Antonio Romeo, 70enne malato oncologico, detenuto a pochi mesi dal fine pena di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2020 È giovane e carina, mi avvicina all’ingresso del carcere di Parma. Non capisco bene cosa voglia, penso che sia un operatore o un’insegnante, forse un parente che aspetta di entrare per un colloquio. Sono così rari i colloqui al tempo del covid19. È molto tesa, mi vuole parlare, mi chiede chi sono. "Una volontaria, entro per la redazione di Ristretti Orizzonti". "È una cosa per i diritti? Mi aiuti per favore, mi aiuti. Mio padre sta malissimo è pieno di metastasi, noi abitiamo al sud, molto lontano da qui. Ci aiuti. Si chiama Antonio Romeo, detenuto in Alta Sicurezza 1. Se lo ricorderà?". Si apre la porta blindata, la persona all’interno mi invita a sbrigarmi, altri aspettano di entrare ma quel nome, certo che lo ricordo. Salgo in redazione e chiedo subito notizie. Sì Antonio Romeo è stato trasportato d’urgenza all’ospedale dopo qualche giorno di forti dolori; è un uomo di 70 anni, più di 20 anni di carcere, il fine pena tra pochissimi mesi, forse a febbraio, non ha reati di sangue, era molto attento alla salute, gli avevano appena rinviato l’udienza al Tribunale di Sorveglianza. La sua famiglia è disperata, questo lo aggiungo io. E troppi “perché” si fanno strada nella mia mente. Perché il giuramento di Ippocrate “…di attenermi nella mia attività ai principi etici della solidarietà umana…” fatica tanto a superare le sbarre del carcere, perché le ribalte televisive riescono così facilmente a bloccare il pensiero civile e a condizionare le scelte di chi dovrebbe decidere con sapienza e secondo la legge? Perché siamo arrivati fino a questo punto? Perché la giustizia assume tanto spesso i tratti cupi della vendetta o magari - ed è quasi peggio - quelli dell’indifferenza? Qual è la questione? Quale il senso? Se Antonio Romeo viene scarcerato poco prima del suo fine pena per poter essere assistito dai suoi cari, cosa cambia nelle nostre vite? Nulla ma tantissimo in quella della sua famiglia. Perché, certo, da un punto di vista sanitario potrà essere curato anche qui al nord ma come potrà la figlia che ieri mattina per un puro caso mi ha fermato davanti al cancello del carcere, come potrà alleviare il dolore anche solo con uno sguardo, un sorriso, una carezza? Mi viene in mente Andrea Camilleri, già vecchissimo, che diceva: - Non in nome mio. – Appunto. In estrema sintesi, come persona e come cittadina in realtà non mi sento più tutelata dal mio Paese solo perché le istituzioni deputate all’amministrazione della giustizia non hanno il coraggio della misericordia; piuttosto voglio continuare a credere a una giustizia che non rispecchi il funzionamento e i disvalori delle persone che è chiamata a valutare, ma sappia testimoniare la possibilità di un pensiero e uno spirito più ampio, più responsabile, più umano. *Responsabile redazione Ristretti Parma Veronica aspetta, il suo cuore è in cella con papà di Gioacchino Criaco Il Riformista, 25 settembre 2020 Veronica il cuore ce l’ha in galera. Se ne sta dentro il petto di suo padre, nel carcere di Prato. Giuseppe Sposato è un detenuto, condannato in primo grado a 14 anni, aspetta l’appello, il giudizio definitivo, per reati di mafia. Che Veronica lo creda innocente sta nel diritto di una figlia. Per lei ora non è il tema della responsabilità la questione urgente. È che forse, Giuseppe, al giudizio della Cassazione potrebbe non arrivarci. In carcere è entrato con cento chili di carne addosso che adesso superano di poco i cinquanta, ci è entrato diabetico, con trattamento insulinico. Ed era pure cardiopatico, durante la carcerazione, nell’aorta, gli sono stati aggiunti diversi bypass, i medici dicono che gliene occorrerà ancora qualcuno. E la natura ha infierito, nella parte terminale del colon si è presentata una massa che si sta indagando, molto probabilmente tumorale. Giuseppe sta nelle sezioni di alta sicurezza che il covid19, di fatto, ha trasformato in 41bis non dichiarato, col detenuto visibile solo attraverso il vetro. Ma nessuno più posa il proprio sguardo oltre il cristallo, perché Giuseppe i suoi non li vuole se non li può toccare. Rifiuta i colloqui. E la china è quella che di solito si dice pericolosa, quella che piega in una discesa che non si interrompe, se non al suo fondo. Giuseppe sta in carcere perché i medici dell’accusa, quelli dello Stato, dicono che le sue condizioni sono compatibili con la detenzione. I medici della difesa dicono il contrario: lui è troppo grave per stare in galera. La cura di un malato è quella cosa complessa che non si realizza solo con il bisturi e le medicine. La cura è fatta di carezze, di sguardi senza interruzioni, di letti d’ospedale, non di brande d’acciaio, di sorveglianza di polizia. E che Giuseppe sia innocente o colpevole, buono o cattivo, il suo diritto a essere curato nel modo migliore, ad avere un trattamento umano, sta scritto nella Costituzione. In quella carta fondamentale che ci tiene tutti sotto la stessa bandiera. Ma la madre dell’Italia non la citiamo più, se non per nominarla invano. Non la comprendiamo, spinti verso la confusione da chi il cuore non saprebbe utilizzarlo e fonda il proprio benessere sull’erosione del fegato. Veronica ha il cuore in galera, dietro un vetro nel carcere di Prato, l’innocenza, la colpevolezza, non sono le sue questioni. Il suo dramma è che il cuore di suo padre, alla fine del processo ci potrebbe non arrivare. Il suo problema sono le cure, quelle carezze che vorrebbe dare: non in riva a un mare o, in casa, ai bordi di un letto. Si accontenterebbe di toccare suo padre in una corsia di ospedale, sentire con le proprie orecchie le parole tranquillizzanti dei medici. Giuseppe sta in galera da tre anni, e ancora non lo sappiamo se sarà ritenuto responsabile, o assolto. Ma pure che fosse cattivo, pure cattivissimo, e pure che tutti i medici del mondo dicessero che lo si può curare in galera, la questione non è giuridica, è Costituzionale: un uomo diabetico, con tre by-pass aortocoronarici e la necessità di inserirne un altro, con una sospetta neoplasia al colon, non può dirsi trattato umanamente e senza degrado, se anziché in un luogo di cura, trascina le proprie patologie nella sezione di un carcere. Questa però non è l’epoca della rinascita, non si risorge da una guerra sanguinosa che dopo tutto il danno possibile ha partorito uno spirito di fratellanza sufficiente a tifare per la libertà, le garanzie. La nostra è l’epoca delle incertezze, delle mancanze: gli ideali sono scarsi, inesistenti gli uomini che ne possano incarnare quelli alti. Se uno come Giuseppe Sposato andasse in ospedale si alzerebbero gli strepiti di quelli che il cuore non sanno più dove trovarlo. Ma neppure questi possono impedire a una figlia di lottare per suo padre. Revocati i domiciliari all’ex direttrice di Reggio Calabria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2020 Revocati gli arresti domiciliari all’ex direttrice delle carceri di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, arrestata il 25 agosto scorso con l’accusa di concorso esterno con la ‘ ndrangheta. Il gip di Reggio Calabria, Domenico Armaleo, ha accolto l’istanza presentata dal legale di fiducia, avvocato Giacomo Iaria del Foro di Reggio, della quale aveva espresso parere favorevole anche l’Ufficio della Procura rappresentato dai due sostituti procuratori della Dda Stefano Musolino e Sabrina Fornaro. Al posto dei domiciliari, il gip ha disposto nei confronti della dottoressa Longo la misura della sospensione dalle funzioni per 12 mesi. La Longo, che fino al giorno dell’ordinanza che l’ha colpita ha guidato la sezione femminile del carcere di Rebibbia a Roma, com’è detto è accusata di aver favorito boss e luogotenenti dei clan reggini detenuti quando dirigeva il carcere di Reggio Calabria. Il gip nell’ordinanza aveva sottolineato: “L’indagata Longo non ha lesinato durante il periodo della sua reggenza di intrattenere rapporti quanto mai inopportuni con i parenti di alcuni detenuti, per non dire che ella con il suo inqualificabile comportamento ha sistematicamente violato le norme dell’ordinamento penitenziario così agevolando, ed alleggerendo, il periodo di detenzione dei maggiori esponenti della ‘ndrangheta cittadina e non solo”. Lei stessa ha respinto fermamente tutte le accuse e lo ha fatto per ben cinque ore di interrogatorio di garanzia davanti agli inquirenti rispondendo punto per punto. Ricordiamo le parole del suo legale a Il Dubbio: “Verissimo che non ha rispettato alla lettera la normativa o l’ultima circolare che arriva, ma ritenere che questo si sia verificato con l’intento di favorire qualcuno ci passa il mondo”. L’avvocato Iaria ha spiegato che la Longo ha per tantissimi anni diretto il penitenziario reggino (dal 2016 si è aggiunto un secondo, quello di Arghillà) senza mai aver ricevuto lamentele da parte dei provveditorati e dal Dap. Non solo. L’avvocato ha sottolineato che i vertici del Dap oltre ad apprendere le modalità della Longo, addirittura hanno approvato questo suo modus operandi. L’ex direttrice ha ricevuto così tanti apprezzamenti per la sua gestione, tanto che a fine anno del 2018, le è stato inizialmente anche offerto un posto come vicecapo del Dap. Gli arresti di Maria Carmela Longo, d’altronde, hanno colpito come un macigno chiunque la conoscesse e l’avesse vista lavorare. Susanna Marietti di Antigone ha infatti ricordato come l’ex direttrice, in continuità ideale con l’ottima gestione della direzione precedente, ha in questi anni “mandato avanti il carcere femminile di Rebibbia con intelligenza, efficienza, apertura, rispetto che chi in carcere lavora e per chi vi è detenuta”. Anche Rita Bernardini del Partito Radicale che ha visitato il penitenziario diretto a lungo da Maria Carmela Longo ricorda la differenza con alcuni istituti della stessa regione. L’esponente radicale sottolinea come invece di puntare il dito contro quei direttori che non rispettano alla lettera la circolare, bisognerebbe monitorare quelli che non rispettano la Costituzione. Molto spesso le circolari non possono essere uniformi per tutte la carceri. Ogni realtà è a sé e soprattutto non si può avere una visione punitiva delle carceri, perché quello sì che sarebbe contro la costituzione e quindi, di fatto, illegale. Non di rado, anzi è quasi la norma, diversi istituti penitenziari non danno seguito alle ordinane dei magistrati di sorveglianza, ed accade quando quest’ultimi accolgono le istanze presentate da chi è al 41bis. Se c’è una decisione di segno negativo, quella viene eseguita immediatamente, al contrario, quando raramente i reclami vengono accolti, arrivano delle resistenze e i reclusi sono costretti a fare richiesta di ottemperanza. Resta il problema, per quanto riguarda la vicenda della Longo, è che questi tipi di inchieste potrebbero diventare una spada di Damocle per tutti quei direttori che credono in un carcere dove si assicurino prospettive di reinserimento sociale in accordo con i principi costituzionali. Sesso durante i colloqui: patteggiata una pena di sei mesi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2020 L’episodio riporta alla ribalta il tema della affettività dietro le sbarre. Avevano avuto un rapporto orale durante i colloqui nel carcere di Cremona, una cosa illegale e per questo hanno patteggiato una pena di sei mesi ciascuno. Il fatto è accaduto il 17 aprile del 2018, quando la donna, una 33enne straniera, si era recata in carcere insieme al figlio minorenne per far visita al convivente, 40 anni, con una condanna da scontare per un residuo di pena. Mentre erano a colloquio nell’apposita stanza (il minore era in una sala attigua), tra i due si era consumato un rapporto orale. C’erano le telecamere e la coppia aveva cercato di nascondere il rapporto spostandosi dall’inquadratura e coprendosi con la borsa di lei, ma senza fare i conti con la telecamera installata più in alto che li aveva ripresi. Il detenuto, che attualmente è in libertà, ha sempre negato il rapporto intimo con la compagna, dicendo che si erano solo abbracciati. Alla fine hanno patteggiato, perché la denuncia era comunque arrivata. Ma questo ennesimo “scandalo”, riporta ad una questione tuttora irrisolta: il divieto di avere rapporti sessuali in carcere. Quel diritto all’affettività negato solo da noi, mentre il resto dei Paesi europei sono all’avanguardia già da tempo. Eppure, diverse sono le proposte di legge sul tavolo, compresa l’ultima - in ordine cronologico - proveniente dalla regione Toscana lo scorso febbraio. Il primo firmatario è stato Leonardo Marras, capogruppo Pd, mentre i consiglieri di Forza Italia e Lega Nord hanno espresso parere contrario. Tale proposta di legge andrebbe a colmare il vuoto della riforma dell’ordinamento penitenziaria approvata a metà dallo scorso governo giallo verde. La proposta interviene appunto sulle norme che regolano l’ordinamento penitenziario. All’articolo 28, che regola i rapporti con la famiglia, si aggiunge il “diritto all’affettività” mettendo un comma che recita: “Particolare cura è altresì dedicata a coltivare i rapporti affettivi. A tal fine i detenuti e gli internati hanno diritto ad una visita al mese della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro ore con le persone autorizzate ai colloqui. Le visite si svolgono in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti penitenziari senza controlli visivi ed auditivi”. Tale norma in realtà era prevista dai decreti attuativi della riforma dell’Ordinamento penitenziario, e già le polemiche non erano mancate, soprattutto da parte di alcuni sindacati della polizia penitenziaria. È il diritto alla sessualità in carcere, ma che poi è stato completamente oscurato e non più contemplato dal nuovo ordinamento penitenziario. Un tema, quello dell’affettività, che era stato sviscerato durante gli Stati generali per l’esecuzione penale voluto dall’ex ministro della giustizia Andrea Orlando. Il gruppo di lavoro coordinato da Rita Bernardini del Partito Radicale aveva affrontato il problema di come assicurare all’interno del carcere uno spazio e un tempo in cui la persona detenuta possa vivere la propria sessualità. Ne è scaturita quindi la proposta di un nuovo istituto giuridico costituito dalla “visita”, che si distingue dal “colloquio”, già previsto dalla normativa, poiché garantirebbe al detenuto la possibilità di incontrarsi con chi è autorizzato ad effettuare i colloqui senza che vi sia un controllo visivo e/ o auditivo da parte del personale di sorveglianza. Tutto questo è stato poi affossato dallo scorso governo legastellato. Si riuscirà a superare il tabù del sesso in carcere? Indagine sul giustizialismo di Luigi Manconi e Federica Graziani Il Foglio, 25 settembre 2020 Popolo, pm e Cinque stelle. La confusione tra giustizia sociale e penale. L’ideale assoluto di purezza che via internet diventa paranoia. Il termine “giustizialista” si è affermato in Italia a partire dalla fine degli anni Ottanta, ottenendo largo spazio nell’informazione e nella polemica politica. Tra le definizioni e le interpretazioni, quella che ci pare più appropriata e che esprime meglio i connotati del fenomeno è proposta dal dizionario Sabatini Coletti: “Con valore polemico, atteggiamento di chi appoggia senza riserve l’azione della magistratura contro la corruzione, anche a scapito delle garanzie individuali del cittadino”. Ma nella maggior parte dei vocabolari, il primo significato dato al termine è: “Nel linguaggio giornalistico, la richiesta di una giustizia rapida, severa, e talvolta sommaria, nei confronti di chi si è reso colpevole di particolari reati, spec. di quelli di criminalità organizzata e di disonestà nell’amministrazione della cosa pubblica”. Il termine ha un’accezione esclusivamente negativa ed è forse per questo che i giustizialisti, per dimostrare il carattere strumentale e pretestuoso delle accuse loro rivolte, spesso replicano evidenziando come, nella lingua inglese, la categoria che li denota non esista. E questa carenza linguistica, e davvero non capiamo il perché, viene considerata un ottimo argomento. Quasi che la parola esaudisse il concetto e fosse una sorta di mera espressione dialettale, un epiteto provinciale, una definizione interamente dipendente da un esausto chiacchiericcio domestico. Ma - oh, sorpresa! - la parola esiste nella lingua tedesca (Gerechtigkeitsfimmel) e il suo significato nel dibattito pubblico di quel Paese è esattamente corrispondente a quello italiano. In tedesco, per la verità, la locuzione è ancora più illuminante, dal momento che il secondo termine (der Fimmel) che la compone in italiano è traducibile con: “fissa”, “mania” e addirittura “fregola”. Dunque, come scrivono Valentina Calderone e Angela Condello: “Il significato è univoco e richiama orientamenti tutti relativi all’area della patologia, più o meno acuta; siamo in presenza di qualcosa di molto simile a una nevrosi, che porta a comportamenti esasperati o, comunque, alterati”. L’amore per la giustizia che trascende in uso deformato della stessa. Ma non si tratta solo di un’interpretazione scorretta o squilibrata, e nemmeno di un abuso: ciò cui si assiste è una sorta di rovesciamento della giustizia nel suo contrario, attraverso una sua applicazione paranoica (ecco la mania). È la giustizia che diventa l’ingiustizia. È questo l’effetto della confusione tra giustizia sociale e giustizia penale. Il “giustizialismo” peronista si teneva ancora nei confini di un progetto di giustizia sociale, da perseguire con i diversi strumenti politici ed economici a disposizione delle autorità di governo di un grande Stato nazionale come quello argentino. Al contrario, il giustizialismo italiano contemporaneo, quando non sia strumentale a obiettivi ulteriori, propri degli imprenditori politici della paura come la Lega di Matteo Salvini o altre forze di estrema destra, si nutre di quella confusione tra giustizia sociale e giustizia penale. E lo fa portando alle estreme conseguenze una sorta di mandato fiduciario, affidato alla magistratura inquirente che, a partire da Tangentopoli (e talvolta anche prima, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento), ha trovato larghi consensi tra le forze politiche e, più ancora, nel cosiddetto “popolo della sinistra”, e “nel popolo” tout court. Così si è diffusa l’idea che la magistratura inquirente potesse rendere giustizia a quel popolo e rispondere alle sue ansie e alle sue aspettative, attraverso l’individuazione dei “colpevoli”, poteri e potenti fino ad allora o fino a oggi impuniti. Nel mercato della politica, una legittima domanda di giustizia sociale ha incrociato un’offerta di giustizia penale, dapprima in forma “spontanea”. Questo perché singoli settori della magistratura avevano intravisto, nella capacità propria e dei propri uffici giudiziari di operare il controllo di legalità, una possibilità di reazione alle carenze e agli illeciti degli attori e delle politiche pubbliche dominanti. E successivamente, in forma via via più strutturata in ragione della progressiva centralità del paradigma penalistico, nella proposta politica di partiti e movimenti che hanno tradotto la tensione al cambiamento in un’elencazione di nuovi reati e nuove pene. Viene in mente un sublime aforisma di Piergiorgio Bellocchio, “beati gli affamati di giustizia perché saranno giustiziati”. Gli “affamati” di Bellocchio bramano a tal punto la giustizia da correre il rischio e pagare il fio del suo ottenimento: l’assoluto affermarsi del Giusto può essere a tal punto totalizzante da comportare il sacrificio di coloro che l’hanno perseguito e che per esso si sono immolati. Non c’è alcun gioco di parole, se non quello voluto dal divertito esercizio letterario, bensì un lungimirante monito morale. E un richiamo a due riflessioni: la prima attiene all’idea stessa di assoluto, qui inteso come concetto opposto a quello di finitezza (non l’assoluto, pertanto, come evocazione del trascendente, ma come pretesa di totalità). L’affamato di giustizia che finisce giustiziato conosce sulla propria pelle il connotato onnicomprensivo di un valore - la giustizia - che si afferma senza contraddizione e senza eccezione, senza limiti né vincoli. Esattamente un assoluto, che nega la finitezza propria dell’attività umana, e, tanto più, di quell’attività - l’amministrazione della giustizia - così profondamente calata dentro la materialità delle relazioni sociali, oltre che dentro la fatica del conflitto e della sua composizione, del danno e della riparazione, della ferita e della sutura. Immergersi nella pesantezza della realtà e operare con caparbietà per la mediazione sono poi l’aspirazione più alta, ma comunque finita, della giustizia umana in una società umana, organizzata - riflessivamente - da uomini per sé e per altri uomini. Scriveva Alessandro Manzoni in Storia della colonna infame: “Non è cosa ragionevole l’opporre la compassione alla giustizia, la quale deve punire anche quando è costretta a compiangere, e non sarebbe giustizia se volesse condonar le pene dè colpevoli al dolore degl’innocenti”. In questa frase è condensata l’idea della fallacia di ogni tesi esclusivamente retributiva della pena (e quindi anche della giustizia penale). L’incommensurabilità del danno patito dalla vittima - soprattutto per effetto dei più gravi reati contro la persona - impedisce di commisurare, appunto, la pena al costo della sofferenza subita (pretium doloris), dovendo invece a tal fine assumersi, quale parametro principale da affiancare a quello della colpevolezza, l’esigenza di reinserimento sociale del reo. Si tratta di scommettere sull’uomo, assumendo uno sguardo non esclusivamente retrospettivo (tutto circoscritto al fatto di reato), ma anche rivolto al futuro e alla possibilità del colpevole di rispettare le regole del vivere comune, espresse dall’ordinamento. È questo il punto dove si colloca l’aspro conflitto intorno alla questione dell’ergastolo ostativo, della sua permanenza o della sua abrogazione. Un discrimine che vede la più ampia mobilitazione del populismo penale e il suo ricorrere ad “armi proibite”: Hanno riammazzato Falcone e Borsellino (questo il titolo del “Fatto” del 9 ottobre 2019, a commento della pronuncia della Cedu che confermava l’illegittimità dell’ergastolo ostativo). In ogni caso, il fine irrinunciabile della riabilitazione del reo e della giustizia riparativa non corrisponde né a un’ambizione globale, né a una meta finale e nemmeno a un disegno generale. È, piuttosto, un’attività che si muove tra mille insidie, percorre terreni sdrucciolevoli, rischia costantemente di mettere un piede in fallo. Non solo: quell’attività di giustizia è sempre necessariamente imperfetta, controversa, contraddittoria. Ed è appunto questo l’ulteriore aspetto della sua finitezza: essa lascia sempre vittime, anche quando rende loro giustizia. Non risarcisce mai davvero quando risarcisce. Non compensa quando vuole equilibrare. Non soddisfa mai, in altre parole, la fame di giustizia e, se lo facesse, dovrebbe andare fino in fondo. Fino, cioè, a giustiziare chi esige giustizia. Se si persegue un’idea di giustizia assoluta e senza contraddizione, senza limiti e vincoli, sarà fatale, insomma, che gli affamati di giustizia vengano giustiziati. Ma quelle due righe di Bellocchio consentono di trarre un’altra, ancora più essenziale, lezione. La giustizia non può essere assoluta, non solo perché è affare di uomini, ma anche perché la sua ipostatizzazione - da regolazione del conflitto e sanzione del reato a virtù suprema - porta a una conseguenza fatale: o la giustizia diventa pura astrazione e mero paradigma di riferimento ideale e, così, si separa dalla vita sociale, oppure si fa religione. Ovvero quella sua qualità astratta diventa teologia, speculazione intellettuale sul rapporto col trascendente, che infine precipita nel mondo aggregando un certo numero di seguaci. In questi ultimi, il culto della giustizia come astrazione virtuosa si traduce, nel concreto della vita quotidiana, in una identità confessionale. Tale identità parte dal presupposto dell’appartenenza a una comunità titolare di ciò che costituisce il fondamento di ogni teologia: la conoscenza della verità e l’accesso al bene. Lo scarto tra l’idea di un mondo giusto e la realtà dell’amministrazione della giustizia ha radici antiche, fin nelle origini della nostra civiltà, tra la Dike greca e lo ius dicere romano. Alla ricerca dell’ordine naturale delle cose, della distinzione originaria tra il giusto e l’ingiusto, i greci finirono inevitabilmente per scoprire la tragedia, l’impossibilità della conciliazione del fato con la giustizia, e l’eterno riprodursi dell’ingiustizia, anche a danno di chi più giusto di come fu non poté essere. Assai più prosaici dei nostri progenitori ellenici, i romani, invece, tennero ben fermi i piedi per terra, e inventarono lo ius dicere, il giudizio terreno. E addirittura quello che ancora oggi viene chiamato il diritto pretorio, il diritto del caso concreto, individuato da un sacerdote laico, la cui missione non era la ricerca della giustizia, ma evitare che i cittadini venissero alle mani, o alle armi (ne cives ad arma veniant). Torniamo per l’ultima volta a quell’aforisma di Bellocchio e intendiamone il significato più semplice e perfino elementare. Quegli “affamati di giustizia” che finiranno giustiziati richiamano un dato di bruciante attualità, che percorre la cronaca politica lungo gli ultimi decenni. Richiamiamo ancora il detto di Nenni: “Il puro più puro che epura l’impuro”. Anche in questo caso, oltre lo scintillio del funambolismo delle parole, emerge una lezione morale, coerente con quanto finora detto. Anche la purezza - “Onestà! Onestà!” - è per sua stessa natura categoria assoluta. In altre parole, non si può essere “un po’ puri” o “abbastanza puri”. Se a quello stato si attribuisce un limite o si riconosce una carenza, crolla l’intera costruzione etica che si pretendeva di edificarvi. Ma proprio l’orrore per ogni limite e per ogni carenza di quello stato di purezza costituisce il vincolo essenziale di quanti a quello stesso stato guardano come alla fonte dell’autorità da cui dipendono. Preservare la purezza diventa allora, oltre che il legame associativo fondamentale, il primo e unico tratto identitario, la missione da perseguire, il campo della battaglia da combattere. Ne derivano una mentalità e una postura belligeranti, un vocabolario militare, un repertorio d’azione marziale. L’appartenenza o meno a un tale sodalizio si trasforma necessariamente in quello che, per alcune congregazioni religiose, è il voto di castità. E la corrispondenza tra purezza e castità, che secondo dottrina e pastorale non è perfetta, risulta nei fatti pienamente sovrapponibile in quanto richiede una coerenza assoluta tra categoria astratta e comportamenti pratici. La disciplina che ne discende è di tipo forzatamente monacale, regolamentata da un codice meticoloso, causidico, parossisticamente rigido. Ciò finisce col determinare un clima generalizzato di costante sospetto e di reciproca diffidenza, in cui ogni associato ha il duplice ruolo di sorvegliato e sorvegliante, investito da una funzione assai simile a quella di “poliziotto del cielo”. Ora, tutto ciò potrebbe avere un suo senso all’interno di uno spazio circoscritto, definito da ragioni extra-mondane, come potrebbe essere appunto un monastero, un carmelo, una comunità di ricerca spirituale: ma nella società secolarizzata e nello spazio della vita pubblica, e tanto più in quello della sfera politica, quella purezza semplicemente non si dà. E non perché tutto è corrotto, ma perché è l’attività umana stessa a presupporre l’impurità. O meglio: la contraddizione, la caduta e la ripresa, l’errore e la riparazione. Dunque, quella comunità fittizia e fittiziamente aggregata attorno a un ideale assoluto di purezza, è in realtà costantemente esposta e vulnerabile, e chi ne è parte sa che la propria permanenza dipende dalla capacità di tenuta e dalla selezione degli associati. Il vero vincolo, quello più robusto e cogente, più che la reciproca solidarietà, è allora la delazione ininterrotta, e il meccanismo più incisivo di fidelizzazione è rappresentato dalle procedure dell’epurazione (ciò che soltanto può - attraverso l’atto di espulsione dell’impuro, appunto - restaurare l’originaria purezza). Tutto questo, in quella dimensione ancora più fittizia del fittizio che è per sua natura lo spazio virtuale di internet, diventa parossistica paranoia. Il sospetto e la denuncia ne sono le manifestazioni più frequenti. Se trasferiamo le nostre considerazioni dal piano teorico a quello della cronaca politica quotidiana, l’effetto è addirittura grottesco. Basti un esempio. Dal maggio del 2012, quando Federico Pizzarotti venne eletto sindaco di Parma, all’ottobre del 2018, quando i ministri dei 5 Stelle accettarono la realizzazione della Tap, molta acqua è passata sotto i ponti. E quello stato di purezza è come evaporato. O meglio: è stato strappato, sgualcito, sporcato. L’assolutezza della Regola ha subito pressioni, strattoni e lacerazioni. E ne sono conseguite deroghe, eccezioni e abusi. Ma, soprattutto, c’è stata una vera e propria Rivelazione. È emerso nitidamente un tratto culturale e antropologico dell’elettore-tipo dei 5 Stelle, che aiuta a spiegare come non hanno incrinato il consenso - anzi - fatti quali la mancata “restituzione” di parte dei contributi promessi, gli episodi di acclarato malcostume, o la grottesca vicenda di rimborsi spese equivalenti a tre volte un salario operaio. O ancora: quella sorta di condono che permise al senatore Elio Lannutti di candidarsi nonostante la regola che impone ai grillini di non aver svolto incarichi con altri partiti; le mancate dimissioni di tre parlamentari del movimento (Sarti, Lannutti e D’Ippolito) condannati per diffamazione in primo grado; le frequenti anomalie nella documentazione dei rimborsi (il sito che li rendiconta è fermo da mesi); la disparità di trattamento riconosciuta a diversi parlamentari; l’inosservanza dell’articolo del nuovo statuto sulla formazione delle liste. La successione di questi fatti, e molti altri ancora, hanno indotto gli avvocati di Virginia Raggi a dichiarare, 48 ore prima della sua sentenza di assoluzione, che “il codice etico non è stato mai applicato”. Partendo da Alessandro Manzoni e da Pierluigi Bellocchio siamo arrivati alle piccole vicende intestine di un partito, quello grillino, che dalle elezioni europee della primavera del 2019 conosce un rovinoso calo di consensi. Non sembri, il nostro, un esercizio eccessivamente ardito: serve a indicare come i limiti e i vizi del Movimento 5 Stelle, e della cultura da cui è prodotto e che riproduce, hanno una storia antica e radici profonde e articolate. Curzio: “La giustizia deve avere un volto umano” Il Dubbio, 25 settembre 2020 Il Presidente della Cassazione presenta al Consiglio Nazionale Forense il manuale della suprema corte. “La norma si deve sempre confrontare con l’umanità”. Le parole di Pietro Curzio, alla sua prima uscita pubblica da primo presidente della Corte di Cassazione, sono quelle che chiudono e riassumono l’incontro di ieri nella sede del Consiglio nazionale forense, il primo in presenza nella sede istituzionale dopo l’emergenza sanitaria. Un incontro organizzato con lo scopo di presentare il manuale “La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana” (Cacucci Editore), che ha tra i propri autori il neo eletto presidente della Corte costituzionale, Mario Morelli, ieri presente in sala, e che è diventato uno spunto per ribadire l’urgenza di un diritto che valorizzi la giustizia, prima che la legalità. Il libro, curato da Curzio e dai consiglieri della Cassazione Maria Acierno e Alberto Giusti, nasce come raccolta delle lezioni impartite ai nuovi giudici del Palazzaccio, ma ben presto l’iniziale fine didattico si è mescolato ad uno scopo culturale ben più ampio, frutto di un confronto aperto tra magistrati. Diversi i temi esaminati: dalla struttura degli atti, al rilievo del fatto, passando per la “forza” del precedente e i profili della continuità della giurisprudenza di legittimità. All’incontro, moderato dalla consigliera del Cnf, Carolina Rita Scarano, erano presenti, tra gli altri, il presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi e il primo presidente emerito della Corte di cassazione, Giovanni Mammone. L’importanza dell’approccio empatico - “La formazione - affinché possa essere tale - non può prescindere dal confronto e dal dialogo, in uno scambio reciproco”, ha evidenziato in apertura Maria Masi, presidente facente funzioni del Cnf, che ha sottolineato, a proposito del volume, “l’attenzione e l’approccio al caso, al fatto e quindi all’esigenza concreta e attuale del cittadino che chiede giustizia, nonostante l’esigenza di equilibrio e i limiti, in senso funzionale del giudizio di Cassazione, solo apparentemente astratto dalla contingenza”. Dalle pagine del volume, ha sottolineato, emerge con chiarezza “l’approccio empatico alla domanda di giustizia, essenziale se le si vuole garantire il ruolo che le compete”. E cogliendo l’occasione per parlare della riforma della Giustizia attualmente in cantiere, Masi ha sottolineato l’esigenza che la stessa non prescinda “dal ripensamento e dalla riorganizzazione dell’intero settore, parallelamente a un ripensamento culturale e del modo di operare anche di magistrati e avvocati”. Per farlo, ha aggiunto, è necessaria la collaborazione tra questi ultimi, “collaborazione che per noi rappresenta non un auspicio, ma un impegno che, sono certa, sarà condiviso”. Un ponte con il futuro - Il manuale rappresenta, dunque, una sorta di “ponte con il futuro”, ha sottolineato Scarano, partendo da quanto accade concretamente nel palazzo della Cassazione e analizzato attraverso la lente delle norme. Il tutto, ha spiegato Antonio Carratta, professore ordinario di Diritto processuale civile all’Università Roma Tre, passando attraverso posizioni differenziate e, a volte, totalmente opposte, garanzia, però, di un confronto costruttivo. Come nel caso della questione dell’inammissibilità del ricorso e il cosiddetto principio di autosufficienza, dal quale si può cogliere come all’interno della giurisprudenza della Cassazione esistano “un orientamento più formalistico e uno più sostanzialista”. Una divergenza di opinioni che “va a ricadere sulla limitazione all’accesso del ricorso per Cassazione”. E ciò è evidente anche nell’ultima riforma in tema di ricorso, ovvero quella del 2016, che ha generalizzato il procedimento in camera di consiglio, con la conseguente marginalizzazione dell’udienza pubblica. Una soluzione “non a perfetta tenuta”, per Carratta. Un ultimo aspetto è quello che attiene alla trasformazione del ruolo della Cassazione, che muta in base al contesto storico. E l’evoluzione che ha subito l’istituto del ricorso alla Suprema Corte, in questa epoca, è legata alla crisi dell’impostazione positivistica, che è andata via via perdendo forza. “Oggi - ha concluso Carratta - è evidente lo spostamento dell’asse portante dell’ordinamento dalla legge all’interpretazione”. “Evitare vittime innocenti” - Il punto di vista dell’operatore pratico è quello di Antonio De Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale delle Camere civili, che non ha nascosto il timore, da parte di chi difende i diritti del singolo, di rimanere “travolti” dal ricorso per Cassazione. Ed è per questo che ha ribadito l’appello ad una disciplina che non sia solo formalmente rigorosa, ma che venga “interpretata in termini umani”, così come in passato. Col tempo, infatti, “sono cambiate le prassi, senza che siano cambiate le norme”. “Sappiamo tutti che il principio di autosufficienza - il cui rispetto impone che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, senza la necessità di rinviare a fonti esterne, ndr - ha fatto molte vittime. Ed è importante evitare che nel futuro ci siano altre vittime innocenti”, ha evidenziato. Il secondo aspetto riguarda le modifiche relative ai vizi motivazionali, che ha creato un vuoto di tutele. E ciò anche alla luce del fatto che la nomofilachia sembra essere diventata la missione più importante della Cassazione. “Ma per chi fa l’avvocato e difende i diritti dei cittadini, dei quali non si può trascurare l’importanza - ha aggiunto De Notaristefani - la nomofilachia si deve estrinsecare decidendo processi delle parti e non semplicemente affermando principi di diritto. Credo che quel vuoto di tutela debba essere riempito”. La strada per colmarlo potrebbe stare nella ricerca di un punto di equilibrio tra la salvaguardia dei limiti propri del giudizio di Cassazione e l’ansia di giudizio del caso concreto, che è essenziale affinché un giudice di legittimità non si trasformi in un burocrate della legge. “Speriamo che la Cassazione, sotto la presidenza di Curzio, possa continuare nella difficile ricerca di equilibrio tra esigenza di legalità ed esigenza di giustizia. Il processo - ha concluso - deve restare un mezzo, non un fine, perché l’esigenza di giustizia deve prevalere sempre sull’esigenza di legalità”. “La norma si deve sempre confrontare con l’umanità” - Il primo incontro pubblico di Curzio è avvenuto, dunque, nella “casa” degli avvocati. Una “scelta naturale - ha sottolineato -, il segno di come verrà naturale, in futuro, mantenere un forte dialogo tra noi giudici di Cassazione e il mondo forense, perché insieme esercitiamo la giurisdizione”. E sono proprio gli avvocati, ha quindi aggiunto il primo presidente, a costruire dai fatti, a volte dalle tragedie, le ipotesi e la tutela dei diritti. “Siete voi avvocati a farlo - ha spiegato - e noi veniamo in un secondo momento. Ne dobbiamo essere ben consapevoli, ai fini delle responsabilità che abbiamo”. E ciò sempre tenendo conto che il diritto non è pura formula, ma affonda le radici nella vita reale. “Parliamo di persone. La norma - ha concluso Curzio - si deve sempre confrontare con l’umanità. Questa, con i nostri limiti, è la nostra aspirazione”. Caso Palamara, i tempi del Csm e della Cassazione di Giovanni Salvi Corriere della Sera, 25 settembre 2020 I fatti risalgono al maggio 2019 e nel luglio successivo il magistrato è stato sospeso. Ieri si è svolta l’udienza nella quale è stata sciolta la riserva sull’ammissione dei testimoni. Caro direttore, in un articolo del 20 settembre Paolo Mieli ha criticato tempi e modi del giudizio disciplinare nei confronti del magistrato Luca Palamara. Ieri si è svolta l’udienza nella quale è stata sciolta la riserva sull’ammissione dei testimoni. Credo che sia quindi utile dare qualche informazione dal mio punto di vista, quale Procuratore generale. Il Csm se l’è presa comoda? Anzi, scrive Paolo Mieli, più che comoda? I fatti risalgono al maggio 2019 e da luglio 2019 il dottor Palamara è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, decisione confermata dalle Sezioni unite della Cassazione. La richiesta di giudizio è stata avviata dalla Procura generale il 23 giugno scorso e il 21 luglio vi è stata la prima udienza della Sezione disciplinare, nei confronti non solo di Luca Palamara, ma anche degli altri magistrati che parteciparono all’incontro all’Hotel Champagne. Udienza che si è dovuta rinviare al 15 settembre a causa delle ricusazioni progressive dei componenti della Sezione e poi dei supplenti, poi dei giudici della ricusazione e infine di tutti i membri del Consiglio. Pochi giorni fa, anche le ricusazioni dei collegi nominati per decidere sulle ricusazioni sono state rigettate dalla Corte di Cassazione. Legittima attività difensiva? Certamente. Perdita di tempo da parte del Csm? Certamente no. È la Procura generale che ha dormito? L’ufficio che dirigo è titolare, insieme al Ministro della Giustizia, dell’azione disciplinare. Sino ad oggi ha esercitato l’azione, per i fatti emersi dalle intercettazioni e dalle chat, nei confronti di ventuno magistrati, in ventidue procedimenti. Nel frattempo, altro incolpato, membro del Parlamento, ha sollevato conflitto di attribuzioni, che la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile. Mentre si sostenevano le ragioni della Procura con esito positivo dinanzi a tutte le possibili giurisdizioni, continuavano a giungere atti delle indagini penali, non ancora concluse e i cui esiti occorreva attendere. Il 22 aprile 2020 sono arrivate circa 60.000 chat, estratte dal cellulare del dottor Palamara, ed è stato necessario valutarle. Ciò è stato fatto in tempi assai brevi, dedicando a questo lavoro un avvocato generale e quattro sostituti procuratori. Per assicurare che si seguissero criteri omogenei, ho emesso delle linee guida, discusse prima con i colleghi; per garantire la trasparenza di un lavoro così importante ho reso queste direttive pubbliche, sul sito della Procura generale. Le linee guida cercano di indicare, nel mare magnum di informazioni spesso del tutto irrilevanti e attinenti alla vita privata, cosa sia lecito e cosa debba essere punito. La sede disciplinare, infatti, non è luogo di valutazione di condotte moralmente riprovevoli, ma solo di quelle sanzionate dalla legge, per il principio di tipicità al quale deve attenersi la giustizia disciplinare. Il 21 ottobre uno dei giudici, Piercamillo Davigo, andrà in pensione. È un componente della Sezione, previsto in base a criteri oggettivi e predeterminati, ed è inamovibile: nessuno può sostituirlo d’autorità. Nei prossimi giorni il Csm deciderà se il pensionamento determini anche la cessazione dalla carica di membro del Csm, da cui dipende la sua legittimazione quale giudice disciplinare. Come si vede, un bel problema. Non posso prevedere quale sarà l’esito, visto che si contrappongono interpretazioni sostenute da argomenti giuridici opposti. Nel giudizio, la Procura si è opposta all’ammissione di gran parte dei 133 testimoni richiesti dalla difesa. I giudici ne hanno ammessi sei. Il nostro punto di vista è chiaro e lo è stato sin dal primo momento. Le incolpazioni non riguardano affatto la legittimità dei rapporti tra magistrati e politici, né le spartizioni correntizie. Su questi aspetti sono pendenti altri procedimenti, alcuni già in fase di giudizio. Oggetto della decisione è invece un fatto molto preciso, che può così compendiarsi: costituisce illecito la condotta del magistrato che si riunisce con parlamentari e consiglieri per decidere chi saranno i procuratori della Repubblica che dirigeranno gli uffici che vedono imputato uno dei presenti e indagato un altro? La nostra valutazione è che non siano necessari né 133, né 13 testimoni. Bastano le intercettazioni e le prove che consentano di valutare se esse siano legittime e utilizzabili. Su questo ultimo punto si sono già pronunciate incidentalmente le Sezioni Unite e poi anche il giudice dell’udienza preliminare di Perugia. Dunque, nessuna anomala accelerazione del giudizio per tarpare la discussione. Se invece, a seguito dell’esame del dottor Palamara sarà necessario assumere nuove prove e andare oltre il 21 ottobre, qualora la decisione del Csm incida sulla legittima qualità di giudice di un componente, chiederemo la rinnovazione degli atti compiuti. È ciò che avviene normalmente tutti i giorni nelle aule dei tribunali: se un giudice va in pensione, si cerca di fissare quante più udienze possibile, chiedendo la collaborazione delle parti, per evidenti esigenze di concentrazione del giudizio. Se poi l’esigenza di accertamento della responsabilità, in ogni suo aspetto, richiede invece tempi più lunghi, è questa esigenza che prevale e si potranno rinnovare le prove che il nuovo giudice riterrà necessarie. Quello che è certo è che la decisione della Procura generale di chiedere l’ammissione solo di un numero limitato di testimoni non deriva dal “problema Davigo”. La pretesa della difesa di spostare l’oggetto dell’incolpazione verso responsabilità collettive che stemperino quelle individuali, è legittima; altrettanto lo è quella della Procura di restare invece ancorati ai fatti oggetto della contestazione, lasciando ad altre sedi il dibattito sulla magistratura e sui suoi problemi e sul ruolo del Csm. Altrettanto certo è che sulle esigenze di celerità deve prevalere quella di garanzia della pienezza dell’accertamento, se basata su valide e pertinenti ragioni. Anche su questo la Procura non farà un passo indietro. *Procuratore generale della Cassazione Il concorso per diventare magistrato era truccato? di Paolo Comi Il Riformista, 25 settembre 2020 Dice: vabbè, tanto si sa che spesso i concorsi sono truccati. Già, ma stavolta non era un concorso qualsiasi, era il concorso per diventare magistrati. E cioè un concorso che getta alcune centinaia di giovani dentro la magistratura, e queste centinaia di giovani potrebbero, nei prossimi anni, trovarsi a chiedere o firmare un ordine di arresto contro qualcuno di noi, o a emettere una sentenza. Diciamo che sarebbe preferibile che la selezione fosse rigorosa. E invece abbiamo scoperto che il concorso per 330 posti di magistrato è stato un pasticcio senza fine. I compiti dei candidati che sono stati promossi erano pieni di sciocchezze (cioè saranno magistrati persone che sanno pochissimo di legge) e per di più moltissimi di questi compiti erano pieni di segni di riconoscimento evidentissimi. E questo legittima il sospetto che i candidati fossero d’accordo con qualche membro della commissione per farsi riconoscere e aiutare. Capisco l’obiezione: il tuo è solo un sospetto. Sì, un sospetto robusto, mi chiedo cosa sarebbe successo se fosse uscito fuori che i compiti di qualche altro concorso pubblico erano come quelli dei candidati magistrati. Avvisi di garanzia a tutti, inchiesta e super-inchiesta, intercettazioni, Trojan, arresti e retate. Siccome però la commissione del concorso era composta da ventotto membri dei quali venti sono magistrati, non è affatto detto che scatti una inchiesta. Comunque ancora non è scattata (per ora la magistratura è troppo assorbita dal caso Suarez). Poi, a margine, c’è una seconda questione. La commissione che sceglie i nuovi magistrati è una commissione di magistrati. Cioè sono gli stessi magistrati (probabilmente spartiti per correnti) che ammettono i nuovi adepti. Esattamente come in una casta. Anzi in una setta. E poi, chi entra in questa setta, non potrà essere mai giudicato da nessuno e la setta stessa, e il caposetta, gli assicura protezione e impunità. Lui invece - il nuovo adepto - potrà giudicare chi vuole, e se sbaglia non dovrà rispondere. Medioevo? Ma forse nel Medioevo c’era più equilibrio tra i poteri. Dopo l’accesso agli atti dei bocciati, si infittiscono le ombre sulle prove di giugno: tra i 330 prescelti c’è chi scrive castronerie, chi stila il tema in stampatello, chi disegna schemini invece di svolgerlo, chi lascia spazi vuoti, quadrati e altri segnali di riconoscimento. Tutto regolare? Avete mai visto un giudice che invece di scrivere una sentenza disegna uno “schemino” (candidato n. 2814)? O che invece di articolare il ragionamento che lo ha condotto alla decisione si limita ad elencare gli articoli di legge (candidato n. 1333)? O che, oltre al pegno e all’ipoteca, inserisce la “servitù prediale” fra i diritti reali di garanzia (candidato n. 95)? In caso la risposta fosse negativa, preparatevi: fra poco potrà capitarvi di leggere sentenze dove i paragrafi sono stati sostituti dalle freccette dei diagrammi di flusso o dove la motivazione è come il Codice enigma, va decifrata. La lettura degli elaborati delle prove scritte dell’ultimo concorso per trecentotrenta posti di magistrato ordinario sta evidenziando più di una sorpresa, creando fin da ora ansia nei cittadini che potranno incappare in queste nuove leve togate. Diversi candidati che sono stati bocciati agli scritti hanno fatto in queste settimane l’accesso agli atti, in vista di un ricorso al Tar, per capire che cosa avessero sbagliato e quale fosse il maggior livello qualitativo degli ammessi alle prove orali. Ad assisterli Maria Rosaria Sodano, fino allo scorso anno, prima di andare in pensione, giudice della Corte d’Appello di Milano, e ora tutor di alcuni ragazzi che provano il concorso in magistratura. I compiti analizzati (in questa pagina è possibile vederne qualche esempio), alcuni redatti in un italiano improbabile, presentano poi molte “anomalie”. Ci sono elaborati scritti interamente in stampatello maiuscolo, altri con righe vuote tra una frase e l’altra, altri ancora con una infinità di correzioni e cancellature da essere illeggibili. Sul contenuto, infine, “orrori” giuridici a nastro. La genesi di questo concorso è alquanto complessa. Bandito nel 2017, la Commissione esaminatrice venne nominata ad ottobre dell’anno successivo. Le prove scritte, tre, si tennero a giugno dello scorso anno. La correzione è terminata qualche settimana fa. Come per tutto ciò che attiene il funzionamento del sistema giustizia, anche il concorso per indossare la toga non poteva essere immune dalle pressioni delle correnti della magistratura. La Commissione è composta da ventotto membri. Venti sono magistrati. Chi ha scelto queste venti toghe? Domanda retorica: Il Consiglio superiore della magistratura. Con quali criteri? Con il “sorteggio”. I magistrati che volevano far parte della Commissione esaminatrice e quindi per un paio di anni stare lontani dai tribunali, avevano segnalato il proprio nome al Csm. Sulle modalità del sorteggio non è però dato sapere. Il Guardasigilli ha poi provveduto con proprio decreto alla nomina formale della Commissione. Il concorso in magistratura ha delle regole diverse da tutti gli altri concorsi pubblici. Sui segni di riconoscimento, ad esempio, le regole in vigore prevedono solo che il candidato “non debba farsi riconoscere”, lasciando alla Commissione di turno il compito di fissare quali siano i relativi criteri. Quindi il candidato può disegnare un pallino all’inizio di ogni rigo o lasciare spazi bianchi nelle pagine ed è tutto regolare. Ed anche fare lo schemino con le freccette invece che articolare le frasi nel tema. La discrezionalità senza limiti della Commissione si spinge fino a vette inimmaginabili. Ogni esame, infatti, fa storia a se. Lo schemino, ad esempio, poteva essere fonte di sicura bocciatura in un concorso precedente. A queste prove i partecipanti erano circa tredicimila. Poco meno di quattromila quelli che poi hanno consegnato gli elaborati. Il concorso si può tentare al massimo tre volte. Il capogruppo in Commissione giustizia della Camera Pierantonio Zanettin (FI) ha chiesto ieri al ministro Bonafede, con una interrogazione urgente, se abbia intenzione di mettere in campo qualche attività ispettiva per capire che cosa sia successo nella correzione dei compiti. Siamo già certi che non succederà nulla. Dimenticavamo: fra le riforme epocali previste dal Guardasigilli grillino vi è anche quella del concorso in magistratura: sarebbe il caso di accelerare, mettendo così ordine nel far west delle scuole di formazione, dove insegnano i magistrati, e la cui frequenza pare essere un “indispensabile” biglietto da visita per azzeccare il titolo delle tracce. Pene accessorie riviste anche in fase esecutiva di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2020 Corte di cassazione - Sentenza 26601/2020. Anche il giudice dell’esecuzione può rideterminare le pene accessorie, inflitte con sentenza definitiva, se l’adeguamento è richiesto per la modifica delle norme in seguito ad una sentenza della Consulta. La Cassazione (sentenza 26601) accoglie il ricorso di un imprenditore al quale era stata imposta l’inabilità ad esercitare l’impresa commerciale e ad assumere ruoli direttivi per 10 anni, dopo una condanna per bancarotta fraudolenta. Il ricorrente chiedeva una riduzione del periodo, in virtù della sentenza della Corte costituzionale, negata però dal Gup. La Suprema corte ricorda che le Sezioni unite hanno stabilito che la durata delle pene accessorie, non stabilite dalla legge in misura fissa, va determinata in concreto dal giudice non in rapporto alla pena principale. Il Supremo collegio ha lasciato però non risolta, perché non sottoposta alla sua attenzione, l’ulteriore questione relativa alla possibilità di procedere ad una nuova rideterminazione, che tenga conto della diversa struttura della pena non prefissata dal legislatore, nell’ambito dell’incidente esecutivo, dopo che sulla sua durata, già stabilita invariabilmente in dieci anni, si sia formato il giudicato. Per la Cassazione la risposta è positiva. Se, infatti, è pacifico che il giudice dell’esecuzione possa intervenire sulla pena principale, quando è inflitta violando i parametri indicati dalla norma, e se l’aspetto dell’illegalità della “punizione”, relativo alla sanzione principale, è oggetto di verifica per tutto il procedimento, esecuzione compresa, lo stesso deve valere per le pene accessorie. La stessa esigenza di tutela dei diritti individuali va rispettata “quando il rapporto esecutivo non si sia già esaurito, anche in riferimento al profilo temporale delle pene accessorie”. E l’applicazione e commisurazione di queste ultime rientra, nel raggio d’azione del giudice dell’esecuzione (articolo 676 del Codice di procedura penale). La possibilità di rivedere la sanzione in via postuma rispetto al giudicato è dunque in linea con l’obiettivo di adeguare la risposta punitiva alla norma se modificata dal legislatore o dal giudice delle leggi. Mae, stop al “principio di specialità” per chi esce dallo Stato richiedente di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2020 Corte Ue - Sentenza 24 settembre 2020 nella causa C-195/20. Il vincolo per il quale una persona che è stata estradata in base ad un mandato d’arresto europeo (Mae), non può essere sottoposta a un procedimento penale, condannata o altrimenti privata della libertà, per reati anteriori diversi da quello per cui è stata consegnata, trova un limite nell’ipotesi in cui il prevenuto lasci il paese richiedente e venga riarrestato in un altro paese membro sulla base di un nuovo Mae. In tal modo infatti si rompe la “regola della specialità” che richiede per l’esecuzione delle altre condanne il via libera del paese che per primo ha concesso l’estradizione. Lo ha stabilito la Corte Ue, con la sentenza 24 settembre 2020 nella causa C-195/20 PPU. In altri termini, per i giudici di Lussemburgo, “una misura restrittiva della libertà adottata nei confronti di una persona oggetto di un primo mandato d’arresto europeo (MAE) sulla base di fatti precedenti e diversi da quelli che hanno giustificato la sua consegna in esecuzione di un secondo MAE non è contraria al diritto dell’Unione se tale persona ha lasciato volontariamente lo Stato membro di emissione del primo MAE”. “In tale contesto - prosegue la Corte -, l’assenso deve essere dato dalle autorità dell’esecuzione dello Stato membro che ha consegnato sulla base del secondo MAE la persona sottoposta a procedimento penale”. La vicenda - Il caso era quello di un uomo sottoposto in Germania a tre procedimenti penali distinti. In primo luogo, il 6 ottobre 2011, era stato condannato da un tribunale circoscrizionale a una pena detentiva di un anno e nove mesi. L’esecuzione però era stata condizionalmente sospesa. In secondo luogo, nel 2016, era stato avviato nei suoi confronti un procedimento penale in Germania per fatti commessi in Portogallo, dove all’epoca si trovava. La procura di Hannover ha emesso un MAE e l’autorità portoghese ne ha autorizzato la consegna. Condannato a una pena detentiva di un anno e tre mesi, durante l’esecuzione, la Germania ha revocato la sospensione condizionale della pena inflitta nel 2011. La procura di Flensburg (Germania) ha allora chiesto all’autorità portoghese di rinunciare alla regola della specialità e di acconsentire all’esecuzione della pena del 2011. In mancanza di risposta, il soggetto è stato rimesso in libertà. Subito dopo la sua partenza, la Germania ha emesso un nuovo MAE nei suoi confronti ed egli è stato arrestato in Italia, dove l’autorità ha acconsentito alla consegna. Poco dopo, infine, è stato emesso un ulteriore mandato d’arresto dal Tribunale di Braunschweig (Germania) per l’istruzione di un terzo procedimento vertente su fatti commessi in Portogallo nel 2005, per il quale la procura tedesca ha altresì chiesto all’autorità italiana di dare il proprio assenso. E l’Italia ha acconsentito anche a tale domanda. Condannato anche per questi ultimi fatti a una pena detentiva complessiva di sette anni (che tiene conto della sentenza del 2011), l’imputato ha proposto ricorso alla Corte federale tedesca affermando che l’autorità dell’esecuzione portoghese non aveva mai dato il proprio assenso all’azione penale per i fatti commessi in Portogallo nel corso del 2005, per cui le autorità tedesche non avevano il diritto di sottoporlo a procedimento penale. La motivazione - Con la sentenza odierna, la Corte ha dichiarato che l’articolo 27, paragrafi 2 e 3, della decisione quadro 2002/584 dev’essere interpretato nel senso che la regola della specialità “non osta a una misura restrittiva della libertà adottata nei confronti di una persona oggetto di un primo MAE a causa di fatti diversi da quelli posti a fondamento della sua consegna in esecuzione di tale mandato e anteriori a tali fatti, qualora tale persona abbia lasciato volontariamente il territorio dello Stato membro di emissione del primo MAE e sia stata consegnata al medesimo, in esecuzione di un secondo MAE emesso successivamente a detta partenza ai fini dell’esecuzione di una pena privativa della libertà, a condizione che, in relazione al secondo MAE, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione di quest’ultimo abbia dato il proprio assenso all’estensione dell’azione penale ai fatti che hanno dato luogo alla suddetta misura restrittiva della libertà”. La regola della specialità infatti, spiegano i giudici, è strettamente connessa alla consegna risultante dall’esecuzione di uno specifico MAE, in quanto il testo della disposizione fa riferimento alla “consegna” al singolare. Mentre esigere che l’assenso arrivi sia dall’autorità giudiziaria dell’esecuzione di un primo MAE sia dall’autorità giudiziaria dell’esecuzione di un secondo MAE “nuocerebbe all’efficacia della procedura di consegna, mettendo così in pericolo l’obiettivo perseguito dalla decisione quadro 2002/584, consistente nel facilitare e nell’accelerare le consegne tra le autorità giudiziarie degli Stati membri”. Pertanto, dal momento che, nel caso di specie, la persona ha lasciato volontariamente il territorio tedesco dopo aver scontato la pena cui era stato condannato per i fatti oggetto del primo MAE, egli non è più legittimato a invocare la regola della specialità relativa a tale primo MAE. Poiché, nella fattispecie, la sola consegna rilevante per valutare il rispetto della regola della specialità è quella effettuata sulla base del secondo MAE, l’assenso richiesto dall’articolo 27, paragrafo 3, lettera g), della decisione quadro 2002/584 deve essere dato unicamente dall’autorità giudiziaria dell’esecuzione dello Stato membro che ha consegnato la persona sottoposta a procedimento penale sulla base di detto MAE. Gratuito patrocinio: beneficio revocato se la richiesta di asilo è troppo vaga sulla vulnerabilità di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2020 Corte di cassazione -Sezione VI - Ordinanza 24 settembre 2020 n. 20002. È legittima la revoca del gratuito patrocinio concesso al richiedente asilo, se il giudice ritiene che ci siano i presupposti della colpa grave nella proposizione della domanda. La Corte di cassazione, con la sentenza 20002, respinge il ricorso contro il no del Tribunale all’opposizione della revoca del beneficio, riconosciuto in un giudizio di protezione internazionale, per la manifesta infondatezza della domanda. Ad avviso della difesa una ragione non valida per due motivi: il giudice di merito non aveva preso in considerazione tutti i documenti che rendevano plausibile la possibilità di un esito positivo, in più, per la marcia indietro sul gratuito patrocinio, occorre una colpa grave e non basta la manifesta infondatezza della domanda. La Suprema corte ricorda che, con la sentenza 7785/2020, ha affermato che il rigetto dell’istanza di protezione internazionale non comporta la revoca automatica dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che prevede comunque l’accertamento del presupposto della colpa grave nel proporre l’azione “valutazione diversa e autonoma rispetto a quella afferente alla fondatezza del merito della domanda”. Un principio, chiarisce la corte di legittimità, rispettato dal giudice di merito che, nel disporre la revoca, non ha valutato solo l’infondatezza dell’azione, ma ha considerato l’estrema genericità dell’esposizione della situazione di vulnerabilità, compiuta dal ricorrente per chiedere la protezione internazionale. Oltre a questo era stata riproposta la domanda iniziale senza una critica convincente delle ragioni utilizzate dalla Commissione territoriale per bocciare l’istanza. Per i giudici un comportamento che integra la colpa grave. Calabria. “No Violence”, l’iniziativa del Centro per la Giustizia Minorile di Catanzaro di Antonio Battaglia calabria7.it, 25 settembre 2020 “No Violence” è l’iniziativa promossa dal Centro per la Giustizia Minorile di Catanzaro, in collaborazione con il Centro Calabrese di Solidarietà, per contrastare il fenomeno della violenza di genere e dei processi di stigmatizzazione ad essa legati. Il progetto, presentato questa mattina nell’Auditorium del Centro di Giustizia Minorile per la Calabria, s’inquadra nell’ambito della prevenzione della devianza, della tutela delle vittime e della violenza di genere ed è finalizzato a rendere più congrue, mirate e condivise le best practices nei Servizi della Giustizia Minorile. Il programma prevede azioni di formazione per gli operatori e laboratori di educazione al sentimento rivolti a minori e giovani adulti all’interno dei Servizi Minorili della Calabria, per poi concludersi con un report di ricerca qualitativa e quantitativa al fine di valutare l’iniziativa e trarne delle possibili linee guida circa il fenomeno. Contestualmente, è stato annunciato l’evento di presentazione e premiazione del contest fotografico “Scatti a casa”, realizzato dai giovani dell’area penale durante il periodo di lockdown, in programma il 26 settembre 2020 al Teatro Comunale di Catanzaro. “La nostra cultura ci deve aiutare” - “È un progetto che si strutturerà nel tempo, in un territorio dove la cultura patriarcale esaspera la violenza - afferma Isabella Mastropasqua, amministratrice del Ministero della Giustizia - questo progetto intende avviare una riflessione tra gli operatori. La nostra cultura ci deve aiutare a migliorare la qualità delle relazioni”. Infine, sul contesto fotografico: “Durante il lockdown abbiamo chiesto ai nostri ragazzi di fotografare il loro stato d’animo. È stato un successo: oltre 200 fotografie ricevute da tutti i ragazzi della Calabria, selezionate dai ragazzi ospiti dell’istituto Penale per Minorenni e inserite nel calendario 2021”. Lombardia. Diventare cuochi dietro le sbarre, la Regione ringrazia gli agenti Il Giornale, 25 settembre 2020 Il progetto “Cucinare al fresco” ha avviato laboratori per i detenuti di quattro carceri. Evento a Palazzo Pirelli. Dal “Mandato di cottura” di Como, al “Diario dei sapori” di Bollate, per approdare a Varese con “Assapori(amo) la libertà”, fino alle “Mani in pasta” di Opera. Sono i quattro laboratori che condividono un unico e solo progetto: “Cucinare al fresco”, ovvero una raccolta di ricette realizzate rigorosamente dietro alle sbarre. Autori dell’iniziativa quattro gruppi di reclusi che si sono messi in gioco per realizzare una pubblicazione dedicata al food. Una sperimentazione avviata tre anni fa all’interno del Carcere del Bassone di Como, entrata poi nelle carceri di Bollate, Varese e Opera e che quest’anno ha coinvolto tutti gli istituti penitenziari italiani. È stato infatti firmato a inizio anno tra il Provveditorato Regionale della Lombardia, il Direttore del Carcere di Como e l’ideatrice del progetto Arianna Augustoni, un protocollo per sviluppare l’iniziativa nel maggior numero di istituti del nostro Paese. La redazione del magazine è rimasta a Como, ma attraverso il passaparola, da tutte le carceri italiane è ora possibile inviare alla redazione comasca il proprio contributo. E nonostante l’emergenza legata al Covid-19 che in questi mesi ha coinvolto anche le carceri condizionandone fortemente l’attività, il progetto è andato avanti, tanto che a fine mese uscirà un nuovo numero della rivista e un altro è atteso per Natale. Un traguardo raggiunto con il contributo fondamentale di alcuni agenti penitenziari che hanno sostenuto fortemente l’iniziativa garantendo un supporto indispensabile durante il lockdown: è così che ieri pomeriggio a Palazzo Pirelli i poliziotti Giuseppe Aliberti, Rosario Grimaudo, Pietro Saviano, Domenico Egido, Fedele Annichiarico, Massimiliano Uri e Antino Cepparano del Bassone di Como e Roberto Cabras del carcere milanese di Bollate sono stati personalmente ringraziati per il loro impegno e la loro sensibilità dal Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi e dal capogruppo del Partito Democratico Fabio Pizzul, componente della Commissione speciale regionale sulla situazione carceraria. All’incontro sono intervenuti anche il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Pietro Buffa e il Direttore del Carcere del Bassone di Como Fabrizio Rinaldi. “Cucinare al fresco - ha sottolineato il Presidente Fermi - è un incoraggiamento a non perdere mai le speranze, un invito a guardare oltre a pensare di poter contribuire, con piccoli gesti, ad azioni che invogliano sempre e continuamente a fare qualcosa di buono: proprio come quando in cucina mettiamo mano ai fornelli, dando spazio alla creatività e all’immaginazione e confidando che altri possano così apprezzare quanto abbiamo saputo realizzare. Ma se per un buon piatto serve trovare il giusto amalgama tra i suoi ingredienti, così per la buona riuscita di ogni iniziativa occorre la massima collaborazione tra tutti i soggetti parte in causa: ecco perché il ruolo e l’aiuto di questi agenti si è rivelato importante per la buona riuscita del progetto”. Roma. Il cardinale Krajewski inaugura la Casa “Ricominciamo” per i detenuti Avvenire, 25 settembre 2020 Oggi l’apertura del centro per chi è senza una dimora e per questo non può usufruire delle misure straordinarie previste per l’emergenza Covid-19. Venerdì, alle 19, in via della Pisana 332 a Roma verrà inaugurata la Casa di accoglienza “Ricominciamo”. Si tratta di una struttura nata per aiutare le persone detenute e senza un domicilio a poter uscire dal carcere con le misure straordinarie previste per l’emergenza Covid-19. Una risposta all’esigenza di offrire un luogo di accoglienza a quei detenuti che, pur avendone diritto, non possono beneficiare delle misure alternative. Il progetto - che vede impegnati l’Associazione Volontari in Carcere - Caritas di Roma, i Cappellani di Rebibbia e l’Elemosineria Apostolica della Santa Sede - è ospitato presso un istituto delle Congregazione delle suore “Figlie di Cristo Re”. All’inaugurazione interverranno il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere apostolico, vescovo ausiliare della Diocesi di Roma incaricato della pastorale nelle carceri e del settore centro il gesuita Daniele Libanori, don Benoni Ambarus, direttore della Caritas diocesana di Roma. Attualmente la casa ospita tre persone in detenzione domiciliare, cinque in permesso premio e tre che hanno terminato la pena e stanno cercando un alloggio definitivo. Altre decine di accoglienze sono già state date e la casa è in attesa di ulteriori ospiti. Lo spirito della Casa “Ricominciamo” è racchiuso nella Parola di Dio: “Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi” (Rm. 15,7). Il nome “Ricominciamo” esprime l’idea di ripartire da uno stato di emergenza e di crisi per intraprendere un cammino nuovo nello spirito della carità. Busto Arsizio. Il teatro dei detenuti che trasforma la vita di Rossella Avella interris.it, 25 settembre 2020 Il carcere è un percorso di trasformazione e di reintegrazione nel tessuto sociale. Però se il reinserimento non comincia da dentro quali sono i rischi? Interris.it ne ha parlato con Elisa Carnelli, attrice e responsabile dell’Associazione Oblò-liberi dentro. “La prima volta che mi sono trovata in carcere era il 2008. Mi sono trovata subito davanti dei detenuti. In quel momento ho cominciato a pensare se avessero spacciato o se avessero rubato, ma soprattutto mi ripetevo, non avranno mica ucciso qualcuno? Eppure mi sono resa conto che davanti a me avevo delle persone normalissime e in nessun posto come il carcere ho potuto assaporare il potere trasformativo del teatro e così ho scommesso su questa trasformazione”. Sono le parole per Interris.it di Elisa Carnelli, attrice, regista e drammaterapeuta, membro della S.P.I.D. (Società Professionale Italiana di Drammaterapia), e responsabile dell’Associazione per il Teatro in carcere Oblò-Associazione del cercare di Busto Arsizio. “Porto la drammaterapia in carcere per lavorare sulla prevenzione, sulla cura, sulla trasformazione e sulla rieducazione. Se ci pensate noi come società civile diamo al carcere una missione trasformativa che non sempre fa centro dato i casi di recidiva, però ci proviamo”. Il significato del palco per un detenuto - “Il teatro permette a questi detenuti di avere autostima e di capire le proprie qualità. Aiuta a far cambiare l’immagine di sé. Ricordo quando durante uno spettacolo dalla platea si levò una voce di bambina - Papà, Papà – ripeteva. Quella bambina da tre anni incontrava il padre una volta a settimana nella sala degli incontri e lo sentiva telefonicamente per 10 minuti, sempre una volta a settimana. In quel momento quel papà è riuscito a dimostrare alla sua piccola di essere ancora quel supereroe che ogni papà è per la sua bambina. Questo è lo scopo dell’Associazione Oblò - Liberi dentro. Vivere il carcere come fosse una grande nave, e portare le persone da una libertà ad una più grande”. Come nasce Oblò - “Io vengo da tanti anni di tournee poi ho fatto un corso in drammoterapia, il teatro usato per la cura e la prevenzione di molte situazioni anche di disagio mi ha dato uno slancio verso il margine. All’inizio, quando sono entrata in carcere i corsi li facevo da sola. Poi dal 2016 con una collega abbiamo deciso di fondare un’associazione per avere una sorta di auto sostentamento e per darci una forma all’interno della realtà carcerari. Oblò liberi dentro nasce proprio con le cene con delitto, le cene galeotte. In scena vanno i detenuti, cucinano e recitano, ma il momento più bello è l’incontro con le persone esterne al carcere che vengono a vedere lo spettacolo partecipando alla serata a 360°”. Oblò è integrazione - “L’idea era quella di ricreare un’osmosi tra carcere e territorio. il carcere dovrebbe essere risocializzante, ma se a fine pena ti rendi conto di non riuscirti a reinserire perché in quel tempo sei stato confinato da solo in cella rischi di tornare a delinquere. Il passaggio da dentro a fuori infatti è il momento più delicato. I detenuti devono sapere di non essere soli e devono potersi integrare”. Rieducare è ridare dignità, restituire al bello - “Rieducare vuol dire riportare ad un ambito di dignità delle persone che la dignità l’hanno persa e che stanno giustamente pagando per quello che hanno fatto. Finché, però, questa dignità non viene in qualche maniera ripristinata a mio avviso non è possibile un reale cambiamento. Se per una sera la gente di me non vede il delinquente ma vede un attore bravo che sa far ridere e sa far piangere e sa trasmettere delle emozioni, può essere che anche quella persona scelga di aderire a quello che per una sera gli altri hanno visto. A quell’immagine buona che gli altri hanno visto e può essere che io scelga di cambiare e di tornare a crederci”. Catania. La formichina che aiuta i carcerati di Chiara Bonetto semprenews.it, 25 settembre 2020 Inclusione, trasformazione, legalità. Tre parole che riassumono l’impegno della Cooperativa “Ro’ la formichina” in provincia di Catania. “Sono entrato in carcere a 17 anni e ne uscirò a 33. Sarò libero, ma libero di fare cosa se nessuno mi darà una possibilità?”. Salvatore (nome di fantasia) ha 23 anni e un pensiero lo tormenta: “Quando mi hanno arrestato la terza volta avevo 17 anni. Quando uscirò, avrò 33 anni. Chi mi prenderà a lavorare? Non so fare nulla e mi vedranno solo come un ex carcerato. E poi sarò libero, ma libero di fare cosa se nessuno mi darà una possibilità?”. La provincia di Catania è al quinto posto in Italia per numero di minori e giovani adulti (fino a 25 anni) affidati al servizio di Giustizia Minorile. Dei 17 Istituti Penali Minorili italiani, 2 si trovano in questo territorio. La cooperativa sociale Ro’ la formichina nasce nel 2001 per rispondere ai bisogni educativi e occupazionali dei ragazzi disabili delle case famiglia e delle famiglie della Comunità Papa Giovanni XXIII in Sicilia. Col tempo la cooperativa si apre sempre di più all’accoglienza dei ragazzi detenuti nei 2 carceri minorili di Acireale e di Catania, offrendo loro non solo periodi di tirocinio e borse lavoro, ma soprattutto competenze lavorative e prospettive nuove. “Lavorando in falegnameria ho imparato ad avere pazienza e ho scoperto di essere capace di fare molto di più di quello che immaginavo. E mi sono chiesto: “Ma se davvero so fare tutto questo, perché devo bruciare la mia vita?” Ho scoperto che sono capace di costruire. Ora voglio costruire il mio nuovo futuro”. A parlare è A., 24 anni, che ha svolto un tirocinio mentre era detenuto in carcere. Inclusione, trasformazione, legalità. Tre parole che riassumono l’impegno di tutta la cooperativa e quindi anche del settore dedicato alla falegnameria. “Privilegiamo i lavori in cui i nostri ragazzi possono essere coinvolti”, spiega Alberto Pennisi, responsabile di questo settore. Includere i disabili coinvolgendoli nell’attività produttiva è stata la scintilla che ha messo in moto Ro’ la formichina, partita proprio col laboratorio di falegnameria. Trasformare un pezzo di legno in un mobile è già qualcosa che suscita stupore. Ancor più significativo è trasformare il legno recuperato dai barconi dei profughi in crocifissi: “Alcuni sono stati regalati ai vescovi come pastorali” spiega Alberto. Recuperare il legno dei barconi non è semplice: “Possono passano anche degli anni per ottenere un’autorizzazione, perciò abbiamo un deposito dove custodiamo “gelosamente” il legno dei barconi”. In falegnameria non si trasforma solo il legno, ma anche il destino delle persone: diversi ragazzi con un passato di devianza si rendono conto di riuscire a fare molte cose e di non aver bisogno di delinquere per sopravvivere. Ai giovani detenuti deve fare un certo effetto leggere il cartello appeso all’ingresso: “Nella nostra cooperativa non si paga il pizzo a nessuno. Dio solo è la nostra forza, a Lui solo siamo debitori”. Lavorare nella legalità, a costo di rimetterci, è una grande testimonianza in terra siciliana: “Molte volte perdiamo dei lavori perché non accettiamo il lavoro in nero - spiega Alberto - ma questa è la via giusta, altrimenti che cosa vogliamo trasmettere ai ragazzi del carcere?”. Le api e le lumache - Da qualche anno la cooperativa si è arricchita de “La casa di Alberto”, un laboratorio di apicoltura che produce 9 tipi di miele: un altro settore in cui la fatica del lavoro è ripagata dalla soddisfazione di vedere i frutti dell’impegno. “Quando lavoravo con le api avevo paura. Con il tempo, però, ho capito che quella paura mi stava aiutando: mi costringeva a stare tranquillo, a muovermi lentamente, ad essere delicato. Ora ragiono molto di più sulle cose. Se solo avessi saputo farlo anni fa, quando ho commesso quegli errori che mi hanno portato qui in carcere, la mia vita sarebbe diversa. Ma, davanti a me, ho di nuovo una scelta e questa volta non sbaglierò”. Lo dice T., 22 anni, uno dei tanti ragazzi che ha sperimentato i benefici del tirocinio nell’apicoltura. “C’è un legame “fisico” col carcere di Bicocca a Catania - dice Domenico D’Antonio, responsabile dell’apicoltura - perché dista solo pochi km da noi ed è visibile dal nostro terreno. In questi anni sono passati da noi diversi ragazzi detenuti: l’incontro con loro ci sta cambiando la vita e la cambia anche a loro! In questi anni ho visto che è possibile rigenerare una vita, anche se ci sono alle spalle dei delitti pesanti”. Per dare risposta a più ragazzi in carcere è stato attivato da poco l’elicicoltura, ossia l’allevamento di lumache a scopo gastronomico. “Allevare le lumache o le api richiede l’attenzione per la natura” spiega Marco Lovato, presidente di Ro’ la formichina. “L’elicicoltura in particolare aiuta a capire l’importanza di darsi tempo, facendo fatica portandoti anche la casa sulle spalle. C’era il desiderio di trasmettere ai ragazzi questo: Procedi con calma, anche se hai un peso sulle spalle, ma va avanti”. Il Centro Diurno - Come tante formichine operose, i ragazzi del centro diurno sono coinvolti in molteplici attività: laboratori di teatro, danza, musica, pittura, confezionamento di bomboniere, laboratori di cucina e di cucito, yoga e psicomotricità. “Non facciamo queste attività per tenerli impegnati, ma per aiutarli ad esprimersi e per valorizzarli in quello che sanno fare” spiega Laura Lubatti, responsabile del centro diurno. “Mi stupisce ogni volta vedere come riescono ad arrivare al cuore di ogni persona. Abbiamo fatto percorsi molto belli nel carcere minorile di Acireale, in quello per adulti di Giarre e uno anche nella scuola media della zona. Attraverso i laboratori teatrali, dove noi operatori abbiamo messo la tecnica, i nostri ragazzi ci hanno messo il coinvolgimento e la loro capacità di comunicazione così coinvolgente”. Un giovane carcerato confidava: “Sono abituato a far paura alla gente, ma a lui (un disabile grave, ndr) non faccio paura, quindi è inutile che io ci provi!”. Davanti ai ragazzi disabili, i detenuti, anche i più incalliti, sentono crollare tutte le loro difese e tirano fuori una tenerezza inaspettata. Una piccola breccia che può cambiare il corso di una vita intera. Ro’ e Alberto - Perché la cooperativa si chiama proprio così? Ro’ era il soprannome affettuoso di Rosario, un ragazzo accolto in casa famiglia e morto improvvisamente a soli 14 anni. I ragazzi con disabilità o devianza cercano il loro cammino di speranza in cooperativa, portando un peso che sembra superiore alle loro forze, ma proprio come le formiche, che sanno sollevare pesi 5 volte superiori a loro stesse, riescono a farcela. Invece il laboratorio “La Casa di Alberto”, che produce 9 tipi di miele biologico certificato Icea, è affettuosamente dedicato ad Alberto, un bimbo idro-anencefalo che è stato accolto come un figlio in una casa della Comunità Papa Giovanni XXIII. Campobasso. “Scritto di cuore”, nel carcere le lettere d’amore dell’Italia in lockdown quotidianomolise.com, 25 settembre 2020 Incontro nella Casa circondariale del capoluogo per l’appuntamento finale del concorso nazionale che ha coinvolto gli istituti carcerari del Paese. Ultima tappa della quarta edizione di “Scritto di cuore - l’amore e le parole per raccontarlo”, il ciclo di appuntamenti a tema promosso e organizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli e con il partenariato della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso nell’ambito di Ti racconto un libro 2020. La rassegna si chiude con un incontro nel Teatro della Casa circondariale di Campobasso durante il quale saranno proclamati i vincitori del Concorso nazionale di scrittura “Scritto di cuore”, rivolto ai detenuti degli Istituti carcerari di tutto il territorio nazionale. Come richiesto dal bando, ciascun partecipante ha inviato una lettera “scritta di cuore” che è stata valutata da due giurie. La Giuria Tecnica, composta da autorevoli scrittori come Franco Arminio, Pino Roveredo e Camilla Baresani, che ha decretato i vincitori tra le numerose proposte arrivate quest’anno, nonostante il lockdown che ha di fatto congelato gran parte delle iniziative culturali. La Giuria Giovani, composta da Salvatore Dudiez, Roberta Tanno, Elena Sulmona, Angelica Calabrese e Alessandro Tavano, che ha segnalato una lettera d’amore ritenuta più meritevole. Da sempre convinta che la lettura e la scrittura abbiano un ruolo fondamentale nella costruzione di una società giusta e attenta alle necessità sociali, l’Unione lettori italiani di Campobasso, nonostante le ben note difficoltà del momento, ha voluto coinvolgere ancora una volta gli istituti carcerari, luoghi in cui il tempo e lo spazio in cui vivere i sentimenti confluiscono marcatamente nell’interiorità del singolo. “Scritti di cuore”, nella sua fase finale e per la proclamazione dei vincitori, ha scelto di tornare proprio “dentro il Carcere” dove la scrittura diventa un importante strumento di contatto indiretto con l’esterno, veicolo fiduciario di una riflessione rispetto a sé stessi e rispetto agli “oggetti” d’amore. All’incontro di venerdì 2 ottobre, alle ore 10.30 nel teatro della Casa circondariale di Campobasso, oltre al Direttore Rosa La Ginestra saranno presenti Brunella Santoli Direttore Artistico dell’Unione Lettori Italiani e responsabile del concorso “Scritti di cuore”, Angelica Calabrese in rappresentanza della Giuria Giovani, il vicesindaco e assessore alla Cultura del Comune di Campobasso Paola Felice, l’assessore alle Politiche per il Sociale del Comune di Campobasso Luca Praitano e l’attrice Palma Spina che farà un reading di brani e poesie sul tema dell’amore. “I Cellanti” su Radio Vaticana. Carcere, lavoro, vita di Angela Rubini espressione24.it, 25 settembre 2020 Davide Dionisi e Roberta Barbi i bravi e competenti giornalisti conduttori della trasmissione “I Cellanti” su Radio Vaticana, si sono occupati nella scorsa settimana di “The smile of 3P”, “Chi ha varcato la soglia”, “Fuga di sapori” e “Officina computer” ancora quattro progetti attuati all’interno di altrettante case circondariali d’Italia. Centri dedicati e associazioni di diverso genere si occupano dei detenuti che, dopo aver pagato, come si dice, il debito con la giustizia e la società, dovranno essere reinseriti e accompagnati verso una nuova vita; a tal proposito, queste organizzazioni predispongono per loro iniziative e attività variegate che hanno però tutte lo stesso obiettivo: formare e ri-formare il detenuto alla convivenza civile e lavorativa, nel rispetto della legalità. Le iniziative presentate vanno dalla visione di video al racconto della propria vita in carcere, dalle attività di riparazione di macchine informatiche a quelle di preparazione di prodotti alimentari sfiziosi e di qualità. Nel carcere dell’Ucciardone a Palermo, il Centro Padre Nostro di Brancaccio ha proiettato “The Smile of 3P” miniserie prodotta daLa Seven Communication e diretta da Paolo Brancati che racconta la vita di Don Puglisi (le 3P stanno per Padre Pino Puglisi), esemplare figura di sacerdote che si dedicò alla pastorale giovanile con lo scopo di sottrarre i giovani alla malavita e alla mafia; per questa ragione fu ucciso il giorno del suo 56° compleanno: ricorre quest’anno il 27° anniversario della morte. Maurizio Artale, presidente del Centro, nel corso dell’intervista ha ricordato come già da diversi anni vengono allestite proiezioni e cortili di passeggio per i detenuti, Cinemissimo Paradisissimo è il titolo della manifestazione che consente ai detenuti di vivere poche ore in “libertà”; la figura di Don Puglisi, nella miniserie, è viva, vivace e maestra di vita e di dirittura morale: ognuno di noi è qui per assolvere un compito, ha un dovere da compiere e spesso, è necessario che questo compito venga portato avanti senza sosta, senza interruzioni; il suo esempio, più che la sua leggenda tende alla educazione dei carcerati; la sua costanza e la sua presenza sul territorio testimoniano la necessità, per lo Stato, di essere visibili e attivi mai silenti spettatori di ciò che vi accade. La disponibilità e l’accoglienza del Don verso i detenuti è ben leggibile in una lettera che egli scrisse ai carcerati nel Natale del 1992; non solo si dichiarava disponibile ad andarli a trovare ma offriva il suo sostegno una volta che fossero usciti dal carcere; speranza e fiducia permeavano il suo scritto. Questo messaggio è stato ripreso dal centro che prosegue sulla strada tracciata e anzi, dà la possibilità ai detenuti di scontare la pena all’interno del centro stesso, offrendo il loro lavoro per diversi importanti servizi alla comunità come ad esempio, la riqualificazione di un importante bene immobile che stava andando in malora. Se è vero che si impara quel che si vede, allora ad imparare sono in molti: i detenuti che traggono dalle loro mani, dal loro lavoro il loro riscatto; le persone che vedono i detenuti lavorare e ne apprezzano le possibilità di cambiamento; la città, e per essa gli istituti amministrativi, che recupera i suoi patrimoni dimenticati, abbandonati, degradati. Il 29 settembre la miniserie verrà proiettata anche presso la Casa Circondariale Pagliarelli Antonio Lorusso sempre a Palermo. A Riva presso Chieri, in provincia di Torino, Cascina Macondo ha messo in piedi un progetto “Chi ha varcato la soglia” che fa parte di un più grande contenitore Vite parallele, che è stato proposto perché i detenuti possano raccontare, narrare e descrivere l’esperienza della vita in carcere e come e perché ci sono finiti. In origine avrebbe dovuto essere un progetto di scrittura creativa e lettura che però, causa forza maggiore, ha subìto un adattamento causa Covid. Ma singolarmente, non sono solo quelli “di dentro” a scrivere biografie, sono anche “quelli di fuori, del mondo della disabilità o della normalità”, in uno scambio proficuo a delineare non un più o un meno ma semplici diversità, quelle di cui è composto l’intero universo. Pietro Tartamella della Cascina Macondo ha rivolto un appello anche a tutti quelli che, per diverse ragioni hanno conosciuto il carcere, a raccontare e a raccontarsi così da offrire diversi punti di vista della stessa realtà; chi ha varcato la soglia infatti, non necessariamente lo fa da detenuto: insegnati, sacerdoti, operai, professionisti, familiari e parenti…ognuno guarda e vede con propri occhi, ognuno elabora un suo pensiero tutti utili a far meglio conoscere il carcere e anche ricavarne suggerimenti per migliorare il carcere e i suoi rapporti con l’esterno. La Snam, invece di gas (che si paga caro!), ha donato oltre 8.000 computer e monitor, ormai dismessi, ai detenuti del carcere di Bollate, in provincia di Milano, per dar vita a Officina Computer. Claudio Farina della Fondazione Snam mette in luce i tre punti base del progetto che prevede la riparazione delle strumentazioni ancora efficienti, il riuso e riciclo di materiali e pezzi ancora utilizzabili ma smontati da macchine deteriorate e, infine, la possibilità di rendere disponibili i macchinari riparati - sebbene non di ultimissima generazione - per la collettività, per comunità, per lavoratori o studenti in stato di bisogno e/o in home working. L’iniziativa è stata promossa da Fondazione Snam unitamente all’Impresa sociale Fenixs e vede impegnati 160 detenuti per i quali il progetto si pone come opportunità di lavoro e anche di riqualificazione professionale. La qualità negata a scuola di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 25 settembre 2020 L’istruzione in definitiva è la capacità e dedizione, la qualità degli insegnanti, non i programmi, i laboratori, le attrezzature, l’”inclusione”. Che significa “investire nell’istruzione”? Che significa in concreto questa formula che sentiamo ripetere come un mantra da settimane, specie da quando è all’ordine del giorno la famosa “ripartenza del Paese” sollecitata dal luccicante miraggio dei forzieri di Bruxelles? Investire nell’istruzione va bene, ma in che cosa in particolare? Nel diritto allo studio? Nell’edilizia? Nel Mezzogiorno? Nella riduzione dell’abbandono scolastico? Nelle retribuzioni degli insegnanti? Nel favorire corsi e sedi d’eccellenza? Nella digitalizzazione, nel promuovere all’università un settore disciplinare piuttosto che un altro? Nessuno si cura di specificarlo: il che come si capisce è la migliore premessa per la solita distribuzione di soldi a pioggia di cui noi italiani siamo specialisti. Riempirsi la bocca di chiacchiere e concepire progetti grandiosi per poi alla fine distribuire un mare di mance che lasciano le cose come prima. Invece dovremmo preliminarmente chiederci: siamo davvero sicuri che in vista di una buona scuola (mi occupo solo di questa, non dell’università) il problema principale, quello da cui ogni altro dipende, sia quello finanziario? Non lo credo. Più soldi sono necessari, necessarissimi per mille ovvie ragioni, ma la questione decisiva è un’altra. Sono gli insegnanti. Sono infatti loro la scuola. La scuola in definitiva è la loro capacità e dedizione, la loro qualità, non i programmi, i laboratori, le attrezzature, l’”inclusione” o quant’altro. E dunque la crisi dell’istruzione scolastica dipende in larga misura dalla crisi della loro figura e del loro ruolo. In una parola dalla fine della loro centralità. Negli ultimi decenni la peculiarità della figura dell’insegnante, di chi ogni mattina entrando in classe e chiudendosi la porta alle spalle affronta la scommessa cruciale: riuscire ad avviare delle giovani menti alla conoscenza e alla vita, oppure ridursi al rango di un impiegatuccio qualsiasi, questa peculiarità è andata scomparendo. Cancellata dal dilagante burocratismo cartaceo, dall’affollarsi di compiti e mansioni le più varie collaterali all’insegnamento, ma soprattutto da una pervasiva ideologia che ha fatto della scuola una istituzione di tipo socio-assistenziale regolata da un democraticismo pseudo-benevolo che si è fatto un punto d’onore nel considerare degli inutili ferrivecchi il merito e la disciplina. Cioè proprio le due dimensioni cruciali in cui s’incardina il ruolo dell’insegnante e per riflesso anche la sua autorevolezza sociale: la possibilità grazie all’accertamento non contrattabile del primo e all’amministrazione della seconda di influire in maniera significativa sul futuro dei giovani. So bene che parole come queste suonano alle orecchie di molti come un condensato di pensiero reazionario, a un dipresso come il proposito di trasformare la scuola in un penitenziario. Ma a chi la pensa così vorrei ricordare l’esempio della Germania, uno dei Paesi più liberi e democratici d’Europa. Dove al termine dei quattro anni della scuola elementare (della scuola elementare!) un alunno non può affatto iscriversi al corso di studi che più gli piace. A raccomandare l’iscrizione a questo o a quel corso, infatti, è la scuola, e dipende dai voti che il bambino ha conseguito. Ad esempio, per potersi iscrivere al Gymnasium, l’equivalente più o meno del nostro liceo e via maestra per l’iscrizione all’Università, bisogna aver riportato nelle materie basiche almeno una votazione corrispondente al nostro 8. Si noti che in molti Länder tale “raccomandazione” della scuola è in realtà vincolante e dove non lo è, se i genitori vogliono comunque iscrivere al liceo il bambino, questo deve allora sostenere un esame o una lezione di prova. Lascio ai lettori stimare le conseguenze positive che un simile sistema produce (ne produrrà senz’altro anche di negative ma sfido chiunque a trovare un sistema perfetto che non lo faccia), a cominciare dall’ovvia diminuzione degli abbandoni scolastici a causa dell’errata valutazione da parte dei giovani della propria vocazione/capacità. Ma il punto che ora m’interessa è un altro, ed è questo: riesce qualcuno a immaginare il clima, l’insieme delle relazioni alunni-docenti, che vigono in una scuola come quella che ho appena delineato? Riesce qualcuno a raffigurarsi nei termini esatti il prestigio sociale che in un tale sistema finisce per avere l’istruzione, la figura del maestro e dell’insegnante in generale? È presumibile, certo, che anche l’entità delle retribuzioni di questi sia consistente, più consistente di quello a cui siamo abituati noi in Italia - e infatti lo è - ma da che cosa dipende ciò se non pur sempre dal prestigio di cui sopra? Si tratta di un prestigio, come si capisce, direttamente proporzionale al ruolo in buona parte decisivo che il giudizio della scuola ha, e non esita ad avere, sulla vita dei giovani, sul loro futuro, un giudizio in pratica senza appello, per rimediare al quale non esistono le dubbie scappatoie a caro prezzo tipo Cepu, “Grandi Scuole” e Università telematiche che esistono da noi. Ed è un prestigio direttamente proporzionale al profondo senso di responsabilità e dunque alla serietà con cui la scuola e chi vi lavora sentono di dover assolvere al proprio compito: senza indulgenze pelose, senza farsi scudo dietro la retorica dell’”accoglienza”, e naturalmente tenendo le famiglie rigorosamente fuori dalla porta. Certamente l’Italia non è la Germania, ma dobbiamo convincerci che la qualità dell’istruzione dipende più che da ogni altra cosa dalla centralità/qualità degli insegnanti, e che a sua volta questa finisce per dipendere direttamente dal modello di scuola che si adotta. Negli ultimi decenni noi abbiamo introdotto una serie di riforme scervellate che hanno costruito una scuola in cui per fortuna i bravi insegnanti ancora esistono ma dove quella centralità è stata di fatto spregiata e messa al bando. Restaurarla, rafforzarla, stimolarla dovrebbe essere oggi il primo compito di un ministro dell’Istruzione che non volesse rassegnarsi ad essere, dietro la cortina di generiche vuotaggini, un virtuale curatore fallimentare. “Confusi e abbandonati: i giovani vanno seguiti” di Adriana Vallisari Verona Fedele, 25 settembre 2020 Parla un educatore dopo l’assurdo assassinio di Willy Monteiro. Sul delitto di Colleferro (Roma) si è detto di tutto e di più. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso a calci e pugni da alcuni giovani poco più grandi di lui, mentre provava a sedare una lite in cui era coinvolto un amico. La morte ingiusta di un ventunenne fa arrabbiare: non potrebbe essere diversamente. Per tentare di capirla si è discusso molto di gioventù violenta, di assenza di valori, della rabbia serpeggiante nella società; ci si è concentrati sui tatuaggi e sulle arti marziali praticate dagli accusati, come a esorcizzare un male che fatichiamo a comprendere. Ma se non si va oltre la rabbia, se non si prova ad allargare lo sguardo, finiremo per indignarci oggi dimenticandoci domani quello che è successo; fino a che un altro episodio non scatenerà la nostra parte emotiva. Ce lo ricorda don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano e fondatore dell’associazione Kayrós, che da vent’anni gestisce una comunità di accoglienza per minori in difficoltà. Don Claudio, ci aiuti a decifrare quello che è successo. Innanzitutto, perché? “Aspettiamo l’esito dell’indagine per entrare nel dettaglio. Però si può dare una lettura più ampia della situazione, partendo da un fatto: oggi adolescenti e giovani sono sempre più società tra pari, in cui il modo di concepire la vita e la cittadinanza è quello di regolarsi da soli. Tendono a fare a meno delle istituzioni, estromettendo gli adulti” Come mai? “Gli adulti hanno perso credibilità. Spesso dietro alle storie difficili dei ragazzi ci sono ingiustizie o violenze subite, povertà (non solo economiche) che li ha visti protagonisti fin dalla nascita, disuguaglianze e ansia da riscatto sociale. Qualche giorno fa un ragazzo della mia comunità mi diceva che ha trovato uno sfogo nelle canzoni rap, farcite di insulti agli adulti, allo Stato e alle istituzioni che non hanno avuto risposte per lui e per il suo quartiere”. A proposito di quartieri: ha ancora senso distinguere tra centro e periferie? “Sono categorie superate. Qui in Lombardia è proprio nella Brianza cattolica che queste controversie sono più evidenti, in cui si trovano le disparità, il branco. Non ci sono più zone protette: è un fenomeno trasversale. Il problema dei ragazzi oggi è essere visti a tutti i costi: la visibilità, accentuata dai social. Il sentimento più in voga è la paura della vergogna, di essere bullizzati, che talvolta li porta a difendersi attaccando. Non accettano la fragilità. E invece bisogna educare alla fragilità, a vivere positivamente i propri limiti”. Questo ci riporta al mondo degli adulti... “I ragazzi del “Beccaria” mi ripetono spesso che l’adulto manca. Perché non è davvero adulto, è un fac-simile, una brutta copia del giovane: ci sono troppi genitori eternamente giovani, che non sanno provocare una domanda diversa nei figli, non si differenziano da loro. “Non me ne faccio niente di un altro come me”, mi confidano. E poi c’è l’adulto che rimane completamente avulso dalla loro realtà, non li ascolta. Prendiamo il fenomeno in continua evoluzione della musica trap: pochi grandi sono disposti a conoscere di che si tratta, andando oltre i pregiudizi. Ma coi giovani si riesce a entrare in contatto davvero solo se ci si immerge nei loro vissuti e si prova a comprendere cosa sentono. Se si limita a recitare il copione della buona educazione, l’adulto è insignificante”. Essere genitori ed educatori non è un’impresa facile, di questi tempi… “No, infatti. Ogni giorno incontro molti genitori disperati, anche bravi. L’attuale cultura giovanile sottrae i figli alle loro regole; ma per quanto il genitore non la condivida, deve provare a sintonizzarsi. Senza eccedere nell’ansia protettiva, che rischia di generare depressione o reazioni di ribellione. Anche la Chiesa deve provare a entrare nei vissuti dei ragazzi: dar voce ai loro dubbi e all’apparente agnosticismo, ad esempio, permette di instaurare un dialogo che attraversa i due mondi. Spesso però il nostro è un monologo e non li aiuta a crescere”. Lei ha seguito decine di cosiddetti “ragazzi cattivi”, ma sostiene che non esistano, come recita il titolo di un suo libro. Chiunque può essere recuperato? “Ho visto coi miei occhi ragazzi fare cambiamenti reali in carcere, anche se ci vogliono anni; alcuni maturano solo quando si trovano davanti all’esito nefasto delle loro condotte. Ma sì: tutti sono educabili. Certo, di fronte alla vicenda di Willy c’è molta rabbia e paura, però non dobbiamo lasciare che sia la pancia a muovere le nostre azioni. Piangiamo la fine di questo ragazzo che ha dato un messaggio bello prestando aiuto a un amico, tuttavia non dimentichiamo che ogni persona è educabile sempre, a qualunque età”. Eppure traboccano l’odio e le richieste di “fare davvero giustizia”, come se i tribunali non esistessero... “La giustizia retributiva non ha mai fatto cambiare nessuno. Le persone cambiano non per l’inasprimento delle pene, ma se sono attratte da un progetto di vita più bello e intelligente, in grado di far riemergere la bellezza della vita sociale e culturale senza logiche di predominio. Capisco che è difficile, però la violenza non può che generare altra violenza. Per come la interpreta la Costituzione, la giustizia deve andare verso la riconciliazione. C’è una brutalità del male che sta dilagando perché non ci sono cammini riconciliativi: i ragazzi non sanno cos’è il perdono. Esistono timidissimi progetti di giustizia riparativa, incapaci di far fronte a una cultura improntata alla prevaricazione e alla vendetta. Andrebbero promossi maggiormente nella scuola. Ma anche lì, se qualcuno si comporta male viene sospeso, anziché aiutato a riflettere su ciò che ha fatto e a prendere coscienza della sua responsabilità”. Il nuovo patto sui migranti è buono o no, per l’Italia? di Francesca Basso Corriere della Sera, 25 settembre 2020 Il nuovo Patto per la migrazione e l’asilo non è ancora un patto, innanzitutto, ma una base di trattativa: che sarà durissima, anche per l’Italia, per le posizioni molto (molto) contrarie di alcuni Stati dell’Ue. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha presentato nella giornata di mercoledì la proposta per una revisione del regolamento di Dublino, che attualmente regola le politiche per la gestione dei migranti che arrivano nell’Unione europea. Si tratta, ha detto la presidente della Commissione, di una proposta tesa a costruire un “nuovo inizio” nella gestione comunitaria di questo fenomeno, ormai strutturale. Il “Patto per la migrazione e l’asilo”, però, è per ora una proposta: insomma, non c’è stato, ad ora, nessun cambiamento del regolamento di Dublino (che, lo ricordiamo, stabilisce i meccanismi per la gestione delle domande di asilo e ne attribuisce la competenza al Paese di primo ingresso). Quello che la proposta del nuovo Patto ha messo in moto è una trattativa, tra gli Stati membri e il Parlamento europeo, per trovare un accordo. Il tentativo della Commissione von der Leyen è avvicinare le posizioni dei Paesi Ue che dal 2016 stanno negoziando senza risultato, perché i Paesi del gruppo di Visegrád e l’Austria sono contrari ai ricollocamenti obbligatori (no ribadito anche dopo la pubblicazione della proposta). Mentre i Paesi in prima linea come Italia, Spagna, Grecia e Malta chiedono una ridistribuzione. La commissaria Ue agli Affari interni con delega alla Migrazione, la svedese Ylva Johansson in un’intervista al Corriere ha spiegato che “nessuno dei 27 Stati membri sarà soddisfatto”, ma si tratta di una proposta “bilanciata” che dovrà essere la base negoziale. Che ne pensa l’Italia? È una proposta che soddisfa l’Italia? Il commento del Viminale è chiaro: nella proposta non c’è “quel netto superamento del sistema di Dublino da noi auspicato” però si riconoscono “elementi di discontinuità” con il passato. Tutto, come sempre, dipenderà dal negoziato. Un esempio è il Recovery Fund, espressione della solidarietà europea in campo economico, l’aiuto per i Paesi più colpiti dalla crisi scatenata dal diffondersi del coronavirus: la proposta della Commissione prevedeva 500 miliardi di trasferimenti e 250 miliardi di prestiti, il risultato finale dopo una trattativa durissima tra i leader Ue è sempre di 750 miliardi, ma con 390 miliardi di aiuti e 360 miliardi di prestiti per venire incontro alle sensibilità e alle richieste dei diversi Paesi Ue. Il primo appuntamento di discussione tra gli Stati membri sul Patto per la migrazione sarà l’8 ottobre al consiglio Affari interni, che riunisce i ministri dell’Interno dei 27 Stati membri. La presidenza di turno tedesca, che termina a dicembre, è intenzionata a imprimere un’accelerazione al negoziato, anche se non sarà facile arrivare a un accordo entro fine anno. Giovedì la presidente von der Leyen ha incontrato i primi ministri di Ungheria Viktor Orban, Repubblica Ceca Andrej Babis e Polonia Mateusz Morawiecki. Quali vantaggi e quali svantaggi ci sarebbero per l’Italia? Nel nuovo Patto per la migrazione viene esplicitato un principio importante per l’Italia. Per la prima volta l’Ue riconosce la situazione speciale dei salvataggi in mare, che in base al diritto internazionale sono obbligatori: chi viene salvato dall’Italia sbarca sul suolo europeo. Sempre secondo la proposta, il meccanismo di solidarietà scatterebbe in modo automatico: ricollocamenti volontari fino al 70% e un sistema correttivo se non vi saranno le adesioni necessarie da parte degli Stati partner, con le capitali che dovranno scegliere di partecipare attraverso i ricollocamenti o i rimpatri sponsorizzati. Inoltre è prevista una “solidarietà obbligatoria” anche nel caso in cui uno Stato si trovi “sotto pressione” per l’intensità dei flussi migratori: gli Stati Ue saranno obbligati ad aiutare i Paesi di primo ingresso che ne avranno fatto richiesta alla Commissione ma potranno scegliere il modo, o accettando il ricollocamento dei richiedenti asilo o contribuendo ai rimpatri dei migranti economici irregolari che non hanno diritto di stare nell’Ue (secondo quote calcolate su Pil e popolazione). Non viene risolto il problema principale dell’Italia rappresentato dai migranti economici che entrano illegalmente nel Paese e che sono la maggioranza degli irregolari: continueranno a restare sul nostro territorio in attesa del rimpatrio. Tuttavia la proposta prevede che in caso di “rimpatri sponsorizzati”, gli Stati avranno otto mesi di tempo passati i quali “lo Stato partner accoglierà sul suo territorio quanti restano da allontanare”. I dettagli - Sono sempre i dettagli a fare la differenza. E al momento non ci sono effettivi deterrenti nella proposta - osservano dalla Farnesina - per i Paesi che si oppongono ai ricollocamenti che restano su base volontaria. Tutto dipenderà dal negoziato. Praga si è già detta contraria ai ricollocamenti e l’Ungheria vuole che gli hotspot siano fuori dai confini Ue. È però vero che c’è lo sforzo di venire incontro ai Paesi di primo sbarco come Spagna, Italia, Grecia o Malta perché viene proposto un sistema europeo per i rimpatri e regole uniche per il diritto di asilo. Tuttavia non c’è insoddisfazione solo tra le capitali ma anche tra i gruppi del Parlamento europeo. Per i Verdi la proposta “non cambia nulla” e per la sinistra Gue non tutela abbastanza i bisognosi. Anche per il gruppo Id (Lega) non c’è alcun superamento di Dublino. Critico anche l’Ecr. Migranti. Decreti sicurezza, il Pd spinge ma Conte prende tempo di Carlo Lania Il Manifesto, 25 settembre 2020 Slitta ancora il provvedimento che dovrebbe archiviare le misure anti migranti. Zingaretti: “Se ci sono problemi tecnici risolviamoli”. Non troppo presto, in modo da impedire alla Lega di promuovere un referendum abrogativo prima del 2022. Ma neanche troppo tardi, perché si rischierebbe di finire a ridosso della legge di bilancio con conseguente accantonamento e rischio di rendere inutili mesi di lavoro. Ci sono anche questi equilibrismi numerici dietro il ritardo con cui il governo, nonostante gli annunci siano ormai quotidiani, ancora non si decide a mandare in soffitta i decreti sicurezza di Matteo Salvini. Il testo del nuovo provvedimento (che ora non ha più la parola “sicurezza” nel titolo e si chiama “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, nonché in materia di diritto penale”) è già a palazzo Chigi, pronto per essere discusso in consiglio dei ministri. Che non sarà “il prossimo”, come annunciato subito dopo le elezioni regionali dal segretario del Pd Nicola Zingaretti. Ma neanche i prossimi, a quanto si capisce, perché oltre al calendario c’è da stare attenti anche a un possibile ripensamento da parte dei 5 Stelle, da sempre i meno convinti a voler cambiare i decreti salviniani. Nonostante il nuovo provvedimento sia stato letteralmente cesellato dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese con il consenso di tutta la maggioranza, fino ad arrivare alla versione definitiva approvata ad agosto, c’è infatti sempre la possibilità che l’ala non governista del Movimento decida di far saltare il banco. Non a caso ieri il capogruppo di LeU alla Camera Federico Fornaro, che ha partecipato al lavoro di riscrittura, ieri è tornato a spingere perché ci si lasci al più presto alle spalle “la stagione dei decreti Salvini”. “Prima si chiede quella pagina, meglio è per l’Italia”, ha insistito. “Non ci sono più problemi politici, e se ci sono problemi tecnici si affrontino e poi si approvi la riforma”, ha insistito anche Zingaretti. Rispetto alle misure anti immigrazione decise da Salvini, il nuovo decreto fa dei passi i avanti importanti. Vengono cancellate le maxi multe per le navi delle ong che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali (si torna a sanzioni comprese tra i 10 mila e i 50 mila euro come stabilito anche dal Codice della navigazione, misura criticata ieri dalla ong Open Arms che sollecitava una cancellazione totale delle sanzioni) mentre l’illecito da amministrativo diventa penale. Non commettono nessun reato le navi delle ong che intervengono in soccorso di imbarcazioni in difficoltà, purché l’intervento venga effettuato “nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e soccorso in mare” (non esclusa, però, quella libica). Sarà inoltre consentito ai richiedenti asilo iscriversi all’anagrafe comunale e ricevere una carta d’identità valida tre anni (possibilità esclusa dai con il primo decreto sicurezza ma in seguito reinserita dalla Corte costituzionale) e vengono aumentare le categorie alle quali potrà essere riconosciuta la protezione umanitaria. Previsto infine un nuovo sistema di accoglienza per i richiedenti asilo, chiamato ora “Sistema di accoglienza e integrazione” e che prevede la costituzione di centri piccoli con al massimo cento persone gestiti dai Camuni, dove al richiedente asilo verranno assicurate “assistenza sanitaria, sociale e psicologica, la mediazione linguistico-culturale”, corsi di lingua italiana e assistenza legale. Tra le novità c’è anche la riduzione da 180 a 90 giorni dei tempi di detenzione nei centri per i rimpatri che però potranno diventare 120 in caso di migranti provenienti da Paesi con i quali l’Italia ha un accordo per i rimpatri. Tra gli aspetti negatici la possibilità di esaminare direttamente “alla frontiera o nelle zone di transito” la richiesta di asilo presentata da u migrante che sia stato fermato “per aver eluso o tentato di eludere i relativi controlli” oppure “proveniente da un Paese designato di origine sicura”. Prevista infine la possibilità di procedere all’arresto “per i reati commessi con violenza alle persone o alle cose durante il trattenimento in uno dei centri” di accoglienza. Abolire i decreti Salvini: ma che cosa aspettate?! di Riccardo Magi Il Riformista, 25 settembre 2020 Tra i punti l’ampliamento dei criteri di accoglienza e la modifica delle multe alle Ong. Salvini dà appuntamento al suo popolo il 3 ottobre a Catania, dove si celebra il processo contro di lui. L’abrogazione dei decreti sicurezza salviniani è urgente e in ogni caso tardiva. Basti considerare che quelle norme hanno dispiegato i loro effetti disastrosi sotto l’attuale governo per un periodo di tempo praticamente equivalente a quello trascorso sotto il governo che li aveva varati. Per l’ennesima volta, ieri è tornato a circolare il testo di un decreto “imminente” e che si troverebbe sulla scrivania del premier Conte. Non ci stupirebbe se su questo nuovo decreto si verificasse lo stesso balletto indecente a cui abbiamo assistito sulla regolarizzazione degli stranieri. Auspichiamo sinceramente che questo non avvenga. Il Pd alza la voce sui nuovi decreti immigrazione, anche perché l’interlocutore di governo sembra sordo. Nel giorno in cui la Lega prova a aiutare Salvini in casa sua, puntellando la segreteria di uomini a cui il leader dovrà delegare sovranità, anche i suoi decreti sicurezza appaiono al tramonto. I democratici devono andare in rete e lo fanno con un attacco a tre punte: il segretario Nicola Zingaretti, il responsabile sicurezza Carmelo Miceli e il viceministro dell’interno, Matteo Mauri. Il segretario pone il superamento dei decreti Salvini tra le priorità del governo con un pressing ormai quotidiano. “I decreti cosiddetti sicurezza fatti da Salvini non credo abbiano nulla a che fare con la sicurezza, io li chiamerei decreti paura. I decreti sicurezza li stiamo scrivendo noi: la maggioranza ha lavorato per molti mesi, c’è un testo molto positivo, condiviso da tutta la maggioranza, che ora deve essere approvato perché la sicurezza è un punto di identità di questo governo”. Stessa eco risuona al Viminale: “Questo è il momento giusto per approvare il decreto, è necessario farlo, tutti i gruppi di maggioranza hanno sottoscritto il testo inviato alla presidenza del consiglio”. Il viceministro dem dell’Interno, Matteo Mauri, è deciso. Incardinarlo prima, era stata la valutazione, ne avrebbe messo in forse l’approvazione, visto il rischio di decadere per una serie di decreti già all’esame del Parlamento. Ora, a maggior ragione dopo il risultato di lunedì, è arrivato il momento. Se non il primo, il secondo Cdm utile, è l’aspettativa. La stessa ministra Luciana Lamorgese ieri lo ha confermato: “Sarà esaminato in uno dei prossimi Consigli dei ministri”. È su quell’occasione che punta tutto Carmelo Miceli, che ha seguito l’intero iter dei nuovi decreti nella triplice veste di deputato siciliano, responsabile sicurezza Pd e giurista. “Modificare i decreti Salvini al primo Consiglio dei ministri utile, cominciare la battaglia parlamentare per lo ius Culture e quella al Parlamento europeo per l’introduzione della redistribuzione di tutti i migranti per quote obbligatorie. Non è più il tempo di rinviare”, taglia corto. Il punto è proprio rispetto degli accordi presi in maggioranza. Da parte dei 5 Stelle, innanzitutto. La riottosità di parte del Movimento a mettere mano ai dl Sicurezza è nota ed ora le fibrillazioni interne ai pentastellati vengono monitorate dagli alleati anche in questa ottica. Chi ha lavorato al dossier tra i dem assicura che al momento non ci sarebbero stati segnali di un cambio di passo da parte dei 5 Stelle. Insomma, l’accordo chiuso sul testo di agosto non sarebbe stato messo in discussione. “Non ci sono più problemi politici e - sottolinea Zingaretti - se ci sono problemi tecnici, si affrontino e poi si approvi” la riforma. Tra i punti del decreto la modifica delle maxi multe per le Ong (“potrebbero diventare “sanzioni penali” ma è una strada che intraprenderemo con la modifica dei decreti”, ha detto oggi Lamorgese) e l’ampliamento dei criteri di accoglienza. “È il momento del coraggio - sprona Jasmine Cristallo, portavoce delle Sardine, parlando con Il Riformista - l’investitura delle urne autorizza il Pd a prendere risolutamente la strada di una riforma attesa e archiviare la stagione dei decreti Salvini”. E rilancia. “Si approfitti per chiudere con il passato e si rimuova l’impianto della legge Bossi-Fini. La risposta frenante del M5S ne svela la matrice di destra. Si faccia chiarezza, si decida da che parte stare”. Qualche fulmine dalle parti di Palazzo Chigi, dove si è tenuto il primo vertice di maggioranza post-elettorale. Zingaretti, da quando ha assicurato di non voler entrare nell’esecutivo, ha iniziato a dettare la sua agenda al governo. Secondo fonti del Movimento, Di Maio - già alle prese con una sollevazione interna - non manderà giù il rospo. “Ci aspettiamo che, come auspicato dal governo, si arrivi a una svolta a livello europeo sulla gestione del fenomeno migratorio”, si limita a dire per i Cinque Stelle Filippo Perconti, capogruppo del Movimento nel Comitato Schengen. L’anima conservatrice dei grillini, quella più fedele al ministro degli Esteri, ha paura ad esporsi e cerca di guadagnare quel tempo che nella clessidra del governo è arrivato agli ultimi granelli. Il convitato di pietra, Matteo Salvini, dopo aver dato appuntamento al suo “popolo” a Catania in vista dell’udienza preliminare che si celebrerà il 3 ottobre, ha intanto depositato la sua memoria difensiva. L’intenzione del leader della Lega resta quella di “smontare l’accusa” che potrebbe costargli fino a quindici anni di carcere: “Non si è verificata alcuna illecita privazione della libertà personale”, ribadisce, e cita Palamara: “Avevo ragione ma dovevo essere attaccato per forza”, mette agli atti. Alla politica il compito di smentirlo, riformando quei decreti, prima che sul sequestro si pronunci la magistratura. Iran. “Nasrin rischia la vita”. La denuncia del marito: “Così Teheran la sta portando alla morte” di Simona Musco Il Dubbio, 25 settembre 2020 È stata riportata in carcere Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa iraniana per i diritti umani vincitrice del Premio Sakharov. E ciò nonostante le sue gravi condizioni di salute, a 45 giorni dall’inizio dello sciopero della fame, che hanno reso necessario, una settimana fa, il ricovero in ospedale per insufficienza cardiaca. A renderlo noto è stato il marito Reza Khandan, che ha denunciato l’impossibilità di avere contatti con la moglie, arrestata nel 2018 con l’accusa di reati contro la sicurezza nazionale e incitazione alla prostituzione, per avere difeso donne che avevano osato mostrarsi senza lo hijab e condannata in via definitiva a 33 anni di prigione e 148 frustate. Secondo la legge, dovrà scontare almeno 12 anni prima di poter ottenere la libertà condizionale. “Dopo 5 giorni di detenzione al Taleghani Security Hospital - ha scritto martedì sera Khandan suo suo profilo Facebook - Nasrin è stata riportata in prigione nelle peggiori condizioni fisiche, senza alcun trattamento medico. Questa azione non significa altro che metterlo in pericolo di morte”. Un pericolo concreto, denunciato anche da Bruno Malattia, noto per essere stato l’avvocato in Italia di Sakineh Mohammadi Ashtiani, l’iraniana condannata alla lapidazione che poi venne rilasciata dopo una forte mobilitazione internazionale. “Quello che a noi pare è che anche a livello di Unione Europea non si dedichi l’energia necessaria per risolvere il caso - ha dichiarato all’Adnkronos. Bisogna che la politica estera dell’Ue sia molto più forte e meno timida nei confronti dell’Iran. È Inaccettabile che si lasci morire una donna insignita per giunta del Premio Sakharov” per i diritti umani, ha aggiunto, precisando che insieme a una squadra di avvocati e all’ong di Pordenone “Neda Day” sta preparando un dossier sui presunti abusi di Teheran da presentare al Parlamento europeo. “Con i tweet non si risolvono i problemi”, ha dunque sottolineato, chiedendo azioni più incisive da parte delle autorità europee, a partire dall’imposizione di “sanzioni” contro Teheran. “Altrimenti - ha concluso - in situazioni come questa la posizione dell’Ue lascia il tempo che trova”. Una posizione condivisa anche da Elisabetta Zamparutti, tesoriera di “Nessuno Tocchi Caino”, che ha evidenziato il “rapporto privilegiato” e le “interlocuzioni” dell’Italia con l’Iran, che imporrebbe al nostro Paese di prima di parlare di affari, di “sollevare la questione dei diritti umani”. Secondo Zamparutti, quanto accaduto a Sotoudeh è “emblematico: parliamo di una donna, di una combattente e attivista per i diritti umani che si batte anche contro l’obbligo di indossare il velo e che sta scontando una pena disumana”. Da qui l’invito ai governi europei a chiedere una “ispezione internazionale delle carceri iraniane, dove sono rinchiuse in condizioni disumane tante persone arrestate in Iran durante le proteste antigovernative dello scorso novembre e si applica la tortura”. Ma anche l’avvocatura italiana si mobilita: l’Organismo congressuale forense, a nome di tutti gli avvocati d’Italia, ha interpellato il governo e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio chiedendo “un intervento immediato per esercitare pressioni sul Governo dell’Iran e protestare contro le notizie che giungono da quel Paese”. “Una nazione che voglia dirsi civile non può tacere davanti a tali aberrazioni che con il diritto non hanno nulla a che vedere - ha commentato Giovanni Malinconico, coordinatore dell’Ocf - non possiamo restare fermi, ignorare per convenienza economica o calcolo politico. All’Esecutivo chiediamo di intervenire in tutte le sedi possibili, a cominciare dalle Nazioni Unite. Chi ignora i fatti, è semplicemente disinformato. Chi sa e tace ugualmente, invece è complice”. Preoccupato anche il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza. “È allarmante che ci sia una situazione del genere e che nel mondo accadano queste vicende che violano la libertà. Bisogna intervenire per evitare tutto ciò. Se un avvocato non può essere libero, allora vuol dire che anche un intero Paese non lo è”, ha commentato. Oltre alla detenzione ingiusta di un gran numero di prigionieri politici, Sotoudeh ha denunciato le condizioni delle carceri iraniane durante la pandemia: molti prigionieri, infatti, hanno contratto il virus, rimanendo comunque in stato di promiscuità in prigioni sporche e affollate. Le autorità giudiziarie hanno rilasciato un gran numero di prigionieri, ma la maggior parte di coloro che si trovano in carcere per ragioni politiche è stata esclusa dal beneficio. Ad informare la famiglia di Sotoudeh delle sue condizioni di salute sono state le compagne di cella, due delle quali, le prigioniere politiche Mojgan Kavousi e Rezvaneh Khan Beigi, arriva l’appello alla magistratura affinché l’appello di Sotoudeh venga accolto. “Poiché la sua richiesta non è altro che l’attuazione della legge approvata di recente sulla riduzione delle pene, vi chiediamo di affrontare la questione, il prima possibile, per porre fine allo sciopero della fame della signora Sotoudeh”. Egitto. A Bologna una maratona artistica per Patrick Zaky Avvenire, 25 settembre 2020 Patrick Zaky, studente egiziano dell’Università di Bologna, è in carcere in Egitto dal 7 febbraio in attesa di processo. Il collettivo di artisti “Cantieri Meticci” insieme al Comune di Bologna ha organizzato una maratona sabato 26 settembre per invocarne la scarcerazione. Decine di aquiloni decorati, laboratori di lettura e di artigianato e sfilate per le vie del centro. Bologna si prepara a una vera e propria maratona artistica per supportare Patrick Zaky, lo studente egiziano iscritto all’Università di bologna Alma Mater che da molti mesi si trova in custodia cautelare nel carcere di Tora in Egitto. L’iniziativa, ideata e organizzata da Cantieri Meticci e promossa dal Comune di Bologna, avrà luogo sabato 26 settembre e intende sensibilizzare i cittadini sulla condizione dell’attivista egiziano, detenuto in attesa di processo da sette mesi e mezzo. “Il progetto artistico - si legge nel comunicato del Comune di Bologna - intende farsi espressione concreta di una battaglia civile per la liberazione di Patrick e prevede laboratori di lettura e a seguire una passeggiata teatrale da Piazza Rossini attraverso le vie del centro”. I partecipanti verranno guidati dai registi di Cantieri Meticci nella preparazione di brani di lettura tratti dal romanzo “Il bacio della donna ragno” di Manuel Puig pubblicato nel 1976. L’opera, da cui è stato tratto l’omonimo film diretto da Héctor Babenco nel 1985, è ambientata in un carcere durante la dittatura argentina e rappresenta un inno alla capacità della narrazione di farsi strumento di resistenza in contesti estremi. La senatrice Montevecchi: “Chiesto un sollecito all’Egitto” - “Siamo a sette mesi e mezzo di detenzione immotivata per il giovane Patrick, e nonostante siano scaduti i 45 giorni dall’ultima udienza di custodia cautelare, non abbiamo notizie in merito alla prossima data. Patrick ha il diritto di tornare ai suoi studi, e ancor più, ha diritto a un giusto processo”. Questa la dichiarazione della senatrice bolognese Michela Montevecchi al termine della seduta di oggi della commissione straordinaria Diritti umani in Senato. “La raccolta firme di Amnesty International - ha aggiunto - aiuta a tenere alta l’attenzione, come pure le costanti iniziative dell’Università degli Studi di Bologna. Oggi, in commissione Diritti Umani in Senato, ho chiesto di sollecitare una risposta del Presidente del Consiglio dei Diritti Umani egiziano, Moahmed Fayek. Auspichiamo dunque una risposta tempestiva e ancor più ci auguriamo di rivedere presto Patrick libero”. Hong Kong. Joshua Wong arrestato e rilasciato, ma rischia 6 anni di carcere agi.it, 25 settembre 2020 L’attivista, volto internazionale delle proteste pro-democrazia a Hong Kong, arrestato per aver partecipato ad una assemblea non organizzata. L’Ue: “Preoccupante”. L’attivista Joshua Wong, volto internazionale delle proteste pro-democrazia a Hong Kong, è stato arrestato. La notizia è comparsa in un tweet pubblicato sul suo account. Il “cinguettio” è scritto in terza persona, come se non fosse stato pubblicato dal giovane attivista. “Joshua Wong è stato arrestato quando si è presentato al commissariato di polizia, intorno alle 13:00 odierne. L’arresto è legato alla partecipazione a un’assemblea non autorizzata il 5 ottobre 2019. Gli è stato anche contestato di aver violato la draconiana legge anti-mascherine”, quella che vietava il volto coperto nel corso delle manifestazioni innescate dalla mobilitazione anti-cinese nell’ex colonia britannica. Joshua Wang è stato rilasciato poi dopo due ore di fermo nel commissariato centrale di Hong Kong. hanno riferito fonti dell’entourage dell’ex leader dell’ormai smobilitato movimento politico Demosisto. Il suo amico Nathan Law, ha rilanciato un tweet di un altro attivista, Jeffrey Ngo, che ringrazia il team di avvocati per “sapere sempre cosa fare ogni volta che accade qualcosa di improvviso. Nessuno si fa mai prendere dal panico. Ho sentito che, dopo aver dato le sue spiegazioni, verrà rilasciato a breve. E non dovrebbe trascorrere la notte in carcere”. “Non c’è niente da festeggiare per il rilascio bizzarramente rapido”, ha commentato l’attivista Joshua Wong. Non c’è nulla da festeggiare, spiega, perché dovrà tornare dinanzi ai magistrati il 30 settembre. Tra i fondatori del movimento per l’autodeterminazione della città-Stato, Joshua Wong rischia 5 anni di carcere per assemblea non autorizzata e 1 anno per aver indossato una mascherina ed essersi dunque coperto il volto: “Ma non mi scoraggio - ha aggiunto su Twitter - se penso agli altri manifestanti che stanno lottando dietro le sbarre a Hong Kong o nella Cina continentale”. Stati Uniti. È rivolta nel nome di Breonna Taylor di Roberto Zanini Il Manifesto, 25 settembre 2020 Una tragedia senza colpevoli. Louisville e altre città Usa in piazza dopo il colpo di spugna del gran giurì sulla morte della giovane infermiera. Trump applaude: “Decisione brillante”. È finita a botte, il gran giurì sull’omicidio di Breonna Taylor - due poliziotti assolti per la sua morte in un’irruzione antidroga, uno accusato per i colpi finiti nella casa accanto. Botte distribuite dopo cortei sempre più arrabbiati a Louisville, Kentucky. E a Washington, New York, Chicago, Oakland, Seattle, Los Angeles, Las Vegas, Atlanta, Philadelphia, Nashville… Vibrano per simpatia, le città americane, con poco orgoglio e molta rabbia. A Louisville il coprifuoco dalle 21 all’alba è servito solo a moltiplicare gli arresti, circa 130 al termine della notte, con due agenti feriti a colpi di pistola mentre inseguivano manifestanti in fuga. “Say her name”, dite il suo nome, hanno cantato per tutto il giorno migliaia di persone superando le barricate fatte ereggere dal sindaco democratico Fischer, prima che con il buio divampassero gli scontri e 500 soldati della Guardia nazionale venissero liberati per le strade. Guardia nazionale sguinzagliata anche a Chicago (qualcuno li odiava, i nazisti dell’Illinois). Molotov e arresti a Portland, sgomberi violenti a San Diego. Donald Trump celebra: “Decisione brillante”, il procuratore di Louisville “è una stella nascente” del Partito repubblicano, se serve l’esercito “basta chiedere”. Il ticket democratico Joe Biden-Kamala Harris non riesce a schiodarsi da una moderazione imbarazzante, “è stata una tragedia” e “la violenza non è una risposta” le sole banalità che propone. Non riesce e non vuole, spaventata di spaventare tutti quei bei voti moderati se solo ammettesse il legame che esiste tra disordine e ingiustizia. Un legame che ormai marcia in ogni città d’America. La rabbia infiamma i social media. La rabbia cieca di Colin Kaepernick, il quarterback di San Francisco che per primo mise un ginocchio a terra per i neri ammazzati (e da allora non trova una squadra): “L’istituzione suprematista bianca poliziesca va abolita”. Quella di Le Bron James: “Volevamo giustizia per Breonna, abbiamo avuto giustizia per i muri di casa dei vicini”. Justin Bieber: “Vergognati, Kentucky”. George Clooney, che in Kentucky è nato: “Breonna è stata uccisa da tre agenti bianchi”. Agenti che torneranno utili molto presto. Ieri Donald Trump ha clamorosamente evitato di impegnarsi per una transizione pacifica dopo le elezioni, vinca chi vinca. Il presidente uscente già diffonde l’idea dei brogli, dovesse impugnare il risultato di qualche grosso stato gli servirà ogni poliziotto d’America per non far esplodere il paese. Come gli servirà ogni giudice e soprattutto la Corte suprema. Fischiato ieri mentre rendeva omaggio alla salma di Ruth Ginsburg, domani Trump dovrebbe nominare la sostituta. Saranno suoi 6 giudici su 9, mai successo. Non è giustizia, è politica. Ed è stata tutta politica la scelta del gran giurì. Il procuratore capo che ha selezionato le prove per il giurì è un nero conservatore, David Cameron, eletto solo dieci mesi fa e pupillo del leader repubblicano al senato Mitch McConnell (l’uomo che ha spianato la strada a Trump per il prossimo giudice supremo), oratore all’ultima convention repubblicana. Sua facoltà era scegliere quali elementi fornire al giurì e quale reato ipotizzare. Su entrambe le questioni ha rifiutato ogni domanda, in una conferenza stampa di oltre un’ora iniziata con “gli agenti erano autorizzati a sparare”. Dopo oltre 100 giorni anche le prove sono materiale controverso, due o tre ritocchi e un omicidio diventa una tragedia senza colpevoli. Un misterioso testimone di cui si è appresa l’esistenza solo ora ha detto di aver sentito la polizia qualificarsi prima di sfondare la porta di Breonna Taylor. Fino a ieri i vicini l’avevano negato, come pure il fidanzato di Breonna. L’uomo, Kenneth Walker, che terrorizzato per l’irruzione sparò un colpo e ne ricevette indietro 32, non ha mai avuto precedenti e aveva il porto d’armi. L’ex fidanzato ricercato per spaccio, Jamarcus Glover, era stato già catturato: lo avevano trovato a mezzanotte a un altro dei cinque indirizzi di cui era stata autorizzata l’irruzione no knock, senza annunciarsi. Ma sul verbale qualcuno ha (malamente) grattato 12,00 facendolo diventare 12,40 (alle 12,45 l’irruzione da Breonna, alle 12,50 Breonna era morta). Infine, due diverse perizie - la scientifica di Louisville e Fbi - hanno studiato il proiettile che ha ucciso Breonna: per la scientifica non si può capire chi l’ha sparato, per il Fbi è stato l’agente Cosgrove. Molto opportuno, visto che quello che ha sparato alla cieca, è stato licenziato ed è l’unico incriminato (per “negligenza”) è il collega Hankison. Cina. La repressione degli uiguri non si ferma: 380 campi d’internamento nello Xinjiang Il Dubbio, 25 settembre 2020 Le strutture per la minoranza musulmana costruite negli ultimi tre anni. La Cina ha costruito o ampliato 380 campi di internamento dal 2017 nella regione autonoma nord-occidentale dello Xinjiang, dove vivono la minoranza etnica degli uiguri e altre minoranze di fede musulmana. Lo rivela uno studio condotto dall’Australian Strategic Policy Institute, secondo cui altri 14 sono in fase di costruzione e, in totale, 61 di queste strutture sono state costruite o espanse tra il luglio 2019 e il luglio 2020. Di queste ultime, circa la metà sono strutture ad alto grado di sicurezza, mentre del totale dei centri di detenzione presenti nella regione, circa settanta avrebbero ridotto le misure di sicurezza. Il numero complessivo dei centri di detenzione supera di circa cento le precedenti stime, e i ricercatori ritengono di averne identificato la gran parte presente nell’area. Le rivelazioni sono contenute in un database, lo Xinjiang Data Project, che si basa su fonti aperte, tra cui anche immagini satellitari, documenti del governo cinese, statistiche ufficiali, studi accademici e testimonianze di chi è stato rinchiuso in questi centri ed è fuggito all’estero. In particolare, precisa il rapporto, sono state molto utili le immagini riprese di notte delle aree illuminate al di fuori delle città: quelle aree spesso si sono rivelate essere centri di detenzione costruiti di recente, come emerso da immagini successive riprese di giorno negli stessi luoghi. Molti dei centri identificati dallo studio australiano sorgono nei pressi di parchi industriali o di fabbriche della regione, particolare che rafforzerebbe il collegamento delle persone internate al lavoro forzato. Inoltre, altre prove citate dai ricercatori fanno ritenere che molti detenuti in via extra- giudiziaria in questa rete di campi siano stati poi formalmente accusati e rinchiusi in strutture a più alto grado di sicurezza, o assegnati a lavori forzati. Lo Xinjiang è un osservato speciale nel panorama internazionale per i forti sospetti di violazioni dei diritti umani: vari rapporti indipendenti ma ritenuti affidabili a livello internazionale parlano di oltre un milione di persone, in gran parte uiguri e membri di altre minoranze musulmane della regione, rinchiuse in questi centri. Le notizie di abusi riguardano, oltre alle detenzioni arbitrarie e alla sorveglianza di massa, anche torture e altre pratiche, come il controllo coercitivo delle nascite. Gli Usa hanno imposto sanzioni ai funzionari ritenuti responsabili degli abusi, tra cui anche il segretario generale del Partito Comunista regionale, Chen Quangu.