Presto protocolli con associazioni islamiche per garantire diritto di culto ai detenuti askanews.it, 24 settembre 2020 Bonafede: “Sono stati già predisposti altri due Protocolli d’Intesa sia con la Confederazione islamica italiana sia con il Centro islamico culturale d’Italia tali accordi saranno sottoscritti nelle prossime settimane”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, rispondendo a una interrogazione sulla sottoscrizione di un accordo con l’Unione delle comunità islamiche d’Italia relativo all’avvio di corsi per religiosi islamici operanti nel contesto penitenziario, presentato da due deputati della Lega. “La procedura prevede - ha spiegato - che l’associazione fornisca alla direzione generale dei detenuti un elenco dei nominativi che svolgono la funzione di Iman e che gli stessi siano interessati a prestare la loro opera all’interno degli istituti di pena del territorio italiano. Per motivi di sicurezza detta lista viene successivamente inviata ai competenti uffici del Ministero dell’Interno in particolare alla direzione centrale per gli affari dei culti al fine di acquisire il nulla osta. Questa procedura - ha sottolineato - avverrà sotto il costante controllo dell’amministrazione penitenziaria la cui attenzione al fenomeno della radicalizzazione è sempre al più alto livello”. Fp-Cgil incontra Petralia (Dap) e lancia la campagna “Stare bene dentro” fpcgil.it, 24 settembre 2020 Presentate ieri le proposte per migliorare le condizioni di lavoro della Polizia penitenziaria. Stare bene dentro, al via la campagna della Fp Cgil per migliorare le condizioni di vita e di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria all’interno degli istituti penitenziari. Una campagna di proposte che la Funzione Pubblica Cgil ha presentato al nuovo capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, e al capo del personale, Massimo Parisi, “con un preciso obiettivo - spiega -: tanto le donne quanto gli uomini possano vivere un contesto lavorativo sereno e a proprio agio, in strutture adeguate”. “Tra le proposte che abbiamo presentato c’è l’adeguamento delle strutture delle carceri. E’ impensabile che ad oggi la maggior parte degli istituti penitenziari d’Italia non abbia bagni, docce, spogliatoi e armadietti differenziati per uomini e donne - commenta la Fp Cgil. Bisogna intervenire e anche con una certa urgenza.”. E prosegue, rincarando la dose: “Un altro aspetto che non può essere ignorato è l’aumento del fenomeno dei suicidi (siamo già a 6 suicidi da inizio 2020) e delle aggressioni. Una professione così delicata ha bisogno della possibilità di usufruire di un’assistenza psicologica gratuita per tutti i dipendenti. Un atto di civiltà, nulla di più”. Altro aspetto che la Fp Cgil ha voluto approfondire è quello della tutela della genitorialità. Secondo il sindacato, “mamme e papà di bambini piccoli hanno bisogno di turni e orari di lavoro flessibili, e di altre agevolazioni che gli permettano di conciliare con più facilità lavoro e vita privata”. Un altro dato che non può più essere accettato, fa sapere la Fp Cgil, è quello relativo alle progressioni di carriera. “E’ impensabile che ancora oggi venga riservato alle donne solo il 9% circa di posti per Ispettori e Sovrintendenti, ruoli che non richiedono il contatto diretto con i detenuti e per cui la questione del genere viene meno”. Infine la formazione del personale per dipendenti e dirigenti, la sensibilizzazione alle pari opportunità e il monitoraggio e contrasto alle molestie sessuali sono altri dei tanti punti che fanno parte della proposta che la Fp Cgil lancia alla politica per il benessere degli uomini e delle donne della polizia penitenziaria. “Vivere il carcere con dignità e diritti, questa crediamo sia la chiave della nostra campagna Stare bene dentro che ieri abbiamo presentato ai vertici del Dap e che già avevamo consegnato alla precedente amministrazione senza avere riscontro alcuno. Petralia e Parisi si sono dimostrati interessati al nostro punto di vista e alle nostre proposte. Ora ci aspettiamo delle risposte concrete”, conclude la Funzione Pubblica Cgil. “Mio padre in cella a 82 anni, per farlo curare sono pronta a scontare la sua condanna” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 settembre 2020 Ha 82 anni e ha due tumori con un gravissimo disturbo motorio che lo costringe a vivere sulle sedie a rotelle. Si fa i bisogni addosso, urina sangue, cade spesso con la conseguenza di procurarsi lesioni tanto da ricoverarlo per poi dimetterlo e rispedirlo al 41bis. Per i giudici però è compatibile con il regime carcerario, quello duro del carcere milanese di Opera. Ancora è in attesa di giudizio definitivo e non è in galera per un reato qualunque. Parliamo del calabrese Teodoro Crea, detto “u Toru”, considerato dagli inquirenti il boss del clan omonimo della ‘ ndrangheta. “So che essere figlia di un detenuto accusato di gravi reati non dispone a favore. Anch’io, come tante altre donne, ho l’immensa colpa di essere figlia di un padre che qualunque sia la sua colpa, qualunque sia la sua relativa condanna posso intimamente, nel silenzio della mia anima giudicare, ma non posso assolutamente e non voglio minimamente rinnegare”. Con queste le parole la figlia Marinella Crea si è rivolta a Il Dubbio per spiegare la vicenda di suo padre, tratto in arresto nel 2014 e trasferito al centro clinico del carcere di Parma. La stessa struttura carceraria ha però chiesto il trasferimento, declinando ed esentandosi da ogni responsabilità per ogni tipo di caduta e per ogni peggioramento. In sostanza l’ha ritenuto incompatibile con il carcere. Non è stato però sottoposto agli arresti domiciliari, ma trasferito presso il penitenziario milanese di Opera dove tuttora è recluso. La figlia, durante il periodo emergenziale causato dal Covid 19, ha fatto un esposto alle autorità giudiziarie denunciando il fatto che il padre risulterebbe completamente abbandonato, privo di qualunque cura e assistenza. Dai diari clinici risulta che Teodoro Crea sia caduto spesso, provocandosi lesioni alla testa e ad altre parti del corpo. Non solo. Fa i bisogni addosso, urina sangue e ha due tumori, ovvero un carcinoma maligno alla vescia e l’altro ai polmoni. I legali, fino ad oggi, hanno presentato diverse istanze per chiedere i domiciliari per gravi motivi di salute. Tutte rigettate. I vari giudici hanno più volte nominato dei periti di Ufficio. Tutti i dottori, però, hanno concluso che Crea è compatibile con la detenzione, purché assistito 24 ore su 24. Eppure, la figlia, non si spiega perché il padre anziano cade ripetutamente a terra facendosi male al punto di essere ricoverato in ospedale. Si chiede se per davvero sia monitorato tutto il giorno. Cade, fa i bisogni addosso e - sempre secondo l’esposto a firma dei famigliari - verrebbe pulito e cambiato dopo ore. Quello che chiedono tramite i legali è la salvaguardia della salute tramite gli arresti domiciliari o ospedalieri. “Non chiedo altro che poter assistere e accompagnare mio padre in questo doloroso viaggio della sofferenza”, spiega la figlia. Sa che il padre è incriminato per fatti gravi, quelli mafiosi, e per questo aggiunge: “Se anche questa è una colpa, allora chiedo che sia riconosciuta come tale. Sono disponibile a scambiare la colpa di essere figlia con condanna di mio padre, a scontare io invece sua la sua condanna”. E se neanche questo sarà possibile, la figlia dell’82enne al 41bis, conclude dicendo che sarà costretta come ultima alternativa “di iniziare lo sciopero della fame o un gesto esemplare per chiedere a chi vive la mia identica situazione di affiancarmi in questo gesto estremo d’umanità disperata”. Giustizia da trafiletto di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 settembre 2020 L’assoluzione di Venafro e le fake news sulla scarcerazione del boss Zagaria. Polemiche che non lo erano. Ci sono due notizie importanti, relative a due vicende giudiziarie, che probabilmente non leggerete mai su molti giornali. Nella migliore tradizione della gogna mediatico-giudiziaria, infatti, queste notizie sono state quasi del tutto ignorate dagli organi di informazione e relegate a piccoli trafiletti nelle pagine interne dei giornali, a dispetto del grande clamore mediatico iniziale. La prima notizia, di cui dà conto oggi sul Foglio Simone Canettieri che ha intervistato il protagonista della vicenda, è questa: martedì la Corte di Cassazione ha assolto con la formula piena “per non aver commesso il fatto” Maurizio Venafro, ex capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio, accusato di turbativa d’asta in uno dei filoni dell’inchiesta “Mafia Capitale” (che poi, come stabilito dalla stessa Cassazione, mafia non era). La vicenda era legata all’affidamento della gara d’appalto per l’assegnazione del servizio Cup della Regione Lazio nel 2014, per la quale la procura aveva ipotizzato un sistema di spartizione tra le cooperative in base all’area di riferimento politica. Assolto in primo grado, Venafro era stato condannato a un anno (pena sospesa) in Appello. La Cassazione ha ora riconosciuto nuovamente la sua piena innocenza. Di sicuro c’è che, a dispetto del fango gettato su Venafro in tutti questi anni, con tanto di riferimento infamante a “Mafia Capitale”, la notizia della sua assoluzione definitiva è passata quasi inosservata. La seconda notizia riguarda invece la ormai celebre vicenda dei “boss scarcerati per il Covid19”. Il tribunale di sorveglianza di Brescia ha infatti stabilito il ritorno in carcere di Pasquale Zagaria, condannato a venti anni con l’accusa di essere stato il “contabile” del clan dei casalesi (è fratello di Michele, boss del clan). Zagaria tornerà in carcere dopo cinque mesi trascorsi agli arresti domiciliari. A farlo uscire temporaneamente di prigione era stato il giudice di sorveglianza di Sassari, il quale aveva constatato l’impossibilità per Zagaria, malato di tumore, di curarsi in Sardegna (dove era recluso) a causa dell’indisponibilità di strutture sanitarie, tutte riconvertite per la cura del Covid-19. Al termine dei cinque mesi di arresti domiciliari, il tribunale di sorveglianza di Brescia, al quale sono stati trasmessi gli atti per competenza, ha ritenuto cessate le esigenze che portarono Zagaria ai domiciliari, disponendo così il suo rientro in carcere (in quello di Milano Opera). A cinque mesi di distanza dallo “scandalo”, tutti i mafiosi ai quali erano stati concessi temporaneamente gli arresti domiciliari hanno fatto ritorno in carcere. Messa la parola “fine” al caso, sarà forse ora possibile esaminare la vicenda con la serietà che questa richiederebbe, in questi mesi sostituita da un tripudio di forcaiolismo e pagliacciate televisive. Si potrebbe scoprire, così, ad esempio, che nessun condannato per mafia e traffico di droga è tornato in libertà. Che i detenuti posti temporaneamente agli arresti domiciliari non sono stati quasi 400, come denunciato per mesi, bensì 223, di cui solo la metà circa (121) condannati in via definitiva. Che Pasquale Zagaria terminerà comunque di espiare la sua pena nel 2022, così come altri detenuti temporaneamente scarcerati. Che il diritto alla salute, secondo la nostra Costituzione, vale anche per i detenuti, soprattutto in tempo di Covid. Che in uno Stato di diritto non è possibile modificare i contenuti di provvedimenti giudiziari, adottati in autonomia dalla magistratura, attraverso decreti legge governativi. Il giorno in cui Rossana Rossanda insegnò il garantismo alla sinistra e alla stampa di Rossana Rossanda* Il Dubbio, 24 settembre 2020 Dopo anni di udienze e di galera preventiva per gli imputati, il processo “7 aprile” crollò come un castello di carte. Rossana Rossanda accusò giornali e procura denunciando quella “prova generale” del processo mediatico-giudiziario che rovinò la vita di decine di persone innocenti. Ecco l’articolo pubblicato su il Manifesto il 9 giugno 1987. La Corte d’Appello di Roma ha demolito il castello accusatorio del 7 aprile attraverso il quale Stato, partiti e poteri si liberarono nel 1979 dell’Autonomia operaia. E mandarono un segnale minaccioso ai movimenti, inchiodati tra l’attacco delle organizzazioni armate da un lato e quello del partito comunista dall’altro. I grandi sostenitori del delirio del procuratore padovano Calogero, del primo pentito, ancorché assassino comune, Fioroni e delle leggi speciali sono stati infatti un drappello di magistrati, avvocati, giornalisti e dirigenti comunisti, con il codazzo ossequente dell’Unità e di Repubblica. Nulla di quell’ipotesi accusatoria, che si voleva storia di un decennio, dal 1969 al 1979, è rimasto in piedi. Non l’accusa di tentata insurrezione armata; la quieta voce del giudice Verrone ha detto quel che tuti sapevano, e cioè che “il fatto non sussiste”. Non la celebre “O”, l’organizzazione per eccellenza che, ora sotto una sigla ora sotto un’altra, avrebbe diretto occultamente l’eversione armata sotto la guida d’un pernicioso intellettuale, Antonio Negri, a partire da Potere operaio fino alle Br. Potere operaio non fu una banda armata: delle orientate memorie di Carlo Fioroni la Corte ha ritenuto soltanto, come già il giudice Palombarini e poi la Corte di Padova, che ci furono alcune persone che agirono illegalmente, caso per caso esaminandone i capi d’accusa. Non il sangue di Carlo Saronio. Esso non sta su nessuno degli imputati del 7 aprile, su cui fu gettato man mano che cadevano in istruttoria altre accuse: esso sta, come già disse la magistratura milanese, tutto su Fioroni e Casirati. Né c’è altro sangue: per Argelato, è rimasto a Negri un esitante concorso morale, verosimilmente destinato a cadere in Cassazione. Né Oreste Scalzone è mandante della rapina di Vedano Olona, nella quale peraltro il solo ferito fu uno dei giovanissimi attentatori, Zinga. Le altre sono violenze minori, illegalità contro le cose, che pesano con brevi pene su neanche metà degli imputati. Uscite dalla scena giudiziaria, come si doveva, le figure dei cattivi maestri, delle cattive idee, del discorso eversivo: la Corte ha giudicato sui fatti. Ha sempre giudicato bene? Forse no. Sorprendente la condanna di Mario Dalmaviva o di Augusto Finzi. Ma questi sono errori, che vogliamo credere riparabili, in un processo che nel suo insieme ha mandato a pezzi 45.000 pagine di istruttorie senza confronti e senza uno straccio di prove, e una sentenza di primo grado che, indifferente agli esiti del dibattimento, ha ripetuto servilmente il rinvio a giudizio. Tutto bene, dunque? Bene, un respiro di sollievo, quella pioggia di assoluzioni, di prescrizioni, il normale uso delle attenuanti, il senso della distanza, di equilibrio, di buon senso che ha impegnato la Corte. Pesante - non piangevano soltanto di felicità gli imputati assolti dopo anni di galera - la constatazione che dunque per quasi un decennio della vita di sessanta persone sono pesate accuse enormi e infamanti, e che alcune di esse hanno inutilmente scontato fino a cinque anni di carcere. La magistratura s’è prestata a punire una estrema sinistra scomoda, con una grevità che ricorda i tribunali fascisti. Un uomo come Luciano Ferrari Bravo, ieri assolto, fu condannato in primo grado a 14 anni e 5 ne aveva già fatti in carcere. Chi glieli restituirà? e i quasi dieci anni di sospensione dall’insegnamento? E agli altri, molti, nelle sue stesse o simili condizioni? Chi cancellerà la mostrificazione di Negri, tale che non fu mai costruita su nessun killer, né politico né comune? Forse l’Espresso, che regalò ai lettori la voce del telefonista delle Br a Eleonora Moro, perché fosse riconosciuta come la sua? Repubblica che ne titolò festosamente l’arresto come capo delle Br a piena pagina? Questa non è stata soltanto una pagina scandalosa della giustizia italiana, come rilevava da tempo Amnesty International. È stata una storia di silenzi, codardie e coperture. L’onorevole Spadolini favorì l’espatrio illegale di Carlo Fioroni e il Parlamento rifiutò di aprire un’inchiesta. Come oggi giace l’inchiesta sulla protezione a lui, latitante di stato, offerta da Andreotti per il Ministero degli esteri. Istituzioni e stampa hanno contribuito indecentemente a un’operazione politica bassa, la più bassa della magistratura della repubblica. Tanto che il manifesto, il GR1, più tardi ma con ostinazione Radio radicale, sono sembrati fastidiosi e di parte, per aver detto, ripetuto, gridato: qui si commette un’ingiustizia che sporca la scena politica, distrugge la memoria, massacra tutto un passato assieme alle vite presenti. Il gusto della libera stampa, la tradizione di voler la verità, la giustizia. Le prove sono di pochi, e i pochi sembrano dei fissati. Abbiamo contato sulla punta delle dita giuristi e intellettuali disposti a spendere impegno e riflessione, a trovare abominevole che un’idea politica che si poteva non condividere affatto fosse consegnata non alla lotta politica, ma a un trucco giudiziario. Qualcuno ci ha detto ieri: è anche una vostra vittoria. Magra vittoria vedere restituita, a otto anni di distanza, una più presentabile immagine della giustizia. Perché la pena era già stata inflitta, è stata scontata prima del processo, una vendetta è stata eseguita. Quella di ieri è una tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile. *Articolo pubblicato su il Manifesto il 9 giugno 1987 “L’autopromozione non è un illecito”. Amnistia per tutti i magistrati di Paolo Comi Il Riformista, 24 settembre 2020 Il procuratore generale della Corte di Cassazione proclama in una nota l’amnistia per i magistrati finiti nelle chat per aver brigato con l’ex leader dell’Anm. “L’autopromozione non è un illecito”. Se lo fa un comune cittadino, però, finisce in galera. C’è una circolare della Procura generale della Corte di Cassazione - dunque una solennissima circolare - che stabilisce che per un magistrato chiedere una raccomandazione a Palamara non è reato. Non è neanche illecito disciplinare. È semplice “autopromozione”. Si chiama così. Se ho capito bene “autopromozione”, per i magistrati, equivale a quello che per i politici viene definito “traffico di influenze” (dai 1 anno a 4 anni e mezzo di prigione) o addirittura corruzione (dai 4 ai 10 anni). L’autopromozione però non è a doppio senso: non è reato per chi dovesse chiedere e ottenere un favore da Palamara (e diventare Procuratore o Aggiunto o presidente di tribunale), è reato invece per Palamara che riceve e accoglie o respinge l’autopromozione. Come conseguenza di questa circolare, il processo a Palamara dovrà svolgersi - come si sta svolgendo - evitando le indagini, dal momento che i reati e gli illeciti non esistono, o comunque sono cancellati dall’Amnistia-Salvi. Il processo deve limitarsi a proclamare la condanna di Palamara e il suo allontanamento dalla magistratura. In Italia, nel passato - prima che fosse approvata la riforma costituzionale del 1993 che praticamente le ha impedite - ci sono state molte amnistie. In genere però erano provvedimenti di clemenza erga omnes, come si dice in latino, cioè che riguardavano tutti gli imputati, non solo una categoria. L’unica amnistia “parziale” che si ricordi è quella molto famosa del 1946, scritta e curata dal ministero della Giustizia dell’epoca che si chiamava Palmiro Togliatti ed era il capo del Pci: amnistiò i fascisti. Fu un gesto clamoroso e servì a ricostruire un clima di riconciliazione, dopo la guerra civile. I fascisti però, prima di essere amnistiati, furono sconfitti (alcuni di loro anche fucilati). I magistrati invece ottengono una amnistia da eterni vincitori. Chi è stato sconfitto sono i cittadini: gli imputati. Quando si dice “amnistia tombale” si intende questa cosa qui: nella tomba ci finiscono gli imputati. È arrivata “l’amnistia”. Solo, però, per i magistrati che chattavano con Luca Palamara alla ricerca di una nomina o di un incarico. Ne dà notizia il sito toghe.blogspot.com, la piattaforma creata dai magistrati “non correntizzati”, che ha pubblicato i passaggi salienti delle linee guida redatte dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi per la verifica di eventuali profili disciplinari a carico dei colleghi “chattatori”. Le toghe che hanno intasato di messaggi il telefonino dell’ex presidente dell’Anm da questa settimana, dunque, possono dormire sonni tranquilli. Tutti perdonati ad iniziare, per esempio, dal pm Marco Mescolini che per perorare la sua nomina a procuratore di Reggio Emilia chiamava Palamara “il re di Roma”. La scriminante è rappresentata dall’attività di “self marketing”, cioè l’autosponsorizzazione del magistrato con i consiglieri del Csm. “L’attività di autopromozione - scrive Salvi - effettuata direttamente dall’aspirante, anche se petulante, ma senza la denigrazione dei concorrenti o la prospettazione di vantaggi elettorali, non può essere considerata in violazione di precetti disciplinari”. Il motivo, sempre secondo Salvi, sarebbe dovuto al fatto che l’attività di self marketing “non essendo ‘gravemente scorretta’ nei confronti di altri è in sé inidonea a condizionare l’esercizio delle prerogative consiliari”. Nessuna punizione, neppure un “buffetto”, per il magistrato “petulante” a caccia di raccomandazioni. Anzi, un bel colpo di spugna sulla montagna di chat che hanno creato in questi mesi più di un imbarazzo. Dal momento che la Procura generale è l’ufficio che condivide col ministro della Giustizia l’iniziativa disciplinare, vale a dire l’esercizio dell’accusa, sarebbe da accogliere con favore “l’anelito garantista”, commentano le toghe sul blog, stigmatizzando il fatto che Salvi abbia voluto lanciare un “salvagente” a tutti i magistrati chattatori che per perorare i propri meriti si erano rivolti direttamente al consigliere amico, piuttosto che affidarsi solo al proprio cv. Vale la pena ricordare che i comuni cittadini quando vengono sorpresi a brigare con l’assessore o col direttore di turno finiscono direttamente al gabbio. Secondo “l’indulgente” procuratore generale, il self marketing rientrerebbe nel bagaglio professionale di ogni magistrato aspirante ad un incarico direttivo: se lo fa il collega allora anche il competitore è legittimato a farlo, anzi deve. Il richiamo al “vantaggio elettorale” sarebbe improprio in quanto il consigliere destinatario delle pressioni non è rieleggibile. “Quel vincolo elettorale, semmai, proviene dal passato e l’auto-promozione del petulante è legittimata da un patto precedentemente sancito, espressione di un sistema che, v’è da credere, ne esce incredibilmente rafforzato”, puntualizzano sul blog. “È una scorrettezza gravissima aggiungono - specialmente se riferita ad un magistrato. Ed è anche violazione di specifiche regole di condotta implicite nella regolamentazione dei concorsi”. Quale sarà, allora, il destino dei magistrati “che conformemente alla disciplina si limitano a presentare la domanda e si astengono dal sollecitare rapporti diretti ed amicali con la commissione esaminatrice?”. Se i petulanti magistrati devono essere assolti, perché allora condannare Palamara che raccoglieva le premure? La domanda è d’obbligo dopo aver letto la nota di Salvi. Ed a proposito di Palamara, ieri sono stati sentiti al Csm i finanzieri, ad iniziare dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, ex comandante del Gico di Roma, che hanno condotto le indagini nei suoi confronti. Abbiamo eseguito gli ordini, hanno detto in coro, prendendo le “distanze” dai pm Gemma Miliani e Mario Formisano titolari del fascicolo. Furono i pm a voler inserire il trojan nel telefono di Palamara, hanno ricordato. “Palamara era il referente di tantissimi magistrati da Palermo a Milano in tema di nomine”, ha detto in particolare Mastrodomenico, sottolineando che ai pm umbri vennero inviate, senza fare alcuna selezione, tutte le conversazioni intercettate fra l’ex presidente dell’Anm ed i colleghi. “Erano conversazioni che non c’entravano nulla con il capo d’imputazione a carico di Palamara”, ha aggiunto il colonnello. Ma i pm le vollero ascoltare lo stesso. La vera riforma che serve al Csm: l’obbligo di eleggere donne di Paola Di Nicola Travaglini* Il Domani, 24 settembre 2020 Il problema della rappresentanza in magistratura non riguarda i sistemi elettorali o le correnti degenerate, è una questione culturale e di democrazia Alle donne è stato vietato l’accesso alla magistratura fino al 1963, oggi sono il 53,8 per cento del corpo giudiziario ma solo il 20 per cento nel Consiglio superiore della magistratura, l’organo che decide sulla vita professionale dei magistrati e sulle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari. Nei decenni di funzionamento del Csm, le donne sono state il 5 per cento degli eletti. Eppure non è stato questo a indurre il governo a proporre la modifica della legge elettorale del Csm: è servito un drammatico scandalo, che ha coinvolto come manovratori delle nomine solo uomini, a far vacillare la credibilità della magistratura e a porre il tema della qualità della rappresentanza. Obiettivo della riforma: scardinare il sistema degenerato per la scelta di alcuni procuratori e presidenti di tribunali, fondato non sul merito, ma sull’appartenenza degli interessati a gruppi associati, le correnti. Premesso che è la stessa magistratura a sentirsi profondamente ferita da alcune nomine decise con logiche spartitorie e a richiedere a gran voce una nuova legge elettorale che assicuri eletti liberi da rapporti con centri di potere, la proposta di riforma elettorale non ha centrato lo scopo perché ha dimenticato le donne. Le valutazioni “politiche” fino ad ora svolte ruotano attorno a quorum, collegi, territori e sorteggio, ma non colgono che solo una riforma che preveda il 50 per cento di donne elette al Csm inciderebbe su un sistema ormai avvitato su sé stesso. La riforma prevede che il collegio unico nazionale sia sostituito da 17 collegi e che vinca il più votato con il 65 per cento, altrimenti c’è il doppio turno; se ci sono meno di dieci candidati, si integrano le liste con magistrati sorteggiati; si possono esprimere fino a 4 preferenze ma di genere diverso. Ma questo, anziché rompere il sistema attuale, rafforza il peso delle correnti più organizzate, che potrebbero far convergere la preferenza solo su chi intendono eleggere. Inoltre favorisce i corporativismi territoriali, creando un legame fiduciario e persino clientelare tra l’eletto e il collegio. Due gruppi associati, radicati in tutta Italia, potrebbero accordarsi a monte in quale circoscrizione far vincere l’uno o l’altro, annientando qualsiasi minoranza e assegnando tutti i collegi uninominali a candidati anche di un solo genere: maschile. Non è un caso che proprio le correnti della magistratura non vogliano quote obbligatorie e paritarie di elette: è la paura di alcuni uomini, in fila da anni, di perdere il posto che rivendicano come dovuto e il timore di non operare più con il sistema della loro personale cooptazione, fondata su relazioni fatte di cene ed eventi che sono terreno di caccia per il solo genere maschile, più dotato di tempo libero da obblighi familiari. Il potere, anche quando mal gestito, non cambia sesso nemmeno nei momenti di crisi, come è di certo quello attuale. Il fortino viene presidiato a qualsiasi costo. Così le donne vanno escluse, perché riempirebbero spazi degli uomini e per gli uomini. Come si può immaginare che questi cedano potere pubblico a favore di colleghe che fanno salti mortali tra sentenze da depositare nei termini, indagini accurate non esaltate dalle cronache, allattamenti di bimbi e accadimento dei genitori anziani? Si tratta di salti mortali relegati a questione privata, sebbene siano la questione più pubblica che ci sia la causa dell’invisibilità di oltre metà della magistratura Solo gli uomini vengono eletti - Il problema è culturale: chi appare, chi ambisce e chi viene eletto è sempre un uomo. Non necessariamente perché più bravo, ma perché il mondo se lo è ritagliato a sua esclusiva misura. Secondo l’Istat, infatti, ancora oggi sono le donne di qualsiasi lasse sociale a caricarsi di oltre il 70 per cento delle incombenze familiari. E la soluzione non è di prendere la baby sitter o la badante: a pesare è il carico mentale di decidere a che ora arriva, quando stacca, come sceglierla, a chi telefona per risolvere i problemi. Tornando al Csm, il progetto di riforma si limita ad inserire le donne nelle liste elettorali e questo è inutile. Le donne non verranno elette e resteranno la foglia di fico di chi le candida, per dimostrare che le poche donne in lista non ce l’hanno fatta per loro inadeguatezza e non per assenza di tempo e di reti quotidianamente tessute. La modesta presenza femminile nel Csm, infatti, si fonda su un dato di fatto millenario: nella divisione sessuale del lavoro, sui cui è strutturato l’assetto sociale, le donne svolgono un’onerosa attività non retribuita e non riconosciuta di cura dei figli prima e dei genitori anziani dopo, per decenni della loro vita. Ecco la ragione per la quale meno donne si candidano e, se elette, sono poche e anziane. Per questo, la soluzione è quella di imporre una paritaria presenza femminile tra gli eletti: da un lato scardinerebbe la struttura atavica di contesti familiari e lavorativi liberando la capacità delle donne; dall’altro sottrarrebbe agli uomini gli spazi, sino ad oggi esclusivi, per intessere le relazioni di potere che li conducono ai vertici. Se avessimo al Csm tante magistrate, con figli piccoli o anziani da accudire, che facessero valere la loro condizione, si avvierebbe il cambiamento delle stesse istituzioni nella gestione di orari e ritmi di lavoro, nella scelta di diversi criteri di selezione dei capi degli uffici, nella valorizzazione della risposta giudiziaria ai cittadini, nell’incentivo alle assenze di paternità. A cascata, questo imporrebbe ai mariti di quelle stesse magistrate di dividere equamente il lavoro di cura, così trasformando la società dal basso. Sino ad oggi, invece, nessuno si è preoccupato di ripensare un’istituzione che si sta femminilizzando, come dimostrano í numeri. La ragione è che, per gli uomini eletti, questa trasformazione non è importante, perché non ha il loro corpo. Spesso l’argomento contrario alle quote di genere è quello che non tutti sono portati a svolgere ruoli di rappresentanza. Capovolgiamo l’argomento con una domanda: in virtù di quale talento particolare, mostrato nel concreto, gli uomini che rappresentano la quasi totalità degli eletti sarebbero più dotati? Il loro vantaggio dipende solo da un gioco con regole truccate: se la donna ha un peso di 100 chili ai piedi (l’attività di cura) non può competere alla pari nella corsa con chi è libero e si allena tutti i giorni. O alla donna si toglie il peso, oppure le si danno 200 metri di vantaggio. Per questo è auspicabile che il parlamento preveda quote obbligatorie di risultato delle donne nel Csm nella misura del 50 per cento. Le donne non sono migliori o peggiori, ma esistono e, come scrivono Tim Besley, Olle Folke, Torsten Persson e Johanna Rickne in uno studio pubblicato dalla London School of Economics, la presenza paritaria “migliora la competenza della classe dirigente nel suo complesso”. *Magistrato Processo civile più veloce? Sì, se diamo più forza agli arbitrati di Roberto Oliva Il Dubbio, 24 settembre 2020 Come noto, una condizione per l’accesso alle risorse del c. d. Recovery Fund è rappresentata dalla presentazione di un “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, che deve essere coerente con le raccomandazioni specifiche rivolte a ciascuno Stato membro dalla Commissione europea. Come altrettanto noto, il Governo italiano ha recentemente reso disponibile un documento preliminare, denominato “Linee guida per la definizione del piano nazionale di ripresa e resilienza”. Un documento snello, che consta di una quarantina di pagine, due delle quali dedicate alla giustizia. Non sarà sfuggito che, proprio con riferimento alla giustizia, particolarmente vaghe sono le indicazioni contenute in queste linee guida: si enuncia l’obiettivo di ridurre la durata dei processi, si annunciano riforme della giustizia civile, penale e tributaria, si indica il tema della necessità di interventi di natura strutturale sull’organizzazione dell’amministrazione della giustizia. Null’altro. A seguito della pubblicazione di queste linee guida, l’Unione Nazionale delle Camere Civili ha diffuso una proposta di piano straordinario per la giustizia civile. Una iniziativa meritoria, poiché avvia un dibattito su possibili misure concrete. Con riferimento al tema dell’arbitrato nel nostro Paese, sono due le proposte formulate dall’Unione Nazionale delle Camere Civili. La prima proposta è quella di “rendere obbligatorio, in alcune materie e se del caso con limiti di valore, il ricorso all’arbitrato (eventualmente nella forma dell’arbitro unico) a tariffe calmierate, (…) prevedendo (al fine di scongiurare possibili violazioni dell’art. 102 Cost.) che il relativo lodo sia destinato ad acquisire efficacia esecutiva, ma non l’idoneità del giudicato (così come oggi accade per i procedimenti di cui all’art. 700 c. p. c.)”. La seconda proposta è invece quella di “prevedere che gli arbitri, quanto meno in alcune materie, possano emettere provvedimenti cautelari e/ o di urgenza”. La finalità di entrambe queste proposte, quanto meno a un primo esame, è quella di impiegare l’arbitrato quale strumento deflattivo del contenzioso civile ordinario. Non è qui in questione se tale finalità renda giustizia delle potenzialità dello strumento arbitrale. Occorre però interrogarsi se le proposte siano funzionali a quella che pare la loro finalità. Innanzi tutto, l’arbitrato obbligatorio. Nel nostro ordinamento tale tipo di arbitrato non è ammesso. È risalente sul punto e difficilmente potrà essere mutato l’insegnamento della Corte costituzionale. La ragione è semplice: l’arbitrato è un meccanismo di risoluzione sulle controversie per sua natura fondato sul consenso. E questo consenso non può essere sostituito da una disposizione di legge. La proposta in commento vorrebbe superare questo scoglio trasformando il lodo reso in sede di arbitrato obbligatorio in un lodo, per così dire, anticipatorio: un provvedimento idoneo a fondare l’esecuzione forzata, ma non a passare in giudicato. Non è ben chiaro come questo meccanismo possa concretamente operare, quel che però ben si comprende è che, se il lodo anticipa la sentenza del Giudice statuale e non si sostituisce ad essa, l’efficacia della misura non è facilmente prevedibile e potrebbe pure essere nulla (come sostanzialmente nulla è stata l’efficacia del c.d. arbitrato deflattivo, introdotto per decreto dall’allora Governo Renzi). Ben altro respiro ha la seconda proposta formulata dall’Unione Nazionale delle Camere Civili: quella di - finalmente - attribuire poteri cautelari agli arbitri, anche dove già non li abbiano (in materia societaria) o non abbiano trovato un meccanismo per esercitarli, se non nella forma, almeno nella sostanza (il riferimento corre alle previsioni di alcuni recenti regolamenti arbitrali, di cui però non si conoscono allo stato applicazioni pratiche). Si tratta di una riforma da tempo e da più parti invocata, per uniformare il nostro diritto dell’arbitrato a quello di altri ordinamenti che si riconoscono nella stessa prospettiva di civiltà, e abbandonare così il ristretto club di quei sistemi che riservano il potere cautelare al Giudice statuale. Manca però una terza proposta, che dovrebbe essere la principale proposta. Una proposta volta a incentivare l’impiego dello strumento arbitrale. Sono principalmente due gli aspetti che limitano fortemente la diffusione dell’arbitrato in Italia. Un primo aspetto, acutamente analizzato in un recente studio condotto dall’Università di Leicester, è quello della mancanza di fiducia, in Italia, nello strumento arbitrale. Si tratta di un tema di rilevante importanza, che per essere risolto richiede una seria riflessione da parte degli operatori del diritto e della classe forense in particolare. Il secondo aspetto riguarda invece i costi del procedimento arbitrale. Il costo del Giudice statuale è quasi esclusivamente a carico della fiscalità generale; il costo del Tribunale arbitrale è a carico delle parti. Ecco che allora su questi costi si potrebbe incidere. Innanzi tutto, esentando dall’imposta di bollo tutti gli atti del procedimento arbitrale (ora invece tassati nella misura di Euro 16 ogni quattro cartelle). In secondo luogo, esentando dall’imposta di registro il lodo (che ora è soggetto all’imposta nella stessa misura delle sentenze del Giudice statuale). Infine, se si desidera impiegare l’arbitrato come strumento deflattivo del contenzioso avanti il Giudice statuale, a vantaggio della collettività, ossia se si considera l’arbitrato come esternalità positiva, è necessario incentivare una simile esternalità. E farlo con un incentivo che sia economicamente apprezzabile, quale potrebbe ad esempio essere un credito d’imposta in favore delle parti, commisurato ai costi da queste sostenuti per il funzionamento del Tribunale arbitrale. *Avvocato del Foro di Milano Omessi contributi, rileva l’assoluzione definitiva per le ritenute non versate di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 23 settembre 2020 n. 26519. Annullata con rinvio dalla Cassazione la sentenza di merito che condanna per omissione contributiva l’imprenditore, già assolto con pronuncia definitiva per il mancato versamento di ritenute d’imposta in relazione allo stesso periodo, senza offrire alcuna motivazione sul punto pur ampiamente dibattuto su input della difesa. La Cassazione, con la sentenza n. 26519 depositata ieri, ha perciò annullato con rinvio la decisione dei giudici di appello che avevano escluso l’applicazione della scriminante per assenza dell’elemento soggettivo del reato ex articolo 2 del Dl 463/1983. Il ricorso - Il ricorrente ottiene ragione dalla Cassazione, che non cancella tout court la condanna, ma obbliga il giudice a motivare in maniera “rafforzata” la decisione in relazione all’affermata irrilevanza della sentenza passata in giudicato che aveva escluso la punibilità per il reato tributario ex articolo10 bis del Dlgs 74/2000 commesso in concomitanza al reato previdenziale, cioè nell’ambito della medesima crisi di liquidità societaria, che aveva determinato il fallimento e il pignoramento dell’abitazione dell’imprenditore. La lacuna della sentenza - Nel primo processo di merito conclusosi con la formula “il fatto non costituisce reato”, al ricorrente erano stati riconosciuti: - la non imputabilità dello stato di crisi dell’azienda; - l’impossibilità di fronteggiarla con misure idonee. In quella sede era stato, inoltre, ampiamente appurato l’impegno profuso dall’imputato al fine di risolvere la crisi debitoria determinata dalla perdita di commesse e appalti totalmente core business per l’azienda poi fallita. La decisione favorevole all’imputato aveva certo rilevanza, soprattutto perché oggetto di ampio dibattito tra difesa e accusa nella causa in corso per l’omissione contributiva, in quanto dal medesimo stato di crisi si erano determinati i mancati pagamenti in denaro tanto al Fisco quanto all’ente previdenziale. I giudici di merito dovranno ora non solo sostenere le ragioni che propendono per la condanna dell’imprenditore ma anche compiutamente confutare quelle della sentenza definitiva che ha escluso l’elemento soggettivo nell’omissione di pagare. Napoli. Giancarlo Siani, 35 anni dopo l’omicidio del giornalista il ricordo di Mattarella globalist.it, 24 settembre 2020 “Fu ucciso per la sua onestà”. Siani fu ucciso il 23 settembre del 1985 dalla Camorra per le sue inchieste sulla criminalità organizzata. Aveva solo 26 anni. Trentacinque anni fa veniva assassinato Giancarlo Siani, cronista de Il Mattino di Napoli, ucciso dalla Camorra per le sue inchieste sulle attività criminali dei clan e sui loro conflitti interni. Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, lo ricorda con queste parole: “Siani fu ucciso proprio per il lavoro svolto, per l’onestà e l’intelligenza con cui onorava il diritto alla libera informazione, raccontando i delitti della malavita e le trame di chi ne tirava le fila”. “Giancarlo aveva buone fonti e molto coraggio - racconta la fondazione Ossigeno sui giornalisti minacciati - Aveva raccontato che una “soffiata” del clan Nuvoletta ai carabinieri aveva favorito l’arresto del boss rivale Valentino Gionta. Quell’articolo, pubblicato il 10 giugno del 1985, segnò la sua condanna a morte. Il 23 settembre successivo, Giancarlo fu ucciso sotto casa sua. Ci sono voluti 12 anni per venire a capo delle cause che avevano spinto le mani della criminalità organizzata a togliere la vita a Siani. Alla verità si è giunti grazie alle indagini condotte dal giovane Procuratore della Repubblica Armando D’Alterio insieme con la squadra mobile di Napoli”. E da oggi, Giancarlo Siani è riconosciuto come giornalista professionista: l’Ordine ha consegnato il titolo alla famiglia nel corso di una cerimonia alla quale ha preso parte anche il Presidente della Camera Roberto Fico: “Giancarlo Siani rappresenta una figura importantissima per Napoli, un giornalista di 26 anni, ucciso in quel modo - ha detto Fico - per fare il suo lavoro, è un esempio positivo, che ricorda anche quanto la nostra città e la nostra regione siano feroci”. Napoli. “Io, procuratore a Fortapàsc nel nome del cronista ucciso” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 24 settembre 2020 Tra le prime cose che ha fatto, quando a giugno ha preso possesso del suo ufficio di procuratore di Torre Annunziata, è stata di visitare i quartieri più popolari di Torre Annunziata e di Castellammare di Stabia. Nunzio Fragliasso, nuovo capo dei pm oplontini, ha voluto visitare e in un certo modo rendere omaggio ai “luoghi di Giancarlo Siani”, dando al suo mandato di procuratore di Torre Annunziata una connotazione precisa: “Quella di lavorare nel solco e nella eredità lasciata dal giovane cronista ucciso dalla camorra, un mio coetaneo, colpito a morte quando ero all’inizio della mia carriera in magistratura. Una vicenda che ha rafforzato la mia determinazione a lavorare sodo, dodici ore al giorno, sempre alla ricerca della verità e della legalità. Stavo svolgendo il tirocinio quando fui raggiunto dalla notizia dell’omicidio, oggi posso confermare di lavorare perché la sua testimonianza non vada dispersa, ma possa rappresentare un bagaglio di esperienza anche per le nuove generazioni”. Reduce da un’iniziativa finalizzata a restituire alla cittadinanza villa Tamarisco, confiscata all’omonimo boss vesuviano, il procuratore Fragliasso ricorda con il Mattino l’attualità del lavoro giornalistico di Giancarlo Siani, con lo sguardo a quel ragazzo stroncato dai killer nel fiore degli anni, ma anche in vista del lavoro da compiere nei prossimi anni. Procuratore Fragliasso, nei suoi articoli Siani indicava equilibri criminali che riguardavano non solo Torre Annunziata, ma il Napoletano e il Casertano, a che punto è la lotta al malaffare nel territorio di sua competenza? “Partiamo dalle notizie delle ultime ore: una bomba esplosa a Trecase e una sparatoria a Pompei qualche giorno fa, una stesa (o scorreria armata) appena due sere fa all’indirizzo della casa di un esponente di un clan camorristico a Torre annunziata testimoniano, caso mai ce ne fosse bisogno, di una situazione allarmante della criminalità, organizzata e no, a Torre annunziata e nei centri limitrofi. C’è ancora tanto da fare, ma alcuni passi avanti sono stati fatti: la confisca di un luogo simbolo del malaffare come Palazzo Fienga e la prossima destinazione dello stesso a sede di uffici pubblici e delle Forze dell’ordine è sicuramente un segnale incoraggiante per la collettività”. Dalla cronaca di questi mesi emergono ancora - 35 anni dopo - i nomi denunciati da Siani: Gionta (e ormai siamo alla terza generazione), Limelli-Vangone, D’Alessandro: prima o poi questi clan verranno colpiti in modo definitivo? “È il mio auspicio sia come Procuratore della Repubblica di Torre Annunziata, che come cittadino di questo territorio: posso garantire il massimo impegno, mio e dei magistrati del mio ufficio, nel contrasto ad ogni forma di criminalità, nella consapevolezza che la criminalità organizzata attecchisce e prospera nei territori dove più è diffusa l’illegalità, anche se la mera repressione non basta: occorre piuttosto il contributo sinergico, anche in chiave preventiva, di tutte le istituzioni pubbliche. Nessuno può tirarsi indietro o delegare quote di responsabilità”. Durante il lockdown, un affiliato ai Gionta (fresco di scarcerazione) è stato vittima di un attentato consumato da un balcone all’altro, a che punto sono le indagini su questa vicenda? “Si tratta di un grave episodio che dimostra e conferma come la criminalità organizzata sia radicata sul territorio. Ma è una vicenda per la quale le indagini sono coordinate dalla Dda di Napoli”. Per anni Siani denunciò le condizioni di vita nel cosiddetto quadrilatero delle carceri, quanto è importante un risanamento anche culturale e urbanistico dei rioni più malfamati di Torre Annunziata? “Le condizioni di degrado culturale ed urbanistico di interi quartieri della città, come quello denominato il quadrilatero delle carceri, concorrono certamente all’emarginazione sociale di coloro che vi abitano e conseguentemente li espongono maggiormente alla devianza criminale. È per questo che il risanamento urbanistico e l’emancipazione culturale, oltre che un’accorta politica occupazionale, sono tra le condizioni indispensabili per il recupero di intere fasce della popolazione a rischio. Non a caso una delle prime cose che ho ritenuto di fare, dopo essermi insediato alla guida della procura oplontina, è stato recarmi nel quadrilatero delle carceri e in altre realtà degradate di Torre Annunziata e di Castellammare di Stabia per rendermi conto personalmente delle condizioni in cui versano i quartieri più a rischio della città. La Procura di Torre Annunziata ha di recente disposto il sequestro e lo sgombero di alcuni edifici, ubicati nel quadrilatero delle carceri, che minacciavano il crollo e per i quali non era stata data ottemperanza alle ordinanze del Sindaco per la messa in sicurezza degli stessi”. Come cittadino, prima ancora che come magistrato, che ricordo ha della vicenda di Giancarlo Siani? “Ero già in magistratura all’epoca dell’omicidio di Giancarlo Siani, che era un mio coetaneo, e stavo svolgendo il tirocinio presso la Procura di Napoli. Ricordo lo sconcerto e il dolore che provai per la sua uccisione, così come ricordo l’ansia investigativa che connotò le prime indagini coordinate dai colleghi più anziani. Giancarlo ha pagato con la vita il suo coraggio di cercare e denunciare le verità, anche quella più scomoda, a tutti i costi. Una fulgida testimonianza di impegno civile che mi auguro sia da esempio per le giovani generazioni. Se così fosse, vorrà dire che il sacrificio di Giancarlo non è stato vano”. Rossano (Cs). Cesare Battisti ora ha paura dei detenuti islamici di Martina Piumatti Il Giornale, 24 settembre 2020 Cesare Battisti trasferito nel carcere di Rossano teme i detenuti affiliati all’Isis. Nel 2015 aveva subito minacce dopo la condanna del terrorismo islamico. A Cesare Battisti non va bene neanche il carcere di Rossano. L’ex terrorista rosso ora ha paura degli affiliati all’Isis, detenuti con lui al regime di Alta sicurezza nel penitenziario calabrese. Insomma, dopo le lamentele espresse nella lettera al garante dei detenuti, Battisti torna alla carica. Si troverebbe confinato insieme a “personaggi con i quali non si può certamente relazionare”, ha riferito all’Adnkronos il suo legale Gianfranco Sollai. E la motivazione risalirebbe ad alcune prese di posizione tranchant dell’ex leader dei Pac. “Ha subito minacce dall’Isis nel 2004 e nel 2015, per aver espresso pubblicamente le sue idee sui terroristi islamici, mentre si trovava in Brasile. E peraltro sta scrivendo un libro proprio incentrato sull’Isis e la carneficina nel Rojava (Siria)”, ha spiegato l’avvocato. Nel 2004 fu minacciato per avere preso posizione pubblica contro il velo islamico e l’atroce discriminazione delle donne”. Mentre nel 2015 “per avere pubblicamente criticato l’operato dell’Isis in Siria”. Da qui risalirebbe la paura di essere nel mirino dei jihadisti presenti all’interno del penitenziario. Non solo. Sollai aggiunge un altro appunto riguardo al trattamento riservato al suo assistito. Da quando Battisti è stato trasferito nel carcere di Rossano, lo scorso 12 settembre, né lui né il collega nella difesa, Davide Steccanella, avrebbero avuto contatti con l’ergastolano. “Per quanto riguarda me, sembra che ci sia un problema legato al mio numero di cellulare e al contratto con la compagnia telefonica. Una spiegazione curiosa, visto che prima che fosse trasferito, non c’è mai stata alcuna difficoltà a sentirci telefonicamente e che con il detenuto viene trasferita anche la sua ‘pratica’, con tutti i dati suoi e dei legali. Le informazioni che ho mi arrivano dalla famiglia e non sono buone”, ha aggiunto il legale sardo appena uscito dall’udienza sul ricorso contro l’isolamento diurno. Sollai questa mattina ha illustrato davanti al magistrato di Sorveglianza di Cagliari, Maria Cristina Lampis, le ragioni che hanno portato l’ex terrorista dei Pac a contestare le condizioni della detenzione nel carcere oristanese di Massama e, in particolare, il regime di isolamento cui è stato sottoposto fino al suo trasferimento in Calabria. Un isolamento, ha sostenuto Sollai, qualificabile come un vero e proprio “abuso di potere” da parte dello Stato “in violazione di norme interne, nazionali, e della Convenzione dei Diritti dell’Uomo”. Accuse e lamentele non nuove per Battisti e i suoi legali. Nei mesi trascorsi nel carcere di Massama (Oristano), Battisti ha reclmato più volte trasferimenti e sconti di pena di cui avrebbe avuto diritto. Ha denunciato lo Stato per l’isolamento diurno, protestato per il rischio coronavirus, per la qualità del cibo del carcere, che avrebbe aggravato le sue condizioni di salute, iniziato lo sciopero della fame per avere il trasferimento dalla Sardegna, fino alla lettera, consegnata ai suoi legali, nella quale si definiva “prigioniero politico, sequestrato dallo Stato”. Per ora il magistrato di Sorveglianza, dopo aver sentito le ragioni del reclamo di Cesare Battisti e la richiesta di rigetto della Procura generale, si è riservato di decidere. Il pronunciamento è atteso entro dieci giorni. Ma Sollai precisa: “Nel caso in cui il reclamo venisse accolto, ci riserviamo di chiedere un risarcimento dei danni patiti da Battisti che, per condanne di tanti anni come è la sua, si tradurrebbe non in un riconoscimento in denaro, ma in uno sconto della pena”. Lo scopo di Battisti, insomma, non sarebbero i soldi dello “Stato ostile”, ma uscire il prima possibile di galera. Nuoro. Giuristi a confronto sulla limitazione dei diritti nell’emergenza coronavirus di Maria Cristina Carta* La Nuova Sardegna, 24 settembre 2020 Dal 14 al 17 settembre 2020 prenderà avvio la V edizione della International Summer School Nuoro “The Future of Human Rights in Europe”, che fin dal 2016 rappresenta un fiore all’occhiello per il Dipartimento di Giurisprudenza di Sassari e per UniNuoro in termini di internazionalizzazione. Quest’anno sarà un’edizione speciale, interamente dedicata al tema dei diritti umani ai tempi del Covid-19. I Webinar si svolgeranno online sulla piattaforma Microsoft Teams ed in diretta Facebook nella pagina Uni- Nuoro; avranno inizio alle 16 e sarà consentito a tutti gli interessati di assistere gratuitamente. Nonostante l’iniziale rammarico per aver dovuto cancellare, a causa dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19, l’edizione in presenza già programmata per luglio, abbiamo ritenuto opportuno garantire continuità all’iniziativa che ha negli anni riscosso un sempre maggiore successo di pubblico ed attirato nel Polo universitario di Nuoro partecipanti da numerosi paesi europei ed extra-europei (Spagna, Francia, Polonia, Germania, Sudan, Iran, Turchia e Congo). Abbiamo chiesto agli illustri ospiti di modificare gli argomenti inizialmente previsti per le loro relazioni, dando maggiore risalto a tematiche come le limitazioni alla libertà di circolazione, al diritto allo studio ed al diritto alla salute conseguenti al proclamato stato d’emergenza, resosi necessario a causa del dilagare del corona virus. Tutti i relatori, mostrando grande sensibilità, hanno confermato la loro partecipazione anche per il ciclo di webinar di settembre e comunicato i nuovi titoli dei loro interventi. In un momento storico così segnante come quello che stiamo vivendo e con l’auspicio che nel più breve tempo possibile si possa finalmente ritornare alla piena normalità nello svolgimento di tutte le attività universitarie, il Polo di Nuoro si conferma territorio chiave per mantenere alta l’attenzione sul tema della tutela dei diritti umani, gravemente compressi durante la pandemia che sta coinvolgendo metà della popolazione mondiale. Molti degli interventi analizzeranno, infatti, gli effetti devastanti che il moltiplicarsi incontrollato dei contagi ha avuto in questi mesi soprattutto sulle persone più vulnerabili, che vivono una vita precaria e versano in condizioni di svantaggio, come anziani, disabili e detenuti. Il buon esito dell’iniziativa - che in ragione della sua qualità scientifica ha ottenuto il patrocinio della Corte europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo - sarà garantito dal costante sostegno del Consorzio UniNuoro e del Dipartimento GiuriSs. Illustri i relatori di questa V edizione: Ennio Triggiani ed Ugo Villani, Emeriti rispettivamente di Diritto dell’Unione europea e di Diritto internazionale presso l’Università di Bari; Giandonato Caggiano, ordinario di Diritto dell’Unione europea presso l’Università di Roma Tre; Angela Di Stasi, Ordinario di Diritto Internazionale presso l’Università di Salerno; Paola Mori, Ordinario di Diritto dell’Unione europea presso l’Università di Catanzaro; Lina Panella, Ordinario di Diritto internazionale presso l’Università di Messina e M. Cristina Carta, Ricercatrice di Diritto dell’Unione europea presso l’Università di Sassari e responsabile scientifico dell’iniziativa. Tra i relatori anche Alison Jones, rappresentante del Movimento British in Europe. Moderatore della prima giornata di studio l’avvocato Stefano Mannironi, del Foro di Nuoro, che da anni collabora con UniNuoro al fine di sensibilizzare studenti e popolazione sull’importanza di tematiche di stringente attualità legate alla protezione dei diritti fondamentali. Poiché una delle Relazioni della prima giornata della Summer School sarà dedicata al dibattuto tema del sovraffollamento carcerario ed al c.d. giustizialismo affievolito alla luce dei rischi epidemiologici legati al Covid 19, grazie alla collaborazione dell’Avv. Mannironi e della Garante dei detenuti di Nuoro Avv. Giovanna Serra, ci stiamo attivando per far sì che il primo incontro possa essere trasmesso dal carcere di Badu e Carros, nel rispetto di tutte le regole per la sicurezza comune. Auspichiamo - assieme alla prof.ssa Gabriella Ferranti, Presidente del Comitato tecnico-scientifico del Centro studi sui Diritti umani di Nuoro e colonna portante della Summer School sin dalla sua prima edizione - che dalle difficoltà di una così straordinaria e critica situazione legata al Covid-19, questa speciale edizione dedicata alla memoria della giovane laureata UniNuoro Gianfranca Deiana possa rappresentare un’occasione di riflessione e di crescita per molti e possa, grazie all’utilizzo della piattaforma online, raggiungere un numero elevato di partecipanti dall’Italia e dall’estero. *Docente di Diritto internazionale e dell’Unione europea e di Tutela dei Diritti umani nello spazio giuridico europeo Livorno. La storia della squadra dei detenuti, rugbisti grazie ai Lions lionsamarantorugby.it, 24 settembre 2020 Esattamente un anno fa, martedì 24 settembre 2019, nel corso della conferenza stampa svoltasi nella sala riunioni dell’istituto penitenziario di Livorno, fu ufficialmente annunciata una novità di portata ‘storica’ per il movimento rugbistico toscano. Fu annunciata una notizia che va decisamente oltre l’aspetto tecnico. “Grazie all’interessamento del Comitato Toscano della Fir - emerse in quella occasione - la rappresentativa delle Pecore Nere, la formazione composta da detenuti nel carcere labronico de ‘Le Sughere’, ha acquisito il diritto di partecipare all’imminente campionato Old”. All’incontro con i giornalisti, oltre ai tecnici delle Pecore Nere Manrico Soriani e Michele Niccolai, parteciparono, tra gli altri, il direttore dello stesso istituto penitenziario Carlo Alberto Mazzerbo, il delegato provinciale del Coni Gianni Giannone, il presidente del comitato toscano della Fir, Riccardo Bonaccorsi, il consigliere dello stesso comitato Luca Sardelli, l’assessore al sociale del comune di Livorno Andrea Raspanti e il garante dei detenuti Giovanni De Peppo. Presenti anche Arienno Marconi dell’Associazione Amatori Rugby Toscana e, per i Lions Amaranto Livorno, il consigliere Fabio Bizzi e l’addetto stampa Fabio Giorgi. I giocatori delle Pecore Nere sono tesserati Associazione Amatori Rugby Toscana. Nel campionato Old potrebbero militare solo atleti che hanno già compiuto 35 anni: prevista, per alcuni elementi della squadra dei detenuti, una deroga. Ovviamente tutte gli incontri delle Pecore Nere si disputano sul sintetico posto all’interno dell’istituto. Le partite, viste le dimensioni del campo, piuttosto ridotte, si giocano con soli 13 elementi, senza flankers. Il progetto di un pallone ovale da far rotolare all’interno del carcere labronico era nata cinque anni prima, sabato 27 settembre 2014, quando ventidue giocatori dei Lions Livorno, accompagnati dal presidente della stessa società amaranto Mauro Fraddanni, dall’allenatore Manrico Soriani (il vero promotore delle lodevoli iniziative rugbistiche svoltesi nell’istituto penitenziario livornese) e dai rappresentanti del comitato toscano della Fir, Marco Bertocchi e Claudia Cavalieri, dettero vita, sul terreno di gioco de “Le Sughere”, ad un allenamento piuttosto sostenuto, con tanto di partitella in famiglia. Durante la seduta, lunga circa 60 minuti, si svilupparono varie fasi di gioco e furono mostrati i fondamentali dello sport del rugby. Un centinaio di detenuti, presente all’allenamento, mostrò entusiasmo e grande partecipazione emotiva. Ecco l’elenco degli atleti Lions protagonisti della seduta-esibizione svoltasi nel settembre del 2013 sul campo in sintetico de “Le Sughere”: Marco Lorenzoni, Dario Testi, Bryan Barresi, Leonardo Ciandri, Leonardo Demiri, Matteo Magni, Alessio Margelli, Andrea Filippi, Maurizio Sarno, Antonio Baselice, Davide Mantovani, Gabriele Saviozzi, Luca Baroni, Carlo Cantini, Andrea Bigongiali, Alessandro Lampugnale, Vittorio Abbiuso, Paolo Ciandri, Stefano Vestri, Andrea Caputo, Fabio Ciliegi e Claudio Morreale. Da quel giorno, grazie al lavoro dei Lions (ed in particolare grazie all’impagabile attività svolta dallo stesso Soriani e dai suoi colleghi-allenatori Michele Niccolai e Mario Lenzi), sono iniziati veri allenamenti per i detenuti. Ben presto è stata allestita una squadra di rugby speciale, composta, appunto, da atleti reclusi nella casa circondariale livornese. La formazione, con grande autoironia, è stata battezzata, dagli stessi detenuti, Pecore Nere. Tali giocatori, tutti con pene piuttosto lunghe, hanno iniziato ad effettuare, una volta alla settimana (la domenica mattina), sul campo sportivo del carcere, sedute piuttosto intense. Grazie alla stretta collaborazione e alla grande sensibilità della direzione e del personale della casa circondariale stessa, l’intenzione di far disputare anche alcune gare amichevoli si è trasformato in realtà. Ancor prima della partecipazione al campionato Old, varie squadre federali si sono presentate all’interno dell’istituto carcerario, per giocare partite ricche di significato. Belle gare, nelle quali la formazione dei detenuti ha palesato buone qualità. Brillanti i risultati di tali amichevoli e brillanti i risultati ottenuti nelle quattro partite giocate nel campionato Old, girone 2, toscano 2019/20. Le Pecore Nere, nel proprio primo impegno ufficiale, con punti in palio, hanno pareggiato con gli Allupins Prato, per poi sconfiggere, nei tre successivi incontri, le rappresentative dei Sorci Verdi Prato, degli Zoo Vasari Arezzo e dei Ribolliti Firenze. Poi l’emergenza della pandemia del Covid-19 ha costretto la Fir a sospendere e annullare tutti i campionati federali. È dunque saltato, sul sintetico de “Le Sughere”, anche l’atteso derby cittadino con la rappresentativa di categoria dei Lions (i Rinocerotti), inizialmente previsto per sabato 4 aprile. Il 5 luglio 2020 ecco la notizia più brutta: ad appena 55 anni Manrico Soriani ci ha lasciati. ‘Chico’, promotore e allenatore delle Pecore Nere (nonché capitano dei Rinocerotti) ‘ha passato l’ovale’. Con lui, è scomparso un rugbista dalla rara generosità. Significative, per ricordare Soriani, le parole di Riccardo Bonaccorsi, presidente del Comitato Toscano della FIR: “Persona unica, degna di stima e amicizia, ha lavorato sempre per il mondo del rugby con passione e dedizione, donando a tutti il suo tempo e il suo impegno. L’ultimo suo progetto con le carceri ha dato frutti insperati tra quei ragazzi, che hanno ricevuto da lui molta più attenzione e passione di quanto la vita avesse dato loro fino ad allora. Ci mancherà”. La squadra delle Pecore Nere, anche per onorare la sua memoria, sta continuando gli allenamenti. A guidare le sedute, oltre a Niccolai e Lenzi, anche Vincenzo Limone, altro allenatore Lions che si è aggiunto nello staff tecnico. La loro opera è appoggiata dai preziosissimi nuovi dirigenti Maurizio Berti e Massimo Soriani (fratello di Manrico). Dopo il lockdown, ripresa, con la solita cadenza settimanale, l’attività. Nei prossimi giorni si conosceranno i dettagli sul campionato Old toscano 2020/21. Ovviamente l’emergenza del Covid-19, ‘impone’ di rispettare determinati protocolli. Ma la volontà di far continuare a viaggiare il pallone ovale su quel terreno di gioco, posto all’interno dell’istituto de ‘Le Sughere’ non è venuta meno… Ecco “Le Voci di Dentro”, la pandemia vissuta dietro le sbarre di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 settembre 2020 23 febbraio 2020: a San Vittore si fermano le tante attività che impegnano i detenuti durante la giornata. Si ferma anche il Laboratorio teatrale del Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) a pochi giorni dalla replica dell’ultimo spettacolo, “Il Decameron delle Donne”, all’interno della Palazzina Liberty. Pochi giorni dopo a fermarsi sarà tutto il Paese. Ovunque si reagisce alla pandemia trovando risorse impensabili e anche il carcere apre varchi virtuali inaspettati. “Abbiamo ottenuto autorizzazioni per chiamate, email e videochiamate che mi hanno permesso di scrivere alle nostre attrici detenute durante tutto il periodo del lockdown” racconta Donatella Massimilla, attrice e drammaturga, che con il Cetec da trent’anni ha un laboratorio con le detenute in un cortile di San Vittore (“perché non c’è un teatro, ma in fondo va bene così, è come un’installazione contemporanea”). Con una delle detenute del laboratorio, Elena Pilan, trasferita in quei giorni nel carcere di Bollate, la corrispondenza è quotidiana: “Ci siamo scritte forse 150 email e ci siamo videochiamate quasi ogni giorno. Attese, paure, momenti di speranza, pensieri delle donne recluse, così è nato Le Voci di Dentro che io definisco un progetto, perché mi sembrerebbe riduttivo chiamarlo spettacolo”. “Le Voci di Dentro”, performance dove sotto forma di prosa, poesia e immagini viene raccontata la pandemia da chi l’ha vissuta dietro le sbarre, andrà in scena il 25 settembre a Milano, nel cortile di ringhiera di via Paolo Sarpi 36. In programma un reading di poesie di Elena Pilan, interpretate dall’autrice stessa, ed esibizioni di altri artisti Cetec come Gilberta Crispino e il fisarmonicista Gianpietro Marazza. “Nel cortile di una via storica, oggi cuore della Chinatown milanese, - ci dice Massimilla - una comunità di donne di tutte le età, anche novantenni che hanno fatto la Resistenza, accoglieranno, in una performance partecipata, altre donne che hanno in qualche modo “resistito”. Il pubblico assisterà alla rappresentazione dalle ringhiere dove saranno stese lenzuola bianche su cui saranno proiettate alcune immagini del carcere, per ricordare anche chi non ha potuto essere presente alla manifestazione”. “Le Voci di Dentro” che sarà replicato a Bookcity 2020 ha ricevuto il sostegno del Municipio 1, risultando vincitore del Bando “Premio Milano Donna”, la collaborazione della Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili del Comune di Milano e delle istituzioni carcerarie di San Vittore e Bollate. “L’intenzione - conclude la regista - è quella di creare ulteriori occasioni performative per vincere lo stigma che continua ad accompagnare le persone che escono dal carcere, anche quando sono davvero cambiate. Vorremmo creare, poi, anche opportunità lavorative con il teatro. Mi rendo conto, da lavoratrice dello spettacolo con ogni iniziativa bloccata dopo il lockdown, che immaginare che una ex detenuta possa trovare opportunità come attrice può sembrare un’utopia. Ma io voglio che sia un’utopia concreta. Intanto Elena Pilan presto collaborerà con noi anche fuori dal carcere: uscirà in “articolo 21”, cioè come lavorante esterna, perché anche nel mondo penitenziario il teatro può essere considerato lavoro tutti gli effetti”. Dal carcere all’arte: la storia dolente dei sopravvissuti al regime siriano di Diletta Capissi Il Dubbio, 24 settembre 2020 Al “Bellini” di Napoli va in scena l’impegno civile con lo spettacolo “Y-Saidnaya” Di Ramzi Choukair. Al Teatro Bellini di Napoli sono in scena l’impegno civile e l’amore militante per i diritti di libertà e giustizia, con il commovente spettacolo “Y-Saidnaya”, su testo e regia del siriano Ramzi Choukair, con interpreti Hend Alkahwaji, Riyad Avlar, Rami Khalaf, Alaa Mansour, Shevan Rene Ven Der Lugt, accompagnati dalla musica di Saleh Katbeh. Così quei pochi spettatori “contingentati” a causa delle disposizioni anticovid, incollati alle poltrone ma emotivamente coinvolti per la toccante pièce che svela attraverso le testimonianze dei sopravvissuti i meccanismi del regime siriano, hanno potuto assistere al secondo appuntamento della sezione Internazionale del Napoli Teatro Festival, diretta da Ruggero Cappuccio. Ci auguriamo che possa essere di nuovo ospitato alla riapertura normale dei teatri. Ramzi Choukair, regista siriano rifugiato in Francia, mette in scena in prima assoluta “Y-Saidnaya”, in arabo con sovra titoli in italiano, seconda parte di una trilogia dedicata al contesto politico di una terra bellissima e martoriata. Alla maniera de “Le Mille e una notte”, si racconta la storia di Riyadh, giovane turco di 22 anni che, nel 1996, si era recato in Siria per imparare l’arabo ma fu arrestato e torturato dai servizi segreti perché accusato di spionaggio. Rimarrà in carcere per 21 anni in una prigione a Nord di Damasco, da cui prende il titolo la rappresentazione. Si tratta di una narrazione che si fonde drammaticamente con il racconto dei diversi testimoni, sei attori in scena, tre dei quali sopravvissuti alla spietata repressione del regime, di cui uno si chiama Ryad. E ci chiediamo perché siamo così chiusi nei nostri “confini” e non siamo minimamente informati sulla geopolitica di questi Paesi, o forse non siamo semplice interessati, a stati e regimi così vicini a noi? Ecco non lontano dalle nostre vite e dai nostri luoghi, c’è una narrazione che, grazie al Teatro di impegno civile, arriva in modo diretto e disvela i meccanismi di quel sistema repressivo. Racconta delle storie drammatiche di torture, di soprusi, di orrori su prigionieri messe in atto da pregiudizi, fede religiosa e corruzione di quei regimi. In questa prigione, nella sezione per i dissidenti politici, secondo un rapporto Amnesty International del 2017, sarebbero state uccise non meno di 13 mila persone, ripetutamente torturate e private di cibo, acqua, medicine e assistenza medica. Un pugno nello stomaco la testimonianza di Shevan Rene Ven Der Lugt, in continua ricerca di una identità, a partire dal suo nome, che però gli viene negata e sostituita continuamente, a partire dal padre che si separa dalla madre e sposa una musulmana che gli cambia il nome da Renè a Mohammad, e poi di nuovo affidato alla madre dove ritorna René. Una identità negata per il suo orientamento sessuale, in un contesto politico- religioso dove “l’omosessualità è considerata una infamia”. Dopo l’arresto subisce torture e sevizie sessuali dai carcerieri. Liberato su pagamento di una salata cauzione, a sua volta pagherà la cauzione del compagno, chiederà la cittadinanza olandese e si chiamerà definitivamente Shevan Rene Ven Der Lugt. In un carcere dove le donne per sopravvivere devono mettersi al servizio dei bordelli per il potere carcerario. In quel luogo dell’orrore, Riyhad dovrà dimenticare l’amore per la sua compagna, per la sua famiglia. Sopravvive per due decenni e promette a sé stesso che, se verrà fuori dall’incubo, testimonierà e racconterà. Lo fa oggi in teatro, ancora con quel dolore che arriva integro e forte, ma anche con crudezza. Denuncia un sistema che limita la libertà, controlla con pregiudizio e punisce con crudeltà, mettendo i siriani gli uni contro gli altri. Ecco, si chiede Syriad, se il sistema è così corrotto, se si poteva pagare la mia scarcerazione perché la mia famiglia non l’ha fatto? Ma sono tante le domande di Ryhad che non trovano risposte se non quelle della negazione dei diritti fondamentali. L’evento fa parte anche dell’iniziativa “La Francia in scena”, stagione artistica dell’ambasciata di Francia in Italia. Lo spettacolo Y- Saidnaya, è coprodotto da Fondazione Campania dei Festival-Napoli Teatro Festival Italia, Bonlieu-Scene Nationale Annecy, La Villette-Parigi, Espace Malraux-Scene Nationale Chambery, Theatre D’ Arles, ha il sostegno dell’Institut Francais e della Fondazione Nuovi Mecenati. Dall’inferno dell’Ospedale psichiatrico giudiziario alla libertà: la storia in un libro di Alberto Francescut fondazionecannavo.gazzetta.it, 24 settembre 2020 “Sentire le interviste telefoniche e le testimonianze di Antonella Leardi, mamma di Ciro Esposito, e di Angelo Montisci, assistente capo di polizia penitenziaria che per lunghi anni mi ha supportato e aiutato nelle mie sfide con il pallone all’interno della struttura carceraria, mi ha emozionato e commosso”. Uomo, calciatore ed ex detenuto, Fabrizio Maiello racconta la giornata promossa a Roma, all’Impianto Sportivo Fulvio Bernardini, dalla Uisp della capitale. “Il momento più bello è stato quando ho potuto palleggiare finalmente libero in un bellissimo campo di calcio, con tanti ragazzi intorno che fermavano i loro allenamenti per vedere quei palleggi infiniti di gioia e rinascita con il pallone, la pallina da tennis, il limone, l’arancia e una piccola zucca ornamentale. Vedere attorno a me gli occhi brillanti e esterrefatti di quei giovani calciatori è stata una bellissima sensazione ed emozione. Se penso a dove mi trovavo mi sembra un sogno”. Fabrizio è entrato nel Guinness dei primati per aver palleggiato, senza interruzione, per ben 5 km. “Ho anche il record anche di palleggi camminando all’indietro”. I palleggi della ripartenza - Quando qualcosa ti è sfuggito di mano, e con la voglia dentro la riacciuffi e riparti, certi momenti diventano ancora più straordinari. Perché sai cosa significa non averli, sai cosa significa palleggiare attorno a quattro mura anziché in un prato verde; e cosa significa avere attorno il nulla, tu e stesso, anziché quei bambini felicemente ipnotizzati dal tuo talento. Palleggi che non sono fine a sé stessi: racchiudono i valori sacri della ripartenza verso una vita pulita, i valori di libertà e uguaglianza, di mani da tendere all’altro come Fabrizio ha fatto con Giovanni quand’era racchiuso all’Opg. Libro - Dall’inferno dell’ospedale psichiatrico giudiziario, alla libertà come il vento in faccia. Fabrizio ci ha creduto quand’era dura, di più durissima, e ha rovesciato la sua vita come un calzino: il più bel gol che potesse fare gonfiando la rete … della vita. E del cuore di tanti. Come quello di sua mamma, mancata di recente, che da lassù accoglierà quei gol a mani alzate, pronta ad abbracciare il figlio rimasto con lei fino alla fine. Una storia da raccontare e diffondere per far capire che “se puoi sognarlo puoi farlo”. Infatti sarà così: “Insieme all’amica Franca Garreffa dell’Università della Calabria stiamo scrivendo un libro sulla mia esperienza in Opg, in parte tratto dai miei diari che per anni ho scritto ogni giorno. Una storia di record sportivi ma soprattutto umani. A questo proposito parteciperò, insieme a lei, alla Notte Europea dei Ricercatori e delle Ricercatrici che si terrà il 27 novembre all’Università della Calabria: agli studenti verrà fatto vedere un piccolo documentario di 15 minuti girato principalmente nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia dov’ero detenuto”. La storia - Fabrizio ha raccontato il suo cammino da promessa del calcio a malavitoso, fino alla ritrovata condizione di uomo libero. Tanti vissuti con un’unica presenza costante:? lo sport. Da giovanissimo giocava nella Primavera del Monza, poi un brutto infortunio lo ha trasformato in un bandito. “Non potrai più giocare a?calcio”, disse il medico a Fabrizio. “Il mondo si è fatto tutto nero.?Avevo bisogno di trovare qualcosa che sostituisse l’adrenalina che provavo in campo, per questo ho iniziato con la cocaina e?le rapine fino a farmi rincorrere dai carabinieri rischiando la vita”. In carcere lo chiamavano Maradona, giocava con il boss della banda della Magliana e da latitante ha provato a rapire Zola. La vita di Fabrizio era un vortice di crimini e rapine, non c’era più spazio per niente. Un abisso inghiottito dal buio dell’OPG, l’ospedale psichiatrico giudiziario. Lo sport lo ha salvato. “Il pallone era l’unica cosa che mi interessava.?Non sono nato delinquente, lo sono diventato. Ero un bravo ragazzo: non bevevo, non fumavo e il sabato sera nemmeno uscivo?perché la domenica mattina avevo la partita”. Il talento e la passione per il calcio lo hanno portato a sopravvivere all’inferno dell’Opg dove per quattro ore al giorno e per dieci lunghi anni, Fabrizio si allenava palleggiando, riuscendo a concentrarsi su ciò che lo faceva stare bene. Grazie allo sport ha ripreso in mano la sua esistenza. Tante le domande rivolte a Fabrizio che ha deciso di raccontarsi con autenticità e verità. Abbiamo chiesto come è cambiato il rapporto con il pallone nel corso degli anni, che differenza c’è tra il poter fare sport dentro e fuori e quanta differenza c’è tra un carcere umano e non. Quanto è stato importante poter partecipare al Vivicittà per lui e per gli altri detenuti. Abbiamo parlato di corpi immobili e menti private della libertà, di quanto lo sport e il movimento possano essere vitali in un contesto difficile come il carcere. Di sogni infranti e calci ad un pallone dentro e fuori le sbarre. “La storia di Fabrizio è un lungometraggio affascinante che mescola gioia e disperazione, crimine e riscatto morale, avvitamento interiore e solidarietà, uno spaccato di vita che è diventato in questi anni una testimonianza viaggiante per l’Italia”. Così ha scritto la Uisp di Reggio Emilia ai colleghi romani, invitandoli ad aprire il proprio cuore per accogliere e diffondere una storia emozionante ed avvincente di un uomo che è sceso negli abissi dell’esistenza ed ha trovato con lo sport e con la solidarietà la forza, il coraggio e l’entusiasmo per disegnare un presente ed un futuro pieno di valori positivi. “Che la sua “ripartenza” sia di buon auspicio e di insegnamento a tutti noi in questo momento così difficile e delicato a livello sociale ed economico”. Nuovo piano Ue sui migranti: “Chi rifiuta i collocamenti ora dovrà pagare i rimpatri” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 24 settembre 2020 La Commissione europea ha proposto un nuovo piano su asilo e migrazioni che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe sostituire il trattato di Dublino, definito come “appartenente a un’epoca diversa” dal vicepresidente di palazzo Berlaymont, Margheritis Schinas. Il piano prevede un sistema di contributi flessibili di solidarietà da parte degli Stati membri, si legge in una nota diffusa dalla Commissione, affinché nessuno Stato abbia una responsabilità sproporzionata nell’accoglienza dei migranti. Ogni Stato avrà la sua quota di migranti e potrà poi decidere come gestirla, in base a tre opzioni. La prima prevede l’accoglienza delle persone che fanno richiesta d’asilo, facendosene carico nei propri centri e integrandole, in caso di esito positivo, nel proprio tessuto economico- sociale. Se la richiesta non venisse accolta lo Stato dovrà provvedere al respingimento tramite accordi bilaterali con i paesi di provenienza, che negli anni si sono dimostrati molto difficili da ottenere. La seconda opzione, che è anche la più contestata, prevede che nel caso in cui uno Stato si rifiutasse di accogliere la propria quota di migranti, esso dovrà “sponsorizzare” il futuro dei migranti nel Paese d’arrivo, “fornendo tutto il supporto necessario per rimpatriare i richiedenti che non hanno diritto di rimanere, e assumendosi la piena responsabilità se il rimpatrio non viene realizzato”. La terza opzione è quella di fornire strumenti di supporto agli Stati d’approdo dei migranti per facilitarne la gestione, cioè in sostanza dare dei soldi ai paesi di confine affinché si facciano carico dei richiedenti asilo. Prima della ricollocazione dei migranti, il piano della Commissione prevede un periodo molto breve, di cinque giorni, di screening pre-ingresso per verificare le condizioni di salute e di sicurezza legate alle persone che chiedono di entrare. Lo screening verrà fatto “al confine”, ma qui sorge il problema dei migranti che arrivano via mare. Secondo Ylva Johansson, commissaria agli Affari interni dell’Ue, non ci saranno più soluzioni “ad hoc” per le navi, come avvenuto molte volte in passato, anche in Italia, ma si dovrebbe sapere in anticipo a quali paesi saranno assegnati i migranti. Per Von der Leyen la proposta, che dovrà essere esaminata dal Parlamento europeo e superare lo scoglio del Consiglio europeo, è “un nuovo inizio”, mentre per Schinas è “un compromesso”, che rispetta le linee rosse dei singoli governi. “L’Ue ha già dato prova in altri settori della sua capacità di fare passi straordinari per conciliare prospettive divergenti - ha detto la presidente della Commissione - ora è tempo di alzare la sfida per gestire la migrazione in modo congiunto”. In Italia la proposta è stata accolta con accenti diversi. Se per il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il nuovo piano è “un importante passo verso una politica migratoria davvero europea”, secondo il ministro per gli Affari europei, Enzo Amendola, è “un punto di svolta”, al quale tuttavia seguirà una trattativa “complessa e delicata”. La proposta arriva in un periodo particolare per la maggioranza giallorossa, dopo le elezioni regionali, che vede il Partito democratico tirare la corda dalla sua parte. “Ora avanti con la modifica dei decreti sicurezza”, ha detto il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, commentando il risultato elettorale. Giocando di sponda con Bruxelles, chissà che le prossime settimane non siano quelle buone per mettere mano a uno dei provvedimenti più contestati del Conte I. Migranti e profughi, l’Ue diventa a trazione Visegrad di Carlo Lania Il Manifesto, 24 settembre 2020 La Commissione Ue presenta il patto su migrazioni e asilo. Niente ricollocamenti ed esame delle domande di protezione alle frontiere. Le prime parole sono l’ammissione di una sconfitta: “Gli Stati Ue non accetteranno mai i ricollocamenti obbligatori” avverte il greco Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione Ue. Un’affermazione che smorza subito e definitivamente le aspettative di quanti ancora speravano che il nuovo Patto su migrazioni e asilo avrebbe messo fine al Regolamento di Dublino. In realtà le nuove regole presentate ieri da Ursula von der Leyen con Schinas e la commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johannson non sono niente di più di quello che la stessa presidente della Commissione aveva anticipato la scorsa settimana: un compromesso, per non dire un cedimento, che va incontro alle richieste di quei Paesi - blocco di Visegrad in testa - che da cinque anni si rifiutano di accogliere richiedenti asilo. Al punto da costringere i vertici della Commissione a un salto mortale parlando di “solidarietà obbligatoria” o “flessibile” per non dire che invece, come previsto, ogni Stato membro sarà lasciato libero di comportarsi come vuole: accogliere i richiedenti asilo oppure impegnarsi economicamente per rimandarli a casa loro. Insomma, un’Europa à la carte con un più all’orizzonte un pericoloso restringimento del diritto di asilo, con screening veloci delle domande di protezione internazionale effettuati “in cinque giorni” alle frontiere esterne dell’Ue. “Questo deve essere un messaggio chiaro: siamo pronti ad accogliere chi ha diritto, ma coloro che non lo hanno devono tornare indietro”, chiarisce a scanso di equivoci Johannson. Anche se la cancelliera Merkel vorrebbe portare a casa la riforma entro la fine dell’anno, quando avrà termine il semestre di presidenza tedesca, quello illustrato ieri rappresenta per ora solo una “base di partenza” come l’ha definito von der Leyen, più che sufficiente però a chiarire con quale spirito l’Europa si prepara a gestire il fenomeno migratorio nei prossimi anni. Con una premessa: nel piano non si parla di migranti economici - la stragrande maggioranza di quanti arrivano in Italia - se non per dire che vanno rimpatriati. Anche per questo resta il principio del Paese di primo approdo che i Paesi del Mediterraneo avrebbero voluto abolire. Bloccati alla frontiera - L’idea è che chi non ha diritto all’asilo non deve neanche entrare in Europa. Per questo sono previsti screening delle domande di asilo da effettuare al momento dell’arrivo, anche per chi sbarca dalla nave di una ong: “Durerà al massimo cinque giorni e comprenderà controlli di sicurezza, anche sanitari” ha spiegato Johannson. Tutte le persone verranno identificate, saranno rilevate le impronte digitali e i dati inseriti nella banca dati Eurodac. Trascorsi i cinque giorni dello screening, sono previste 12 settimane per esaminare la domanda di asilo, compreso l’eventuale ricorso. In caso di esito negativo ci sono altre 12 settimane di tempo. Le richieste di asilo “con basse probabilità di venire accettate - è scritto nel piano - devono essere esaminate rapidamente, senza che sia necessario l’ingresso nel territorio dello Stato membro”. Ricongiungimenti familiari - Se chi richiede asilo ha già un parente in Europa, verrà preso in carico dallo Stato in cui risiede il familiare, stessa cosa se in precedenza ha lavorato o studiato in uno Stato diverso da quello nel quale è entrato. Una novità, positiva, riguarda l’allargamento dei parenti che possono essere considerati parte della famiglia, esteso ora anche a fratelli, sorelle e alle famiglie che si sono formate durante il viaggio. Ricollocamenti e rimpatri - Come si è visto non ci sarà nessun obbligo ad accogliere i richiedenti asilo. Gli Stati che non vorranno farlo potranno scegliere di finanziare i rimpatri di coloro che si sono visti respingere la domanda di asilo (“rimpatri sponsorizzati”) utilizzando anche gli accordi bilaterali stipulati in precedenza con i Paesi di origine. Esiste anche una terza possibilità, che prevede di “solidarizzare” con il Paese di ingresso fornendo attrezzature e personale. I Paesi Terzi - Sono previste partnership con i paesi di origine dei migranti che si impegneranno a contrastare “il traffico di migranti” e per i quali sono previste quote di ingressi legali in Europa. Frontex - L’agenzia per il controllo delle frontiere verrà rafforzata anche con mezzi aerei e navali e a partire dal 2021 interverrà a sostegno degli Stati di confine. La parola adesso passa al Parlamento europeo e al Consiglio dove, anche se ieri il premier italiano Conte ha definito il patto un “passo importante”, è sicuro che i Paesi del Sud Europa daranno battaglia. “Dovremo batterci in parlamento perché i ricollocamenti siano obbligatori”, ha detto invece l’europarlamentare Pd Pierfrancesco Majorino. Per Oxfam, infine, il piano Ue è un “passo falso nella direzione sbagliata”. Migranti, un compromesso privo di coraggio e visione di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 24 settembre 2020 Le modifiche della Commissione all’accordo di Dublino non produrranno la spallata necessaria. È la vecchia storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. L’Europa ha infine preso in considerazione i nostri guai da terra di frontiera delle migrazioni. E, sul versante interno, la maggioranza giallorossa si accinge a correggere i difetti più vistosi dei decreti Sicurezza. Ma sono cerotti. In entrambi i casi manca la visione d’un fenomeno epocale da affrontare con coraggio. Mezzo milione di sbarchi in Italia e appena tredicimila migranti ricollocati in Europa sono, dal nostro punto di vista, la sintesi di tutta l’ingiustizia patita negli ultimi cinque anni. Il micidiale regolamento di Dublino incardina nel Paese d’arrivo (e dunque nei Paesi rivieraschi del Mediterraneo) migranti che avrebbero tutte le intenzioni di raggiungere città nordeuropee dove spesso li attendono parenti e amici. L’Italia è stata lasciata sola durante le crisi migratorie degli anni Dieci e la reazione a questa solitudine spiega la crescita delle forze sovraniste e populiste antieuropee. Gli anni Venti sono iniziati sotto i pessimi auspici del Covid-19. Anche sull’onda solidale causata dalla pandemia, la nuova presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aveva preannunciato una robusta spallata agli angusti codicilli di Dublino. Il Patto per le migrazioni, esposto ieri a Bruxelles dalla Commissione, è in realtà molto meno: una spintarella. Si enunciano principi di solidarietà (addirittura meccanismi di “solidarietà obbligatoria” in casi di pressione migratoria straordinaria combinata con eventi estremi come terremoti o epidemie), si promettono soluzioni “precise e prefissate” che alleggeriscano il peso dai Paesi mediterranei, si prevedono negoziati in Africa con accordi di riammissione in cambio di sostegno tecnico ed economico. Tutte ottime cose, insomma, tranne due. La prima: si continua a parlare di “migranti salvati in mare”, come già al vertice di Malta di settembre 2019; ora, il problema è che da noi i salvataggi in mare rappresentano non più di un 20% degli sbarchi, il grosso dei flussi approda tramite barchini e gommoni, in piena autonomia: questa formula è, dunque, una sostanziale beffa. La seconda: si proclamano quali obbligatori ricollocamenti che tali non sono. I Paesi che non vorranno aderire alle quote, infatti, potranno partecipare alla solidarietà tramite rimpatri “sponsorizzati”. Traduzione: se, ad esempio, l’Ungheria, punta di diamante del riottoso quartetto di Visegrad, non vorrà accollarsi una parte dei nostri migranti avrà una finestra di tempo per contribuire a rimandarli in patria, col piccolo dettaglio che durante quel periodo (che possiamo temere, con realismo, indefinito) i migranti resteranno nel Paese di primo approdo, cioè da noi. Questo è addirittura un passo indietro rispetto alla volontaristica impostazione del summit di Malta, quando i migranti venivano (almeno sulla carta) ricollocati subito altrove. Eventuali sanzioni per gli Stati recalcitranti si sono dimostrate parole al vento, sin da quando il precedente piano Juncker del 2015 venne vanificato e poi affossato. Intendiamoci: criticare è facile. I meccanismi dell’Unione e i relativi veti sono tali che questo è, forse, il miglior punto di compromesso possibile, almeno fino al prevedibile scontro in Consiglio europeo. Lo diceva la commissaria agli Affari Interni, Ylva Johansson, intervistata dalla nostra Francesca Basso: “Nessuno dei 27 Stati membri si riterrà soddisfatto”. E infatti la Repubblica Ceca (anch’essa gruppo di Visegrad) già fa fuoco e fiamme, temendo eccessive concessioni a noi “mediterranei”. Con prudenza, il nostro premier, che immaginiamo insoddisfatto a sua volta, ha elogiato via Twitter “l’importante passo verso una politica migratoria davvero europea”. Giuseppe Conte ha più che mai bisogno di una sponda a Bruxelles perché a Roma si accinge a cedere (o almeno a dar mostra di cedere) proprio sui migranti alle pressioni del Pd di Zingaretti, rinvigorito dalle elezioni regionali. In fondo, meglio far inghiottire ai Cinque Stelle una revisione dei decreti Sicurezza di Salvini piuttosto che il Mes, l’odiato fondo salva Stati contro cui sono ancora acquartierati i grillini più intransigenti. Dunque, la ministra Lamorgese ha messo a punto un piano che dovrebbe modificare ciò che lo stesso Conte aveva approvato da premier del suo primo governo (sorreggendo sorridente a Palazzo Chigi il cartello che celebrava il primo decreto Salvini). Il guaio è che anche in questo caso, come in Europa, siamo di fronte a una difficile mediazione. Dove servirebbero scelte coraggiose di integrazione e cittadinanza, bilanciate anche da serie politiche di contenimento dell’irregolarità, vedremo aggiustamenti faticosi: un po’ di fiato al sistema Sprar massacrato da Salvini, qualche ammorbidimento sulla protezione dei profughi, un taglio alle irragionevoli multe contro le Ong, forse un lodevole tentativo di collegare lavoro e permessi di soggiorno. Poco. Servirebbe una radicale revisione del sistema d’accoglienza, che fa acqua ora come cinque anni fa, al tempo della disastrosa gestione Alfano: via i carrozzoni emergenziali da centinaia di ospiti, Sprar obbligatori in ogni Comune per agevolare l’integrazione dei piccoli numeri, Cie (controllati e dignitosi) in ogni Regione per garantire la sicurezza accanto alla solidarietà. Per battere i trafficanti di uomini non servono improbabili blocchi navali: basterebbe riaprire e regolamentare i flussi di accesso (di fatto fermi da quasi dieci anni), creando corridoi umanitari per i rifugiati e ingressi legali, controllati e contingentati, per i cosiddetti migranti economici, quelli meglio qualificati, di cui le nostre terre e le nostre imprese hanno gran bisogno. Manomettere l’impianto di Salvini (che aveva prodotto alla fine solo più irregolarità) serve a poco senza un progetto complessivo. Ma difficilmente Conte e Zingaretti riuscirebbero a comporre una tela così delicata senza strappare la maggioranza, non avendo a Roma nessuno che somigli nemmeno da lontano alla tessitrice ancora formidabile su cui Ursula von der Leyen punta tutte le sue speranze: Angela Merkel. Le famiglie dei pescatori arrestati in Libia: “L’Italia deve farsi sentire con più forza” di Vincenzo Nigro La Repubblica, 24 settembre 2020 Ricevute a Palazzo Chigi e alla Farnesina. A Bengasi fatte circolare foto con dei pacchi di droga in un peschereccio: per i familiari “è una messinscena pericolosa e vergognosa”. “Adesso che il referendum e le elezioni si sono svolti il governo italiano non ha più alibi: deve mettere più forza nel chiedere ai libici di rilasciare immediatamente i nostri uomini”. Sono arrivate ieri a Roma le mogli, le madri assieme ai colleghi dei 18 pescatori di Mazara del Vallo che dal 1° settembre sono bloccati a Bengasi, arrestati in alto mare dalla guardia costiera del generale Khalifa Haftar. Ieri le famiglie dei pescatori, gli armatori dei 2 battelli sequestrati e un terzo imprenditore del settore pesca di Mazara sono stati ricevuti prima a Palazzo Chigi, dal consigliere diplomatico del primo ministro, e poi alla Farnesina dal capo dell’Unità di Crisi del ministero. “Ci hanno dato mille rassicurazioni, ci hanno spiegato di quanto sia difficile questo negoziato con i libici”, dice Marco Marrone, l’armatore di uno dei due battelli. “Noi siamo sicuri dell’impegno del governo, ma sono trascorsi già 22 giorni dal momento di questo arresto: bisogna accelerare, non è possibile che i nostri uomini rimangano ancora bloccati in Libia”. Ieri di fronte alla Farnesina c’erano mogli, madri e figlie di pescatori siciliani, ma anche donne tunisine: perché sui 2 pescherecci “Medinea” e “Antartide” non ci sono solo italiani. I siciliani sono 8, assieme a 6 tunisini, 2 senegalesi e 2 cittadini indonesiani. Erano tutti impegnati nella pesca del gambero rosso al largo delle coste di Bengasi, nella Libia orientale, la Cirenaica. Nel pomeriggio le famiglie dei pescatori hanno mostrato fra mille esitazioni le foto che l’Agenzia Italia è riuscita a far rimbalzare dalla Libia. Qualcuno, probabilmente le autorità militari che vogliono alzare il livello del ricatto all’Italia, ha messo in fila sulla banchina dove è ormeggiata la Medinea una decina di pacchetti uguali, gialli, confezionati come fossero panetti di droga. “Adesso vorranno accusarli di traffico di droga o chissà di quale altro crimine”, dice una delle mogli dei pescatori che per ore è rimasta davanti alla Farnesina: “Questa è una vergogna che lo Stato italiano non può accettare, neppure lontanamente si può permettere a questi signori in Libia di mettere in piedi una messinscena così vergognosa e pericolosa che costruisce le accuse di traffico di droga o di chissà cosa altro”. In un’altra foto si vedono gli stessi 10 pacchi gialli all’interno di uno degli scafi, come se la polizia libica li avesse scoperti lì dentro: sullo sfondo le cassette per contenere il pesce. “Ci accusano che hanno trovato droga a bordo”, aveva detto il capitano Pietro Marrone durante una conversazione telefonica in viva voce, durante una diretta tv. “È chiaro che vogliono alzare l’asticella”, dice l’armatore del Medinea, Marco Marrone. I pescatori italiani, tunisini, senegalesi e indonesiani furono bloccati la sera del primo settembre a 38 miglia dalle coste libiche. Da allora sono stati trasferiti nel carcere di El Kuefia, a 15 km a sud est da Bengasi. Le autorità dell’Est della Libia hanno fatto sapere che i pescatori non verranno rilasciati se non in cambio della liberazione di quattro calciatori libici, condannati in Italia a 30 anni di carcere e tuttora detenuti con l’accusa di essere tra gli scafisti della cosiddetta “Strage di Ferragosto” del 2005 in cui morirono 49 migranti, in asfissia nella stiva di un’imbarcazione. Uno scambio impossibile, fra carcerati condannati da un sistema giudiziario “legale” e pescatori bloccati da una milizia non riconosciuta dalla comunità internazionale. Nelle prossime settimane sarà una grana non da poco per il governo di Giuseppe Conte. Libia. Amnesty International: ecco le nuove prove, sui migranti “abusi di Stato” di Nello Scavo Avvenire, 24 settembre 2020 Nel Rapporto “Tra la vita e la morte” le testimonianze da 13 luoghi di detenzione. “Quando arrivi ti spogliano, picchiano gli uomini e violentano le donne”. Neanche chi dalla Libia vorrebbe andarsene viene lasciato in pace. Ogni essere umano dalla pelle scura è una potenziale fonte di arricchimento, oltre che un’arma di pressione sui governi europei, che da anni cedono al ricatto delle milizie libiche. Prendete Ahmed, che vicino Tripoli aveva aveva un alloggio e un lavoro. Ci era arrivato nel 2017 per stare alla larga dai fanatici di al-Shabaab in Somalia. “Una notte alle 3 del mattino alcuni criminali sono entrati in casa nostra. Hanno picchiato mia moglie. Ho reagito. Mi hanno pugnalato a una gamba e hanno detto: “Se ti muovi, le spariamo”. Ci hanno rapiti e ci hanno portati in un hangar”. Per liberarli hanno chiesto “20 mila dollari a persona. C’erano 16 o 17 prigionieri nell’hangar: Somalia, Eritrea, Etiopia. Siamo rimasti circa 15 giorni. Ci picchiavano. Quando arrivi ti spogliano, picchiano gli uomini e violentano le donne. Dopo due settimane, ho colto un’occasione e sono scappato”. Tra maggio e settembre 2020, Amnesty International ha raccolto informazioni sulle condizioni di detenzione in almeno 13 luoghi di detenzione in tutta la Libia. Tra di loro c’erano sei centri di detenzione Dcim, il Dipartimento del governo per l’immigrazione illegale. Il contenuto dell’investigazione è riportato in un nuovo rapporto intitolato “Tra la vita e la morte”, pubblicato un giorno dopo l’annuncio, da parte della Commissione europea, del suo nuovo “Patto sull’immigrazione”, che si basa su una ancora più stretta cooperazione con gli stati esterni all’Unione europea per controllare i flussi migratori. Nell’ultimo dossier di Amnesty International non ci sono solo le testimonianze dalle prigioni clandestine, soprattutto ci sono le prove raccolte sul campo e che inchiodano le autorità ufficiali. Investigazioni condotte incrociando i dati: “Dopo aver ottenuto gli screenshot dai prigionieri che mostravano la loro posizione in tempo reale su Google Maps, Amnesty International ha esaminato le immagini satellitari delle coordinate Gps e ha identificato la posizione nella città di al Zawiyah, 45 km a ovest di Tripoli, con una forte presenza di veicoli militari”. Una fonte indipendente ha confermato che il luogo individuato quale prigione “è il quartier generale delle forze di supporto di al Zawiyah. Alcuni internati sono riusciti a sfuggire poche settimane fa e hanno confermato le acquisizioni: “Venivano tenuti in condizioni orribili senza cibo o acqua potabile a sufficienza e picchiati regolarmente. I loro rapitori hanno chiesto chiesero un riscatto di 6.000 dinari libici”, circa 4mila euro. Non è l’unica conferma del coinvolgimento diretto di funzionari pubblici nel traffico di esseri umani. “Due uomini su cui pende un mandato d’arresto da parte delle autorità libiche e i cui nomi figurano nella lista delle persone sottoposte a sanzioni da parte delle Nazioni Unite per il loro presunto coinvolgimento nel traffico di esseri umani, sono ufficialmente legati al Gna (il governo riconosciuto di Tripoli, ndr): Ahmad al-Dabbashi, detto “al-Amou”, è stato visto combattere con le forze del Gna nell’aprile 2020, mentre il ben noto Abdurhaman al Milad, detto “al Bija”, è il comandante della guardia costiera libica presso la raffineria della città portuale di al-Zawiya”. Alla galleria degli orrori raccontati a più riprese dai rifugiati e dai migranti in Libia, “si aggiungono sviluppi inquietanti - commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty in Italia -, come il trasferimento in strutture di detenzione non ufficiali delle persone intercettate in mare.” Di fronte a tutto questo, “il nuovo Patto Ue su migrazione e asilo e il memorandum d’intesa Italia-Libia esemplificano esattamente tutto ciò che non andrebbe fatto in termini di cooperazione con la Libia”. La documentazione raccolta convalida anche quanto rivelato a più riprese da Avvenire, nell’inchiesta di Paolo Lambruschi, riguardo il “lager” di Bani Walid, dove “sono stato picchiato, mi è stato impedito di mangiare e bere così spesso che non ero più in grado di camminare”, ha raccontato un fuggiasco visitato anche da medici di organizzazioni internazionali. “Da notare anche come, sulla scia del modello italiano, Frontex e Eunavfor Med abbiano incrementato la cooperazione con la cosiddetta guardia costiera libica, notificandole - denuncia Noury - la gran parte dei salvataggi rilevati dagli assetti aerei e di fatto spostando le poche navi di pertinenza rimaste ben al di fuori delle zone di più alta probabilità di salvataggio”. Nel 2020 migliaia di rifugiati e migranti sono finiti nei centri di detenzione ufficiali, migliaia di altri sono stati sottoposti a sparizione forzata. Desaparecidos del Mediterraneo intercettati da mezzi militari europei e catturati, su indicazione di questi ultimi, dalla cosiddetta guardia costiera libica. Libia. L’inferno non è solo dentro i Centri di detenzione. La denuncia di Amnesty di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 settembre 2020 Pubblicato oggi il rapporto “Tra vita e morte”. 43 testimonianze dal paese nordafricano raccontano l’orrore. Mentre il vice-presidente della commissione europea Margaritis Schinas e la commissaria per gli affari interni Ylva Johansson presentano a Bruxelles il patto Ue sui migranti voluto dalla presidente Ursula von der Leyen nella stanza si agita un elefante. Il suo nome è Libia. Ciò che accade nel paese nordafricano lo sanno tutti. È così noto che ha quasi smesso di fare notizia. Un nuovo tentativo di squarciare il velo di ipocrisia dei governi europei, che negli ultimi 20 anni hanno scommesso proprio su Tripoli per contrastare i flussi, viene da Amnesty International che pubblica oggi il rapporto “Tra vita e morte. Rifugiati e migranti intrappolati nel ciclo di abusi libico”. Dentro risuonano le testimonianze di 43 persone, intervistate a distanza tra maggio e settembre 2020, che hanno subito o assistito ad arresti arbitrari, stupri, torture, sparizioni, lavoro forzato, detenzioni indefinite. “Mi picchiano, mi danno scosse elettriche. Soprattutto di notte e all’alba, quando i membri delle organizzazioni internazionali non ci sono”, racconta Emmanuel. Nel suo paese era un avvocato, in Libia è stato detenuto per tre mesi in una struttura governativa. L’inferno, spiega Amnesty, non è solo dentro i centri: minacce, furti, rapimenti, violenze, sfruttamento sono all’ordine del giorno anche per i migranti a piede libero. “Le milizie ci derubano per strada. Ci picchiano con le armi o minacciano con i coltelli. Le donne impiegate come governanti spesso lasciano il lavoro dopo pochi giorni per le molestie o gli stupri”, racconta Zahra. Quando i rappresentanti delle istituzioni europee parlano di “solidarietà” e “responsabilità”, più che ai rimpatri, è alla Libia che dovrebbero pensare. Stati Uniti. Il virus offre un’opportunità per ripensare il carcere di Kelly Servick* Internazionale, 24 settembre 2020 Michael Daniels ha visto arrivare la tempesta ben prima che il covid-19 colpisse le carceri degli Stati Uniti. Direttore dei programmi giudiziari della contea di Franklin, in Ohio, Daniels sapeva bene che le due prigioni della contea, con circa 1.950 detenuti, non avrebbero mai potuto rispettare il distanziamento fisico necessario per arginare la diffusione del virus. Per questo a marzo 2020 ha fatto una domanda ai suoi collaboratori: come possiamo far uscire di prigione il maggior numero di persone il prima possibile? Elizabeth Glazer, direttrice del dipartimento comunale per la giustizia penale, si è posta lo stesso problema a New York. La pandemia “ci ha costretti a ripensare il carcere”, racconta. “Abbiamo cominciato a chiederci se valesse ancora la pena mettere dietro le sbarre qualcuno con la consapevolezza di esporlo al rischio di contagio”. Come temevano Glazer e Daniels, le prigioni affollate si sono rivelate una trappola mortale. Al momento nelle carceri di tutto il paese ci sono stati 120mila contagi e mille morti. Il progressivo aumento dei numeri ha portato gli esperti di salute pubblica a prendere in considerazione una proposta che gli attivisti per la riforma della giustizia penale portano avanti da tempo, finora senza successo: ridurre il numero dei detenuti. Ma dopo lo scoppio dell’epidemia questa possibilità si è improvvisamente concretizzata. “In tre settimane abbiamo realizzato proposte che erano rimaste bloccate per due anni”, racconta Daniels. Secondo un’analisi dell’organizzazione non-profit Vera institute of justice, a livello nazionale il numero dei detenuti nelle prigioni gestite dalle autorità locali - quelle in cui finisce chi aspetta di uscire su cauzione, chi non può pagare la cauzione ed è in attesa del processo e chi deve scontare pochi mesi per reati non violenti - si è ridotto di circa il 25 per cento tra marzo e giugno. In alcuni posti, tra cui New York e la contea di Franklin, le autorità sono riuscite a ridurre del 30 per cento il numero di persone rinchiuse negli istituti che ospitano chi non è ancora stato condannato in via definitiva. La popolazione delle prigioni più grandi - che ospitano i detenuti condannati - è diminuita in modo molto meno consistente: un’analisi del Marshall Project e dell’Associated Press ha rilevato un calo dell’otto per cento a livello nazionale durante lo stesso periodo. In questo momento è in corso un grande esperimento nel campo della salute pubblica e in quello della giustizia penale. I primi studi hanno suggerito che le scarcerazioni anticipate hanno ridotto il tasso di contagi in alcuni istituti. Ma il problema del sovraffollamento non è stato risolto e gli attivisti chiedono un’ulteriore diminuzione del numero di detenuti. Una commissione convocata dalle National academies of sciences, engineering, and medicine (Nasem) sta mettendo a punto alcune linee guida per la scarcerazione in risposta alla pandemia. Il documento dovrebbe essere pubblicato a ottobre. Gli scienziati vogliono studiare le possibili conseguenze sociali di questo processo, inclusi i cambiamenti nei tassi di criminalità. “Abbiamo creato una società che si è affidata al carcere come soluzione ai problemi sociali, e di recente questo sistema è stato ridimensionato di circa il 30 per cento”, sottolinea Vincent Schiraldi, ricercatore di politica giudiziaria alla Columbia school of social work. “Ora dobbiamo studiare il fenomeno nel modo più approfondito possibile”. I focolai negli istituti di pena evidenziano le disuguaglianze rispetto all’incidenza del virus. Tra gli afroamericani il tasso d’incarcerazione è più alto rispetto a quello tra i bianchi, e lo stesso vale per la durata delle condanne. Inoltre i detenuti presentano un tasso più elevato di malattie pregresse, un aspetto che li rende più esposti alle forme gravi di covid-19. Un altro elemento rilevante è il fatto che la salute dei detenuti è legata a quella della comunità che circonda i penitenziari. Il virus può entrare nelle strutture tramite i dipendenti (almeno 23mila persone che lavorano nelle carceri sono risultate positive) o essere portato dalle persone detenute per brevi periodi o trasferite da una struttura all’altra. Uno studio pubblicato a giugno su Health Affairs indicava che a metà aprile il 15,7 per cento dei casi di covid-19 documentati in Illinois era legato alle persone che erano transitate dalla prigione nella contea di Cook, a Chicago. “Se ci preoccupiamo dei tassi di contagio nelle comunità allora dobbiamo prestare attenzione al sistema carcerario”, sottolinea Emily Wang, medico della Yale school of medicine e copresidente della commissione Nasem sulla scarcerazione. Finora le scarcerazioni dovute alla pandemia non hanno provocato un aumento dei crimini - Le autorità hanno adottato diverse misure per ridurre la popolazione carceraria. La città di New York ha scelto di scarcerare soprattutto due gruppi di persone: chi era dietro le sbarre per aver violato la libertà vigilata e chi scontava condanne brevi. La contea di Franklin ha cancellato alcuni requisiti per uscire su cauzione, ha esteso l’uso dei dispositivi di monitoraggio elettronico - in modo da permettere a un numero maggiore di persone di aspettare il processo in casa - e ha disincentivato l’arresto per alcuni reati minori, optando per i mandati di comparizione. A livello nazionale il calo della popolazione carceraria è stato accompagnato da una diminuzione degli arresti, probabilmente perché durante il lockdown sono stati commessi meno reati e gli agenti hanno cercato di evitare ogni contatto fisico non necessario, spiega Michael Jacobson, sociologo della City university di New York che ha analizzato i dati sulla criminalità e le attività della polizia in cinquanta città americane. Per ridurre la popolazione carceraria negli istituti dove finisce chi è condannato a molti anni di carcere alcuni stati - tra cui California, Oklahoma, Illinois e Colorado - hanno evitato di trasferire i detenuti da quelli dove le persone scontano condanne lievi o aspettano di uscire su cauzione. I governatori hanno inoltre concesso la libertà vigilata ai detenuti più fragili e a quelli che avevano quasi finito di scontare la pena. Alcuni stati stanno cercando di migliorare l’assistenza per le persone con disturbi mentali, quella per chi soffre di dipendenze e altri servizi che contribuiscono a ridurre la popolazione carceraria. “L’approccio più efficace è semplicemente quello di non mettere le persone in carcere”, ha dichiarato il 20 agosto Annette Chambers-Smith, direttrice del Department of rehabilitation and correction dell’Ohio. “Basta interrompere il flusso”. Alcuni ricercatori hanno cercato di capire in che modo la diminuzione della popolazione carceraria influisce sulla diffusione del virus. Wang e i suoi colleghi hanno valutato il numero R di riproduzione - che indica quante persone sono infettate da ogni nuovo positivo - nel corso di 83 giorni all’interno di una grande prigione (non hanno detto quale). Quando le autorità hanno ridotto la popolazione carceraria del 25 per cento e hanno spostato in celle singole due terzi dei detenuti, il numero R è passato da 8,25 a 1,72, come riportato in un documento pubblicato a giugno su medRxiv (dopo che la direzione ha fatto tamponi a tappeto anche ai detenuti asintomatici, il numero R di riproduzione è sceso al di sotto di 1, segno che il focolaio era sotto controllo). In un altro studio, pubblicato il 21 agosto su Jama, l’epidemiologa di Harvard Monik Jiménez e i suoi colleghi hanno preso in esame tredici prigioni di contea in Massachusetts, scoprendo che quelle che avevano scarcerato più detenuti tra l’inizio di aprile e l’inizio di luglio presentavano tassi inferiori di contagio. Tuttavia, Jiménez sottolinea che i test limitati e inconsistenti hanno reso difficile stabilire con precisione quanto i rilasci anticipati avessero contribuito alla prevenzione dei contagi. Poco contagiosi - Lauren Brinkley-Rubinstein, psicologa dell’università del North Carolina a Chapel Hill, sta cercando di prevedere in modo più accurato questi effetti sulla salute. Attraverso il Covid prison project, la sua équipe analizza i dati quotidiani sui contagi nei penitenziari statali. Brinkley-Rubinstein ha collaborato con i ricercatori di Stanford e dell’università di Miami prendendo in esame 103 penitenziari del Texas e valutando i tassi di contagio e decesso. I penitenziari classificati come “scarsamente contagiosi” erano quelli occupati solo all’85 per cento, si legge nel documento pubblicato a inizio settembre su medRxiv. Secondo i ricercatori, questa percentuale è il “dato di riferimento” per ridurre i contagi. Insieme alla squadra di Wang e ai ricercatori di Stanford, Brinkley-Rubinstein vorrebbe combinare i dati sui contagi con le informazioni pubbliche sulla situazione dei diversi istituti e sulla distribuzione dei detenuti. “Posso ripetere all’infinito ‘riducete la popolazione carceraria’, ma il responsabile di un dipartimento penitenziario mi risponderà: ‘Va bene, di quanto? Su quali detenuti dovremmo concentrarci? Quanti ne dovremmo scarcerare?’. In questo senso è fondamentale essere precisi”. Altri ricercatori vogliono osservare gli effetti della riduzione della popolazione carceraria sulla pubblica sicurezza. Decenni di ricerche suggeriscono che molti detenuti potrebbero essere rilasciati con un rischio minimo di comportamenti recidivi, sottolinea Jacobson. Tuttavia, la paura di liberare anche una sola persona che potrebbe commettere un crimine è il motivo per cui i ricercatori, prima della pandemia, hanno avuto poche opportunità di studiare gli effetti di una scarcerazione rapida e su larga scala. Finora non esistono prove del fatto che le scarcerazioni dovute alla pandemia abbiano provocato un aumento dei crimini. Un’analisi dell’American civil liberties union condotta a luglio su 29 istituti penitenziari degli Stati Uniti non ha trovato nessun collegamento tra i rilasci e l’andamento della criminalità tra marzo e maggio. L’équipe di Glazer e quella di Daniels hanno rilevato un numero minimo di comportamenti recidivi tra i detenuti scarcerati in anticipo dalle prigioni di contea di New York e Franklin. Il criminologo Daniel Nagin e la statistica Amelia Haviland dell’università Carnegie Mellon vogliono documentare l’impatto della pandemia sulla popolazione carceraria e analizzare i cambiamenti nel numero dei crimini in relazione ai rilasci. Secondo Matthew Akiyama, medico specialista e ricercatore dell’Albert Einstein college of medicine, un potenziale svantaggio della rapida diminuzione della popolazione carceraria è il fatto che “la pianificazione non è stata sufficientemente rigorosa”. Le persone liberate, infatti, fanno fatica ad accedere all’assistenza sanitaria, ai programmi di riabilitazione nei casi di dipendenza e ad altri tipi di sostegno. In questo senso le scarcerazioni “hanno esposto molte persone a un rischio elevato”. Ma la minaccia del covid-19 ha anche ispirato nuove forme di assistenza. Il 27 agosto Gavin Newsom, governatore della California, ha annunciato uno sforzo congiunto insieme ad alcune istituzioni filantropiche per assegnare trenta milioni di dollari alle organizzazioni che offrono trasporto, alloggi per la quarantena, assistenza sanitaria e altri servizi ai detenuti appena rilasciati. La California e la città di New York hanno messo a disposizione degli ex detenuti alcuni alberghi, permettendogli di isolarsi ed evitare gli affollati rifugi per i senzatetto. Nel lungo periodo questa stabilità iniziale può aiutare gli ex detenuti a reinserirsi nella società, spiega Glazer. Tuttavia, molti istituti penitenziari - compresi quelli di New York e della contea di Franklin - hanno registrato un aumento della popolazione carceraria successivo alla rapida riduzione nella prima fase della pandemia, probabilmente perché il tasso di arresti ha ripreso ad aumentare. Le autorità locali stanno cercando di consolidare i progressi recenti, sottolinea Daniels. Il tribunale municipale della contea di Franklin ha imposto come procedura standard il mandato di comparizione per i cittadini accusati di reati minori e ha stabilito che chi non si presenta in tribunale non può più essere punito con la detenzione. Davis è convinto che le autorità della contea possano ridurre rapidamente la popolazione carceraria senza nessun rischio per la pubblica sicurezza, e che non ci sia motivo per fare un passo indietro. “Farò di tutto per evitarlo”. *Traduzione di Andrea Sparacino Albania. Il governo rinuncia al progetto delle carceri private albanianews.it, 24 settembre 2020 Il governo albanese ha deciso di rinunciare al progetto delle carceri private: il ministero della giustizia, infatti, ha dichiarato per Report TV di aver rimosso dalla legislazione il concetto di “carcere privato” poiché non è stato implementato. Il progetto delle carceri private - Il modello di carcere privato è stato introdotto concettualmente per la prima volta in Albania nel 2014, nell’articolo 12/1 della legge riguardante le “istituzioni per l’esecuzione di decisioni penali” che definiva le carceri pubbliche e private, con il loro funzionamento che doveva essere gestito dal governo. La nuova legge aveva come obiettivo quello di “alleggerire” le carceri pubbliche, spostando i condannati che dovevano scontare fino ad un massimo di cinque anni in quelle private. D’altra parte, le carceri pubbliche sarebbero state riservate per i condannati con più di cinque anni da scontare e per coloro assegnati al carcere di massima sicurezza. Tuttavia, secondo il ministero della giustizia, le disposizioni che permettevano le carceri private sono state rimosse con la nuova legge entrata in vigore nel mese di marzo di quest’anno: “Nella nuova legge approvata dal parlamento ed entrata in vigore nel mese di agosto 2020, queste disposizioni sono state ritenute ragionevolmente da rimuovere poiché dal 2014, quando sono state adottate, non c’è stato alcun interesse nell’implementare il progetto delle carceri private” - ha riferito un esponente del ministero della giustizia per Report TV. I detenuti in Albania - Tra imputati (2329) e condannati (3082), sono stati 5411 i detenuti in totale gestiti dagli istituti penitenziari nel 2018 (ultimi dati disponibili), per un sovraffollamento medio del 3% circa. Tuttavia, dagli ultimi tre mesi del 2018 il sovraffollamento è sceso allo 0% come conseguenza dell’apertura dell’istituto penitenziario di Scutari, che ha portato a 6236 (da 5455) la capacità totale degli istituti penitenziari albanesi. Capacità che è stata ulteriormente aumentata a 6366 dopo la piena messa in funzione dei nuovi due edifici del penitenziario presso Jordan Misja, e nuovamente ridotta a 6106 (la capacità attuale) a causa della trasformazione di due edifici del penitenziario di Lezha in ambienti ospedalieri per i detenuti. In ogni caso, attualmente l’Albania ha eliminato il problema del sovraffollamento delle carceri passando a quello opposto, ovvero lo sfollamento delle carceri (-11%). Stati Uniti. Agente che uccise Breonna Taylor solo “negligente”, scoppia la rivolta La Repubblica, 24 settembre 2020 Scontri a Louisville dopo la sentenza del Gran giurì. Trump: “Giustizia non facile, il procuratore del Kentucky è una star”. Un solo agente incriminato per la morte di Breonna Taylor, l’afroamericana uccisa nella sua abitazione lo scorso marzo e divenuta uno dei volti del Black Lives Matter. Un’incriminazione per condotta negligente e pericolosa, per la quale rischia se condannato fino a 15 anni di carcere, non per l’uccisione della ragazza 26 enne. Gli altri due poliziotti che accompagnavano Brett Hankinson non sono stati accusati. La decisione del gran giurì ha lasciato l’amaro in bocca dopo 100 giorni di proteste nelle strade di tutta America. E scatena in molti la rabbia: a Louisville, nel Kentucky dove Tayler è stata uccisa, i manifestanti hanno invaso le strade e si sono scontrati con la polizia. E nella notte italiana la polizia della città del Kentucky ha comunicato che sono stati esplosi colpi di pistola contro due agenti durante le proteste. Le loro condizioni non sarebbero critiche, uno è stato sottoposto a intervento chirurgico. La polizia ha detto che un sospettato è già stato fermato. A louisville era previsto il coprifuoco alle 21 ora locale, deciso in anticipo dal sindaco per cercare di stemperare gli animi ed evitare una notte di violenza. Ma sono molte le città americane dove si sono registrate proteste per chiedere giustizia per Breonna Taylor. A Washington i manifestanti sono partiti dal Dipartimento di Giustizia e si sono diretti verso la Casa Bianca. A New York si sono radunati al Barclay Center di Brooklyn per poi dirigersi verso Manhattan, sorvolata da diversi elicotteri nel tentativo di garantire proteste pacifiche. Era marzo quando gli agenti avevano fatto irruzione in piena notte nell’abitazione della ragazza, che stava dormendo con il suo fidanzato. Non avendo capito cosa stava accadendo e non avendo riconosciuto che si trattava della polizia, il compagno di Taylor - Kenneth Walker - aveva sparato e colpito a una gamba uno degli agenti. I tre poliziotti avevano risposto sparando 32 colpi, molti dei quali avevano raggiunto e ucciso Taylor. Per il grand giurì la reazione degli agenti era giustificata perché Walker ha sparato per primo. La decisione del gran giurì è “offensiva”, dice Ben Crump, il legale della famiglia Taylor. Kamala Harris, la candidata democratica alla vicepresidenza, ammette di non aver avuto modo di leggere la decisione ma afferma: “Non c’è dubbio che la famiglia di Breonna Taylor meritava giustizia ieri, la merita oggi e la meriterà domani”, afferma. “La giustizia non è facile”: il procuratore del Kentucky Daniel Cameron è stato bravo, una “star” con una dichiarazione “veramente brillante” ha affermato Donald Trump rispondendo a una domanda sulla decisione del gran giurì su Breonna Taylor. Sulle proteste è intervenuto anche il candidato democratico Joe Biden: che ha esortato i manifestanti a “non macchiare” con violente proteste l’eredità di Breonna Taylor. I legali di uno dei tre agenti coinvolti nel caso sono soddisfatti. “La morte di Breonna Taylor è una tragedia. Ma gli agenti non hanno agito in modo non professionale. Hanno svolto il loro compito e non hanno infranto la legge”, spiega Kent Wicker, legale di Jonathan Mattingly, uno degli agenti coinvolti nel caso. Nell’annunciare la decisione del gran giurì il procuratore del Kentucky, Daniel Cameron, ha ammesso che molte persone non saranno state soddisfatte dal risultato. Cameron ha spiegato che Mattingly e l’agente Myles Cosgrove - colui che ha sparato il colpo definito che ha ucciso la ragazza - “secondo la legge del Kentucky erano giustificati all’uso della forza per proteggersi. Questa giustificazione ci impedisce di perseguirli per la morte di Taylor”. Brett Hankison invece è stato incriminato per negligenza, ovvero per l’aver sparato in direzione di un appartamento nelle vicinanze mettendo a rischio la vita di altre persone. La Bielorussia ha messo il bavaglio al web di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 24 settembre 2020 Per ammutolire le opposizioni il regime di Lukashenko usa armi digitali sofisticate comprate anche da paesi democratici. Tra i fornitori l’azienda Sandvine che le vende anche all’Egitto di Al Sisi. Lo YouTuber bielorusso Sergei Tikhanovsky, attivista pro-democrazia, aveva annunciato la sua intenzione di candidarsi alle elezioni presidenziali 2020 del suo paese a maggio scorso, ma è stato arrestato due giorni dopo. La moglie, Svetlana Tikhanovskaya, ha deciso allora di correre lei stessa contro Alexander Lukashenko. Minacciata di vendette sui figli se non si fosse dimessa dalla corsa presidenziale, li ha mandati all’estero ed è emersa come il principale avversario di Lukashenko. Però, a dispetto delle mobilitazioni, delle accuse di brogli e delle violenze contro i dimostranti pro-democrazia, il ras della Bielorussia, da 26 anni al potere, ha annunciato lo stesso l’ennesima vittoria “bulgara” con l’80% dei voti ieri si è insediato di nascosto. Per Tikhanovskaya e l’opposizione le elezioni sono state truccate. Le proteste continuano e il ras ha deciso di mostrare i muscoli con l’aiuto di zar Putin, nonostante l’intervento, blando, della Ue e del Commissario Onu per i diritti umani. Così, ancora oggi, come risposta alle proteste, le autorità continuano con arresti e intimidazioni, interruzioni di Internet e il blocco delle news. Attualmente sono circa 50 i siti d’informazione ancora bloccati in Bielorussia. Ma da chi? Da compagnie bielorusse e americane. Mentre le autorità bielorusse hanno imposto alle compagnie telefoniche di ridurre i loro servizi nella capitale per contrastare l’organizzazione delle proteste, secondo Bloomberg, l’agenzia di sicurezza americana Sandvine - che si vanta di poter bloccare fino a 150 milioni di siti web -, avrebbe fornito al governo in carica gli strumenti per oscurare le informazioni online già da maggio, ben prima delle elezioni. Il 15 settembre Sandvine ha emesso un comunicato in cui ha dichiarato che non avrebbe più aggiornato gli strumenti censori, senza però ritirarli dalla disponibilità del governo bielorusso. Sta facendo lo stesso in Egitto. Potrebbe bastare questo per avere la prova di come in Bielorussia Lukashenko e soci stiano giocando una partita truccata, ma ci sono altre evidenze al proposito. In due diversi rapporti, uno di Ooni, una stimata comunità globale che misura la censura di Internet in tutto il mondo, e l’altro di Qurium Media Foundation, è evidente come gli operatori bielorussi utilizzino la propria infrastruttura per attuare il blocco dei siti web adottando per giunta varie tecniche di reindirizzamento del traffico e di Deep packet inspection, cioè il filtraggio dei dati che viaggiano in rete per bloccare contenuti sgraditi al regime. Le aziende bielorusse coinvolte, Business Network, Beltelecom, Unitary Enterprise A1, Mobile TeleSystems Belarus, servono la quasi totalità della popolazione. Come effetto di questa censura, tra i siti bloccati secondo Ooni c’è stato anche il sito web dell’Associazione bielorussa dei giornalisti che ha presentato segnali di blocco durante il mese di agosto. Ma anche i siti web che offrono strumenti di elusione della censura sono stati bloccati. A denunciarlo la stessa Qurium Media Foundation, azienda svedese di cybersecurity che supporta media indipendenti e organizzazioni per i diritti umani nei regimi repressivi di 50 paesi. Qurium offre pro-bono il supporto a media indipendenti, giornalisti investigativi, attivisti e difensori dei diritti umani che sono oggetto di attacchi digitali, phishing mirato, dispositivi compromessi, e l’analisi forense di questi attacchi. Qurium offre anche un servizio di hosting sicuro che include mitigazione DDoS, backup e ripristino, supporto tecnico a chi ne ha bisogno. Lo fa da dieci anni.