“Mafia o no lo Stato di diritto è uno solo” di Angela Stella Il Riformista, 26 settembre 2020 Intervista a Riccardo De Vito, magistrato di sorveglianza e presidente di Magistratura Democratica. “Mettere da parte gli strumenti dell’umanità della pena è un grande regalo alla criminalità organizzata”. E sul caso Palamara: “L’analisi sulla crisi della magistratura non può chiudersi con la sua espulsione” Si terrà oggi la seconda e ultima giornata della presentazione della rivista dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Diritto di Difesa, in occasione della prima pubblicazione cartacea (in diretta sul canale YouTube e su Camere Penali TV). Dalle 10 alle 12 si svolgerà un confronto sul tema “Politica e giustizia - Cosa salvare”, coordinato e moderato dall’avvocato Francesco Petrelli, in cui dibatteranno Goffredo Bettini, Gian Domenico Caiazza, Giovanni Fiandaca, Beniamino Migliucci, Gaetano Pecorella e Riccardo De Vito. Proprio con De Vito, magistrato di sorveglianza illuminato e presidente di Magistratura Democratica, abbiamo voluto discutere anticipatamente di alcune questioni attuali di politica giudiziaria. Due i concetti chiave che De Vito condivide con il Riformista: sull’attaccamento di Piercamillo Davigo alla poltrona del Csm - che non intende lasciare quando andrà in pensione dalla magistratura - ci dice che “sui principi non si passa sopra in nome dell’attualità politica”; mentre sul caso Palamara auspica che “il corpaccione della magistratura non approfitti di alcune circostanze” - tra cui le stesse direttive disciplinari della Procura Generale di Cassazione - “per ritenere chiusa la fase dell’analisi”. Partiamo dal titolo della rivista: Diritto di Difesa. Si tratta di un diritto costituzionalmente garantito. Ma stiamo assistendo a sempre più aggressioni agli avvocati nell’esercizio della loro funzione. Il Procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, ha detto che in questo avvocatura e magistratura devono essere unite perché anche i giudici vengono attaccati quando non soddisfano le richieste del “Tribunale del Popolo”. Qual è il suo pensiero in merito? Le rispondo con le parole che il Presidente Curzio (Primo presidente dalla Cassazione ndr) ha pronunciato nella sua prima uscita pubblica (di rilievo simbolico anche per essere stata effettuata presso il Consiglio Nazionale Forense: giudici e avvocati esercitano insieme la giurisdizione. C’è poco da aggiungere a parole che rincuorano e segnano un argine a una ripresa di autoreferenzialità della magistratura. Dico solo che, come le vicende della Turchia dimostrano, la toga degli avvocati copre l’uomo ed è essenziale difesa dei diritti fondamentali di tutti. Un processo con una difesa marginalizzata, inoltre, sarebbe epistemologicamente meno attendibile. Non parliamo poi del ruolo anche sociale e culturale che i difensori svolgono nell’impattare, per primi, le vicende di coloro che devono mettere piede nelle aule di giustizia per ricevere tutela o essere giudicati. Ben venga, dunque, una rivista dedicata, aperta al confronto e libera come quella che in questi giorni viene presentata. Lei parteciperà alla sessione “Politica e giustizia: cosa salvare”. La rappresentazione di questo rapporto malato è quella forse dell’Hotel Champagne, con magistrati e politici riuniti intorno a un tavolo a spartirsi le nomine. Dagli ultimi accadimenti sembrerebbe che il problema si risolva eliminando Palamara, mentre tutti quelli che hanno interagito con lui sono amnistiati dalla circolare Salvi... I fatti dell’hotel Champagne dimostrano un salto di qualità pericoloso dei rapporti tra politica e magistratura e in questo senso occorre rilevare che la reazione della magistratura, in particolare dell’associazione, è stata fortunatamente tempestiva e priva di esitazioni. Tuttavia credo che per ricostruire la credibilità della magistratura sia necessario mettere al centro della discussione la crisi di un intero sistema e non soltanto la punizione inevitabile dei responsabili più eclatanti. In questo senso spero che il corpaccione della magistratura non approfitti di alcune circostanze - l’avvenuta espulsione di Palamara, le elezioni associative alle porte, le stesse direttive disciplinari della Procura Generale di Cassazione - per ritenere chiusa la fase dell’analisi del punto in cui siamo arrivati. Il consigliere Piercamillo Davigo non ha alcuna intenzione di abbandonare la sua poltrona al Csm dopo la pensione. Qual è il suo pensiero in merito? Attendo di valutare la decisione, che comunque sarà il portato di uno studio attento, considerata anche l’iniziativa inedita di chiedere un parere dell’Avvocatura. Continuo a credere, come ha scritto Nello Rossi, che la Costituzione preveda l’appartenenza alla magistratura quale presupposto permanente per tutta la durata del mandato. Sono sicuro che il Consiglio, qualunque sarà la decisione, terrà conto del fatto che sui principi non si passa sopra in nome dell’attualità politica. Mi attendo in ogni caso una pronuncia solida. Nel convegno delle Camere penali si è parlato anche di carcere. Molte polemiche hanno suscitato alcune concessioni di detenzioni domiciliari e permessi premio. Dietro tutto ciò c’è il pensiero comune “Lasciamoli marcire in carcere”; mentre le statistiche ci dicono che più è dignitosa l’espiazione della pena più i detenuti ritornano in sicurezza in società. È una questione non solo politica ma anche culturale? Non vi è dubbio che il paradigma culturale del buttare la chiave - unito a un procedimento legislativo pilotato dall’esecutivo e celere nel riprodurre le spinte della rabbia e della paura - costituisca la questione da affrontare. Occorre capire come costruire egemonia per un pensiero diverso e penso che si debba partire dalle storie delle persone, di quelle a cui è stata concessa una possibilità e che non solo ce l’hanno fatta, ma sono diventate motore di ulteriore cambiamento. Vale per la criminalità dei poveri e per la criminalità organizzata. In questo ultimo campo, ad esempio, sarebbe importante raccontare come mettere da parte gli strumenti dell’umanità della pena sia il più grande regalo che si possa fare, in termini di consenso, ai sodalizi criminosi. Ad agire così, poi gli si consegna il carcere in mano. Per questo, devo dire, mi ha fatto una certa impressione sentire autorevoli commentatori dire che “la legge è la legge, ma i mafiosi sono mafiosi”. Lo Stato di Diritto ha una sola parola e una sola legge per tutti, altrimenti si degrada, diventa meno credibile e più aggredibile. Oggi in presenza di diffusi sentimenti sociali di paura, rabbia, risentimento, indignazione spesso rappresentati - se non costruiti e amplificati - dai mass-media, si richiede di intervenire subito, in modo esemplare e definitivo per rassicurare i cittadini. E la politica risponde con provvedimenti ad hoc: dal nuovo Codice Rosso all’omicidio stradale, dalla spazza-corrotti all’abolizione della prescrizione, dai “decreti sicurezza” al decreto Bonafede “anti-scarcerazioni”. Secondo Lei è corretto dire che la politica giudiziaria degli ultimi anni sia caratterizzata da un forte populismo penale? Distinguerei due profili, sulla base della lezione di autorevoli criminologi. Quello che siamo abituati a chiamare populismo penale, o passione punitiva per dirla con Didier Fassin, è più un fenomeno di accrescimento del numero dei reati e dell’entità delle pene per rispondere a quell’eccedenza di emotività popolare, come dice Roberto Cornelli, spesso indotta dai media. È una politica di pan-penalismo (penal punitivism, dicono gli anglosassoni) che serve a calmierare l’ansia, catturare consenso, ma non a risolvere i problemi di sicurezza dei diritti: omicidio stradale e codice rosso sono un po’ la dimostrazione di quanto sia fallimentare affidarsi a questa strada. Nel frattempo, si svuota completamente il welfare, che agirebbe assai più efficacemente in prevenzione. Per populismo penale in senso stretto credo che occorra riferirsi a politiche che alterano gli equilibri della democrazia liberale e dello Stato di Diritto, a partire dalle garanzie processuali fondamentali e dalle regole che presidiano l’indipendenza della magistratura e la composizione delle Corti. In questo senso, il populismo penale in senso stretto lo vediamo all’azione in Paesi quali la Polonia e c’è da auspicare che i discorsi pubblici che si sentono a livello nostrano, tesi a esaltare quelle esperienze, non ricalchino poi quei percorsi. Anche perché il diritto di difesa, per il quale dobbiamo batterci, sarebbe un puro suono della voce se non si difendesse l’indipendenza, interna ed esterna, della magistratura. Bonafede: “Rieducare i detenuti è nell’interesse di tutta la società” di Gianni Parlatore gnewsonline.it, 26 settembre 2020 “Ogni Stato deve investire nella funzione rieducativa della pena, una vera e propria missione che costituisce un investimento culturale di cui può beneficiare la società nel suo complesso, concorrendo a scongiurare il pericolo di recidiva”. Il Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è intervenuto a Palazzo Giustiniani al convegno dedicato al “Programma di educazione alla pace”. All’iniziativa ha partecipato anche l’ambasciatore di pace e attivista indiano Prem Rawat, la cui fondazione ha ideato e realizzato il programma di riabilitazione. Nel nostro Paese il progetto rivolto al mondo carcerario è già stato implementato con successo in due realtà penitenziarie. Si tratta del carcere di Venezia Santa Maria Maggiore (che ha avviato il programma nel 2012) e del Pagliarelli di Palermo, dove in tre anni sono stati coinvolti 43 detenuti del circuito Media sicurezza. L’iniziativa è divenuta concreta realtà anche in alcune comunità e istituti di Mazara del Vallo, comune della provincia di Trapani che ha assegnato la cittadinanza onoraria proprio a Prem Rawat. Il Programma di educazione alla pace ha riscosso successo a livello internazionale, con percorsi riabilitativi realizzati nelle strutture carcerarie di diversi Paesi europei, in Sud Africa, India, Stati Uniti, Asia e Sud America. Per Bonafede questo progetto di recupero, fondato su cicli di incontri per riflettere sulla pace e sui valori della vita, può favorire nei detenuti “un percorso di ripensamento sui propri comportamenti, di assunzione di responsabilità e acquisizione di nuova consapevolezza, in funzione del rientro in società”. Il carcere - ha concluso il Guardasigilli - può diventare un’esperienza educativa, capace di formare cittadini consapevoli e aperti alla speranza di una vita migliore. Lo Stato ha il compito di porre in essere le condizioni per offrire una seconda opportunità a chi ha sbagliato e ha scontato la pena inflitta con la volontà di riscattarsi e ripartire onestamente, nel rispetto dei valori della convivenza civile”. Carceri, rafforzare percorsi reinserimento La permanenza in carcere deve consistere in altro oltre la pena detentiva. Deve essere un momento di rieducazione. Ne è convinto il senatore Arnaldo Lomuti. “Riscattare chi ha fatto un errore e farlo diventare parte attiva è un successo della collettività”, ha detto l’esponente del M5S in commissione Giustizia nella sua relazione al convegno “Programma di Educazione alla Pace: uno strumento riabilitativo della persona in ambiente carcerario”. Sono diversi i progetti di reinserimento nelle carceri. Da Brigata Caterina, la pizzeria dei detenuti di Poggioreale alle Scappatelle, i biscotti realizzati dai detenuti del progetto Made in Carcere. A questi si affiancano anche progetti di scolarizzazione. A questi si aggiunge anche il Programma di Educazione alla Pace. Un progetto che mira alla riduzione del tasso di recidiva, “concorrendo alla riabilitazione sociale ed individuale, mediante la possibilità di riflettere sul valore della vita, sulla dignità, sulla pace, sull’importanza di fare scelte consapevoli”, ha detto Lomuti. Ad oggi sono ancora pochi i detenuti che hanno accesso a percorsi di rieducazione. E non tutti gli istituti penitenziari ne hanno avviati. “La rieducazione consiste nell’opportunità data al condannato di correggere la propria propensione alla anti-socialità, di adeguarsi alle regole della convivenza e di permetterne il reinserimento progressivo nella società”, ha detto il senatore. “È indispensabile - ha aggiunto - porsi come scopo quello di rendere il carcere un ambiente inclusivo, che dia realmente a tutti la prospettiva del reinserimento nella società”. Un errore mandare l’Ucoii ad assistere i carcerati islamici di Souad Sbai analisidifesa.it, 26 settembre 2020 De-radicalizzare i radicalizzati con gli stessi radicalizzatori: è questa la logica alla base della collaborazione tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia e l’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia) in merito all’assistenza spirituale da fornire a detenuti di religione musulmana, molti dei quali sono a rischio radicalizzazione, se radicalizzati (e quindi condannati per attività legate al terrorismo) non lo sono già. Una collaborazione che si rinnova e amplia addirittura i propri orizzonti, segno che il committente, vale a dire il Ministero della Giustizia, deve essere particolarmente soddisfatto dell’operato in carcere degli imam facenti capo all’Ucoii, organizzazione istituita qualche decennio fa da esponenti del gruppo fondamentalista transnazionale dei Fratelli Musulmani basati in territorio italiano. All’ideologia, allo spirito e agli obiettivi dei padri fondatori, l’Ucoii è rimasta fedele fino ad oggi, attraversando in maniera del tutto impunita gravi scandali tra cui i cosiddetti Qatar Papers (decine di milioni di euro presi dal Qatar per promuovere dalla Lombardia alla Sicilia la visione fondamentalista dell’islam tipica dei Fratelli Musulmani, il tutto comprovato da documentazione inoppugnabile) e in ultimo, solo qualche settimana fa, le farneticazioni online del proprio segretario generale su cristianesimo e giudaismo “eresie da correggere”. Davvero i partner ideali per combattere la radicalizzazione nelle carceri, non è vero Signor Ministro Alfonso Bonafede? Evidentemente, l’esponente del Movimento Cinque Stelle pensa di sì, non distinguendosi affatto dal suo predecessore in quota PD, Andrea Orlando, che aveva dato avvio alla collaborazione istituzionale con l’Ucoii, conformemente alla tradizionale linea politica di una certa sinistra di derivazione marxista-comunista, consistente nel supportare le componenti estremiste in seno alla comunità musulmana in Italia. Il Ministro Bonafede era già stato avvertito che in tutta evidenza non era certo una buona idea affidarsi al braccio italiano dei Fratelli Musulmani per la de-radicalizzazione e la prevenzione della radicalizzazione in carcere. Ma, in fondo, da chi ha fatto uscire decine di condannati per reati di stampo mafioso era possibile aspettarsi anche il benestare all’inserimento nelle delicate dinamiche della vita nei centri di detenzione di soggetti che il mondo arabo continua a combattere perché fautori di un estremismo che ha ispirato Al Qaeda e non è certo estraneo alle farneticazioni ideologiche e dottrinarie dell’Isis. Nell’Italia rosso-gialla, i Fratelli Musulmani vengono invece premiati (ogni riferimento non è assolutamente casuale) con alti riconoscimenti al merito della Repubblica, incarichi politici e appunto con l’onere di presiedere con i propri “ministri di Dio” alla cura di anime precedentemente traviate dal suo stesso fondamentalismo. Alla discontinuità, il Ministro Bonafede ha però preferito la recidività ed allora dubbi e domande sorgono spontaneamente sulle relazioni che il Ministero della Giustizia continua a intrattenere con l’Ucoii, malgrado la consapevolezza della vera natura dell’organizzazione sia ormai comunemente diffusa tra gli addetti ai lavori e nell’opinione pubblica. Abile nel fingere di non sapere e di non capire, il Ministro Bonafede è già riuscito a sgusciare via senza fornire in sostanza risposta alcuna alle domande incalzanti poste durante un’interrogazione alla Camera dei Deputati, nella quale gli si chiedeva conto delle ragioni del rinnovo della collaborazione tra lo Stato e il braccio italiano dei Fratelli Musulmani (perché di questo si tratta). Di fronte a un simile atteggiamento, invitare il governo a una “maggiore attenzione” si è già visto che non basta. La questione imporrebbe di alzare le barricate perché la sinistra, al governo ormai da troppo tempo, sta condividendo le chiavi di un dossier cruciale come quello della radicalizzazione con gli esponenti odierni del gruppo che è ha concepito il radicalismo islamista contemporaneo a livello mondiale. Quando le chiavi gliele consegneranno del tutto? In aula, se davvero convinto della bontà dell’operato del ministero di cui è al comando (e del Dap), il Ministro Bonafede avrebbe dovuto sentirsi al sicuro anche nel rispondere a quesiti scomodi, guardando nel viso il proprio interlocutore e senza rifugiarsi nella lettura a occhi bassi di un testo notarile che elude sistematicamente le criticità che gli vengono contestate. Queste criticità gliele ricordiamo qui di seguito, aggiungendone di altre. Dal momento che la collaborazione con gli imam dell’Ucoii nelle carceri è iniziata nel 2015, quali sono stati i risultati conseguiti? Qual è la valutazione del Dap? Il rinnovo dell’accordo, che prevede anche il coordinamento da parte dell’Ucoii di un corso di formazione per imam da poco avviato presso l’Università di Padova, si è basate su considerazioni di merito o di tipo “politico”? Quali sono, in ogni caso, queste considerazioni? Qual è la precisa opinione del Ministro Bonafede circa la natura dell’Ucoii come espressione dei Fratelli Musulmani in Italia? Qual è valutazione del Ministro Bonafede sugli obiettivi dell’Ucoii, sulla base delle seguenti dichiarazioni pronunciate dall’attuale leader mondiale dei Fratelli Musulmani, Sheikh Youssef Al Qaradawi, protetto non a caso dal Qatar? “La conquista di Roma, la conquista dell’Italia e dell’Europa, significa che l’Islam tornerà in Europa ancora una volta. […] La conquista si farà con la guerra? No, non è necessario. C’è una conquista pacifica [e] prevedo che l’Islam tornerà in Europa senza ricorrere alla spada. [La conquista] si farà attraverso la predicazione e le idee”. Il rinnovo dell’accordo è per caso uno dei prezzi da pagare per le “relazioni pericolose” che l’Italia ha instaurato con gli emiri di Doha? Sa, il Ministro Bonafede, che per l’assistenza spirituale e le attività di culto il Regno del Marocco invia in Italia dei propri imam certificati, non fidandosi degli imam di origine marocchina basati in territorio italiano che portano il timbro dell’Ucoii? Perché il Ministero dell’Interno dovrebbe allora autorizzare, come evidentemente ha già fatto, l’impiego di imam dell’Ucoii nelle carceri? Quella dell’Ucoii ai detenuti radicalizzati non è altro che un’infusione di pazienza, effettuata attraverso il pretesto di contrastare “il fenomeno della vittimizzazione”, dovuto alla percezione, reale o meno, di essere discriminati perché musulmani, sostituendo “il risentimento per la propria condizione” con un momento di riflessione morale e di speranza attraverso il perdono”, come spiega la stessa Ucoii sul proprio sito Web (accesso effettuato il 24 settembre 2020). In sostanza, perdonare l’infedele, ovvero lo Stato e la società italiana che ancorano non abbracciano la fede musulmana, per far sì che la rabbia (legittima) del detenuto non sfoci nel terrorismo. Tale approccio è consapevolmente accettato dal Dap? L’attività degli imam e dei mediatori interculturali dell’Ucoii si svolge in lingua araba: che provvedimenti sono stati presi per rispondere alle critiche mosse dall’Istituto Studi Penitenziari, che ha lamentato “l’impossibilità per gli operatori di comprendere che cosa effettivamente essi [i detenuti musulmani e gli inviati dell’Ucoii] si dicano durante i momenti di preghiera collettiva”, quando vengono recitati i sermoni o si tengono colloqui? Il ministro Bonafede ha annunciato che accordi simili a quello firmato con l’Ucoii verranno presto firmati con altre organizzazioni islamiche, non appartenenti - fortunatamente - ai Fratelli Musulmani e alla corrente del cosiddetto islam “politico”. Perché non concentrarsi esclusivamente sul consolidamento delle relazioni con queste organizzazioni, invece di continuare a dare spazio all’Ucoii peraltro elevandolo nella posizione di partner privilegiato? In Italia, ci sono tanti imam moderati e la comunità musulmana è per la maggioranza favorevole a una piena integrazione nel tessuto sociale e culturale del paese: perché puntare sul fondamentalismo che non riconosce la legittimità delle altre religioni ed alza barriere per impedire l’integrazione, soprattutto delle nuove generazioni? Oppure, il Ministro Bonafede concorda con l’affermazione per la quale cristianesimo e giudaismo sono “eresie da correggere”? Insomma, anche il Ministro Bonafede è caduto nella trappola di una certa sinistra e del suo debole per il fondamentalismo islamista. Ma almeno è in buona fede? Signor Ministro, trovi il coraggio di rispondere, offrendo chiarimenti che sono dovuti. Giustizia, nel Recovery task force per smaltire l’arretrato di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2020 Task force straordinarie nei tribunali, con la partecipazione diretta degli avvocati, per aggredire l’arretrato civile, che sta riprendendo a crescere. È uno degli interventi che il ministero della Giustizia valuta di inserire nel Piano da finanziare con i fondi europei del Recovery plan. Si tratta di una riedizione delle sezioni stralcio, composte da professionisti e presiedute da magistrati in pensione, a cui dovrebbero essere trasferiti in modo selettivo blocchi di materie, per alleggerire il carico di pendenze della giustizia civile. La sospensione delle udienze durante il lockdown e l’attuale faticosa ripresa delle attività stanno infatti frenandola riduzione dell’arretrato, da anni una priorità per l’amministrazione della giustizia. Le politiche per lo smaltimento hanno portato le cause civili pendenti a circa 3,3 milioni. Ancora tante, ma oltre il 40% in meno rispetto al picco di 5,7 milioni del 2009. Gli ultimi dati disponibili, segnalano però che già a fine marzo i procedimenti in corso da più di tre anni in tribunale (quelli cioè a rischio risarcimento per eccessiva durata) hanno ricominciato a crescere, mentre il numero dei fascicoli pendenti è restato sostanzialmente stabile (-0,2%): con tutta probabilità la situazione si è aggravata nel secondo trimestre dell’anno. Le nuove sezioni stralcio dovrebbero aiutare gli uffici giudiziari più oberati, poiché il peso dell’arretrato non è uniforme. Sempre nell’ottica di rendere più efficiente l’attività giudiziaria, il ministero sta pensando di rilanciare l’”ufficio del processo”, composto da tirocinanti che assistano il giudice, remunerati con borse di studio. Potrebbero così entrare nel Piano per la giustizia due delle proposte (sezioni stralcio e ufficio del processo, appunto) formulate al ministro Alfonso Bonafede dall’Unione delle Camere civili. Ma il Piano a cui sta lavorando il ministero è più ampio e punta a una maggiore efficienza del sistema giudiziario che permetterebbe, secondo le analisi di Banca d’Italia e Confesercenti, di recuperare fino al 2,5% (da 22 miliardi a 40 miliardi) del Pil poiché stimolerebbe gli imprenditori, anche stranieri, a investire nel nostro Paese. Il ministero della Giustizia guarda quindi a un intervento a largo raggio che vada dagli investimenti infrastrutturali e tecnologici alle riforme dei processi civile e penale, tratteggiati nei disegni di legge delega all’esame del Parlamento e che ora dovrebbero riprendere il loro percorso. Sul digitale, il ministero sta cercando di risolvere il problema dell’accesso da remoto ai registri dei processi finora consentito solo ai magistrati e non al personale di cancelleria. Un’impasse che nei mesi scorsi, con il ricorso allo smart working, è diventato un’emergenza da risolvere perché ha rallentato il lavoro amministrativo. Lo sblocco per ora riguarda solo i registri relativi al processo civile. L’infrastruttura informatica è stata messa in sicurezza e il ministero ha acquistato 20mila portatili destinati al personale amministrativo, che consentiranno l’accesso da remoto. Nei piani anche interventi sull’edilizia giudiziaria, con la creazione di nuovi poli per evitare lo “spezzatino” di sedi sparse in più zone della città, e penitenziaria. Il caso Davigo paralizza il Csm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 26 settembre 2020 Piercamillo Davigo non vuole lasciare la carica di consigliere del Csm nonostante abbia raggiunto i limiti di età. Il Csm ha chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato. Il parere dell’Avvocatura dello Stato sul destino di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura è atteso per la prossima settimana. La Commissione verifica titoli di Palazzo dei Marescialli, presieduta dalla togata di Magistratura indipendente Loredana Miccichè, lunedì scorso aveva affidato il compito all’Avvocatura dello Stato di redigere un parere se l’ex pm di Mani pulite possa continuare ad essere consigliere superiore anche dopo il prossimo 20 ottobre, data in cui compirà settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio delle toghe dopo la modifica approvata durante il governo Renzi. Una volta ricevuto il parere, la Commissione farà le proprie valutazioni che saranno quindi sottoposte al Plenum per il voto a scrutinio segreto trattandosi di decadenza di un componente del Consiglio. L’Ufficio studi del Csm aveva in passato redatto un parere sul tema dell’età dei magistrati al Csm, prospettando la sostenibilità giuridica sia a favore della permanenza, trattandosi di una carica elettiva, e sia a favore della decadenza per mancanza del requisito di essere magistrato in servizio. Davigo era stato eletto con un plebiscito nell’estate del 2018. L’Avvocatura, in caso di contenzioso amministrativo, difende ex lege l’operato del Csm. Non sono da escludersi, infatti, ricorsi presentati da Davigo, in caso dovesse essere dichiarato decaduto, o da parte del primo dei non eletti, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano. Il magistrato di piazza Cavour all’epoca si era candidato nelle liste di Unicost, la corrente di centro delle toghe a cui apparteneva l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. In caso Celentano non accettasse la nomina, potrebbe subentrargli la collega in Cassazione Rita Sanlorenzo del cartello progressista Area. E ieri, presieduta invece da Davigo, la Commissione verifica titoli ha analizzato la pratica di Pasquale Grasso, toga di Magistratura indipendente. Grasso, lo scorso anno per qualche mese presidente dell’Anm, è il primo dei non eletti alle elezioni suppletive per la categoria del merito tenutesi a dicembre del 2019. Il magistrato deve prendere il posto di Marco Mancinetti, giudice di Unicost dimessosi il mese scorso dopo aver saputo di essere sottoposto a procedimento disciplinare dalla Procura generale della Cassazione nell’ambito dell’affaire Palamara. Anche per lui la Commissione ha chiesto un parere: questa volta interno, all’Ufficio studi. La Commissione era composta da tre membri: un magistrato con funzioni di legittimità, Piercamillo Davigo, un magistrato con funzioni di merito, il giudice milanese Paola Maria Braggion, e un componente eletto dal Parlamento, il professore in quota M5S Alberto Maria Benedetti. Si punta, comunque, ad escludere delle nuove elezioni suppletive. Sarebbe la terza volta in meno di un anno. Con l’entrata di Grasso al Csm il gruppo di Mi, la corrente moderata, passa a quattro componenti, “recuperando” l’iniziale compagine di cinque membri, poi falcidiata dalle dimissioni. Il mese prossimo, poi, sono già in programma, dopo essere state rinviate già due volte, le elezioni per il rinnovo dell’Anm. Queste elezioni si svolgeranno con modalità telematica a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. Circa 5000 le toghe che si sono accreditate. Poche rispetto alle oltre 8000 iscritte all’Anm. E sempre la prossima settimana è prevista la sentenza per Palamara. La sezione disciplinare ha deciso di imprimere un’ulteriore accelerazione. Pressoché scontata la decisione: espulsione dall’ordine giudiziario. “Non servono le prove, bastano le intercettazioni” di Piero Sansonetti Il Riformista, 26 settembre 2020 Il Processo davanti al Csm si concluderà entro martedì. Record assoluto di rapidità. Il Procuratore generale della Cassazione scrive un articolo sul “Corriere della Sera” per spiegare il processo senza testimoni e imporre il silenzio anche a Paolo Mieli. Che nostalgia per i tempi di Scelba! Sembra che il Csm voglia bruciare i tempi e trasformare il processo a Luca Palamara in una gara di velocità. Tipo Berruti e Mennea. Addirittura le voci dicono che si vorrebbe chiudere tutto nella prossima seduta di lunedì, o al massimo martedì. Condanna all’unanimità e chiuso lì. Perché? Beh, naturalmente c’è di mezzo la questione della pensione di Davigo, della quale abbiamo parlato nei giorni scorsi (cioè la scadenza del 20 ottobre quando Davigo, suo malgrado, dovrà lasciare la magistratura) ma soprattutto c’è la determinazione a non lasciare a Palamara né lo spazio né il tempo per difendersi, perché si teme che la difesa di Palamara possa comportare l’emergere di molto molto fango dai tombini ben chiusi della magistratura, e coinvolgere anche molti nomi eccellenti oltre che il sistema in sé. Quindi: correre, correre, correre. Questo è l’ordine che viene da tutte le parti. Anche dall’alto? Beh, spesso gli ordini vengono dall’alto. Mentre i consiglieri del Csm si organizzano per liquidare in tempi lampo il reprobo Palamara (unico reprobo riconosciuto), il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, calca la ribalta e si assume in prima persona le responsabilità dell’operazione “Palamara-speedy”. Nei giorni scorsi aveva scritto e diffuso una circolare nella quale spiegava che l’autopromozione dei giudici presso i togati del Csm che dovranno poi decidere le loro promozioni, non è una attività proibita. E che dunque non vanno aperte indagini sul comportamento di chi ha tentato - spesso con successo - le arrampicate di carriera. Affermando così il principio che i magistrati non sono semplici cittadini ma cittadini superiori. Lo stesso identico comportamento può senz’altro essere considerato “traffico di influenze” o “voto di scambio” per un esponente politico (il quale può eventualmente essere arrestato, se non è protetto dall’immunità, e detenuto anche per alcuni anni in attesa di processo) ma non per un magistrato il quale invece dispone di un diritto speciale a far figurare le influenze esercitate o richieste come puro e semplice candido self marketing. Ieri Salvi è intervenuto di nuovo. Non su La7, come in genere fa il collega Nicola Gratteri (del quale abbiamo parlato ieri su queste colonne, un po’ stupiti per la spavalderia con la quale alterna la sua funzione di Pm a quella di showman in Tv) ma dalle colonne del Corriere della Sera. Il Corriere appartiene sempre allo stesso gruppo editoriale di La 7, ma pretende, di solito, un grado di cultura un po’ più alto. E non mi pare che ci siano dubbi sul fatto che Giovanni Salvi, effettivamente, sul piano culturale e anche della preparazione giuridica sia su un piano diverso da quello di Gratteri. Sul Corriere però ha espresso concetti anche decisamente più aggressivi di quelli del Procuratore di Catanzaro. Ha spiegato che nelle 60mila pagine delle intercettazioni del telefono di Palamara non ci sono reati di altri magistrati. Non è reato, né illecito disciplinare, se Pm e giudici vanno a cena insieme sulle stesse terrazze, non è reato, né illecito, chiedere a Palamara di essere promossi, non è reato né illecito fare accendere o spegnere il trojan a seconda di chi sta vicino a Palamara in quel momento, non è reato né illecito disciplinare organizzare Procure e tribunali (e probabilmente anche sentenze) sulla base dei rapporti di forza tra le correnti. A meno che… A meno che tutto ciò non si svolga nell’Hotel Champagne. Ecco, questa - ha spiegato Salvi sul Corriere, rispondendo all’articolo dell’altro giorno di Paolo Mieli (primo, e unico finora, articolo critico verso la magistratura apparso sulla grande stampa) - è l’unica eccezione. I conciliaboli all’Hotel Champagne vanno puniti severamente, quelli sì e solo quelli. Perché? Perché a quei colloqui hanno partecipato Ferri e Lotti che sono due politici. Salvi ci spiega che un Pm può tranquillamente andare a cena col giudice che dovrà decidere il suo processo, ma non con un politico. E che se è andato a cena col politico non c’è bisogno di prove del suo reato (dice proprio così) ma bastano le intercettazioni. Perché le intercettazioni all’Hotel Champagne sono sufficienti per condannare, anche senza processo, e quelle fuori dall’Hotel Champagne, anche se molto più gravi, non servono nemmeno a far partire una inchiesta? L’unica spiegazione logica è che le intercettazioni all’Hotel Champagne erano illegali (non si può intercettare un parlamentare) mentre le altre erano legali. Non sto mica scherzando, eh. L’idea che la vera giustizia sia l’illegalità è una idea che ormai dilaga. Il Csm ora indaga sul concorso-bluff, ma già conosceva quelle carte di Paolo Comi Il Riformista, 26 settembre 2020 Palazzo dei Marescialli ha annunciato l’apertura di una pratica, all’indomani dello scoop del Riformista. Ma aveva in mano le carte da giorni: c’era già il placet alle verifiche richieste dal membro laico Cavanna. I vertici del Csm sono a conoscenza da diversi giorni dei tarocchi contenuti negli scritti dell’ultimo concorso, bandito nel 2018, da trecentotrenta posti per magistrato ordinario. La notizia si è saputa solo ieri mattina con un lancio di agenzia a scoppio ritardato e, soprattutto, dopo che il Riformista aveva pubblicato un articolo in cui erano elencate alcune di queste “perle” giuridiche e non. Il 14 settembre scorso, per la cronaca, era pervenuto a Palazzo dei Marescialli un corposo dossier da parte di due candidati originari del Piemonte che erano stati bocciati alle prove scritte. Le due toghe mancate, dopo aver visionato i temi dei concorrenti che erano invece stati ammessi agli orali, avevano raccolto un ricco florilegio di strafalcioni, “orrori” giuridici e segni di riconoscimento come, ad esempio, lo “schemino” redatto dal candidato numero 2814 e che, peraltro, aveva conseguito un ottimo risultato. Il primo ad attivarsi sul dossier, indirizzato anche al ministro della Giustizia, era stato all’inizio di questa settimana l’avvocato civilista Stefano Cavanna. Il laico in quota Lega a piazza Indipendenza aveva subito depositato una richiesta di “apertura pratica” al Comitato di presidenza del Csm. Fra le varie istanze, quella di svolgere “approfondimenti e verifiche nell’ambito delle competenze e dei poteri del Csm”. In particolare, mediante “la convocazione dei componenti della commissione esaminatrice del concorso”, affinché riferiscano “sui fatti denunciati dai candidati”, senza escludere altre “iniziative meglio viste e/o ritenute”. Il Comitato di presidenza del Csm, composto dal vice presidente David Ermini, dal primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio e dal procuratore generale Giovanni Salvi, aveva dato il via libera alla richiesta di Cavanna, trasmettendo tutto l’incartamento alla terza Commissione del Csm, di cui fa parte l’avvocato della Lega e che ha fra le varie competenze quella sul concorso per diventare magistrato. Presidente di questa Commissione è la togata di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, Paola Maria Braggion. Vice presidente è il professore milanese in quota Forza Italia Alessio Lanzi. Oltre a Cavanna, la Commissione è poi composta da tre togati: l’ex aggiunto della Procura di Roma Giuseppe Cascini, il togato di Unicost Michele Ciambellini e la davighiana Ilaria Pepe. “Non voglio passare - precisa Cavanna - come il difensore d’ufficio dei bocciati: bisogna prima capire quali siano le esatte competenze del Csm in questa vicenda e poi agire di conseguenza”. La vigilanza sul concorso, in effetti, spetta al ministro della Giustizia. Ma è il Csm che propone al Guardasigilli i nomi dei componenti della Commissione esaminatrice. “Mi auguro che ci sia da parte di tutti la volontà di voler approfondire l’argomento. Il tema è importante visto che si stanno reclutando dei magistrati e non degli uscieri, con tutto il rispetto per gli uscieri”, prosegue Cavanna, aggiungendo che “la cosa più opportuna è ora convocare i commissari d’esame”. La Commissione del concorso che a breve dovrebbe chiamare coloro che hanno passato gli scritti, ad iniziare dal candidato che invece di scrivere un tema ha disegnato uno schemino con i diagrammi, è presieduta dal consigliere di Cassazione Lorenzo Orilia. I magistrati sono venti, diciotto i giudici e due i pm. Di questi ben sei prestano servizio negli uffici giudiziari della Capitale. Fra i nomi noti, Alcide Maritati, toga progressista, già segretario generale dell’Anm e figlio dell’ex senatore del Pd ed ex sottosegretario del governo D’Alema Alberto, anch’egli magistrato. Otto i docenti universitari. “Appena si è diffusa la notizia della mia iniziativa molti magistrati, anche capi di importanti uffici giudiziari, mi hanno scritto per dirmi di andare avanti e di fare chiarezza”, sottolinea orgoglioso il consigliere della Lega. Mentre dalle parti di via Arenula tutto tace, molti ritengono che esistano tutti i presupposti perché il concorso venga annullato. Il Covid frena il crimine: calano gli omicidi, ma non contro le donne di Francesco Grignetti La Stampa, 26 settembre 2020 Durante il lockdown maschio il 54% degli uccisi. Nel 2019 era stato il 64%. A maggio si registra anche un picco di maltrattamenti e violenze sessuali. Il Covid non ha frenato la violenza contro le donne, anzi. È avvilente il terzo Report emesso dall’Organismo di monitoraggio sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità mafiosa. Con le violenze su mogli e compagne, l’infiltrazione mafiosa non c’entra granché. Ma questo gruppo di studio interforze, coordinato dal prefetto Vittorio Rizzi, vicecapo della polizia, ha voluto allargare l’orizzonte a tutti i reati del periodo. Ed esaminando le conseguenze dirette e indirette del Covid sulle dinamiche criminali, salta agli occhi che nei mesi più caldi della pandemia quasi tutti i reati in Italia sono calati, salvo i crimini informatici. E i cosiddetti reati di genere. Sono le donne, infatti, ad aver fatto da parafulmine per le tensioni più varie. E così se nei cinque mesi che vanno da marzo a luglio si riscontra una diminuzione del 22% di omicidi volontari rispetto all’anno prima (passando da 140 a 109) a ben guardare questo decremento non tocca le vittime femminili. “Le vittime di genere femminile - si legge nel Report - rimangono sostanzialmente invariate”. Si è passati da 51 a 50 donne uccise. Di conseguenza, cresce enormemente la percentuale dei femminicidi sul totale. Si sale al 46% rispetto al 36% dell’anno precedente. Anche restando al più ristretto ambito familiare-affettivo, a fronte di una diminuzione degli eventi, le vittime di sesso femminile sono il 75% (erano il 68% del 2019). La violenza contro le donne non teme la pandemia, insomma. Lo dicono anche le statistiche sui cosiddetti “reati spia”: gli atti persecutori, i maltrattamenti contro familiari e conviventi, la violenza sessuale. E se nei mesi di marzo e aprile, quelli dello stretto lockdown, c’era stata una lieve flessione rispetto all’anno precedente (da 3.319 a 2.417 a marzo; da 3.125 a 2.511 ad aprile), appena le restrizioni si solo allentate, ecco “un incremento dei reati, con un picco a maggio 2020, che peraltro supera il dato riferito allo stesso mese dell’anno precedente (da 3.280 a 3.363)”. Con il primo timido ritorno alla normalità, l’odio represso di tanti uomini è venuto fuori prepotente. “La diffusione del Covid-19 - è l’analisi del nostro Organismo di monitoraggio - le misure restrittive della libertà di circolazione adottate, gli effetti della relativa crisi economica hanno esasperato, soprattutto nel periodo dell’isolamento domiciliare, conflittualità presenti e latenti”. Anche Europol, l’agenzia europea che coordina le varie polizie del Continente ha registrato questi trend. Perché è successo anche altrove. Realtà che però nell’immaginario collettivo sono zone arretrate. Certo non nell’Italia che si vuole civile e lanciata nella modernità. Ebbene, in Kosovo è stato registrato nel primo semestre 2020 un forte incremento dei maltrattamenti in famiglia. In Portogallo, la violenza domestica ha registrato una crescita di casi, tanto che le segnalazioni sulle linee telefoniche di assistenza hanno registrato un aumento di richieste pari al 180% rispetto al periodo marzo/giugno del 2019. In Polonia, i reati contro la persona caratterizzati dall’uso della violenza sono aumentati nel primo semestre del 2020 rispetto allo stesso periodo del 2019. E in Albania è stato approvato dal Parlamento un inasprimento delle pene per i reati contro la famiglia e istituito dalla polizia un numero verde per segnalare le violenze in famiglia. Agromafie: nuove norme per fermare un business da 24 miliardi di euro di Vito De Ceglia La Repubblica, 26 settembre 2020 L’allarme lanciato da Coldiretti in vista dell’esame del Ddl sugli illeciti agroalimentari. Dal campo alla tavola le agro-mafie sviluppano un business da 24,5 miliardi che minaccia ora di crescere mettendo le mani su un tessuto economico indebolito dalla crisi determinata dall’emergenza coronavirus che ha coinvolto ampi settori della filiera agroalimentare a partire dalla ristorazione. È quanto ha affermato Coldiretti, intervenendo oggi in audizione in Commissione Giustizia della Camera nell’ambito dell’esame del Ddl con nuove norme in materia di illeciti agroalimentari. L’allarme contenuto nella relazione semestrale della Dia inviata al Parlamento trova infatti particolare fondamento nella filiera agroalimentare dove - sottolinea Coldiretti - pesa la crisi di liquidità generata dall’emergenza coronavirus in molte strutture economiche che sono divenute più vulnerabili ai ricatti e all’usura. Le operazioni delle Forze dell’ordine svelano gli interessi delle organizzazioni criminali nel settore agroalimentare ed in modo specifico nella ristorazione nelle sue diverse forme, dai franchising ai locali esclusivi, da bar e trattorie ai ristoranti di lusso e aperibar alla moda fino alle pizzerie. La malavita è arrivata a controllare cinquemila locali della ristorazione con l’agroalimentare che è divenuto una delle aree prioritarie di investimento della malavita che ne comprende la strategicità in tempo di crisi perché consente di infiltrarsi in modo capillare nella società civile e condizionare la via quotidiana delle persone. In questo modo la malavita si appropria di vasti comparti dell’agroalimentare dai campi agli scaffali, distruggendo la concorrenza e il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta, ma anche compromettendo in modo gravissimo la qualità e la sicurezza dei prodotti, con l’effetto indiretto di minare profondamente l’immagine dei prodotti italiani e il valore del marchio Made in Italy. Caso Cucchi, il pm Musarò denuncia in aula: “Ancora depistaggi” di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 settembre 2020 Processo ter. Imputati otto ufficiali dell’Arma dei carabinieri. Un depistaggio senza limiti e senza fine. Non solo nel 2009, e poi nel 2015, ma anche adesso - proprio mentre si svolge davanti al giudice monocratico Roberto Nespola della VIII sezione penale del tribunale di Roma il processo Cucchi ter agli otto alti ufficiali tra cui il generale Casarsa accusati di aver deviato le indagini - c’è qualcuno nell’Arma che continua ad inquinare le prove per evitare che si arrivi alla verità. Lo ha denunciato ieri in udienza il pm Giovanni Musarò: “Ancora oggi, nel 2020, - ha detto - nel reparto operativo dei Carabinieri c’è qualcuno che passa gli atti a qualche imputato. Siamo stanchi di questi inquinamenti probatori che vanno avanti da 11 anni”. Fu proprio il magistrato antimafia che vive sotto scorta infatti a scoprire, nel corso del processo bis a carico dei tre carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro (condannati per omicidio preterintenzionale) e Francesco Tedesco (condannato solo per falso) il motivo per il quale ancora non si è arrivati ad una sentenza definitiva per la morte del geometra romano ammazzato di botte nell’ottobre 2009. L’inchiesta ter che ne seguì ancora non si è chiusa e il pm continua ad indagare coadiuvato dalle forze di polizia, malgrado le prove raccolte siano già state sufficienti per rinviare a giudizio gli otto ufficiali: nel processo ter iniziato nel marzo 2018 alla sbarra compaiono, oltre a Casarsa, i colonnelli Cavallo, Soligo, il luogotenente Colombo Labriola e il carabiniere scelto Francesco Di Sano accusati di falso ideologico; il colonnello Sabatino e il capitano Testarmata di omessa denuncia e favoreggiamento, e il carabiniere De Cianni di falso ideologico e calunnia. “Il pm Musaró - spiega meglio l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi - ha denunciato documenti in possesso dell’imputato Testarmata che non poteva avere. “C’è un Giuda, un cavallo di Troia che speriamo di identificare che fornisce atti e documenti per una verità parziale e fuorviante”, ha detto. Come dire: non abbiamo finito e non finiremo mai di subire interferenze illecite”. Ricorda Anselmo che all’udienza scorsa “mi ero molto arrabbiato per il modo di procedere della difesa di Testarmata soprattutto perché in possesso di documenti che non erano nel fascicolo. Mi ero opposto alla loro produzione ed utilizzo chiedendo esplicitamente lumi sulle modalità con le quali ne era venuto in possesso. Avevo ragione”. Ilaria, la sorella di Stefano che non perde un’udienza, commenta così l’accaduto su Fb: “Ho sempre nutrito e continuo a nutrire profondo rispetto per L’Arma dei Carabinieri. Ritengo lo meriti assolutamente. Oggi però (ieri, ndr), di fronte ai nuovi fatti, alzo le braccia. Abbiamo un Cucchi Quater. Il lupo perde il pelo ma non il vizio”. Quindici anni senza Federico Aldrovandi, soffocato dai poliziotti come George Floyd di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 26 settembre 2020 “Licenziare i poliziotti che hanno ucciso Federico / Licenziare i poliziotti che hanno ucciso Federico”. È l’urlo della Curva Ovest della Spal di Ferrara - ultras che in una coreografia impressionante e commovente ricordano sempre Federico Aldrovandi “perché non accada mai più” - che ne ha tratto il significato più politico, proprio come negli Usa: Defund the police / no justice no peace. Perché il nodo è quello: quattro agenti di polizia in servizio misero in moto una “macchina di violenza” di fronte una situazione difficile, che si fermò solo quando Aldro smise di respirare: 54 lacerazioni sul suo corpo, la distruzione dello scroto, buchi nella testa, due manganelli rotti, compressione toracica che portò alla morte. Basta, smettetela, basta, vi prego - sentì urlare una signora nella strada e vedeva un agente che continuava a dare calci alla testa di un corpo per terra. Non la smisero. Quelle urla lacerarono la notte, ma i poliziotti - dissero poi - non avevano sentito nulla. Per cinque ore il corpo restò lì - all’aria. I genitori di Aldro, allarmati perché non era rientrato, chiamavano in continuazione il suo cellulare. Finalmente uno dei poliziotti rispose. Non sappiamo nulla, disse. Abbiamo solo ritrovato il suo cellulare, disse. I genitori contattarono gli ospedali per avere un qualche riscontro. Niente. Alle undici li richiamarono - c’era il corpo del figlio da riconoscere. Qualcuno imbastì una storia - c’era la droga di mezzo, c’è sempre la droga di mezzo. Provarono a depistare tutto. I can’t breathe - sussurrava George Floyd mentre gli avevano messo un ginocchio sul collo, non riesco a respirare. “Non respiro più”, scrisse la mamma di Aldro sul suo blog. Nessuno le dava retta, nessuno riusciva a credere a quella storia. I giornali si giravano dall’altra parte. Era arrivato Natale, da quel maledetto 25 settembre 2005, e nessuno faceva niente, non c’era stato nessun atto di indagine. Aldro continuava a non respirare, continuava a morire. Un amico le suggerì di aprire un blog - lei non sapeva neppure cosa fosse. Cominciò a scrivere: “Non respiro più”, scrisse. Arrivò quasi un migliaio di commenti - divenne una delle pagine più lette. Nei commenti qualcuno suggeriva di rivolgersi a Indymedia, una piattaforma alternativa, visto che i media mainstream non ne parlavano. Indymedia fece circolare la storia. E Liberazione e il manifesto ne scrissero. Ci fu qualche interrogazione parlamentare. Le risposte del governo erano una ripetizione a pappagallo delle veline dei poliziotti. Fu a quel punto che la storia di Federico Aldrovandi divenne la storia che tutti conosciamo. Ieri l’altro dei tre poliziotti coinvolti nella morte di Breonna Taylor solo uno è stato condannato: “per negligenza”. Nello sparacchiare contro tutto ciò che si muoveva aveva tirato anche contro i vicini della casa in cui aveva fatto irruzione con i colleghi, convinti di trovare droga - per poi rovesciare i loro caricatori sul corpo di Breonna. Era marzo, a Louisville, Kentucky. Ma nessuno poteva credere a questa storia. i giornali non ne parlavano. È solo dalla morte di George Floyd che la morte di Breonna è diventata oggetto di indagine. Gli altri due poliziotti sono andati assolti “per autodifesa”. Però, almeno adesso i “no- knock warrants”, cioè il fatto che gli agenti potessero irrompere senza avvisare e farsi riconoscere in un qualunque appartamento sono diventati illegali in Louisiana. I quattro agenti di polizia nelle cui mani morì Federico vennero condannati in via definitiva a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo (la Cassazione li definì “sproporzionatamente violenti”), pena poi ridotta a sei mesi per l’indulto. Scontarono altri sei mesi di sospensione disciplinare dal servizio. Ripresero il loro posto in polizia. Quasi dieci anni dopo, nel 2014, tre dei quattro partecipano a un congresso del sindacato di polizia Sap e ricevono cinque minuti di applausi dai colleghi. “Vergognatevi” - urla la madre di Aldro, che riceve la solidarietà del presidente Napolitano, di Renzi e del capo della polizia, Alessandro Pansa. E il padre, Lino: “Ucciso senza una ragione da quattro individui con una divisa addosso. Una divisa che forse non guarderò mai più con fiducia”. Incalza Patrizia: “Servono provvedimenti concreti, perché la solidarietà fine a sé stessa non basta. Si tolga la divisa agli agenti condannati e si introduca nel nostro ordinamento il reato di tortura”. Non è accaduto niente. Erano le 6.04 del 25 settembre 2005, a Ferrara (“Lailalaillà vola e va / la luna di Ferrara veglia la città?” - canteranno i Modena City Ramblers), quando Federico scese dall’auto con cui rientrava con i suoi amici da una serata di festa e si fece lasciare lì, per attraversare il parco e prendere un po’ di ossigeno, a via dell’Ippodromo. Non arriverà mai a casa. Era la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, a Varese, quando Giuseppe Uva in evidente stato di ebbrezza è fermato da due carabinieri e ammanettato e portato in caserma, poi trasferito all’ospedale per un Tso dove morirà per arresto cardiaco. Era il 15 ottobre del 2009, a Roma, quando Stefano Cucchi viene arrestato e portato in caserma. Sette giorni dopo, morirà. Era la notte del 3 marzo 2014, a Firenze, quando Riccardo Magherini, dopo una cena, corre per le strade in preda a un terrore incontrollabile. Viene bloccato a terra, ammanettato da due carabinieri, uno sta a cavalcioni su di lui, il torace schiacciato - “Aiuto, aiuto, sto morendo. Vi prego, ho un figlio”. Morirà. La beffa delle spese processuali a carico della vittima di Valter Vecellio Il Riformista, 26 settembre 2020 Nicola viene ucciso da un proiettile vagante. Il killer non ha una lira e lo stato addebita il conto alla famiglia della vittima. È successo anche a me, ho dovuto pagare perché Priebke (il nazi) era nullatenente. Temo sia rimasta lettera morta la denuncia raccolta da Giovanni Pisano e pubblicata su II Riformista: “Ucciso da un proiettile vagante a Capodanno, ora la famiglia deve pagare le spese di giudizio”. Vale la pena (è, a leggerla, una vera pena) riproporre la vicenda: “Era uscito fuori al balcone di casa per richiamare il fratellino che era sceso in cortile durante i festeggiamenti di Capodanno a Napoli ed è morto dopo essere stato raggiunto da un proiettile vagante a un occhio. E’ la storia di Nicola Sarpa, pizzaiolo di 24 anni, ucciso nei primi minuti del 2009 da un colpo partito dalla pistola impugnata da Emanuela Terracciano (all’epoca 23enne), figlia di Salvatore ‘o nirone, uno dei boss dei Quartieri Spagnoli. Undici anni dopo per la sua famiglia, costituitasi parte civile nel processo che ha portato alla condanna a circa 10 anni per omicidio volontario ma con dolo eventuale, arriva l’ulteriore beffa: una cartella esattoriale con richiesta perentoria di 18.600,89 euro”. Come riassume l’avvocato Pisani, “La Terracciano è stata condannata in via definitiva. L’Agenzia delle Entrate ha intimato oggi ai familiari della vittima di rimborsare le spese di tasse e sanzioni della causa perché la condannata risulta nullatenente: non ha risarcito i danni e nemmeno le spese legali, che ora lo Stato, che non ha saputo garantire sicurezza e la vita del giovane sparato a morte mentre era sul balcone, pretende anche i soldi dalla mamma e fratelli della vittima”. Anche a me è accaduta una simile, kafkiana vicenda, per fortuna mia, meno dolorosa. Nel 1996 il criminale nazista Erich Priebke (uno di quelli che hanno ucciso alle Fosse Ardeatine), mi querela. Con l’allora presidente della comunità ebraica Riccardo Pacifici avrei, nientemeno, organizzato il suo sequestro. Vinco tutti e tre i gradi di giudizio. Non chiedo un centesimo di risarcimento, il denaro di Priebke mi avrebbe procurato disgusto. Pago di tasca mia l’onorario dell’avvocato. Ebbene: dopo 23 anni dopo l’Agenzia delle Entrate mi notifica di pagare le spese processuali: 291 euro e 21 centesimi entro sessanta giorni dalla notifica. Specificatamente: “277,02 controllo tasse e imposte indirette anno 2007; 8.31 oneri di riscossione spettanti a Agenzia delle Entrate - Riscossione; 5,88 diritti di notifica spettanti a Agenzia delle entrate-Riscossione”. Mi sono rivolto trenta volte al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiedendo se riteneva giusto quello che accadeva: silenzio per trenta volte. Stessa domanda al presidente del Senato e della Camera. Stessi silenzi. A tutti (dico tutti) i leader di partito rappresentati in Parlamento: silenzio. Un avvocato amico, protagonista di tante buone battaglie per il diritto e il diritto al diritto, bonariamente noi dice: “Di cosa ti stupisci? Accade tutti i giorni”. Mi ha lasciato sgomento: perfino lui trovava “normale” la cosa. Mi sono allora rivolto a famosi rubrichisti e commentatori. Silenzio. Alla fine, mi sono arreso. Ho preso atto che sono un suddito, non un cittadino. Ho pagato, con vergogna e disgusto. La ricevuta del pagamento è incorniciata, appesa sopra il water di casa. Calabria. Dove chi sbaglia paga ma pagano anche i suoi figli, i parenti e gli amici di Gioacchino Criaco Il Riformista, 26 settembre 2020 Chi sbaglia paga, è un detto antico, diffuso nel mondo, in Italia, per moltissimi, gli si dovrebbe aggiungere “per sempre”, e in Calabria, tranquillamente, si potrebbe riformulare: paga chi sbaglia, e pagano i suoi figli, i parenti, gli amici. Chiunque sfiori un cattivo è cattivo. La violazione penale diventa un marchio genetico, il per sempre diventa l’eternità. E anche se dopo aver violato la Legge, si sia pagato il corrispettivo, anche dopo avere scontato la pena del reato. Si dovrebbe stare in un canto, fare i bravi, e lasciarsi morire di fame, perché se non si troverà un privato di buona volontà, non potrà essere lo Stato a soccorrere. La pena totalizzante, il ravvedimento impossibile. E anche se la Costituzione dice altro, anche se l’umanità dovrebbe dire altro, o la pietà, il cuore, l’intelligenza. L’etica, quel pauroso sentimento dei giusti che impera, toglie ogni speranza. In Calabria accade che sia un generale dei carabinieri, ex, a battersi per il diritto alla sopravvivenza dei cattivi, ex anche loro. Il generale Aloisio Mariggiò, commissario straordinario di Calabria Verde, ente regionale che si occupa di forestazione e cura del territorio, lotta contro una crociata moralista che vorrebbe fuori dal lavoro i dipendenti che hanno violato la Legge, pur se hanno scontato la pena, cambiato vita, e tentano di rifarsene una fondata sul lavoro, il rispetto delle regole. Un generale da solo, che affronta le campagne mediatiche, le tendenze populistiche, le mancanze politiche, le deficienze sociali, le perdite di umanità. Difende i suoi operai. E non è facile, perché amministra un ente che negli anni ha dimostrato pecche e vergogne, che si è trasformato in carrozzone assistenziale, improduttivo. Scandalo dopo scandalo, eppure, fonte unica di speranza per migliaia di dipendenti: per i più, che non hanno mai violato la Legge, e per quelli che hanno sbagliato, anche in modo terribile e hanno aggrappato le loro vite a questo lavoro. Insieme, i giusti e gli ex cattivi, smarriti, lasciati senza progetti e senza guida, infilati nella retorica della legalità, dell’onestà. È un generale, oggi, che deve difendere i suoi operai dagli sbagli di un sistema che vuol far cadere sui dipendenti gli errori di un’intera classe dirigente. In un Sud che è questo, in una Calabria che è fatta di una maggioranza di giusti, ma che dentro ha tante persone che hanno sbagliato. E a quelli che hanno pagato, che vogliono rientrare con gli altri, camminare insieme, un’orda moralista vieta, o vorrebbe vietare, ogni appiglio, ogni ancora. Per i campioni del bene le espiazioni, i riscatti, sono favole. Ai cattivi ex e per sempre, bisogna interdire, negare, licenziare. Devono stare fuori dai buoni spesa, fuori dai redditi di cittadinanza, fuori dal lavoro. Fuori da tutto, chiusi nel recinto delle loro colpe. Ed è strano che a difendere chi ha sbagliato, e non vorrebbe farlo più, ci sia un ex Generale che ha trascorso tutta la propria vita a fermare i cattivi. O, forse, è più strano che non ci siano i corpi sociali a fermare le febbri etiche, le derive morali, l’esigenza di creare mostri per sentirsi migliori di come davvero si sia. Reggio Calabria. È malato e tossicodipendente, gli negano di andare in comunità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2020 Cosimo Passalacqua, detenuto nel carcere di Arghillà, ha tentato anche il suicidio. È in condizioni precarie di salute, anche per un processo di trombosi alle gambe, ed è tossicodipendente. Quello che chiede è un differimento di pena per gravi motivi di salute, oppure un ricovero presso una comunità terapeutica già individuata e disposta a ospitarlo. Ma per il magistrato di sorveglianza è compatibile con il carcere, nonostante le relazioni mediche che attestano le sue diverse patologie, i ricoveri ospedalieri subiti e, come se non bastasse, un tentativo di suicidio. Parliamo di Cosimo Passalacqua, classe 1976, detenuto presso il carcere calabrese di Arghillà. Condannato a sei anni, è stato tratto in arresto nel 2017. Nell’ultima istanza presentata dal suo avvocato, si ribadisce che Cosimo Passalacqua è “affetto da diverse e gravi patologie, tanto che, di recente, parere del medico legale di parte, ha indicato l’incompatibilità carceraria, vieppiù aggravata dalla sua condizione di tossicodipendente, nonché dal tentativo di suicidio in carcere, cosicché, il rischio di attentato alla propria salute, per ogni giorno di protrazione forzata nell’ambiente carcerario, costituisce una gravissima lesione al diritto di salute, con ricadute e rischi anche irreversibili”. Eppure c’è la Comunità terapeutica “Regina Pacis” disposta ad accoglierlo per lo svolgimento del programma terapeutico residenziale. Infatti, sempre nell’istanza, riferendosi alla disponibilità della struttura, l’avvocato spiega che il detenuto “potrebbe ottenere il rinvio provvisorio o la collocazione umanitaria presso il domicilio della Comunità terapeutica, anche ai fini del soddisfacimento delle esigenze di sicurezza”. Parliamo di un differimento pena, una richiesta di un anno per garantire il diritto alla salute, non alla libertà. Del caso se n’è occupato l’associazione Yairaiha Onlus facendo una segnalazione alle varie autorità, dal Dap ai ministeri della Giustizia e della Salute. Si ribadisce il fatto che il detenuto, affetto da diverse e gravi patologie, oltre a essere tossicodipendente, ha necessità di svolgere il programma terapeutico presso la comunità. Sempre l’associazione, segnala alle autorità che a “causa di un processo di trombosi alle gambe, su valutazione della Direzione Sanitaria di Rossano (CS), è stato ricoverato”. Sottolinea, inoltre, che a causa delle suddette patologie, “dal 20.12.2019 al 3.1.2020 era stato ricoverato presso l’Azienda Ospedaliera “Pugliese Ciaccio” di Catanzaro e che gli esami ivi effettuati non avevano consentito di identificare una causa organica del disturbo; inoltre, alcuni accertamenti diagnostici richiesti dal medico legale, quali Pess e Pem, non erano stati poi eseguiti per problemi di natura tecnico-organizzativa”. Quindi, come si evince nella stessa istanza (l’ultima in ordine di tempo dove si è in attesa di una risposta), si sollecitano accertamenti di natura specialistica che attualmente la struttura non è in grado di offrire. L’associazione Yairaiha Onlus, considerando tutti questi eventi, tra i quali gli ultimi rigetti in merito alla richiesta di affidamento terapeutico e il differimento pena, invita le autorità “a voler verificare quanto descritto, ed eventualmente intervenire tempestivamente, affinché il diritto alla salute del signor Passalacqua non venga oltremodo compromesso da cure e interventi insufficienti”. Siena. Dieci detenuti “ospiti” fuori dal carcere per frenare il contagio in cella La Nazione, 26 settembre 2020 Il Comune ha aderito al progetto che durerà al massimo un anno. Può andare in una struttura chi ha quasi scontato la pena. Dieci i detenuti che nel comune di Siena potranno usufruire del progetto “Una mano per la casa”. Un’idea nata per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19 in carcere dove spesso c’è sovraffollamento mentre serve il distanziamento per evitare il contagio. Il progetto, finanziato per 419 mila euro (divisi fra Siena, Livorno e Firenze) dalla Cassa delle ammende e dall’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna, “punta a creare le condizioni per favorire l’accesso a misure alternative alla prigione per i detenuti del carcere del territorio - si legge nel bando emesso da Palazzo Pubblico in scadenza il 5 ottobre - che sono privi di riferimenti esterni e soprattutto di un domicilio”. Chiaro che si tratta di persone che sono vicine alla fine della pena e possono accedere a misure alternative alla cella. Per le spese legate all’alloggio, all’ospitalità e all’eventuale progetto di reinserimento sociale la Regione erogherà alle strutture o agli operatori che accederanno al bando un contributo massimo giornaliero di 29 euro per sei mesi. Dieci come detto i detenuti che potranno usufruire del servizio accoglienza a Siena. Napoli. Mogli dei detenuti si incatenano davanti al carcere di Poggioreale di Alessia Capone anteprima24.it, 26 settembre 2020 “Una vita non può valere una condanna”. È questo lo slogan urlato delle mogli dei detenuti che hanno improvvisato una protesta fuori il carcere di Poggioreale. Incatenate tra di loro si tengono per mano e stringono delle catene formando una barriera umana per impedire la circolazione delle automobili. “Sequestrati” negli autobus e nelle vetture, autisti e cittadini aspettano il permesso di passare. Accesso negato anche ai motorini, alle bici e ai driver. Qualcuno non si lascia intimidire e si avvicina alle donne: “Fatemi passare, devo andare a lavoro”. Ma irremovibili le donne non cedono, non si spostano quasi come se i loro piedi fossero cementati nell’asfalto. “Vergogna”, urlano con tutto il fiato che hanno in petto. Urlano al cielo, agli agenti che, inermi, osservano la scena senza intervenire. Urlano per farsi ascoltare da chi, secondo loro, ha abbandonato i propri cari ad un ingiusto destino e gridano per farsi sentire dai mariti, figli, fratelli e padri che sono nella casa circondariale, al di là del labile confine. Non hanno paura di nessuno, si trasmettono forza a vicenda e si vede nei loro occhi il fuoco del dissenso. L’obiettivo è creare disagio, attirare l’attenzione, provocare fastidio. Vogliono essere ascoltate. E nessuno osa interrompere la loro protesta. “Davanti a queste donne non si può fare nulla. Preferirei avere cento uomini davanti piuttosto che dieci donne da dover fermare”, si lascia sfuggire un agente che girovaga tra le auto ferme e i cittadini innervositi. Intanto dopo la brusca e improvvisa fermata, la corsa del bus 169, di passaggio proprio sul posto, è stata interrotta. “Fateci scendere, vogliamo continuare a piedi”, chiedono i pendolari. E il conducente prima di aprire le porte afferma: “Non voglio avere problemi, apro e vi faccio scendere ma poi chiudo le porte, mi sento più sicuro qui dentro”. Forlì. “Sei detenuti lavoreranno come saldatori” di Stefania Cugnetto Il Resto del Carlino, 26 settembre 2020 Inaugurato ieri il laboratorio in carcere: alcuni condannati svolgeranno un tirocinio per essere poi assunti da una cooperativa. “Un sogno che diventa realtà, anzi un piccolo miracolo”, con queste parole il direttore del carcere di Forlì, Palma Mercurio, ha inaugurato ieri il nuovo laboratorio di saldatura. Un’occasione concreta di lavoro per sei detenuti che hanno iniziato un percorso di formazione lo scorso luglio e ora sono pronti per il tirocinio che li porterà a diventare saldatori professionisti. Ieri il taglio del nastro che ha aperto ufficialmente le porte del nuovo laboratorio davanti ai volti felici e commossi dei detenuti coinvolti. Il laboratorio di saldatura nasce dall’esperienza di un laboratorio di assemblaggio nato nel 2006 all’interno del carcere di Forlì, un’attività che ha permesso negli anni l’inserimento lavorativo di 75 detenuti. Il progetto scaturisce dalla sinergia tra l’ente di formazione Techne, la cooperativa Lavoro Con e imprese del territorio, Cepi spa, Mareco Luce srl e Vossloh Schwabe spa. “Il territorio di Forlì ha collaborato alla realizzazione di questo sogno - ha dichiarato Palma Mercurio. Questa città si impegna perché il carcere fa parte di essa. Dobbiamo dare opportunità tangibili ai detenuti poiché il percorso in carcere deve essere di ricostruzione, non solo di detenzione. Il miglior tempo, infatti, è quello passato lavorando, quello è un tempo di qualità”. Il laboratorio si svolge dentro le mura della casa circondariale, dove si trovano le postazioni di lavoro e le attrezzature necessarie. Entusiasta il sindaco di Forlì, Gian Luca Zattini: “Sono felice di assistere a questo percorso di rinascita, un percorso che dimostra che la città di Forlì non vuole lasciare indietro nessuno”. L’idea di questo laboratorio parte un anno fa: “È partita da una reale esigenza - ha spiegato Lia Benvenuti, direttore generale di Techne: mancano saldatori professionisti, figure che le aziende ricercano moltissimo. Siamo partiti con la voglia di offrire una formazione spendibile al di fuori del carcere, una vera occasione di lavoro”. I detenuti scelti per il laboratorio verranno assunti dalla cooperativa Lavoro Con. “La pena detentiva ha due facce - ha chiosato Luca Ferrini, assessore allo sviluppo economico, legalità e sicurezza di Cesena - una è quella punitiva perché è giusto pagare per i reati commessi ma l’altra è quella della speranza, la speranza di una vita migliore e diversa e quest’ultima passa dall’opportunità di lavoro”. Palermo. Il giardino dell’Ucciardone porterà il nome di Marco Pannella di Caterina Ganci livesicilia.it, 26 settembre 2020 Una determina del sindaco dà l’ok a intitolare l’area al leader radicale scomparso nel 2016. C’è l’ok del comune di Palermo: il giardino antistante l’Ucciardone sarà intitolato a Marco Pannella. A dare il via libera è una determina del sindaco, in data 16 settembre il Comune di Palermo ha deliberato per dare il nome del leader radicale scomparso nel 2016. “Ringraziamo il sindaco, Leoluca Orlando ed il vicesindaco Fabio Giambrone che nel corso dei mesi passati ci ha incontrati e supportati nel progetto”, ha dichiarato il Partito Radicale. Il progetto, realizzato dall’architetto Sandro Di Gangi e proposto dal Partito Radicale attraverso una serie di incontri ai quali hanno partecipato oltre all’architetto Sandro Di Gangi, l’avvocato Marco Traina (militanti del Partito Radicale) e Donatella Corleo (Consiglio Generale del Partito Radicale), prevede un intervento di rigenerazione urbana, oltre la nuova denominazione del giardino a sud della Casa di Reclusione Maresciallo Di Bona-Ucciardone. In sostanza in prossimità dell’ingresso principale è previsto un nuovo sistema di illuminazione, delle nuove piantumazioni, le potature, interventi di manutenzione del sistema arboreo e nuovi sistemi di seduta per l’attesa ingresso. L’intervento nell’area verde inizierà dopo l’arrivo della deroga da parte della Prefettura, poiché la legge chiede che passino 10 anni dalla morte per intitolare un bene demaniale. A distanza di circa 5 anni dalla morte di Marco Pannella i membri de Partito Radicale vorrebbero celebrare il prossimo anniversario consentendo alla memoria di Pannella di riposare accanto ai detenuti a cui è stato vicino in tutta la sua storia politica e umana. Non solo un’intitolazione, dietro l’iniziativa un’occasione per far conoscere alle nuove generazioni la storia delle lotte per i diritti civili in Italia. Milano. Calci durante l’arresto, tre poliziotti indagati di Luca De Vito La Repubblica, 26 settembre 2020 Prende corpo il fascicolo aperto dalla procura di Milano su quanto accaduto dopo l’arresto di due persone, che avevano appena tentato un furto: sotto indagine per lesioni pluriaggravate il poliziotto che ha sferrato calci al casco di uno dei fermati bloccato a terra e a due colleghi Ci sono tre poliziotti indagati per il turbolento arresto del 15 settembre in via Marghera a Milano, immortalato in un video fatto dalla finestra di un palazzo e pubblicato dal sito Fanpage.it. Si tratta dell’agente che viene ripreso mentre prende a calci uno dei due arrestati quando è a terra bloccato da altri poliziotti, e di altri due agenti, la cui condotta, dalle immagini, appare meno chiara. Il fascicolo aperto dal pm Giovanni Tarzia e dal procuratore aggiunto Laura Pedio è quindi diventato un modello 21, con indagati e con un titolo di reato, quello di lesioni pluriaggravate. Le indagini, affidate alla squadra mobile, hanno portato anche all’acquisizione del video dalla redazione di Fanpage.it, che la polizia giudiziaria è andato a prendere ieri mattina. Tra gli elementi che gli investigatori stanno acquisendo in questi giorni, anche altri video delle telecamere di sorveglianza della zona che potrebbero dare indicazioni utili all’indagine anche su quanto avvenuto prima dell’arresto vero e proprio: l’obiettivo dei pm è infatti quello di ricostruire con precisione tutta la dinamica, dall’inseguimento alle immagini riprese nel video. Elementi che saranno utilizzati anche nell’ambito dell’altro procedimento, quello che vede i due uomini arrestati, Teodoro De Filippo e Domenico Fazi, entrambi pregiudicati classe 1976 e 1974, accusati di furto e resistenza. “Mi sono venuti addosso e uno mi ha colpito con calci e pugni. Non è vero che ho reagito, forse (l’agente, ndr) si è rotto la tibia scendendo dalla macchina e urtando lo scooter”. Aveva detto De Filippo davanti al giudice per le indagini preliminari che ha poi convalidato il suo arresto e quello di Fazi. La ricostruzione di quanto avvenuto, fatta dagli agenti, racconta che alle 4.10 del mattino una volante in perlustrazione aveva sorpreso un uomo che cercava di scassinare con un flessibile la saracinesca di una gioielleria in via Marghera e un altro uomo in scooter ad attenderlo in mezzo alla strada. Sorpresi dalla polizia, i due hanno provato a scappare, imboccando piazza Wagner, via Cherubini, corso Vercelli, via Giovio, via Sanzio, via Pier Capponi. Un lungo inseguimento ad alta velocità e in molte strade in contromano, finito in via Giotto, dove si trovava un’altra volante già in zona. Lo scooter avrebbe urtato il marciapiede e si sarebbe ribalta facendo cadere i due a terra. È a quel punto che gli agenti hanno immobilizzano l’uomo e che dalla finestra hanno cominciato a fare il video: calci, pugni e qualche frase “Brutto figlio di p..., ti è andata bene” sono le parole registrate che sembrano pronunciate dall’agente che sferra i calci. Quella sera oltre ai due arrestati che hanno riportato cinque giorni di prognosi ciascuno, anche i poliziotti sono rimasti feriti: uno ha rimediato 30 giorni di prognosi per una frattura alla rotula e un altro 10, per una lesione alla mano. “Per tentare di sfuggire all’arresto i due si dimenavano con calci e pugni verso gli agenti e ne scaturiva una violenta colluttazione”, scriveranno poi gli agenti nella loro notazione la mattina seguente. Il sistema penitenziario Usa e il “garantismo” di Tocqueville di Francesco D’Errico* Il Dubbio, 26 settembre 2020 L’analisi nel saggio di Francesco Gallino “Tocqueville, il carcere, la democrazia”. Quando George W. Pierson definì la missione di studio sui penitenziari americani di Alexis de Tocqueville e di Gustave de Beaumont “una scusa valida” per farsi un viaggio negli Stati Uniti, commise l’errore di sottovalutare l’importanza dell’opera frutto di quella meticolosa e appassionata ricerca: il “Système pénitentiaire aux Etats- Unis et son application en France”. Di questo, ne è più che sicuro Francesco Gallino, assegnista di ricerca in Storia delle dottrine politiche presso il Dipartimento di Cultura, Politica e Società dell’Università di Torino e autore del saggio “Tocqueville, il carcere, la democrazia” (Il Mulino, 2020). Gallino, infatti, sostiene convintamente l’importanza del “Système pénitentiaire” ai fini di una migliore conoscenza e analisi del pensiero tocquevilliano, di cui essa rappresenterebbe “al contempo un segmento autonomo e una chiave di comprensione”. Non dunque un’opera secondaria da dimenticare, schiacciata sotto il peso della più celebre “La democrazia in America”, ma un tassello fondamentale per poter meglio apprezzare la filosofia di Tocqueville e scoprire la sua teoria penitenziaria. Nei nove mesi trascorsi oltreoceano, infatti, i due studiosi dedicarono intere giornate alla visita e all’analisi di diversi istituti penitenziari, anche tramite interviste a direttori delle carceri, politici, funzionari e addirittura, quando possibile, anche ai detenuti. Ai risultati di questa attività, che non consistono soltanto in “informazioni su costi, vitto, regolamenti, ricavi e tassi di recidiva di ciascuna prigione” ma anche in una “interrogazione profondamente teorica”, Gallino dedica larga parte del saggio. I diversi modelli americani, i cui capisaldi condivisi erano rappresentati dall’isolamento in celle individuali, dall’imposizione del silenzio e del lavoro forzato ci spiega l’autore - colpirono profondamente Tocqueville, anche per le vistose differenze con il fallimentare modello francese, in cui si richiudevano senza distinzione negli stessi luoghi sovraffollati persone in attesa di giudizio, sbandati, malati di mente e criminali. Egli formulò così una sua propria visione penitenziaria, rintracciabile tanto nell’opera quanto nelle lettere e i diari di viaggio. Da un lato, se è vero che nella sua teoria propose metodi che all’occhio del giurista di oggi risulterebbero fin troppo afflittivi- Tocqueville riteneva che “una volta rotto il patto che lo legava alla società il criminale perde il diritto a godere di ogni diritto civile” -, dall’altro presentò anche una serie di aspetti considerevolmente avanzati: l’idea di garantire una “speranza concreta di rientrare in società da uomini liberi a pieno titolo”, attraverso un superamento dello stigma sociale nei confronti degli ex detenuti; “l’abolizione delle condanne all’ergastolo che ‘confiscando per sempre la libertà del detenuto’ gli impediscono di ‘riconciliarsi con l’avvenire’; un sistema di prevenzione non repressivo ma fondato su “sforzi per procurare un lavoro agli oziosi” e per fornire educazione e istruzione a chi non poteva riceverla; una concezione dei riformatori per giovani, ritenuti “non ancora irrimediabilmente corrotti”, fondata “sull’incoraggiamento del dialogo tra i reclusi e l’allestimento, fra loro, di pratiche democratiche e procedure elettorali, per farne maturare le capacità necessarie per diventare cittadini attivi”. Quest’ultimo metodo in particolare “trova una corrispondenza strettissima” con uno degli aspetti centrali del pensiero di Tocqueville: la valorizzazione delle pratiche quotidiane di confronto e di autogoverno attraverso cui i cittadini acquisiscono il “gusto” e “l’abitudine” della libertà; elemento che, secondo Gallino, segnala la profonda connessione teorica tra il “Système pénitentiaire” e “La democrazia in America”. Un saggio, dunque, per poter approfondire la genesi dei moderni sistemi penitenziari americani e forse soprattutto per esplorare, da un punto di vista originale, il pensiero di uno dei più eclettici esponenti della cultura liberale. *Presidente Extrema Ratio Lo spirito del 2020 di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 26 settembre 2020 Gli italiani, a dispetto di chi li pensava come un popolo di piagnoni viziati, hanno dimostrato di saper soffrire. Di solito non siamo scattisti e velocisti, ma marciatori e maratoneti. E questa sarà una maratona, che richiede resistenza e serietà. Senso pratico e forza morale. L’11 settembre 2001 ci dicemmo che era cambiato il mondo, che nulla sarebbe più stato come prima. Pareva l’inizio di una nuova era, segnata dalla paura e dall’insicurezza. La settimana successiva, gli aerei riprendevano a decollare dall’Europa verso l’America, e viceversa. Da sei mesi a questa parte, dall’Europa non si va in America se non in circostanze eccezionali, e viceversa. Se prima del lockdown qualcuno ci avesse detto che sarebbe successo tutto questo a causa di un virus sconosciuto, avremmo risposto che la vita non è un film distopico. Ma se nei giorni del lockdown qualcuno ci avesse detto che all’inizio dell’autunno avremmo potuto andare al cinema e a teatro, e i nostri figli sarebbero tornati a scuola, l’avremmo considerato un ingenuo ottimista. La pandemia è stata la prova più dura della nostra vita, almeno per coloro tra noi che non hanno conosciuto la guerra. L’abbiamo affrontata con molti errori, che sono ora evidenti a tutti: la mancanza iniziale di mascherine e soprattutto di regole chiare, il contagio portato negli ospedali e nelle case di riposo, le zone rosse mancate. Però nel complesso la reazione degli italiani, con rare eccezioni, è stata notevole, talora straordinaria. Non solo medici e infermieri; forze dell’ordine, farmacisti, cassieri dei supermercati, addetti alle pulizie, reporter, sacerdoti, militari, operai, milioni di italiani - e più ancora di italiane - hanno continuato a lavorare negli ospedali, negli uffici, per strada anche quando gli altri erano costretti a casa. Poi abbiamo assistito alla scena per certi versi grandiosa della riapertura: le fabbriche che hanno ripreso a funzionare, e ora le scuole che nonostante contraddizioni e inadeguatezze sono ripartite, grazie innanzitutto alla passione e al senso civico della netta maggioranza degli insegnanti, uomini e più ancora donne. Ora comincia una fase nuova, irta di incognite. Abbiamo capito che la battaglia sarà lunga. La normalità non è per domani. Conosciamo il virus meglio; però manca ancora una cura universale; e i tempi per il vaccino non sono certi. Non sappiamo tra quanti mesi sarà disponibile, e quanto tempo occorrerà prima che la popolazione sia immunizzata. Regole e procedure, che sino a poco tempo fa parevano impensabili e poco per volta sono diventate la prassi, ci terranno compagnia ancora per molto tempo. Per fortuna, con le solite eccezioni, in Italia non si sono viste le scene penose degli scontri di piazza, della rivolta dei negazionisti. Dopo qualche sbandata iniziale, anche l’opposizione ha rinunciato a dare battaglia su questo terreno. Quasi tutti gli italiani hanno compreso che l’apparente limitazione della propria libertà personale era una forma di rispetto per la libertà e la sicurezza altrui. Non a caso, mai come stavolta il voto amministrativo si è giocato al di fuori delle tradizionali categorie di sinistra e destra; che esistono ancora, ma non hanno impedito a molti moderati campani e pugliesi di votare De Luca ed Emiliano, e a molti progressisti veneti e liguri di votare Zaia e Toti. In una situazione di incertezza, ci si è affidati a chi bene o male ha retto il timone. Questo spiega anche la domanda di protezione rivolta allo Stato, la ripresa della fiducia nelle istituzioni pubbliche, dalle forze dell’ordine alla scuola, e persino un’apertura di credito alla criticatissima Europa. Nei prossimi mesi non serviranno né la distopia, né l’ottimismo. Né il timore della catastrofe, né l’illusione che tanto alla fine tutto andrà bene; perché quasi 36 mila morti (che fuori dalle statistiche ufficiali sono di più) ci ricordano che non tutto è andato bene. Abbiamo imparato dal dolore e dall’esperienza. Sappiamo che la curva dei contagi, con la cattiva stagione, è destinata a salire. Ma ora la sanità è meglio attrezzata, le mascherine ci sono, le regole risultano chiare; per questo non ci sarà un nuovo lockdown generalizzato. Ci saranno di sicuro chiusure parziali, rinunce, difficoltà, sofferenze. Ma gli italiani, a dispetto di chi li pensava come un popolo di piagnoni viziati, hanno dimostrato di saper soffrire. Di solito non siamo scattisti e velocisti, ma marciatori e maratoneti. E questa sarà una maratona, che richiede resistenza e serietà. Senso pratico e forza morale. Tutti coltiveremo un ricordo doloroso dei mesi passati, e probabilmente dei mesi a venire. Ma molti tra noi ne conserveranno un ricordo, se non eroico, se non bello, almeno dignitoso. Avremo il senso di essere stati all’altezza di un’emergenza inedita nella storia recente. È possibile che, tra molto tempo, qualcuno raccontando la storia italiana scriverà dello spirito del 2020. Forse sarà un po’ troppo generoso; ma probabilmente coglierà nel segno. Cambiano le gerarchie urbane, ma le città non moriranno di Edoardo Campanella* e Francesco Profumo** Corriere della Sera, 26 settembre 2020 La pandemia, il lockdown e il lavoro da remoto stanno modificando gli equilibri tra centro e periferia. Tuttavia il virtuale non è ancora un perfetto sostituto del reale. Il Grande Lockdown ha alterato la percezione di spazio per milioni di persone. Per settimane, le interazioni sociali e professionali tipiche della nostra quotidianità sono state mediate da tecnologie digitali che hanno compresso la distanza fisica, offuscando i confini tra mondo virtuale e reale. Un esperimento socioeconomico di tale portata trasformerà diversi aspetti della nostra vita, inducendo molte persone a ripensare non solo come vivere, ma anche dove, magari lavorando lontano dal proprio posto di lavoro in luoghi con una qualità della vita più alta. La diffusione su vasta scala del lavoro da remoto, però, non porterà necessariamente alla morte della città in quanto tale. Il virtuale non è ancora un perfetto sostituto del reale. Si potrebbe avere, piuttosto, un ribaltamento delle gerarchie urbane tra centro e periferia che hanno caratterizzato l’Occidente fin dai tempi della Prima Rivoluzione Industriale. Si tratta di un fenomeno globale, ma che risulta particolarmente rilevante per un modello di sviluppo come quello italiano che negli ultimi anni da policentrico è diventato sempre più monocentrico, con Milano come fulcro incontrastato del sistema. Da un punto di vista strettamente economico, l’ascesa e il declino di una città, e di conseguenza l’evolversi delle gerarchie urbane, è storicamente dipeso da due fattori: l’effetto agglomerazione e i costi di localizzazione. Nelle città di successo si respira un’atmosfera particolare che attrae persone e imprese con interessi simili, così facilitando lo scambio di beni, servizi, lavoro e idee. Storia, infrastrutture, università di prestigio e grandi capitali finanziari sono solitamente i principali fattori d’attrazione. In epoca industriale, poi, il magnetismo di una città è spesso dipeso dalla sua localizzazione rispetto ai mercati di approvvigionamento e di sbocco, e quindi dalla sua abilità di ridurre i costi di un’impresa. Pittsburgh, per esempio, siede, letteralmente, sopra una montagna di acciaio, di cui è grande produttrice. Oltre un secolo fa, i confezionatori americani di carne per la grande distribuzione decisero di concentrarsi a Chicago, a metà strada tra i grandi pascoli dell’ovest agrario e i mercati finali dell’est urbano. Con il prosperare di una città, che attira talenti e capitali, molte altre vengono spinte ai margini del sistema economico, facendo gradualmente emergere chiare gerarchie urbane a cui corrispondono altrettanto chiare disparità di ricchezza. In alcuni casi, la piramide può essere ripida e stretta come in Francia dove la maggior parte delle attività economiche sono concentrate a Parigi. In altri, invece, può essere larga e piatta come in Germania, dove il sistema federale porta a un modello di sviluppo diffuso. Ovviamente, le gerarchie urbane non sono qualcosa di statico. I posizionamenti all’interno della piramide cambiano in base alle alterne vicissitudini di una città. La globalizzazione, che ha portato molte aziende a spezzettare la loro produzione in giro per il mondo, ha ridotto l’importanza dell’elemento localizzazione, limitando l’influenza sistemica di molte città a vocazione industriale. Vent’anni fa Detroit divenne una città fantasma con la crisi del settore automobilistico. Il fattore aggregazione, invece, ha continuato a giocare un ruolo fondamentale per i poli tecnologici e finanziari, da New York e Londra a Tel Aviv e Berlino. Le professioni ad elevato contenuto di conoscenza beneficiano fortemente dall’interazione sociale e intellettuale. Non a caso, vi è una forte correlazione tra dimensioni di una città e numero di brevetti registrati per milione di abitante. Questo effetto di cross-fertilizzazione, combinato all’impatto della globalizzazione, ha portato nel caso italiano all’assottigliamento della piramide e all’incedere impetuoso di Milano. Ma le nuove tecnologie digitali stanno riducendo in modo drastico i benefici derivanti dall’agglomerazione, permettendo di coglierli almeno in parte a distanza. Il potenziale di molte piattaforme digitali, evidente prima della pandemia, si sta ora realizzando su vasta scala. Studi dimostrano come anche una breve interazione tra colleghi, saltuaria e a distanza, possa avere un impatto sulla produttività maggiore rispetto a incontri lunghi e quotidiani. E così anche il secondo fattore alla base della concentrazione urbana viene gradualmente meno. Se la domanda di incontri di persona dovesse diminuire drasticamente, i costi di agglomerazione di città affollate e costose inizierebbero a superarne i benefici, spingendo anche professionisti qualificati verso città più piccole, dove godrebbero di maggiore potere d’acquisto e di standard di vita più elevati, mantenendo formalmente il loro posto di lavoro altrove. Qualcosa che sta già succedendo, per esempio, in Silicon Valley, a Londra e nella stessa Milano. Del resto, molte delle opportunità di svago e professionali che rendono uniche le grandi metropoli sono appannaggio di una piccola elite. Una fuga da città ricche e dinamiche verso aree economicamente stagnanti o addirittura depresse non ha precedenti. Storicamente è sempre avvenuto il contrario. Si avrebbe non solo un riassetto, ma anche un appiattimento delle tradizionali gerarchie urbane. I grandi centri come Milano o Londra, dove molti lavori a distanza rimarrebbero formalmente localizzati, continuerebbero a mantenere molta della loro influenza economica. Ma la ricchezza sarebbe meno concentrata e raggiungerebbe anche le aree più periferiche grazie a un loro graduale ripopolamento. Nel corso del tempo, l’afflusso di professionisti verso aree stagnanti porterebbe alla creazione di una domanda di beni e servizi offerti localmente che favorirebbe l’emergere di un modello di crescita più equilibrato dal punto di vista geografico. In media, un lavoro qualificato e ben retribuito ne crea circa cinque meno qualificati all’interno della stessa economia locale. Così si colmerebbero parte dei divari regionali alla base dell’ondata populista degli ultimi anni. Per facilitare una simile transizione, è necessario costruire infrastrutture digitali adeguate nelle aree periferiche, fornire crediti d’imposta per il trasferimento di residenza e ampliare gli incentivi per lo smart working. L’Europa, dove città con secoli di storia sono completamente spopolate, potrebbe vedere la rinascita di alcune delle sue regioni a più alto potenziale. E in Italia si tornerebbe verso un modello di sviluppo policentrico, più bilanciato di quello attuale. * Future World Fellow dell’Ie University di Madrid ** Presidente della Compagnia di San Paolo e dell’Acri Migranti, in Europa un flop. Agenda per una discontinuità di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 settembre 2020 Proviamo solo per un attimo a chiudere gli occhi e a immaginare di leggere le ultime notizie a proposito di immigrazione. E proviamo - per scherzo - a immaginare come reagiremmo se Matteo Salvini fosse ancora ministro dell’Interno. Per cominciare, scopriremmo che una nave umanitaria chiamata Mare Jonio è stata fermata al porto di Pozzallo dalla Guardia costiera con un cavillo curioso: il personale di ricerca e soccorso-medici ed esperti in diritti umani - sarebbero incompatibili con le finalità dell’imbarcazione, registrata come nave commerciale. Scopriremmo con perplessità che mentre il Rina, il registro navale italiano, considera queste navi adatte a svolgere attività di salvataggio, per la Guardia costiera invece non lo sono. Una contraddizione illogica, penseremmo. Ma se andassimo avanti nella lettura scopriremmo che la stessa nave ha già ricevuto ben quattro diffide dalla Guardia costiera dal 9 giugno a oggi. E che contemporaneamente altre due navi delle ong - Ocean Viking e Sea Watch - sono state fermate con pretesti altrettanto risibili. Il solito Salvini!, penseremmo. Ma il livello di perplessità per una gestione che in questo caso appare spregiudicata monterebbe ancora scoprendo che, mentre lo stato si batte per impedire che dei privati salvino naufraghi, si guarda bene dall’inviare le sue di navi, quelle della Marina e quelle della Guardia costiera, che da tempo non effettuano più salvataggi oltre le acque territoriali. Ahi! Potremmo però ancora augurarci che nel frattempo almeno a Bruxelles si siano svegliati e che l’Italia sia riuscita a ottenere quello che chiede: un sistema solidale di accoglienza. Invece no. Le due cose che chiedevamo, quote di ripartizione obbligatorie e revisione del criterio del Paese di primo ingresso, ancora non esistono e l’Italia senza un sostegno europeo rischia di restare - incredibile solo pensarlo - sola. Essere dalla parte dell’Europa, rispettare il diritto del mare e capire che i problemi dell’Italia legati all’immigrazione si risolvano facendo squadra e non isolandosi è il vero tratto di discontinuità incarnato dalla brava Luciana Lamorgese. Oltre alla forma però è ora che il governo trovi un modo anche per dare finalmente sostanza alla sua strategia. Migranti. È guerra alle Ong, il governo blocca anche Mediterranea di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 settembre 2020 Vietato l’imbarco di due tecnici con un provvedimento privo di riferimenti normativi. Stop di fatto a tutte le navi umanitarie. “La verità è che c’è una persecuzione amministrativa contro alcune organizzazioni che operano in mare con grande dignità”, afferma il comandante Gregorio de Falco, senatore del gruppo misto. Intanto le partenze non si fermano: 13 dispersi e 3 morti in un naufragio; 135 persone catturate dai libici. Il governo italiano sta provando a bloccare anche Mediterranea. Mentre i preparativi per la partenza del rimorchiatore Mare Jonio volgevano al termine, la capitaneria di porto di Pozzallo ha negato l’autorizzazione all’imbarco di due “tecnici”: Fabrizio Gatti e Iason Apostolopoulos. Il primo è un medico e il secondo un esperto in diritti umani in attività di monitoraggio. Nel documento firmato dal comandante della guardia costiera Donato Zito si legge: “trattasi di due profili che non hanno alcuna attinenza con la tipologia di servizio svolto dal rimorchiatore”. Tecnicamente la questione affonda in una disputa tra il registro italiano navale (Rina) e la guardia costiera: il primo ha certificato che la nave può svolgere attività Sar (di ricerca e soccorso); la seconda ha contestato tale decisione. Su questa base la guardia costiera ha ripetutamente diffidato Mediterranea dallo svolgimento di attività “preordinate e continuative” identificabili come Sar. Dalle diffide è poi passata al divieto di imbarco delle due figure professionali. Il provvedimento, però, è giudicato estremamente debole da esperti e avvocati, che presenteranno ricorso. “Manca qualunque riferimento normativo - afferma il comandante Gregorio de Falco, senatore del gruppo misto - Affinché un tecnico possa salire su una nave sono richieste solo due cose: contratto con l’armatore e assicurazione. La natura dell’imbarcazione non c’entra nulla. La verità è un’altra: c’è una persecuzione amministrativa contro alcune organizzazioni che operano in mare con grande dignità”. La questione, insomma, è tutta politica. “Il nostro non è un caso eccezionale: il governo ha bloccato sistematicamente tutte le presenze in mare”, afferma Alessandro Metz, armatore di Mediterranea. Al momento non ci sono navi umanitarie: Sea-Watch 3, Sea-Watch 4 e Ocean Viking sono sottoposte a fermo amministrativo; Alan Kurdi è a Olbia in attesa di istruzioni; Open Arms è in quarantena, una misura imposta solo alle imbarcazioni delle Ong (la Asso Ventinove dell’Eni ha salvato 95 migranti, li ha sbarcati a Trapani il 16 settembre ed è ripartita subito dopo verso la Libia). “Nei nostri confronti non hanno trovato cavilli a cui appigliarsi e quindi dicono: potete partire, ma senza le figure necessarie ai soccorsi”, continua Metz. Il caso ha fatto esplodere nuovi malumori nella maggioranza. Il parlamentare Pd Matteo Orfini parla di “ennesimo atto di boicottaggio a chi salva vite”. “Ho dato la fiducia a questo governo per una discontinuità che non si vede. Con altri colleghi facciamo sempre più fatica”, dice de Falco. Dure le accuse degli esponenti di Liberi e Uguali, che si trovano nella difficile posizione di sostenere il governo ma essere anche attivi dentro Mediterranea come garanti. “Aver impedito l’imbarco dei soccorritori per fare in modo che non possa riprendere le missioni di salvataggio è un’autentica carognata”, ha twittato il portavoce nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Per l’onorevole Rossella Muroni: “mentre a Roma facciamo annunci (sulle modifiche ai decreti sicurezza, ndr) a Pozzallo la capitaneria di porto di fatto impedisce alla Mare Jonio di salpare. Contraddizioni e ipocrisie che non possiamo più permetterci”. La discussione sulle possibili modifiche alle leggi Salvini e la prosecuzione della guerra alle Ong viaggiano paradossalmente su binari paralleli. Il governo Pd-5S ha neutralizzato la presenza umanitaria nel Mediterraneo attraverso misure di carattere amministrativo che nulla hanno a che vedere con i contestati decreti sicurezza. Potrebbe cancellarli completamente e continuare comunque a bloccare tutta la flotta civile. L’esecutivo, infatti, non ha mai messo in discussione i discorsi e le prassi che criminalizzano la solidarietà, una vicenda che ha ormai radici profonde. La storia di Apostolopoulos ne riflette bene l’evoluzione. L’ingegnere greco ha lasciato tutto nell’ottobre 2015 per andare su una spiaggia di Lesbo e aiutare, insieme ad altri militanti del movimento greco, i profughi che arrivavano dalla Turchia. Da allora ha partecipato, a bordo di navi appartenenti a diverse Ong, a centinaia di operazioni di soccorso che hanno coinvolto migliaia di persone. All’inizio erano coordinate dalla guardia costiera italiana. Nel 2017 il coordinamento è diventato silenzio. Con il codice Minniti e i porti chiusi di Salvini il silenzio si è trasformato in contrasto. A maggio 2017 i libici hanno sparato sulla nave da cui tentava di salvare dei naufraghi, l’Aquarius. Ora il governo italiano gli dice che non può tornare in mare. Nonostante non ci siano Ong le partenze dalla Libia continuano. Mentre sul Mediterraneo centrale è in arrivo una bufera, ieri l’Oim ha comunicato un naufragio avvenuto vicino Tripoli: tre morti; 13 dispersi; 22 persone salvate dai pescatori. Seabird, l’ultimo aereo che documenta ciò che accade in mare, ha assistito nel pomeriggio alla cattura di 135 persone. Sul gommone c’erano due morti. La cosiddetta “guardia costiera libica” riporterà i sopravvissuti nei centri di prigionia. Libia. L’Europa non vede i crimini sui migranti di Riccardo Noury Il Domani, 26 settembre 2020 In Libia decine di rifugiati e migranti sono intrappolati in un circolo vizioso di crudeltà, senza un modo legale e sicuro per uscirne fuori: dopo indescrivibili sofferenze, rischiano la vita in mare cercando salvezza in Europa solo per essere intercettate, riportate nel luogo di partenza e sottoposte alle medesime violenze da cui avevano cercato di mettersi al riparo. Amnesty International denuncia tutto questo nel rapporto “Tra la vita e la morte”, pubblicato il giorno dopo l’annuncio, da parte della Commissione europea, del nuovo patto su migrazione e asilo, che propone una ancor più stretta cooperazione con gli stati esterni all’Ue per controllare i flussi migratori. Il rapporto contiene resoconti terribili di rifugiati e migranti che hanno subito o assistito a torture, sparizioni forzate, stupri, detenzioni arbitrarie, lavori forzati, sfruttamento e uccisioni da parte di attori statali e non statali in un clima di pressoché totale impunità. Dal 2016, con l’Italia in prima fila, gli stati membri dell’Ue collaborano con le autorità libiche fornendo loro imbarcazioni veloci, formazione e assistenza nel coordinamento delle operazioni in mare, per assicurarsi che le persone che intraprendono il viaggio nel Mediterraneo siano intercettate e riportate in Libia, aggirando così il divieto internazionale di respingimento. Durante questo periodo, la guardia costiera libica sostenuta dall’Ue ha intercettato in mare e riportato in Libia circa 60mila uomini, donne e bambini, 8.435 dei quali solo dal primo gennaio al 14 settembre 2020. Al ritorno in Libia, i rifugiati e i migranti sono portati nei centri di detenzione ufficiali diretti dalla Direzione per il contrasto all’immigrazione illegale, che dipende dal ministero dell’Interno del governo di accordo nazionale (Gna), riconosciuto dall’Onu, che controlla la Libia occidentale. Migliaia di altri sono stati sottoposti a sparizione forzata dopo che erano stati portati in centri non ufficiali di detenzione, come la Fabbrica del tabacco, controllati da una milizia tripolina affiliata al Gna e comandata da Emad al-Trabulsi. Decine di rifugiati e migranti hanno riferito ad Amnesty di aver assistito alla morte dei loro cari nei centri di detenzione. Chi è ancora a piede libero rischia non solo di essere arrestato e portato in questi centri, ma anche di essere rapito da milizie, gruppi armati e trafficanti. In alcuni casi viene torturato e stuprato finché la sua famiglia non ha pagato un riscatto. Altri muoiono nelle mani dei loro rapitori a causa di violenza, tortura, fame o diniego di cure mediche. Altri ancora sono costretti a partecipare a operazioni militari. Molti di loro vivono in alloggi squallidi: l’assenza di misure preventive di igiene e l’impossibilità di rispettare il distanziamento fisico aumentano i rischi di contrarre il Covid-19. Gran parte di loro ha difficoltà ad accedere alle cure ed è esclusa dai provvedimenti ufficiali di contrasto alla pandemia. A fronte di questa situazione orribile, gli attuali programmi di evacuazione e reinsediamento non bastano ad assicurare un’uscita legale e sicura dalla Libia. All’il settembre 2020, solo 5.709 rifugiati in condizione di vulnerabilità avevano beneficiato di questi programmi. *Portavoce di Amnesty International Italia Stati Uniti. Pena di morte, ignorato l’appello dei vescovi. Ucciso afroamericano Avvenire, 26 settembre 2020 Ucciso detenuto afroamericano di 40 anni: il primo da quando Donald Trump ha ripreso le uccisioni. Si tratta della settima esecuzione capitale federale da luglio. Non si ferma la macchina della morte negli Usa. La nuova esecuzione capitale federale è la prima di un detenuto afroamericano e la settima da luglio, dopo che è stata ripristinata dall’amministrazione Trump. Il detenuto Christopher Vialva, 40 anni, è stato ucciso con una iniezione letale in una prigione governativa a Terre Haute, Indiana. Vialva era stato condannato per un duplice omicidio commesso nel 1999, quando aveva 19 anni e insieme ad un gruppo di teenager dirottò un’auto a Fort Hood, in Texas, sparando alla coppia a bordo, Todd e Stacie Bagley. I loro corpi furono bruciati nel bagagliaio della vettura da un complice, anch’egli condannato alla pena capitale. Nei giorni scorsi i vescovi Usa avevano chiesto di fermare due esecuzioni: “Diciamo al presidente Trump e al procuratore generale Barr: basta. Fermate queste esecuzioni”. “Dopo il primo omicidio registrato nella Bibbia, Dio non pose fine alla vita di Caino, ma piuttosto la preservò, avvertendo gli altri di non uccidere Caino. Come Chiesa, dobbiamo dare un aiuto concreto alle vittime della violenza e dobbiamo incoraggiare la riabilitazione di coloro che commettono violenza”, hanno scritto l’arcivescovo Paul Coakley e l’arcivescovo Joseph Naumann. Myanmar. Rohingya, il silenzio degli innocenti. Cronache di un massacro di Michela Mantovan Corriere della Sera, 26 settembre 2020 Due disertori dell’esercito del Myanmar sono stati catturati dai ribelli: hanno raccontato di omicidi di massa e stupri. Forse la loro testimonianza cambierà la storia e permetterà a uno dei popoli più disperati del mondo di ottenere giustizia: “Ci hanno detto di sparare a tutto ciò che vedevamo, adulti o bambini. Erano questi gli ordini dei nostri superiori”. Saranno processati a L’Aia. Questa piccola storia non vi piacerà ma serve a raccontarne un’altra di ben altre dimensioni. Yangon, interno taxi, un giorno di primavera di qualche tempo fa. L’autista parla un inglese discreto, io ho appena finito di leggere la mia guida. Scambiamo qualche chiacchiera, poi io chiedo: “Ma perché i birmani detestano il popolo Rohingya?”. Gelo, silenzio e quindi una risposta rabbiosa: “I turisti non devono parlare di cose che non conoscono”. Il punto è proprio questo: il mondo non conosce ancora abbastanza bene la storia di questa disgraziata minoranza musulmana che vive nel cuore di uno dei Paesi buddhisti più religiosi del sud est asiatico. Ma forse le cose cambieranno: due militari del Tatmadaw, l’esercito birmano, sono fuggiti dal Paese e sono stati catturati dalla resistenza Rohingya, che li ha costretti a confessare e ha girato un video sconvolgente. Ora sono a L’Aia, dove verranno processati dalla Corte penale internazionale. Le parole dei due soldati sono la prova - secondo i funzionari delle Nazioni Unite - che siamo di fronte a un vero e proprio genocidio. Racconta il New York Times: “L’ordine del suo ufficiale era chiaro: “Spara a tutto ciò che vedi”. Il soldato Myo Win Tun ha detto di aver obbedito, prendendo parte al massacro di 30 musulmani Rohingya, poi seppelliti in una fossa comune. Nello stesso periodo, nel 2017, il soldato Zaw Naing Tun ha rivelato che lui e i suoi compagni di un altro battaglione hanno seguito una direttiva del loro superiore quasi identica: “Uccidi tutto ciò che vedi, bambini o adulti”“. Ancora Zaw: “Abbiamo spazzato via circa 20 villaggi, poi anche noi abbiamo messo i corpi in una fossa comune”. Decapitazioni, stupri, villaggi dati alle fiamme: durante l’ultima ondata di persecuzioni del 2017 (le altre avvennero nel 1978, negli Anni 90 e nel 2013) si calcola che 650 mila musulmani siano sfollati nei campi profughi del vicino Bangladesh. I numeri sono drammatici: Medici senza frontiere ha stimato che tra la fine di agosto e la fine di settembre sono stati uccisi 6.700 Rohingya, 730 erano solo bambini. Da allora al 2019 sono stati distrutti 200 villaggi: la gente continua a fuggire e viene inseguita da militari armati di fucili, machete, lanciafiamme. Una settimana fa Amnesty International ha lanciato una petizione per chiedere al Comandante in capo generale superiore Min Aung Hlaing di “fermare la pulizia etnica e di permettere gli interventi umanitari”. “The Lady” - Ora sarà interessante la reazione del premio Nobel per la pace Daw Aung San Suu Kyi, 75 anni, ministro degli Affari esteri, ministro dell’Ufficio del presidente e consigliere di Stato della Birmania. “The lady”, che è anche fondatrice e leader della Lega Nazionale per la Democrazia, ha difeso il suo Paese dall’accusa di genocidio a dicembre dello scorso anno sempre davanti alla Corte dell’Aia. L’eroina dei diritti umani, che ha lottato per decenni contro la dittatura militare, che ha accettato di vivere esiliata per anni dentro le mura della sua casa a Yangon pur di non abbandonare il Paese, dovrà fare i conti con queste nuove, terribili testimonianze. Poco prima delle elezioni generali nel 2015, scrive sempre il New York Times, alla “signora” fu chiesto come avrebbe risolto la questione dei Rohingya se il suo partito fosse andato al potere. Lei rispose con un proverbio birmano: “Tu devi rendere i grandi problemi piccoli e quelli piccoli spariranno”. A novembre si vota di nuovo. Il problema del Rakhine, stato del Paese nord occidentale dove i musulmani vivono insieme con una maggioranza buddhista, è indubbiamente una questione complessa. Non si può ignorare il fatto che “la signora” abbia ereditato una Birmania impegnata in una complicatissima transizione dopo gli anni del governo militare. Comprendere le ragioni degli uni e degli altri aiuta a gestire i delicati equilibri razziali con obiettività. Eppure gli analisti internazionali sono concordi nel sostenere che l’immagine della donna più importante della nazione sia stata pesantemente offuscata dalle omissioni e da una certa riottosità nell’affrontare il giudizio del mondo. Anche se gli anni della censura più implacabile sono finiti con il naufragio del regime, i nuovi vincitori democratici hanno mantenuto una certa opacità. Alle contestazioni di fatti precisi il governo ha risposto, spiega ancora il New York Times, “con una combinazione di insensibilità e goffaggine, talvolta persino comica... Smentite sono arrivate in vari modi dal portavoce dell’ufficio del presidente, dai media statali sempre più retrogradi e dalle pagine Facebook di diversi funzionari. L’ufficio del consigliere statale, quello della signora Aung San Suu Kyi, ha coniato sul suo sito web l’espressione “fake rape” per screditare i rapporti secondo cui le truppe avevano commesso violenze sessuali”. Ai giornalisti è stato impedito di entrare in contatto con le fonti e di raccontare direttamente i fatti. È vero anche, e negarlo farebbe solo male, che, per reazione all’impossibilità di verificare i racconti, talvolta è accaduto che siano state diffuse notizie false. Come un video, pubblicato da un importante tabloid britannico, in cui si vede un bambino torturato da un poliziotto con una pistola stordente. La violenza è reale ma è stata commessa in Cambogia. Storia di un popolo - Durante la sua prima visita nel Paese, nel 2012, l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama, sensibile agli appelli internazionali, ha chiesto ai birmani di riconoscere “che i Rohingya possiedono la stessa dignità di tutti gli altri cittadini”. Ma le cose non stavano e non stanno così: alla minoranza musulmana non vengono riconosciute né la cittadinanza né il diritto di voto. Per il governo si tratta infatti di “intrusi stranieri” e anche quelli che sono rimasti nello stato del Rakhine sono costretti a vivere nei campi profughi e a fare i conti con un ulteriore elemento che rende questa vicenda paradossale. In Birmania esiste un movimento fondamentalista buddhista che si chiama “969” (le virtù del Buddha, le pratiche del buddhismo e la comunità buddhista) ed è guidato da Ashin Wirathu, 52 anni, monaco radicale. Questo gruppo chiede il boicottaggio delle imprese commerciali musulmane e l’adozione di restrizioni sui matrimoni tra musulmani e buddhisti. Wirathu è stato in carcere per incitamento all’odio. Ma la cosa non è finita qui: sono innumerevoli gli episodi di violenze da parte dei buddhisti contro i Rohingya, con attacchi terroristici dinamitardi. Ed ecco il paradosso: come è possibile che una delle religioni più pacifiche della terra accolga in sé monaci violenti che hanno infangato la millenaria tradizione di Mandalay? Il capo di “969” tra l’altro è nato proprio lì. Ma chi sono, alla fine, i Rohingya? Anche la ricostruzione della loro storia è oggetto di una feroce controversia. Da una parte i nazionalisti che ne parlano come di un fenomeno migratorio recente, legato al colonialismo britannico, dall’altra i musulmani che invece rivendicano la loro appartenenza al Paese sostenendo che i primi abitanti del Rakhine erano proprio i loro progenitori. Non c’è accordo nemmeno sull’origine del nome: secondo gli storici musulmani le radici vanno cercate nel regno di Mrauk U, a metà del 1400. Secondo quelli birmani la parola è comparsa negli Anni 50 del secolo scorso. In mezzo a tutto questo c’è una terra tormentata e povera, un popolo che viene considerato tra i più diseredati del pianeta. L’ultimo capitolo - Solo tre settimane fa alcuni pescatori di Aceh, in Indonesia, hanno soccorso una nave con 300 profughi: erano in mare da sei mesi. In trenta sono morti. Tra di loro c’erano 14 bambini. Le autorità del Paese avevano negato loro l’attracco. I campi in Bangladesh stanno per esplodere, sono luoghi poverissimi, non esiste alcuna prospettiva per chi è costretto a starci. Per questo in molti, i più coraggiosi o forse i più disperati decidono di fuggire. La pandemia non ha aiutato e molti di questi barconi diretti in Malesia o in Thailandia sono stati rimandati indietro. Perché si può decidere di rischiare la vita solo quando questa è diventata impossibile. E per i Rohingya è così. Colombia. Campagna per dare a ognuno dei 17mila detenuti un kit per l’igiene personale agensir.it, 26 settembre 2020 In occasione della festa di Nostra Signora di Las Mercedes, patrona dei detenuti, la Fondazione Caminos de Libertad, vincolata all’arcidiocesi di Bogotá, ha rivolto un invito a sostenere la campagna: “Nella solitudine, abbandono, paura, privazione… La vostra solidarietà fa la differenza”. Secondo quanto affermato da padre Andrés Fernández Pinzón, direttore della Fondazione, si tratta di contribuire all’acquisto di un kit di sicurezza e pulizia, che verrà poi consegnato a ciascuno degli oltre 17mila detenuti rinchiusi nei centri penitenziari della capitale colombiana. Il sacerdote ha spiegato che è tradizione ogni anno, in occasione della festa della Merced, che la Fondazione visiti le carceri per consegnare un kit da toilette a ciascun detenuto, ma ha osservato che a causa della pandemia la raccolta non ha raggiunto i fondi necessari. Per questo motivo, ha chiesto a ogni persona, famiglia o istituzione di aderire all’acquisto di un kit. “Non abbiamo potuto portare avanti la campagna dalle parrocchie, ma lo facciamo da persona a persona”. Si prevede che entro la fine di ottobre la Fondazione potrà visitare i penitenziari, con la gioia e la sicurezza di sapere che ogni detenuto riceverà il proprio kit. Ai detenuti si è rivolto, in occasione della festività di ieri, anche l’arcivescovo di Bogotá, mons. José Luis Rueda Aparicio. “A voi che siete privati della libertà, voglio dire che avete degli angeli, la pastorale penitenziaria, i cappellani che a Bogotá e in diverse parti del Paese sono presenti nel nome di Cristo, portando la Parola, i sacramenti, la vicinanza, non giudicandovi, non condannandovi, ma accompagnandovi affinché ci sia dentro di voi un processo di liberazione, guarigione e riconciliazione”.