l’intero organo di autogoverno. Sarebbe auspicabile che una simile distorsione venisse abbandonata. E che si provasse a risolvere i problemi, che semplici non sono, della magistratura e del suo ordinamento, e della formazione e del funzionamento del Csm, prima di affrontarne dei nuovi. Lockdown e violenza sulle donne di Sarantis Thanopulos, Nina di Maio Il Manifesto, 27 settembre 2020 Del binomio lockdown - violenza sulle donne. E della solitudine delle donne in questo momento di pandemia. Nina di Maio: “Uno studio del ministero dell’interno ha confrontato i dati dei tre cosiddetti “reati spia” -atti persecutori, violenze sessuali e maltrattamenti contro familiari e conviventi, - nel periodo 1°-31 marzo 2020, con quelli dell’analogo periodo del 2019. “Nel periodo 2020 - si legge nel documento - i valori assoluti, pur inferiori a quelli del 2019, mostrano una progressiva diminuzione nelle prime tre settimane, ed un lieve incremento nella quarta settimana (289) rispetto alla terza (278)”. Entrando nel dettaglio dei tre distinti reati, il dato dei primi due è coerente con quello globale: gli atti persecutori - che passano da 52 della prima settimana a 13 dell’ultima settimana - e le violenze sessuali (184 nella prima settimana, 59 nell’ultima settimana di marzo), infatti, registrano una costante flessione nel periodo preso in esame. Il dato dei maltrattamenti contro familiari e conviventi subisce, invece, dopo un’iniziale diminuzione, un incremento a fine marzo, toccando infatti quota 217 nell’ultima settimana. Ma per comprendere meglio la portata del fenomeno è necessario capire l’incidenza che sui reati commessi ha il genere, ovvero quando i reati commessi sono stati perpetrati contro la donna. Nel capitolo “vittime dei reati spia” del documento ministeriale, si nota come, “l’incidenza delle vittime donne faccia rilevare un picco nel periodo 1-7 marzo (78,75 per cento), mantenendosi sempre su valori elevati, leggermente in flessione nell’ultima settimana (67,74%)”. E ancora: “Il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi mostra un andamento costante sia per il numero rilevante di reati commessi (217 reati), sia per l’incidenza delle vittime donne, con una media sempre superiore al 75 per cento”. Cosa pensi Sarantis di questo binomio lockdown - violenza sulle donne? E della solitudine delle donne in questo momento di pandemia?” Sarantis Thanopulos: “Cara Nina, la convivenza coercitiva e il venir meno delle reti relazionali esterne, che fanno “respirare” le coppie, hanno fatto degenerare i conflitti coniugali già esistenti. La clausura ha creato pure una certa solidarietà tra i “congiunti”, ma ha messo in crisi i rapporti poco solidi. E quando scoppia la violenza il conto lo pagano le donne. Al di là della violenza domestica, il “distanziamento sociale” ha esercitato una maggiore violenza psichica sulla donna piuttosto che sull’uomo. Le donne sono state più dirottate verso lo “smart working”, perché il loro lavoro è, in generale, meno legato alla necessità di “presenza”. Il lavoro in casa può essere un rimedio a circostanze eccezionali che impediscono di recarsi alla propria sede lavorativa. Nondimeno, costituisce, col passare del tempo, un fattore di stress psicofisico, a causa del venir meno dell’effetto distensivo e della facilitazione dell’intesa con gli altri che il contatto diretto garantisce. Il rischio che la pandemia ci lasci in eredità la tendenza a richiudere le lavoratrici nel recinto dello smart working e della casa (regno del lavoro in nero) non è aleatorio. Il lavoro in casa oltre a risospingere le donne nel ruolo di casalinghe e accuditrici, porta, nella maggior parte dei casi, a un aumento dei ritmi lavorativi e dello sfruttamento. Infine, il distanziamento ha colpito la femminilità come qualità umana dell’esistenza. Si attribuisce agli uomini un maggior contributo alla costruzione delle relazioni di scambio, per via della loro maggior presenza nei luoghi sociali. Tuttavia gli umani sarebbero nient’altro che un esercito di formiche disciplinate, e di fatto impazzite, senza la capacità femminile, squisitamente erotica, di apertura, esposizione all’altro che rende le relazioni significative, profonde. La solitudine della femminilità (della piena espressione della donna) è la causa principale del disagio della civiltà. La pandemia l’ha resa più esplicita di prima”. Mauro Rostagno. Dopo 32 anni si attende ancora giustizia sul suo assassinio ossigeno.info, 27 settembre 2020 Forse a novembre la sentenza della Cassazione. A rischio prescrizione il processo ai depistatori. Le iniziative per ricordarlo. Quest’anno a Valderice (Trapani), l’anniversario della tragica morte di Mauro Rostagno viene ricordato nel rispetto delle misure anti-covid, con l’ormai tradizionale “Ciao Mauro”, la visita alla stele eretta sul luogo del suo assassinio e alla tomba, davanti alla quale saranno recitati frammenti teatrali ed eseguiti brani musicali. Altre iniziative sono state promosse dal Comune in collaborazione con l’associazione che si occupa di mantenere viva la memoria di Rostagno. Dopo 32 anni si attende ancora che la giustizia faccia il suo corso per punire i responsabili dell’assassinio del giornalista Mauro Rostagno, ucciso a Lenzi di Valderice il 26 settembre 1988, all’età di 46 anni. Lo scorso marzo, a causa dell’emergenza Covid-19, la Corte di Cassazione ha rinviato la conclusione del processo che dovrebbe arrivare a sentenza il prossimo novembre. In primo grado, i giudici hanno stabilito che l’omicidio ha matrice mafiosa. Sarebbe stato compiuto per mettere a tacere la voce che dall’emittente trapanese “Radio Tele Cine” (Rtc), stava alzando il velo su molti interessi di Cosa nostra. L’inchiesta giudiziaria è stata segnata da depistaggi, false testimonianze e dalla ricerca di possibili collegamenti fra le inchieste di Mauro Rostagno e la pista che seguivano in Somalia la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Milan Hrovatin. Il processo parallelo agli accusati dei depistaggi va ancora per le lunghe ed è ormai concreto il rischio che si concluda con la prescrizione dei reati. La tormentata vicenda giudiziaria e la storia umana e professionale di Rostagno sono ricostruite in dettaglio sul sito di Ossigeno per l’Informazione “Cercavano la verità” (giornalistiuccisi.it) insieme alle storie degli altri giornalisti italiani uccisi. Mauro Rostagno aveva una personalità forte e poliedrica ed era animato da una grande passione civile. Era stato un leader del movimento studentesco all’Università di Trento, uno dei fondatori di Lotta Continua e, successivamente, del circolo culturale “Macondo”. Aveva avuto una vita movimentata. Aveva viaggiato in Germania, Inghilterra, Francia, India. Torinese d’origine, infine era approdato in Sicilia. Vicino a Trapani, aveva fondato la Comunità di Saman, impegnata nel recupero dei tossicodipendenti. Presso l’emittente RTC, si era reinventato come cronista. Aveva creato una redazione, faceva denunce sociali e inchieste sulle collusioni tra politica e poteri criminali. Quella sera del 26 settembre 1988, quando fu colpito a morte, aveva appena lasciato la sede di Rtc. Castrovillari (Cs). Detenuto in attesa di giudizio si impicca con le lenzuola calabrianews.it, 27 settembre 2020 Avrebbe approfittato del cambio turno del personale di polizia penitenziaria per suicidarsi. È quanto successo, nel pomeriggio di venerdì, nel carcere di Cstrovillari (Cs) dove un detenuto straniero si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola all’interno della cella dove si trovava, in quel momento, da solo. La notizia è stata resa nota, ancora una volta, dal sindacato di polizia penitenziaria Sappe attraverso una nota firmata da Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato e Damiano Bellucci, segretario nazionale. “L’uomo - spiegano - era in attesa di giudizio ed era rinchiuso nel reparto protetti-riprovazione sociale. Nella casa circondariale di Castrovillari al 31 agosto scorso vi erano 170 detenuti, di cui 36 stranieri. Il personale di polizia penitenziaria previsto dagli organici non è sufficiente, deve essere necessariamente integrato. La polizia penitenziaria - sottolineano i due sindacalisti - ogni anno salva la vita a oltre 1100 detenuti che tentano il suicidio. Questa volta, purtroppo, il detenuto è riuscito a portare a termine l’insano proposito di togliersi la vita”. Roma. “Ricominciamo”, la casa d’accoglienza per detenuti voluta da Papa Francesco e Caritas agensir.it, 27 settembre 2020 Inaugurata ieri in via della Pisana a Roma, la Casa di accoglienza “Ricominciamo”, una struttura di accoglienza promossa dall’associazione Vic (Volontari italiani in carcere) della Caritas di Roma, assieme ai cappellani di Rebibbia. Posizionata in un istituto delle Congregazione delle suore “Figlie di Cristo Re”, è nata per aiutare le persone detenute e senza un domicilio a poter uscire dal carcere con le misure straordinarie previste per l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di coronavirus Covid-19, offrendo un luogo di accoglienza a quei detenuti che, pur avendone diritto, non possono beneficiare delle misure alternative. Presenti all’inaugurazione i cappellani di Rebibbia ed il loro coordinatore don Marco Fibbi, il direttore della Caritas di Roma don Benoni Ambarus e il card. Konrad Krajewski, elemosiniere apostolico, arrivato guidando un pulmino carico di doni alimentari e di rosari inviati da Papa Francesco per gli ospiti della struttura che hanno accettato con gioia il pensiero e la preghiera di Bergoglio, impegnatosi già nel finanziare questa opera. Sono 18 gli ospiti presenti attualmente nella struttura capitolina, alcuni in detenzione domiciliare o in permesso premio, mentre altri che hanno terminato la pena e stanno cercando un alloggio definitivo. Benevento. Il progetto “Oltre le Mura”, promosso dal Garante regionale dei detenuti gazzettabenevento.it, 27 settembre 2020 Il progetto “Oltre le Mura”, lanciato e promosso dal “Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale” della Regione Campania, Samuele Ciambriello, nelle Case circondariali della Campania, per il carcere di Benevento “Capodimonte” è stato affidato alla Cooperativa Sociale di comunità iCare. Si tratta di una progettualità trattamentale di supporto diretto con il carcere con detenuti e detenute presenti nella sezione “Sex offenders” (che prende in considerazione reati a sfondo sessuale). “È - si legge nella nota inviata alla Stampa - un percorso formativo, gestito da iCare, articolato in due incontri a settimana di due ore. Si tratta di attività di gruppo e individuali, che seguono le disposizioni normative di prevenzione anti-Covid 19, tese a creare momenti e spazi di condivisione e di riflessione degli operatori del progetto con i detenuti, per dare loro la possibilità di entrare in contatto prima di tutto con loro stessi e con il mondo che li circonda, con i loro sentimenti, con quello che hanno vissuto, che stanno vivendo e che vivono dal punto di vista emozionale. Sei le figure professionali individuate che faranno da operatori del progetto: due psicologhe, un’educatrice-criminologa, un esperto di esecuzione penale esterna e una mediatrice culturale. Per ogni detenuto mettersi a confronto con le proprie esperienze e con le esperienze altrui è un sostegno valido e un’opportunità concreta e incisiva di accompagnamento che può aiutarlo nel percorso di reinserimento sociale all’interno della vita carceraria, in un’ottica di riduzione del danno in cui la struttura carceraria si configura come una risorsa e in una logica di collegamento tra carcere e territorio. Quest’intervento di aiuto attraverso, come detto, una rieducazione soprattutto di tipo emotivo, mira a ridurre i rischi di marginalizzazione, di esclusione sociale e di reiterazione del reato da parte dei detenuti, una volta scontata la pena, attraverso il cambiamento evolutivo della persona”. Roma. “Verso un altro stop ai processi” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 27 settembre 2020 Paura a piazzale Clodio, due avvocati denunciati alla Procura: in aula da positivi. “Presto tamponi rapidi”. Cluster in Tribunale, il presidente Lamalfa: ancora nessun termo scanner, non c’erano soldi. Si valuta un nuovo stop ad alcuni processi e l’istituzione di altri spazi, con distanziamento, per la consultazione dei fascicoli da parte dei difensori. Si pensa poi a tamponi rapidi da realizzarsi con l’aiuto dell’Asl in modo per circoscrivere il singolo caso positivo. E si lavora all’installazione di termo scanner che permettano di misurare la temperatura all’ingresso nella cittadella di piazzale Clodio. Pressing delle organizzazioni sindacali: “Assenti i controlli in entrata”. Antonino Lamalfa: “Salvata la produttività malgrado le difficoltà”. Correre ai ripari, dopo che due avvocati positivi al Covid hanno vagato beatamente per il Tribunale, si annuncia complesso. Si valuta un nuovo stop ad alcuni processi e l’istituzione di altri spazi, con distanziamento, per la consultazione dei fascicoli da parte dei difensori. Si pensa poi a tamponi rapidi da realizzarsi con l’aiuto dell’Asl in modo da permettere di circoscrivere il singolo caso positivo scongiurando eventuali cluster. Si lavora, infine, all’installazione di termo scanner che permettano di misurare la temperatura all’ingresso nella cittadella di piazzale Clodio. Nessuna tra queste è una soluzione neutra per gli equilibri di un Tribunale complesso come quello romano, a cominciare dalla prima, quella del rinvio di alcuni dibattimenti, già criticata dai difensori che, nei mesi scorsi, s’erano detti penalizzati dalla sospensione dell’attività: “Stiamo ragionando anche sul fermo di alcuni processi ma speriamo che possano bastare le altre misure adottate” dice il presidente vicario del Tribunale Antonino Lamalfa. Nel frattempo potrebbero essere impiegate aule per l’attesa distanziata del processo in caso di ritardo dell’udienza. Mentre la seconda soluzione, quella dell’impiego di corridoi o eventuali altre stanze (poche) disponibili implica qualche rivoluzione nel modo di lavorare di utenti e personale del Tribunale. Quanto ai “tamponi rapidi” e ai “termo scanner”, al momento dovrebbero arrivare a breve. Attraverso una partnership con l’Asl Roma 1, potrebbe andare in porto la procedura che permette di effettuare test veloci su tutti i dipendenti della cittadella giudiziaria: “Una conferma arriverà nei primi giorni della settimana”, si augura Lamalfa. Mentre per i termo scanner bisognerà aspettare che la Procura generale, dalla quale dipende l’installazione, trovi una soluzione logistica adeguata: “I termo scanner devono essere posizionati all’aperto, ma proprio per questo hanno bisogno di uno spazio apposito che li ospiti e che va costruito” spiega Lamalfa che, dopo molti solleciti andati a vuoto (la Procura generale non aveva le risorse economiche per provvedere, i finanziamenti sono stati trovati solo dopo l’estate), si vede spostato di qualche metro più in là il traguardo. Per inciso c’è chi lamenta disparità fra il Tribunale penale e quello civile, dove è in vigore l’uso dei termo-laser (le pistole che rilevano la febbre). Il problema, come denunciato dal presidente vicario, sarebbe la mancanza di personale a piazzale Clodio, dove non si è trovato disponibile all’operazione di rilevazione della temperatura in ingresso (“Ma abbiamo già chiesto più forze dell’ordine”, dice Lamalfa). Intanto c’è il pressing delle organizzazioni sindacali come il sindacato Flp Giustizia che ha proclamato lo stato di agitazione a causa “dell’altissimo rischio per il personale giudiziario, magistraturale e per tutta l’utenza che si possa creare un cluster di difficile risoluzione a causa della positività riscontrata”. E che ora, a emergenza esplosa, ha buon gioco nel denunciare i ritardi: “Risultano essere stati del tutto assenti i controlli in entrata e le verifiche sulla sicurezza delle distanze da osservare per gli avvocati e l’utenza rispetto al personale amministrativo e ai magistrati”. Per Lamalfa lo sforzo di gestire una situazione difficile c’è stato e ha salvaguardato “la produttività”. I due avvocati positivi al Covid, intanto, sono stati denunciati alla Procura che ora aprirà un fascicolo in merito. Imperia. Prevista ristrutturazione del carcere, contro il problema del sovraffollamento di Giò Barbera La Stampa, 27 settembre 2020 Nel penitenziario ci sono 93 detenuti contro una capienza di 69: rifacimento di tutte le sezioni con relativi servizi igienici. È vicina una soluzione al sovraffollamento del carcere di Imperia. “Dopo numerose denunce finalmente possiamo annunciare che casa circondariale di Imperia sarà finalmente ristrutturata”. Fabio Pagani, segretario regionale della Uil-Pa Penitenziari è moderatamente ottimista e ricorda che “più volte era stato all’Amministrazione Penitenziaria, coinvolgendo il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Dino Petralia, è stato denunciato che il padiglione “seminterrato”, aperto per l’emergenza sanitaria, dove ospitare nuovi detenuti e altri da mettere in quarantena, non era a norma”. Oggi, nel carcere sono detenute 93 persone su una capienza di 69. “Con l’annuncio della ristrutturazione - aggiunge Pagani - gli interventi di ristrutturazione saranno graduali su singole semisezioni con mini “sfollamenti” di circa 25 detenuti”. In particolare saranno ristrutturate tutte le sezioni con relativi servizi igienici e docce. “I lavori - spiega il sindacalista Uil - interesseranno il profilo igienico-sanitario, per impedire le attuali pesanti propagazioni di umidità e muffe nei locali annessi alle stanze detentive, dovute a scarsa areazione”. Ma non mancano i problemi di organico. “Bisogna intervenire immediatamente anche su automatizzazione e su vigilanza con videosorveglianza. Soprattutto occorre implementare il personale di polizia penitenziaria. Per questo credo sia necessaria una riunione anche per cercare di migliorare le dotazioni di automezzi e tecnologie, l’organizzazione del lavoro, altrimenti gli sforzi economici saranno inutili. Bisogna convincere il governo Conte che l’urgenza è costruire in tempi record un nuovo carcere a Savona, dimostrando, come è successo per il ponte Morandi, che quando si vuole le cose si fanno. e in poco tempo”. Solo una decina di giorni fa i detenuti del penitenziario imperiese avevano protestato contro il drastico calo delle telefonate: da una al giorno a una la settimana. Lecce. Associazione Antigone: visita dell’Osservatorio al carcere di Borgo San Nicola di Sharon Orlandi e Ilaria Piccinno* informalecce.it, 27 settembre 2020 Tra salute mentale e detenzione chi soffre è sempre l’essere umano. Attraversando i corridoi del Reparto di Osservazione Psichiatrica e del Reparto Infermeria della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce si sente solo il silenzio di un’Istituzione che lascia i propri operatori in balia di vuoti normativi, sovraccarico di lavoro e servizi territoriali assenti che parcheggiano e dimenticano le persone detenute in reparti in cui non dovrebbero stare. Svariati e differenti sono stati i tentativi messi in atto dal Ministero della Giustizia e dal Ministero della Sanità per garantire a detenuti ed internati con patologia psichiatrica un’assistenza sanitaria personalizzata e continuativa. Nella nostra città ha preso avvio nel 2017, in via sperimentale, il Reparto di Osservazione Psichiatrica, un polo ASL all’interno delle mura della Casa Circondariale di Lecce. A seguito della definitiva chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari avvenuta nel 2015, oltre all’istituzione delle R.E.M.S., si è reso necessario un potenziamento del ruolo delle Sezioni di Salute Mentale degli istituti penitenziari ora denominate Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (ATSM), i cosiddetti Reparti di Osservazione Psichiatrica (ROP), sezioni speciali penitenziarie previste dall’art.65 dell’Ordinamento Penitenziario e 111 Reg. Es. O.p.. Si tratta, nella formazione attuale, di sezioni dipendenti dal Distretto Asl competente per territorio e di diretta responsabilità di personale riconducibile all’area psichiatrica, destinate al trattamento sanitario di detenuti, condannati in via definitiva o in attesa di giudizio, i quali versino in una condizione di infermità o minorazione psichica, non compatibile con la detenzione in sezioni ordinarie. Nello specifico i R.O.P. sono destinati a quegli imputati o condannati che durante la detenzione sviluppino una patologia psichiatrica, a condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente (art.111 c.7 D.P.R n. 230/2000) ed a detenuti od internati, la cui condizione psichica debba essere posta sotto osservazione nelle apposite sezioni, dette “sezioni osservandi”, per una durata non superiore a 30 giorni (art.112 D.P.R n. 230/2000). La prevista temporaneità presso tali Reparti è contrastata dalla stessa legge che la regola per cui è stabilito che l’Autorità giudiziaria o il Magistrato di Sorveglianza possano prolungare la permanenza nel reparto, salvo poi il rientro nell’Istituto di provenienza. È altresì sancito il rispetto del principio di territorialità, in base al quale dovrebbero essere inviati solo detenuti dalla Regione di residenza. Nei fatti è tutto ben diverso. Nel R.O.P. di Lecce sono ospitate persone con patologie psichiatriche la cui permanenza si protrae oltre i 30 giorni previsti, per arrivare anche a superare sei mesi. Il principio di territorialità non viene sempre rispettato, pena la lontananza dagli affetti da parte di soggetti con un equilibrio psichico già molto precario. Ad oggi sono solo 10 le persone presenti a fronte dei 20 posti disponibili, ma il Reparto non ha accolto mai più di 15 pazienti dall’inizio della gestione. Innumerevoli le richieste di invio di detenuti da sottoporre ad osservazione psichiatrica, e a complicare ulteriormente la situazione c’è la carenza di personale; da ben cinque mesi all’interno del reparto vi è un solo medico psichiatra sui quattro previsti in organico. Una situazione precaria pronta ad esplodere improvvisamente. Una pazzia, è innegabile, lasciare un solo medico all’interno di un reparto così fragile e complesso. Il rischio di burnout è dietro l’angolo, laddove la pressione psicologica e la responsabilità di una struttura dipendano esclusivamente dalle decisioni di un singolo. Rispondere adeguatamente alle continue richieste dei pazienti, ai colloqui con avvocati e familiari, prendere decisioni su progetti individualizzati e promuovere e sostenere relazioni interpersonali con i detenuti, diviene un macigno sulle spalle anche di chi ci mette tutta la propria passione e professionalità per sopperire alla mancanza di colleghi. Un luogo in cui dovrebbe prevalere la funzione diagnostica e riabilitativa del soggetto con patologie psichiatriche, lascia il posto ad un luogo in cui, come accadeva negli O.P.G., sembra piuttosto predominare l’aspetto custodiale, a scapito dunque dell’osservazione e trattamento del soggetto psichiatrico. Le criticità riscontrate lasciano spazio al rischio che il carcere, limitandosi a contenere la malattia psichiatrica, assuma il ruolo di Istituzione di “scarico” di soggetti problematici, precedentemente svolta dagli scomparsi O.P.G., così spostando le problematiche senza realmente risolverle. Di recente è stato indetto un bando di concorso per la selezione di medici psichiatri da inserire nell’organico del R.O.P. di Lecce, ma è andato tristemente deserto. Sicuramente non è facile entrare in relazione e lavorare in un contesto come questo, dove non bastano le competenze ma serve una sincera propensione verso l’altro nella comprensione della sua complessità emotivo/relazionale che si interseca con la patologia psichiatrica e lo stato detentivo. È pur vero che tali sezioni speciali debbano ricevere l’adeguato supporto di personale, non solo in base alla previsione in pianta organica, ma anche in base alla tipologia di pazienti psichiatrici accolti, i quali spesso, a causa dell’eterogeneità delle posizioni detentive e patologiche, richiedono un apporto maggiore di risorse umane specializzate. Manca, al momento, un lavoro di equipe, come assente è la formazione all’ingresso del personale medico che si troverà poi a contatto con soggetti con importanti patologie psichiatriche, e per di più in un contesto, quello penitenziario, fatto di regole ben precise da osservare. Infine, 250 sono le persone detenute che attualmente, all’interno della Casa Circondariale di Lecce, assumono una terapia psichiatrica. Nel 2019 i detenuti in trattamento nell’Istituto leccese rappresentavano il 29% del totale della popolazione detenuta. Nel reparto Infermeria di Borgo San Nicola, dove sono allocate anche persone detenute con disturbi psichiatrici, la situazione non è di certo migliore. Sono solo due i medici psichiatri a fronte dei 1054 detenuti. Il burnout anche qui è pronto ad entrare in scena. Il disturbo di personalità è la diagnosi più diffusa all’interno del penitenziario e nei casi più attenzionati l’unica soluzione è il collocamento del soggetto in una comunità terapeutica esterna. Peccato per le liste d’attesa con tempi di inserimento molto lunghi che costringono il detenuto ad attendere in sezione finché non si liberi un posto. Molto spesso, l’unica risposta che il soggetto ha per questa attesa è quella di mettere in atto gesti auto-etero aggressivi, aggravando ulteriormente il proprio stato di salute. Nel carcere di Lecce è stato fatto molto dal punto di vista del reinserimento, della proposta professionale e della promozione della cultura. Si può dire che è un angolo virtuoso di umanizzazione della pena ma tuttavia è circondato dal deserto; un territorio che non investe e valorizza le risorse umane che lì dentro si sono formate negli anni. I servizi territoriali, che dovrebbero fungere da ponte, sono in realtà ponti tibetani fragili e ingolfati dove spesso si cela anche il pregiudizio verso il proprio utente. Quale possibilità possiamo dare a chi sceglie di ripensare la propria vita e di imparare un mestiere se non c’è continuità tra il dentro e il fuori? Come possiamo sperare in nuovi medici psichiatrici se il carcere ancora continua ad essere considerato un Non Luogo, l’ombra oscura della città che a tutti i costi deve essere celata, anziché diventare parte integrante della stessa? *Osservatrici sulle condizioni di detenzione per l’Associazione Antigone Puglia Torino. No Tav, in 300 davanti al carcere per chiedere la liberazione di Dana Lauriola La Stampa, 27 settembre 2020 La portavoce del movimento si trova in cella dopo la sentenza definitiva a due anni per aver partecipato a un blocco stradale. Circa 300 No Tav si sono riuniti questo pomeriggio davanti al carcere delle Vallette per protestare contro la condanna della loro portavoce, Dana Lauriola, condannata a due anni per aver partecipato a un blocco stradale. “Mai accetteremo la sentenza che ha colpito Dana” hanno dichiarato i manifestanti che insieme ai militanti del centro sociale Askatasuna e ai genitori della portavoce hanno raggiunto il campo adiacente la sezione femminile del carcere e hanno messo musica ad alto volume. Un segno di solidarietà nei confronti della giovane condannata. “La condanna - hanno dichiarato i manifestanti - è un’evidente vendetta del sistema contro chi ha messo cuore, testa e coraggio nel difendere la valle dalla speculazione e dall’inquinamento”. La manifestazione si è conclusa con un lancio di fuochi d’artificio. Cagliari. Cappellacci (Fi): “No al nuovo Centro per migranti nel carcere di Iglesias” castedduonline.it, 27 settembre 2020 “Giusto per rinfrescare la memoria, ricordo che già nel 2017, con un grande manifestazione che coinvolse cittadini, comitati e amministratori locali abbiamo detto no ad un nuovo centro per migranti a Iglesias”. Così Ugo Cappellacci, deputato e coordinatore regionale di Forza Italia Sardegna, commenta la proposta del sindacato Siap al prefetto di Cagliari. “È un’idea illogica che, anziché alleviare i problemi di Monastir, non farebbe altro che replicarli in altri luoghi. Respingiamo con sdegno l’idea che la Sardegna venga utilizzata come centro migranti d’Italia e d’Europa e che, dopo la chiusura delle fabbriche vere, si aprano delle “fabbriche dell’immigrazione” che nulla hanno a che fare con l’accoglienza umanitaria e che alimentano il business dei trafficanti di persone. Né accettiamo che si pensi a calare, nuovamente, sulla testa della comunità delle ipotesi o delle decisioni che non possono essere formulate da chi non rappresenta i territori. La soluzione per noi è quella di una politica migratoria che blocchi il flusso dei clandestini provenienti dall’Algeria che conduca alla prospettiva di chiudere i CPR, non certo ad aprirne altri. Siamo contrari a scelte che mantengono lo status quo a Monastir e siamo contrari- ha concluso Cappellacci- a idee che non risolvono nulla e che raddoppierebbero i problemi”. Il no arriva anche dalla Lega e dal consigliere regionale Ennas: “L’utilizzo del carcere di Iglesias per accogliere i migranti che sbarcano nel Sulcis è una scelta errata e per nulla risolutiva della questione. Il governo, piuttosto, dovrebbe adoperarsi per recuperare la struttura cittadina e renderla operativa. Non è moltiplicando le strutture che si risolve il problema immigrazione. Se veramente il governo nazionale vuole fare qualcosa di concreto deve fare in modo che non avvengano sbarchi e deve lavorare affinché le procedure di espulsione, per chi è irregolare e non ha diritto di stare sul suolo nazionale, siano efficaci perché la loro inefficacia continua ad attirare arrivi che nelle nostre coste sono ormai quotidiani. Non far nulla per impedire l’arrivo di queste persone per poi ghettizzarle in strutture carcerarie non è il modo corretto di gestire la questione. Ne tale modalità ha qualcosa a che vedere con una gestione regolare dell’immigrazione o con ospitalità e accoglienza, parole di cui tanti si riempiono la bocca. Il centro di Monastir è al collasso, siamo stati i primi a denunciarlo e siamo solidali con le forze dell’ordine costrette a gestire situazioni ingestibili, in piena emergenza sanitaria e con pochissimi uomini. La struttura destinata allo scopo è Macomer, che dovrebbe essere riservata alle esigenze sarde e che invece spesso risulta saturata da individui provenienti dalla penisola”. Livorno. Gorgona, l’isola dove il riscatto è in vigna di Giuseppe Matarano Avvenire, 27 settembre 2020 Progetto di Frescobaldi: 9mila bottiglie prodotte grazie al lavoro dei detenuti della colonia penale agricola. Un’esperienza unica in Italia che consente a 70 carcerati di sentirsi utili alla comunità e di pensare al futuro. Tra loro un papà tunisino di 50 anni “I miei figli sono orgogliosi di me, qui ho imparato un mestiere”. “Da otto anni lavoro nelle vigne di Gorgona. Ho imparato un mestiere, mi sento utile e soddisfatto. Penso che un giorno, quando avrò scontato tutta la pena e potrò vivere il mondo fuori, saprò fare una cosa. Potrò spendermi e impegnarmi per avere una vita normale. Oggi grazie ai soldi guadagnati qui riesco a mantenere i miei figli a fargli dei regali. Quando si parla di Gorgona, sui giornali o in tv, loro sono orgogliosi: “E l’isola di papà. È il vino di papà”. E io sono felice”. Shargui ha 50 anni, è tunisino, è arrivato in Italia nel 1989. Le strade che in Italia ha percorso lo hanno portano in carcere. A Napoli. Da otto però è a Gorgona, nell’unica isola di detenzione rimasta in Italia, con la straordinaria possibilità di vivere l’esperienza della rieducazione e del lavoro con l’agricoltura e la viticoltura. Qui dal 2012 c’è un progetto di Frescobaldi per produrre vino, un Cru di gran livello, dai poco più di due ettari di vigneti presenti nell’isola. E lo fa con i detenuti. “Adesso so cosa c’è dentro una bottiglia”, dice fiero ed emozionato Shargui, mentre raccoglie i primi grappoli. Con lui c’è Gianluca, 30 anni, una vita ancora davanti, l’unico italiano del gruppo, primo anno nell’isola, che adesso sogna “un futuro diverso. Grazie a queste viti”. E altri 15 detenuti, a giro nel corso dell’anno fra i settanta che ospita la colonia penale agricola istituita nel 1869: il lavoro e il sogno di avere un’altra possibilità per riavvolgere il nastro della propria vita, imparare un mestiere, passare il tempo in modo proficuo, credere nel domani. Così “Gorgona”, vino “attraente e selvaggio”, sa di riscatto, è intriso di speranza e voglia di rivalsa. Quella iniziata nei giorni scorsi è la nona vendemmia nell’incantevole isola dell’Arcipelago Toscano, con il via lanciato direttamente da Lamberto Frescobaldi. “Questo progetto mi rende ogni anno sempre più orgoglioso - ha detto il presidente della Marchesi Frescobaldi presentando la bottiglia della scorsa annata davanti al direttore dell’istituto penitenziario di Lucca, Santina Savoca, che questo progetto lo ha visto nascere. A Gorgona nei profumi e nei sapori c’è tutto: l’amore per l’isola, la cura e la passione dell’uomo, l’influenza del mare e l’ambiente straordinario che danno vita a un vino inimitabile ed esclusivo simbolo di speranza e libertà. In una parola c’è l’essenza di questa terra e di un progetto che non finisce mai di regalare emozioni. Gorgona è... l’isola che non c’è, l’isola dei sogni che - conclude Lamberto Frescobaldi - grazie a queste bottiglie varca il mare, supera i confini, racconta ogni anno nuove storie e porta messaggi in tutto il mondo”. Novemila bottiglie di vermentino e ansonica, speciali anche nell’etichetta - disegnata da Simonetta Doni - chiusa per ricordare l’inaccessibilità dell’isola e che una volta aperta svela tutta la sua bellezza. Vuole essere una “edizione straordinaria” in modo da raccontare ogni anno un aspetto differente dell’isola. L’etichetta di “Gorgona 2019” ne descrive la biodiversità marina, trovandosi l’isola in mezzo al Santuario di Pelagos: una meravigliosa area marina nata dall’accordo tra Francia, Principato di Monaco e Italia. Un’esperienza unica quella di Gorgona - dove oltre al vino, si allevano animali, c’è un’azienda agricola, si produce miele - che ha avuto il plauso di papa Francesco. In una lettera che i detenuti hanno esposto nell’area ricreativa il Papa evidenzia “il significativo percorso di riscatto e di rieducazione che state compiendo. Vi incoraggio a guardare al futuro con fiducia”. “Tutti noi - riprende il Santo Padre - facciamo sbagli nella vita e tutti siamo peccatori. Quando andiamo a chiedere perdono al Signore, Lui ci perdona sempre, non si stanca mai di perdonare e di risollevarci dalla polvere dei nostri peccati”. Il lavoro, la dignità di queste vite segnate che provano a ricominciare. Come “lavoratori della vigna”. Quella di Gorgona. Trieste. La realtà nascosta delle carceri italiane: riabilitazione o immobilità? di Michela Porta triesteallnews.it, 27 settembre 2020 Mercoledì 23 settembre, al “Festival del Giornalismo” (22-26 settembre) di Ronchi dei Legionari, si è tenuto un approfondimento su un argomento poco noto sebbene importante, ovvero la realtà delle carceri italiane. L’incontro, denominato “Percorso di riabilitazione o luogo di inutile immobilità? La situazione delle carceri italiane” ha visto la partecipazione dei seguenti ospiti: il Direttore di Radio Radicale, Alessio Falconio, la giornalista e scrittrice Katya Maugeri, lo scrittore ed ex carcerato Carmelo Musumeci e la giornalista de Il Friuli Silvia De Michielis. Grande assente, per motivazioni dovute a precauzioni Covid, la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria Cucchi (Presidente della Fondazione Stefano Cucchi Onlus). Si è partiti ad affrontare un fatto poco noto in Italia, ovvero la presenza di due tipologie di ergastolo: uno “normale” o ordinario ed uno “ostativo”, per il quale non sono previsti benefici derivati dalla buona condotta. La scrittrice Katya Maugeri ha sottolineato alcuni punti deboli delle strutture, come la mancanza di psicologi per i detenuti o di come vengano reclusi anche malati di mente e tossicodipendenti, figure “borderline” non adatte ad un contesto simile in quanto luogo in cui risulta più facile “debordare”, costringendoli poi in celle di isolamento, con conseguente rischio di suicidi annunciati. Un breve momento di riflessione, da parte di Alessio Falconio, ha riguardato anche la legge Fini-Giovanardi. Sulla situazione interna alle strutture ha poi parlato più approfonditamente Carmelo Musumeci, raccontando la sua testimonianza e sottolineando come lo studio sia uno strumento fondamentale per i detenuti, che possono trovare in esso motivazione e forza di difendersi. Molti di loro, infatti, non sanno neanche di poter lottare per far valere i loro diritti al di fuori del carcere tramite apposite associazioni per i diritti dei detenuti. “Con un costo di circa 3 miliardi di euro all’anno, il carcere dovrebbe risultare una struttura educativa adeguata e non andare a produrre ulteriore criminalità formata da persone prive di speranza. Un carcere che fa male, fa male alla società”. Lo scopo della struttura, quindi, non dev’essere quello di avere un detenuto che faccia il bravo, bensì un detenuto che “diventi bravo”. In conclusione, relativamente alla realtà dei Cpr, essi possono essere definiti come espresso dal direttore di Radio Radicale delle “carceri non carceri”: “Esasperare la situazione per cavalcare le paure non funziona. C’è bisogno di un approccio pragmatico. I muri stessi non funzionano: se passa il cibo dalle frontiere devono poter passare anche gli uomini senza che diventino essi stessi dei problemi, altrimenti c’è il rischio di far passare, in futuro, solo le armi”. Una speranza sul fronte Cpr sembra provenire dalla nuova proposta della Commissione europea, in cui si rivedrà il Trattato di Dublino. Le richieste d’asilo dovrebbero essere processate più rapidamente, così come le espulsioni previste per chi si vedrà respingere la richiesta. Il piano cerca di migliorare il sistema ma la strada è ancora lunga. Molti punti restano ancora incerti, sia per la questione dei Cpr che per le carceri italiane. C’è bisogno di chiarezza e soprattutto di volontà di raggiungerla. Milano. Da San Vittore alla Chinatown milanese le voci delle detenute attrici di Olivia Giuli pianetacarcere.it, 27 settembre 2020 “È tornata la vita cancellare tutte le domande. Le incertezze. È tornata la vita a darci grandi risposte. Una su tutte. Niente è impossibile se lotti col cuore. Alza gli occhi e guardalo. È tornato il sole. E con lui anche noi. Non si può fermare l’alba. Non si può fermare la vita. Perché il dolore. La rabbia. La paura. L’impotenza. Non possono durare per sempre…” Sono alcuni versi di “Life”,di Elena Pilan, parte dello spettacolo “Voci di dentro” a cura di Donatella Massimilla, pioniera del teatro -carcere al femminile con il suo laboratorio Cetec nella casa circondariale di San Vittore. Uno spettacolo scritto a distanza durante il lockdown grazie a telefonate autorizzate da dentro a fuori il carcere e videochiamate con Elena Pilan oggi, dopo una formazione artistica oltre che un percorso personale, pronta ad affrontare anche le scene “libere”. “Presto Elena uscirà in articolo 21 per lavorare con noi - tiene a sottolineare Donatella Massimilla. È ora che anche in carcere il teatro sia considerato un lavoro. In fondo è accaduto con Salvatore Striano, interprete di Cesare deve morire, ora attore affermato. Perché non potrebbe accadere con una donna?”. “Voci dentro” ha debuttato venerdì 25 settembre a Milano, nel cortile di una casa di ringhiera di Via Fra Paolo Sarpi, cuore della Chinatown meneghina. Ad assistervi, dalle ringhiere, un pubblico “accogliente e partecipante -racconta la regista - composto in gran parte da donne di tutte le età, anche da novantenni che hanno fatto la Resistenza”. In scena con Elena e Donatella anche Gilberta Crispino e il filarmonicista Gianpietro Marrazza, da sempre artisti anima del Cetec. Particolarmente suggestiva la proiezione, sulle lenzuola bianche appese sulle ringhiere, di alcune immagini del carcere “per incontrare altri volti che non possono essere presenti fuori, altre voci di Dentro San Vittore che vogliono essere ascoltate e ricordate”. Il Reading “Le voci di dentro” sarà replicato a Milano Bookcity 2020. Sciascia e la giustizia: la “terribile ossessione” di un intellettuale scomodo di Pasquale Vitagliano Gazzetta del Mezzogiorno, 27 settembre 2020 Quella di Leonardo Sciascia per la giustizia è stata una “terribile” ossessione. Magnifica, invece è la coincidenza, effetto della sospensione indotta dal lockdown, che il ciclo di Letture Massimo Bordin sia partito proprio da Bari. Lo ha sottolineato Enrica Simonetti, caposervizio Cultura e Spettacoli, della Gazzetta del Mezzogiorno, che ha introdotto e moderato il convegno, ricordando la “collaborazione militante” di Sciascia con il giornale diretto allora da Giuseppe Giacovazzo, il primo direttore della stessa Simonetti. Organizzato dall’Associazione Amici di Leonardo Sciascia e dalla Unione delle Camere Penali Italiane, in collaborazione con la casa editrice Olschki e Radio Radicale, il ciclo “Ispezioni della terribilità: Leonardo Sciascia e la giustizia”, è stato aperto venerdì 25 settembre presso la sala del Consiglio regionale della Puglia. “Finalmente - ha esordito l’avv. Lorenzo Zilletti, responsabile del Centro studi giuridici e sociali Aldo Marongiu - il destino ha voluto che partissimo proprio dalla città dove Sciascia nel 1956 pubblicò Le parrocchie di Regalpetra. Dopo i saluti istituzionali di Fabiano Amati, neoeletto consigliere regionale, e dell’assessore alla Cultura del Comune di Bari, Ines Pierucci, la quale ha espresso la volontà di fare di Bari “una città europea” nel segno di quella “europeizzazione” della cultura italiana auspicata dallo scrittore siciliano, sono intervenuti Alessio Falconio e l’editore, Maurizio Turco, per Radio Radicale, che ha seguito in diretta l’evento. Che hanno apprezzato l’intuizione dell’Associazione di abbinare le letture, in occasione del prossimo Centenario, con il ricordo della figura di Massimo Bordin (era presente in sala il figlio Pierpaolo), che raccontando quotidianamente le questioni di giustizia, è, di fatto, divenuto il principale divulgatore di Sciascia. A loro ha fatto eco il presidente, Francesco Izzo, ricordando che “la storia dell’Associazione si è da subito intrecciata con quella di tanti padri nobili del partito radicale”. Quindi, riprendendo l’intervento di Luigi Bramato, che ha raccontato come è nata l’iniziativa di dedicare a Sciascia una via o una piazza di Bari, Izzo ha precisato che “questa scelta non è identitaria”. “Sarebbe contrario al suo spirito illuminista rivendicare un senso di appartenenza, si tratta invece di condividere un patrimonio di valori, di lasciare una traccia non effimera e non retorica. Sciascia, infatti, appartiene solo ai suoi lettori”. Per la Camera Penale di Bari e l’ordine degli avvocati di Bari hanno portato il saluto l’avvocato, Ebe Antonia Guerra, e l’avvocato Guglielmo Starace. Questi, dopo aver ringraziato per la presenza il procuratore della repubblica di Bari, Giuseppe Volpe, ha esaltato nell’opera di Sciascia l’allarme profetico contro “il terribile potere di giudicare, i rischi di una magistratura autoreferenziale e i pericoli della giustizia mediatica”. Da Milano in streaming è intervenuto il prof. Gianfranco Dioguardi. Prendendo le mosse dal paradigma del “rasoio” di Guglielmo di Ockham, secondo cui “bisogna evitare di dire con molte parole, ciò che si può dire con poche”, ha esaltato la capacità di sintesi dell’amico Leonardo e “la sua quasi mistica devozione per la sacralità delle parole, una per una, da non sprecare mai”. In streaming è intervenuto anche Vincenzo Maiello, avvocato e professore dell’Università Federico II di Napoli, il quale ha rivendicato la vocazione liberale dei penalisti formatisi dentro una cultura che mette sempre al centro il diritto contro ogni forma tracotante di potere. Il tema centrale del “terribile potere di giudicare” è stato così ripreso da Filippo La Porta, critico letterario de La Repubblica, il quale, con una digressione dentro l’inferno dantesco, ha denunciato la struttura inquisitoriale di ogni forma di amministrazione della giustizia. Per questo essa “è sempre in bilico tra la funzione riparatrice della vendetta e l’umana comprensione dell’amore cristiano. Solo il senso del tragico può mettere in equilibrio questa bilancia e la letteratura può aiutarci a cogliere e coltivare questo sentimento”. La Porta è anche ritornato sulla proposta di una Strada per Sciascia. Ed ha suggerito di scegliere un luogo appartato, adatto al suo carattere solitario. Ad esempio nel centro storico, comunque lontano dal mare, che Sciascia non amava, come ha ricordato Bramato. Marco Nicola Miletti, storico del diritto dell’Università di Foggia, attraverso una rassegna molto ricca e precisa, ha ricostruito la figura di Sciascia quale minuzioso storico del diritto, innamorato del documento scritto a mano, in quanto capace di dare luce all’anello debole della catena logica degli accadimenti. Insomma, grazie agli approfondimenti di questo evento, abbiamo avuto la conferma che il pessimismo di Leonardo Sciascia non è affatto passivo e negativo. Come Pascal scommetteva sul bene e riteneva più conveniente credere in Dio, Leonardo Sciascia, nonostante tutto, ha scommesso sull’uomo e ha ritenuto comunque più conveniente puntare sulla giustizia. Sì, “ce ne ricorderemo di questo pianeta”. Selfie, lame e gomorra. La vita perduta del branco di Maria Luisa Iavarone e Nello Trocchia Il Domani, 27 settembre 2020 Dal libro “Il coraggio delle cicatrici”. “Io se non faccio i nomi è per paura della famiglia mia”. Le intercettazioni dei minorenni che hanno quasi ucciso Arturo a coltellate svelano l’omertà e la legge della violenza nelle strade di Napoli. Arturo è agonizzante in via Foria, nel cuore di Napoli. È stato colpito da vari fendenti, sferrati con l’intenzione di uccidere. Due coltellate hanno raggiunto l’emitorace sinistro e la gola. È in fin di vita a soli diciassette anni. Prima è stato colpito alla nuca e poi immobilizzato, bloccato di spalle e infilzato come un budello senza anima, carne senza cuore, un manichino senza vita. Prima di lui la banda ha avvicinato un altro coetaneo, poi si sono fondati su Arturo, mai visto prima. È stato abbordato con la richiesta dell’ora, ha risposto estraendo il cellulare: “Sono le 17.21”. Uno di loro replica: “T’e mai fatt ‘na chiavar?”. Hai mai scopato? Nessun nesso tra richiesta e risposta. “Fatela finita mi avete rotto”, dice Arturo, e a quel punto uno di loro estrae il coltello: “I t’accir”, urla. Poi la fuga tentata da parte di Arturo, interrotta dal branco. Il branco ora vaga attorno a quel capannello di persone. Vagano per la città che è Napoli, ma potrebbe essere ovunque. Senza volto e senza nome, si disperdono confusi nella folla, e così rimarranno fino alle indagini e al successivo processo. A quel punto, e per tutti, saranno Gennaro, Francesco, Antonio e Ciro. Gennaro indossa un cappuccio grigio, giubbino scuro e scarpe bianche Diadora, ma il dettaglio che lo rende riconoscibile è un altro: ha gli occhi azzurri come un cielo terso. Non è altro però che una quiete apparente. È lui ad aver urlato “I t’accir”, ha inseguito Arturo, lo ha colpito forte alla nuca per stordirlo, poi ha fatto leva sul braccio destro prima di sfilare la lama. Ha sferrato coltellate per ammazzare, una, due, tre, poi non si contano più, inflitte con crudeltà e senza fermarsi neanche un momento. Ha sedici anni. Arturo ha sentito i fendenti sul lato sinistro del tronco. Infilzato da un coetaneo, di quelli con cui normalmente posi lo zaino e ti metti a correre dietro a una palla. Gennaro ha alle spalle una condanna a due anni e due mesi per tentata rapina aggravata in concorso, pena sospesa. Lo stato di Genny se ne è fottuto e lui ha fatto altrettanto, ha fottuto il prossimo o almeno di questo si è convinto. Doveva andare a scuola, doveva frequentare un istituto, il “Casanova”, doveva avere il supporto di un assistente sociale. Doveva, ma poi i fondi, i soliti problemi, la solita Italia. E così Gennaro è tornato in strada. A scuola andava giusto per scattare self e con Francesco mentre rollava canne al cesso o le adagiava in bocca fumandosele avidamente. Si crede perseguitato dalla legge, Gennaro, quella legge che considera al più un fastidio, un impiccio. La legge che abbaia, ma non morde, ti acciuffa e poi ti lascia. “A me m’hann sempre purtat perché teng duje ann ‘e pena sospesa”, racconta così Gennaro il suo rapporto con le guardie. m’hann sempre purtat si riferisce ai controlli casuali in strada ai quali era sottoposto dopo la condanna per rapina. Non va meglio in famiglia. Quando torna a casa non trova un riparo ma un’altra trincea. Il padre picchia, picchia forte e ogni volta senza motivo. A volte lui, a volte la madre. “È manesco”, racconta Genny, “è sempre stato molto offensivo con mia madre e con me, chiedeva sempre soldi perché si doveva fumare lo spinello e scaricava su di me tutta la sua rabbia”. Con gli inquirenti che lo interrogano aggiunge: “Mi sucutava [seguiva, n.d.r.] fino a sotto al letto picchiandomi spessissimo”. Sui social ci sono le sue foto, i video con cui si mostra al mondo. Accende uno spinello, urla: “Ma’ domani svegliami presto, verso le undici e mezza”. E detta le sue regole di vita: “Io nun dic niente, nun face ‘a guardia”. Io non parlo, non faccio il poliziotto. Eccola, l’omertà endemica, strisciante, che è sistemica e mai occasionale. Perché d’altra parte dall’altro sistema, quello ufficiale, lo Stato, Genny non si è sentito né affidato, né assistito, mai. E alla fine dalla tentata rapina al tentato omicidio il passo è breve, troppo breve. Francesco Francesco si fa chiamare Kekko, con la k chiaramente, ma tutti lo chiamano ‘o Nano. Ha quindici anni. Certo è basso, piccoletto, minuto, ma a Napoli un appellativo, un soprannome rende bene l’idea solo se estremizza, solo se è brutale. Così Francesco è diventato ‘o Nano, ma non la vive come un’offesa. Quella sera indossa un giubbotto scuro e uno scalda-collo di colore nero. Si muove baldanzoso, guida il gruppo come un domatore. Non colpisce ma induce, organizza, ordina. Senza che se ne accorga rimane immortalato dalle immagini delle telecamere. Basta fermare un istante per vederlo per com’è, un ragazzino sopraffatto dalla smania di fare ‘o gruoss, lo sbruffone che si improvvisa criminale. Durante l’assalto ad Arturo, ‘o Nano è il più eccentrico, qualcosa a metà tra protagonista e regista. È euforico, saltella, grida, corre, così racconta un testimone che assiste alle violenze. È entusiasta di fare “spalla a spalla” con quel ragazzo sconosciuto, di sottometterlo alla sua legge attraverso la squadra che controlla e fomenta. ‘O Nano ha i capelli chiari, mingherlino, un fuscello, quasi insignificante rispetto al mondo, ma è presente a sé stesso e sa dove vuole arrivare. D’altra parte è lui ad abbordare Arturo. Ma se prima gli sferra un calcio, poi si allontana, resta a un metro dall’aggressione, non accoltella ma fa accoltellare, osserva. Francesco è lì a controllare che tutto avvenga con celerità e senza dar troppo nell’occhio. All’improvviso dà l’ordine a tutti di scappare. Antonio Il giorno dell’agguato tra gli esecutori telecomandati da Kekko c’è un altro ragazzino, si chiama Antonio. Ha solo quattordici anni, ma volteggia attorno ad Arturo come un corvo. I colpi arrivano prima al braccio, poi al petto e, infine, la lama affonda sotto la gola di Arturo. Come a scannarlo. Così si cancella un ragazzo dalla faccia della terra, rischiando di chiudergli gli occhi per sempre. Di Antonio scriveranno gli inquirenti: “Si distingue per la particolare prodezza nell’accoltellare”. Mentre Gennaro colpisce e tiene ferma la vittima c’era chi accoltellava di fronte. Antonio, a quattordici anni, fa già la malavita anche perché il determinismo sociale ha deciso la sua strada, lo ha predestinato. La sua famiglia è scomposta, frammentata. Ma c’è di più. È il dicembre 2003,1a notte tra l’otto e il nove. La notte dell’Immacolata. Un ragazzo, Claudio Taglialatela, studente e aspirante sottufficiale dei Carabinieri, viene rapinato e ucciso in corso Umberto I, la via dello shopping a Napoli. Nel 2003 Antonio ha undici mesi, non ha ancora compiuto un anno. Claudio Taglialatela di anni invece ne ha ventidue quando la sua vita viene interrotta da un colpo di pistola alla testa. La sua macchina finisce contro un palo. A ucciderlo è il padre di Antonio, che finisce in carcere ma pochi giorni dopo afferra un lenzuolo, lo lega al tubo di scarico del cesso della cella e si ammazza piegando le gambe per penzolare nel vuoto. Era in isolamento. Il padre di Antonio era affiliato al clan Mazzarella, egemone a Forcella, ma dalle intercettazioni si capisce che dopo l’omicidio il clan lo abbandona. Il neonato Antonio resta senza padre. Rimane a vivere con la madre ma andrà presto via anche lei, scegliendo la droga come compagna di vita prima di finire in carcere per rapina. Dopo la morte del padre, Antonio viene così abbandonato anche dalla madre. Resta avi - vere con lo zio, pregiudicato anche lui. Antonio, sui social, celebra la figura del padre. Un fotomontaggio racconta il dolore e i fantasmi del giovane: “Mio padre mi disse attento a dove metti i piedi e io gli risposi, attento tu che io seguo i tuoi passi”. A distanza di quattordici anni quel neonato diventato ragazzino infilerà il coltello nella gola di un innocente come parte di un destino maligno. Finisce arrestato per rapina e tentato omicidio, esattamente come papà. Alla fine ha seguito quei passi. Ciro La galleria degli aggressori ha bisogno di un ultimo personaggio che abbassa di colpo l’età. Si chiama Ciro. Non subirà alcuna conseguenza penale. Ha dodici anni, l’età della preadolescenza, come dicono gli esperti. Ma se è lì insieme alla banda, ai carnefici, più che preadolescenza è pubertà criminale. E però Ciro ha un cognome che pesa e una parentela importante. “A chi appartiene?” si domanda in quelle zone, come a chiedere lo stigma, il marchio, l’origine. Ciro appartiene alla famiglia criminale dei Mauro, clan che primeggia tra i Miracoli e Sanità. “Solo in una zona comandano”, racconta un bene informato, “stanno in alcune palazzine e si occupano di droga e racket”. La camorra è considerata il potere supremo, interlocutore unico in assenza, per decenni, di istituzioni capaci di rappresentare e incarnare l’autorità, è anche l’unica autorizzata all’uso della forza. Ciro così è temuto perché appartiene al sistema, anche se ha solo dodici anni e il clan di famiglia, nello scacchiere criminale, è di second’ordine e di minore rango. Il timore reverenziale emerge dalla mole di intercettazioni che raccontano il mondo, le stanze, i segreti delle famiglie dei carnefici. E Ciro tra i carnefici non si deve nominare. Quando Francesco viene arrestato gli inquirenti registrano i colloqui in carcere e quelli tra i familiari. Colloqui che abbiamo potuto leggere. La madre, Anna, parla con la sorella Maria: “No... solo... a mio figlio devono passare tanti guai! Avessero preso pure a quegli altri là, quegli altri quattro, va fa mocca! Dice uno... vabbè, proprio assurdo”. Francesco poi si rivolge a Patrizia, sua sorella, e affrontano il tema dei nomi. “Come si chiamano? Non mi dire i nomi di questi qua, dimmi il nome di quello là del Borgo [di Sant’Antonio] in mezzo...”. Patrizia chiede i nomi, ma Francesco risponde: “No, non te li posso dire”. Patrizia: “Perché?” Francesco: “Ma quando mai, io non glieli ho detti nemmeno all’avvocato... Ma che c’è mamma? Io se non faccio i nomi è per paura della famiglia mia, dopo loro non stanno bene e io sto male, diglielo Emanuele che ha detto...”. “Non fare i nomi”, “se non li faccio è per paura della famiglia mia”, l’amico sconosciuto che ferma la sorella in strada. Sono episodi e frasi tipicamente all’insegna dell’omertà, ma impressiona come il mandato al silenzio segni la personalità in formazione di un minorenne. Come la plasmi. Totalmente. Stati Uniti. Se i magistrati sono scelti proprio per la loro “partigianeria” di Sergio Romano Corriere della Sera, 27 settembre 2020 Esiste una fondamentale differenza tra il sistema giudiziario degli Stati Uniti e quello di quasi tutte le democrazie europee. Nei nostri sistemi esistono disparità da un Paese all’altro per il reclutamento e la selezione dei magistrati; e vi sono differenze tra i Paesi che adottano la Common Law (un sistema di origine inglese, fondato sul continuo uso dei precedenti) e quelli che hanno adottato le grandi riforme napoleoniche. Ma in questi Paesi il giudice ideale è quello che applica la legge votata dai Parlamenti e non è motivato da considerazioni politiche o religiose. Non mancano i sistemi autoritari dove la legge è dettata da chi detiene il potere; e vi sono giudici che subiscono influenze di varia natura. Ma il modello pubblicamente riconosciuto in Europa è quello di una giustizia severamente neutrale. Negli Stati Uniti la giustizia opera in un contesto caratterizzato da una forte partigianeria. Ne abbiamo una nuova prova dopo morte di un giudice della Corte Suprema. I membri della Corte sono nove e vengono nominati dal presidente, ma assumono la carica dopo l’approvazione del Senato e la conservano sino alla morte. Il giudice scomparso era Ruth Bader Ginsburg, nominata da Bill Clinton nel 1993, che godeva di una stima generale, ma era particolarmente gradita alle correnti più liberali e progressiste della società americana. Il rapporto fra conservatori e liberali nella Corte Suprema, dopo le prime tre nomine di Donald Trump, è già di cinque a quattro e sarà e di 6 a 3 se il nuovo giudice (una donna che fu assistente di un altro giudice conservatore, Antonin Scalia) verrà confermata dal Senato. Allarmati, molti americani sostengono che alla vigilia di nuove elezioni presidenziali, il 3 novembre, Trump avrebbe dovuto lasciare il compito della nuova nomina al suo successore, anche perché non deve la vittoria a un voto popolare (la sua avversaria, Hillary Clinton, ha preso quasi tre milioni di voti in più). È stato eletto grazie alla maggioranza degli Stati in un organo, il Collegio Elettorale, che molti considerano ormai invecchiato. L’argomento non è privo d’importanza, ma gli avversari di Trump non mettono in discussione il diritto di scegliere un giudice politicamente gradito. Vogliono che la scelta venga fatta da un altro presidente, più vicino alla loro idee e convinzioni. Mentre in Europa un giudice è tanto più stimato quanto più è neutrale, negli Stati Uniti sembra essere stimato quando tiene conto, nelle sue sentenze, delle opinioni e delle preferenze di chi lo ha nominato o eletto. Il problema è particolarmente serio in un Paese dove lo straordinario aumento dei diritti civili e umani, da quelli sulla eguaglianza degli afroamericani all’epoca del presidente Lyndon Johnson, a quelli più recenti sul porto delle armi, la sessualità e la famiglia (aborto, matrimonio fra persone dello stesso sesso, mutamento di genere), hanno enormemente aumentato il numero dei ricorsi in giustizia e quindi l’influenza dei giudici nella vita sociale americana. Sono questioni che stanno dividendo drammaticamente gli Stati Uniti e hanno addirittura suscitato, dopo l’arrivo di Trump alla presidenza, il timore di una guerra civile. Libia. A Mazara fiaccolata per i pescatori detenuti nelle carceri libiche di Alan David Scifo La Repubblica, 27 settembre 2020 Ma dalla Libia ribadiscono: “Liberate i quattro calciatori detenuti”. Continua la protesta dei familiari dei pescatori detenuti nelle carceri libiche. “Il nostro governo non sta facendo nulla”. “Li rivogliamo a casa”. A Mazara del Vallo Il grido dei familiari dei pescatori ostaggi in Libia da 26 giorni è unanime e viene ribadito nella fiaccolata organizzata nel centro della cittadina trapanese, a cui hanno partecipato centinaia di persone. “La sensazione è che il governo non stia facendo nulla - dice una dei familiari dei pescatori - il governo è fermo, ora che le votazioni sono finite si possono dedicare a noi. Loro hanno detto che stanno bene ma è una forzatura e non ci crediamo anche se ce lo auguriamo. Speriamo che immediatamente il governo ci permetta almeno di creare un contatto con i prigionieri, anche per far capire loro che ci stiamo muovendo”. La protesta prosegue anche a Roma, dove continua il sit-in permanente degli altri 13 familiari dei pescatori arrestati e poi presi in ostaggio il primo settembre, ufficialmente per aver invaso le acque libiche (ipotesi smentita dai pescatori) e poi perché i militari avrebbero trovato della droga sui pescherecci Antartide e Medinea: ipotesi allo stesso modo smentita dai familiari e probabilmente inscenata dai militari libici per giustificare l’arresto. Notizie non confortanti arrivano dalla Libia, da dove arriva il tweet del Libyan Address Journal, giornale vicino al generale libico Haftar, il quale ribadisce la richiesta già fatta pervenire nei giorni scorsi: “i pescatori verranno liberati quando saranno rilasciati i quattro calciatori libici oggi in carcere per traffico di essere umani”. Il riferimento è ai 4 scafisti condannati nel 2015 per traffico di essere umani e per aver provocato la morte di 49 persone, decedute per asfissia nella stiva di una nave. A sostegno dei pescatori di Mazara c’è anche il sindaco della cittadina Salvatore Quinci, che ribadisce la complessità della vicenda e chiede ancora una volta un sostegno al governo italiano. Il primo cittadino era presente alla fiaccolata così come i sindacati: “Occorre che il governo liberi i nostri pescatori - dice Giorgio Macaddino, segretario generale Uil Fpl Trapani - a noi non interessano le dinamiche che si stanno consumando nel Mediterraneo, chiediamo l’immediata liberazione dei lavoratori”. Turchia. Repressione continua, 82 mandati di cattura per esponenti Hdp di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 settembre 2020 La procura di Ankara li accusa di incitamento alla violenza e omicidio. Tra gli arrestati c’è il co-sindaco di Kars. Le proteste, esplose dopo l’ingresso dell’Isis nella città siriana, furono uccisi decine di manifestanti. Il 7 novembre 2014 Kader Ortakaya cadeva al confine tra Turchia e Siria. Un colpo alla testa sparato dai militari turchi contro i manifestanti che avevano affollato la frontiera per dare la loro solidarietà a Kobane, la città curdo-siriana occupata dall’Isis due mesi prima. Aveva 28 anni Kader, era una studentessa dell’Università di Marmara e attivista della Piattaforma collettiva per la Libertà. È morta mentre con centinaia di attivisti formava una catena umana, aggredita dai soldati con lacrimogeni e proiettili. È stata l’ultima vittima della repressione che si è abbattuta tra ottobre e novembre 2014 sulla mobilitazione del sud est turco a maggioranza curda, esplosa contro lo Stato considerato complice dello Stato islamico, per anni autorizzato ad attraversare la porosa frontiera e rifornito di armi. Per quelle proteste e per i tentativi di attraversare il confine e portare sostegno materiale alle unità curde Ypg e Ypj a difesa di Kobane, ieri la procura di Ankara ha emesso 82 mandati di cattura contro esponenti dell’Hdp, il Partito democratico dei Popolo, opposizione pro-curda e di sinistra al monopolio politico ed economico dell’Akp del presidente Erdogan. Tra loro sette ex deputati (per cui è stato già chiesto di rimuovere l’immunità parlamentare), ex e attuali membri del comitato esecutivo dell’Hdp e il co-sindaco di Kars, Ayhan Bilgen. All’alba i primi arresti in sette province, le accuse sono per tutti le stesse: incitamento alla violenza, saccheggio, danneggiamenti, omicidio, vilipendio della bandiera turca in riferimento alle proteste per Kobane dell’autunno di sei anni fa. L’inchiesta è stata aperta circa un anno fa, ribattezzata “Operazione Pkk/Kck”, il Partito curdo dei Lavoratori e l’Unione delle Comunità del Kurdistan, la federazione-ombrello di cui fanno parte i vari movimenti curdi di Turchia, Siria, Iraq e Iran che si ispirano alla teorizzazione di Abdullah Ocalan. L’Hdp, considerato da Ankara braccio politico del Pkk, è accusato di aver ordito manifestazioni con obiettivi terroristici. La grande mobilitazione curda era iniziata la sera del 6 ottobre 2014, tre settimane dopo l’ingresso dell’Isis a Kobane, il 13 settembre. Al governo turco era stato dato “tempo”, era stato chiesto di intervenire in difesa della città. Ma all’assenza totale di intervento Ankara aveva sommato ostacoli a chiunque tentasse di portare aiuto: volontari, medicinali, cibo. Il confine sbarrato, presidiato dall’esercito turco, mentre a pochi chilometri si alzava il fumo nero degli scontri strada per strada tra Isis e Ypg/Ypj. Si protestò ovunque per settimane, nelle principali città del sud-est, ma anche a Istanbul con una manifestazione di massa il primo novembre. Il bilancio finale non è stato mai confermato, si parlò di 46, forse 53 manifestanti uccisi da soldati, poliziotti, guardie di villaggio. Tantissimi i feriti, da Diyarbakir a Batman. Nel pomeriggio di ieri l’agenzia curda Anf ha riportato la notizia di un ulteriore divieto, stavolta per i legali degli arrestati: per “evitare il rischio di distruzione delle prove”, ha fatto sapere la procura, non sarà possibile per gli avvocati vedere i loro assistiti per almeno 24 ore. La guerra aperta all’Hdp prosegue spedita: con i due ex-co-leader, Demirtas e Yuksekdag in prigione dal novembre 2014, continua a salire il numero di membri del partito dietro le sbarre. E di sindaci rimossi. Bilgen è l’ultimo di una lunga serie: considerando anche gli arresti perpetrati nel maggio scorso, 47 dei 65 comuni vinti alle elezioni del 2019 dall’Hdp sono stati commissariati dal ministero degli Interni; 95 su 102 i sindaci rimossi dai municipi vinti nel 2014. Piccoli golpe locali, così li ha definiti il partito, che mirano a modificare la geografia politica del sud-est ribelle. Iran. L’attivista Nasrin Soutoudeh interrompe lo sciopero della fame: era in pericolo di vita La Repubblica, 27 settembre 2020 L’avvocata, insignita del premio Sakharov dal Parlamento europeo nel 2012, condannata a 33 anni di carcere per aver difeso i diritti umani aveva smesso di mangiare 45 giorni fa. La settimana scorsa era stata ricoverata per insufficienza cardiaca. La notizia è stata data dal marito. “Nasrin Sotoudeh e Rezvaneh Khanbeigi hanno deciso di porre fine allo sciopero della fame a causa del peggioramento delle loro condizioni fisiche. Questa notizia è stata data questa mattina. Il motivo del ritardo dell’annuncio è stato la mancanza di accesso al telefono”. Così il marito di Sotoudeh, Reza Khandan, ha dato notizia dell’interruzione dello sciopero della fame della moglie. Sotoudeh aveva iniziato lo sciopero l’11 agosto scorso in segno di protesta contro le condizioni dei prigionieri politici nel carcere di Evin a Teheran, durante l’epidemia di coronavirus. La settimana scorsa era stata ricoverata in ospedale per insufficienza cardiaca. Rilasciata dopo 5 giorni, il marito ha denunciato che non le era stato dato alcun trattamento medico. Né a lei, né a nessun altro presente nel reparto di terapia intensiva. Un mese fa è stata arrestata anche la figlia, Mehraveh Khandan, 20 anni, rilasciata dopo qualche ora dal carcere di Evin. Mehraveh è stata arrestata senza alcuna accusa. Una forma di pressione nei confronti della madre, sostengono gli attivisti per i diritti umani. Con lei ha interrotto lo sciopero della fame anche l’attivista Rezvaneh Khanbeigi, condannata a 10 anni di carcere per aver partecipato alle proteste di novembre 2019 contro l’aumento della benzina: collusione e associazione contro la sicurezza nazionale e internazionale e propaganda contro lo Stato.