Il Recovery di Bonafede di Errico Novi Il Dubbio, 23 settembre 2020 Il guardasigilli ieri alla Camera: “priorità a digitale, edilizia giudiziaria e inclusione dei detenuti”. La novità del ministro della Giustizia Cinquestelle: le risorse dell’Ue saranno investite anche per potenziare le misure alternative al carcere. “Si tratta solo di linee guida generali”. Il guardasigilli Alfonso Bonafede lo ripete più di una volta, durante il suo intervento di ieri davanti alla commissione Giustizia della Camera. Ma tra le certezze del Recovery plan c’è, asicura il ministro, anche l’uso del fondo Ue per potenziare “l’inclusione dei detenuti e le misure alternative al carcere”. Priorità anche alla “digitalizzazione dell’intero sistema” e alla “edilizia giudiziaria”. Come spesso capita, nell’orizzonte di Alfonso Bonafede c’è la compresenza di due aspetti: uno ideale e restrittivo, l’altro concreto e orientato alle aperture. Così è per il Recovery plan Giustizia: si potrebbe adottare una simile definizione per gli impegni accennati ieri, seppure “in via assolutamente generale”, dal guardasigilli alla commissione Giustizia di Montecitorio. Interventi in parte già in corso, come “il piano per 12mila assunzioni”, in parte da mettere in pista o completare grazie alle risorse europee. Il doppio livello è sintetizzato così dal ministro: “Nei progetti finanziati con il Recovery fund rientreranno sicuramente il consolidamento infrastrutturale e i progetti di inclusione sociale dei detenuti”. Due piani molto concreti. Il primo riguarda non solo “la idoneità degli spazi da assicurare a chi vive e lavora all’interno degli istituti di pena”, ma anche, ovviamente, la “digitalizzazione della giustizia”. Il secondo consiste nel potenziare i progetti “lavorativi e formativi” per i reclusi adulti come per le carceri minorili: basti pensare a iniziative già in corso come quella studiata dall’Ufficio centrale detenuti e intitolata “Mi riscatto per il futuro”. Potrà insomma sorprendere, ma dal ministro della Giustizia più sbilanciato su una visione general- preventiva, su quella “certezza della pena” evocata anche nell’audizione di ieri, arriva una proposta di destinazione del “Recovery” molto attenta anche alle “misure alternative alla detenzione”. Sarebbe una realizzazione concreta di quella riforma penitenziaria rimasta sulla carta. Realizzata con il fondo europeo per l’emergenza. Una svolta possibile, inserita comunque da Bonafede in un quadro più ampio, in cui spiccano “i passi avanti già compiuti, che mi permetto di ricordare con orgoglio”. Ma a indirizzare le scelte da fare sul Recovery - ovviamente non solo nel settore giustizia saranno anche le aspettative europee. Lo s’intende quando il guardasigilli ripercorre le “raccomandazioni” rivolte dalla Commissione di Bruxelles negli ultimi tre anni. Soprattutto quando ricorda che i partner si aspettano dall’Italia non solo “interventi sul processo penale” e sulle “sanzioni per chi assume cariche pubbliche in conflitto di interessi”, ma anche rivolti ad arginare i “tentativi della mafia di distrarre risorse pubbliche”. È evidente che alle istituzioni comunitarie non farebbe piacere se gli appalti per ammodernare palazzi di giustizia e carceri finissero in un modo o nell’altro alle organizzazioni criminali. In generale, avverte il guardasigilli, “sulla giustizia si gioca gran parte del rilancio del paese: il fatto che si debba riformarla è considerato prioritario” e serve “celerità, i tempi contano”. Sul punto sono tutti d’accordo. Ma la cattiva notizia, per le opposizioni che non mancano di incalzare Bonafede dopo l’intervento, è nascosta tra le righe nella frase successiva: “Rispetto qualsiasi decisione del Parlamento, l’apertura della maggioranza e del ministero rispetto alle proposte che verranno dall’opposizione sarà concreta” ma “la capacità delle istituzioni di portare avanti i progetti di riforma farà la differenza”. Vuol dire che non si potrà attendere il miraggio di un’improbabile unità istituzionale: chi governa alla fine decide. E neppure troppo “alla fine”. A proposito di aspettative “internazionali”: il ministro della Giustizia non manca di ricordare che “le imprese, gli investitori stranieri, si aspettano di trovare un ambiente regolativo”, cioè una legislazione, “chiaro ed efficiente: in modo da poter prevedere nei limiti del possibile quanto tempo impiegherebbero per definire una controversia, anche fiscale, o recuperare un credito”. Non a caso “Bankitalia e Confesercenti ribadiscono che una maggiore celerità nella giustizia civile potrebbe valere da 22 a 40 miliardi”. Poi ricorre tante volte la necessità di “insistere nella lotta alla corruzione” e di assicurare “trasparenza e concorrenza”, la convinzione che molto si è fatto e che però “si tratta di obiettivi ancora più urgenti considerate proprio le opportunità offerte dal Recovery plan per raggiungerli appieno”. Fatto sta che nel riassumere i traguardi già superati, Bonafede riconosce come per la stessa Ue sia stato significativo “il passo avanti compiuto nel 2017 sulla prescrizione”, cioè con la riforma Orlando: implicitamente ammette che non sarebbe stato indispensabile intervenire ancora sull’istituto, come invece si è deciso di fare con la spazza-corrotti. E a proposito di spazza-corrotti, prefigura uno scenario ancora in corso di definizione: “La modifica”, dice, “ha annullato gli effetti dopo le sentenze di condanna in primo grado”. In realtà sarà così se e quando fosse approvato il lodo Conte bis: per ora la norma in vigore blocca la prescrizione anche per gli assolti. A riprova che fa bene il guardasigilli a ipotizzare investimenti non certo per rafforzare la linea dura in campo penale, ma per consentire piuttosto ai detenuti di reinserirsi con dignità. Scarcerato per Covid, torna in cella Pasquale Zagaria di Titti Beneduce Corriere del Mezzogiorno, 23 settembre 2020 Provvedimento del magistrato di sorveglianza di Brescia: tutela della salute garantita anche a Opera. “Non si ravvisano, allo stato, le condizioni per la proroga della misura domiciliare, anche concentrandosi esclusivamente sul profilo medico sanitario che appare, in tutta evidenza, tranquillizzante, sia in punto prognostico sia in relazione alla tutela del diritto alla salute, assolutamente preservabile anche in detenzione carceraria”. Lo scrive il magistrato di sorveglianza di Brescia Alessandro Zaniboni nel provvedimento con cui ha respinto “la proposta di proroga del differimento della esecuzione della pena concesso nelle forme della detenzione domiciliare” per Pasquale Zagaria, ergastolano e fratello del capoclan dei Casalesi Michele. Zagaria, dunque, nel carcere di Opera può curare le patologie da cui è affetto e da ieri è di nuovo in cella, in regime di 41bis. Era tornato in libertà ad aprile, in piena emergenza sanitaria, come molti altri detenuti pericolosi. La decisione del giudice di Sassari aveva suscitato un polverone e si era cercato di porre rimedio con un decreto voluto dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. Il suo ritorno in cella completa la lista dei boss al 41bis scarcerati durante l’emergenza Covid tornati dietro le sbarre. Il provvedimento che ripristina il carcere per Pasquale Zagaria è stato individuato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, come previsto dal decreto legge approvato nel maggio scorso, che consente al Dap di comunicare alla magistratura di sorveglianza l’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in cui il condannato può scontare la pena con l’adeguata assistenza sanitaria. Dopo qualche ora dalla notifica dell’ordinanza, il ministro Bonafede, accogliendo le proposte espresse dalla Dna e dalla Dda di Napoli, ha firmato il decreto con il quale viene ripristinata l’applicazione del regime speciale previsto. “Anche dalla recente relazione sanitaria del 17 settembre - scrive ancora il giudice di Brescia -si desumono condizioni cliniche compatibili non solo con la carcerazione ma,soprattutto, con il rispetto del diritto alla salute del detenuto”. Appaiono “pleonastiche considerazioni in punto di pericolosità sociale, semmai rilevanti in provvedimento con diverso esito finale. È di tutta evidenza che non possa nemmeno accennarsi ad un potenziale conflitto con il senso di umanità nel caso della prosecuzione del trattamento medico” in carcere “con tutte le cautele che i responsabili sanitari riterranno di adottare di volta in volta”. Ieri è diventata definitiva la sentenza di condanna a sette anni per associazione camorristica anche nei confronti della sorella Elvira. Si tratta dell’inchiesta sulle infiltrazioni del clan nell’ospedale di Caserta: la Cassazione si è pronunciata dopo due annullamenti con rinvio. Pasquale Zagaria, con un tumore grave, ritorna in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 settembre 2020 Nonostante un grave tumore alla vescica, Pasquale Zagaria rientra in carcere al 41bis. È stato trasferito ieri mattina nel carcere di Opera a Milano, la struttura individuata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) come luogo idoneo per la detenzione. Zagaria era stato posto alla detenzione domiciliare ad aprile dal giudice di sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito, lo stesso che ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale contro il decreto Bonafede “antiscarcerazioni”. Zagaria, che è malato da tempo, era stato posto ai domiciliari in casa dei famigliari a Pontevico (provincia di Brescia) per motivi legati anche all’emergenza coronavirus: l’ospedale di Sassari dove seguiva le terapie per la malattia, non era più in grado di prestargli le cure necessarie. Il tribunale di sorveglianza di Sassari aveva però disposto un termine di cinque mesi alla misura dei domiciliari. Scoppia però nel frattempo il caso televisivo “scarcerazioni”, arriva l’indignazione popolare e il ministro della Giustizia emana subito ben due decreti per rendere più difficile la concessione della detenzione domiciliare ai detenuti per reati di mafia e terrorismo. Ad oggi, in realtà, c’è ancora qualche centinaio di reclusi per reati di mafia che scontano la pena in detenzione domiciliare. Il motivo? Non c’entra nulla il Covid 19, ma le gravi patologie che rendono le persone incompatibili con il regime carcerario. Per quanto riguarda Pasquale Zagaria, i cinque mesi sono scaduti. Il tribunale di Brescia, al quale i colleghi sardi avevano girato il fascicolo per competenza, ha dunque ritenuto cessate le esigenze e lo ha riportato in carcere. Secondo il magistrato di sorveglianza di Brescia Alessandro Zaniboni, con un’ordinanza di quattro pagine, Zagaria potrà usufruire delle cure necessarie al carcere di Opera “nel rispetto del diritto alla salute del detenuto”. Il giudice, inoltre, aggiunge che: “nel rispetto dei limiti temporali istruttori tipici di un procedimento provvisorio, non si ravvisano, allo stato, le condizioni per la proroga della misura domiciliare, anche concentrandosi esclusivamente sul profilo medico sanitario che appare, in tutta evidenza, tranquillizzante, sia in punto prognostico, sia in relazione alla tutela del diritto alla salute, assolutamente preservabile anche in detenzione carceraria”. Zagaria, in realtà, non è un “fine pena mai”. È stato condannato a una pena di 21 anni e 7 mesi. Tra i giorni decurtati per aver subito nel passato una carcerazione disumana e i benefici maturati grazie al suo percorso trattamentale, a breve finirà comunque di scontare la sua pena. Sì, sempre se non esca in una bara come il 72enne Carmelo Terranova, rimandato in carcere - dopo le indignazioni contro le cosiddette “scarcerazioni” - nonostante le gravi patologie. Pasquale Zagaria finisce in galera nel 2007, ma perché si costituì spontaneamente all’allora sostituto Procuratore della Repubblica Raffaele Cantone, inviando una lettera con la quale mise in evidenza la sua volontà di chiudere con il passato. Non è stato condannato per omicidio, ma perché mente economica del clan dei Casalesi. Non solo. Nell’ordinanza del giudice De Vito che dispose la detenzione domiciliare, troviamo anche un riferimento della Corte di Appello di Napoli del 2015, dove si legge che: “a fronte di tale complesso di elementi non può ritenersi che l’appartenenza dello Zagaria alla associazione camorristica, certamente attuale all’epoca del decreto emesso nell’anno 2004, fosse tale anche nell’anno 2011, atteso che, coerentemente con le premesse, il prolungato periodo di detenzione, posto in correlazione con la circostanza che il detenuto si costituì spontaneamente in carcere e, nel corso del processo penale, rese confessione in ordine a gran parte dei reati contestati, condotta che rappresenta un inequivocabile sintomo di iniziale ravvedimento, inducono ad escludere la concreta operatività della presunzione di perdurante al momento della formulazione del giudizio”. Ma l’indignazione popolare e la politica che la insegue non fa sconti a nessuno. L’effetto è che una persona con un grave tumore può all’improvviso essere compatibile con il carcere, perfino in 41bis. Zagaria torna in carcere col cancro, lo ha chiesto “Repubblica” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 settembre 2020 Non è scappato, non ha commesso reati, ha solo provato a curarsi. Non c’è nulla di nuovo nella sua situazione sanitaria, né problemi di sicurezza. Finirà di scontare la pena nel 2025. Perché tanta fretta e tanta ferocia? Lo scalpo di Pasquale Zagaria è pronto. Magari per essere esibito nella prossima trasmissione di Massimo Giletti. Lo ha chiesto a gran voce, chiamandolo con nome e cognome, il quotidiano La Repubblica lo scorso 3 settembre, con titoli gridati e aspri rimbrotti ai giudici di sorveglianza, chiamati con sprezzo “ammazzasentenze”. Legnate anche al ministro Bonafede che non era stato capace di far applicare il proprio decreto manettaro (e forse incostituzionale) di maggio che smentiva quello di marzo. Così intanto un giudice l’hanno trovato. Lontano da quello di Berlino, cioè di Sassari, Riccardo De Vito, quello che aveva scarcerato e che non si era fatto intimidire. Così Pasquale Zagaria torna in prigione, dopo cinque mesi trascorsi, in seguito al differimento della pena concesso dal tribunale di sorveglianza di Sassari, tra casa e ospedale in Lombardia, vicino ai suoi familiari. Non è scappato, non ha commesso reati. Ha solo cercato di curarsi. Non c’è niente di nuovo nella sua situazione sanitaria né problemi di sicurezza che giustifichino il nuovo provvedimento che gli nega la proroga degli arresti domiciliari. Zagaria non è certo guarito dal grave tumore alla vescica che gli impone cure ospedaliere costanti e indifferibili, né è considerato un detenuto pericoloso o ancora contiguo alla camorra (di cui suo fratello Michele è uno dei capi) almeno dal 2011, come aveva scritto e certificato la Corte d’Appello di Napoli nel 2015. Del resto lui non ha mai commesso reati di sangue e, poco dopo il suo arresto nel 2006, ha reso piena collaborazione alla magistratura. E in seguito è stato un detenuto perfetto. Però lo lasciano al 41bis e lo trattano da “boss”. Certo, se avesse fatto il “pentito” non ci sarebbe stato nessun problema. Sarebbe da tempo libero e riverito. Ma c’è comunque anche un altro motivo, per cui i giudici hanno continuamente prorogato il differimento della pena, nonostante il costante e pervicace parere contrario della procura distrettuale antimafia di Napoli. È il ricorso alla Corte Costituzionale presentato, proprio a partire dal suo caso, dal tribunale di sorveglianza di Sassari. Il quale ha posto la questione di illegittimità costituzionale rispetto al decreto con il quale il ministro Bonafede aveva nei fatti condizionato la libertà decisionale dei giudici al parere sia della Procura nazionale antimafia che dei singoli Pm che avevano svolto le indagini di ogni processo. Quel decreto è incostituzionale, hanno sostenuto i magistrati del tribunale di sorveglianza, perché limita l’autonomia e l’indipendenza dei giudici, riducendo il loro potere di valutazione in merito alla decisione di revocare i domiciliari e perché realizzerebbe un’illegittima ingerenza del potere esecutivo-legislativo in quello giurisdizionale. Ed è singolare che il giudice di sorveglianza di Brescia che ha mandato in grande fretta Zagaria al carcere di Opera, nel settore dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario, non abbia tenuto in nessun conto il ricorso dei suoi colleghi. Ha messo invece subito le mani avanti, il dottor Alessandro Zaniboni, definendo “tranquillizzante” la condizione sanitaria di Zagaria e chiarendo che il diritto alla salute è “preservabile anche in detenzione carceraria”. Una svolta che pare poco comprensibile, soprattutto se si considera che sul fascicolo carcerario di Zagaria non c’è scritto “fine pena mai”, ma “fine pena 2025”, cioè tra una manciata di anni. Qual è dunque il motivo di tanta fretta, di tanta ferocia nei confronti di una persona gravemente malata e assolutamente non pericolosa? Certo, il giudice di sorveglianza avrà tenuto conto del parere dei pubblici ministeri di Napoli, visto che glielo impone un decreto ministeriale. Anche se in odore di incostituzionalità. E infatti non più tardi di quindici giorni fa i Pm napoletani avevano già dato il loro parere negativo alla proroga dei domiciliari e i capi del Dap Dino Petralia e Roberto Tartaglia si erano affrettati a indicare Opera come la struttura penitenziaria più adatta. Erano i giorni in cui il quotidiano La Repubblica aveva lanciato il suo allarme. Metà dei boss è ancora a casa, aveva strillato, tirando le orecchie al ministro Bonafede, perché il suo decreto non era stato ancora del tutto applicato. E aveva citato proprio il caso di Pasquale Zagaria, imputando ai giudici di Sassari e al loro ricorso alla Corte Costituzionale, la responsabilità di questo ritardo nel far scattare le manette. Quegli articoli dei primi giorni di settembre si erano anche trasformati in boomerang per il quotidiano. Perché proprio La Repubblica, ai primi di maggio, aveva denunciato lo scandalo di “376 boss scarcerati”. “Ecco la lista riservata che allarma le procure”, era stato il titolo di apertura del quotidiano. Salvo doversi poi smentire proprio il 3 settembre, quando, nel lanciare il nuovo allarme sulla “pigrizia” dei giudici e tribunali di sorveglianza nell’arrestare, aveva dovuto ammettere che solo 223 detenuti erano stati posti ai domiciliari a causa del rischio Covid, cioè sulla base del decreto “Cura Italia”. Gli altri erano stati provvedimenti di ordinaria amministrazione. E di questi 223 solo 112 erano rimasti ancora ai domiciliari. Quanti boss, tra questi? Meno di una decina. Figuraccia. Comunque l’allarme di Repubblica a qualcosa è servito. A presentare lo scalpo, nel giro di due settimane, di Pasquale Zagaria. Alla faccia del tumore, della non pericolosità del condannato, della prossima scadenza del fine pena, del ricorso alla Corte Costituzionale. Alla faccia dei basilari principi di umanità, prima ancora che di diritto. La soluzione turca di Morra: troppi avvocati, tagliamoli di Davide Varì Il Dubbio, 23 settembre 2020 Morra ha le idee molto chiare ed è convinto che per eliminare i problemi della nostra malandata giustizia sia sufficiente dare una sforbiciata al numero di avvocati e, visto che ci siamo, agli inutili “lacci e lacciuoli” rappresentati dai diritti e dalle garanzie. “Il problema della giustizia italiana? Il numero eccessivo di avvocati”. Non è un fuori onda del dottor Piercamillo Davigo - neanche lui ha mai osato tanto - né un messaggio a reti unificate del presidente turco Erdogan che considera gli avvocati al pari di criminali incalliti per il solo fatto di svolgere il proprio dovere e assicurare il diritto di difesa. No, stavolta Erdogan non c’entra nulla. La frase è del presidente della commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra. Il quale Morra ha le idee molto chiare ed è convinto che per eliminare i problemi della nostra malandata giustizia sia sufficiente dare una sforbiciata al numero di avvocati e, visto che ci siamo, agli inutili “lacci e lacciuoli” rappresentati dai diritti e dalle garanzie. I giovani avvocati dell’Aiga sono stati tra i primi a reagire e hanno ricordato al presidente Morra quanto segue. Primo: “In diversi Stati del mondo (non da ultima la Turchia) gli avvocati vengono perseguitati, condannati, portati alla morte, perché rei di esercitare il loro mandato difensivo nell’interesse della Giustizia”. Secondo: “In un paese come l’Italia, che ha visto anche gli avvocati cadere per mano mafiosa, è insostenibile che si debbano difendere anche e soprattutto dallo Stato”. Terzo: “Aiga - per voce del presidente Antonio De Angelis chiede con forza una presa di posizione del ministro Alfonso Bonafede nei suoi confronti”. Degne di nota le parole del presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, pentastellato e avvocato di professione: “La giustizia italiana è un sistema malato da anni e anni, soprattutto di inefficienza”, dice Perantoni, “per questo stiamo realizzando un’azione riformatrice che ne aumenta le risorse umane e finanziarie. Il presidente Morra, dunque, non coglie nel segno: puntare il dito contro l’Avvocatura, così come contro ogni altra categoria, è conseguenza di analisi semplicistiche”. Il presidente della commissione Giustizia ricorda che “con la sua funzione insostituibile l’Avvocatura garantisce appieno l’amministrazione della giustizia. Ma si tratta di incomprensioni che non influenzeranno il nostro comune lavoro per le riforme”, conclude Perantoni. Ma l’isolamento di Morra nel Movimento diventa plastico qualche ora dopo, quando arriva un comunicato a firma dei deputati del Movimento 5 Stelle in Commissione giustizia della Camera: “Gli avvocati sono una risorsa fondamentale per il Paese, oltre che una delle pietre angolari del sistema della giustizia”. A dire il vero Morra non è nuovo a queste intemerate. È rimasta negli annali, e per fortuna solo lì, la sua idea di creare un “bollino blu” - proprio così disse: bollino blu - per avvocati e professionisti in modo da verificare e validare la loro tenuta morale ed etica: “Nel contrasto alla criminalità organizzata - spiegò entusiasta Morra - si partirà anche da quella parte dell’economia sana che rischia di essere inquinata: uno strumento potrebbe essere l’istituzione di un “bollino blu” per gli iscritti ai vari Ordini professionali. Penso a una sorta di controllo di filiera etica che possa rappresentare una certificazione di moralità”. L’altra passione del presidente Morra sono le “black-list”: le famigerate liste di candidati impresentabili che egli presenta a ogni elezione. A dire il vero Morra all’inizio era molto, molto rigido e nella lista nera finivano persone anche soltanto indagate. Ma poi è accaduto che anche qualche collega grillino è finito nei guai con la giustizia e così il nostro ha preferito limitarsi ai soli condannati. In ogni caso Morra sembra aver trasformato la commissione antimafia in una sorta di succursale delle procure. Ma un consiglio vogliamo darglielo: il presidente dell’Antimafia potrebbe cercare tra gli archivi di palazzo san Macuto la relazione di minoranza con cui, nel 1976, Pio La Torre e Cesare Terranova spiegarono il motivo per cui rifiutarono di consegnare alla stampa i nomi dei politici “chiacchierati”: “Il nostro compito è quello di fornire al governo e al Parlamento uno spaccato della situazione, una serie precisa di indicazioni per realizzare le riforme economiche, sociali e politiche in senso non mafioso”. E ancora: “Siamo contrari all’equivoco che si è ingenerato: che cioè la commissione parlamentare fosse una specie di “giustiziere del Re”, una sorta di comitato di salute pubblica destinato a far cadere testa su testa”. Ah, quasi dimenticavamo: Pio La Torre e Cesare Terranova furono ammazzati dalla Mafia. La giustizia non funziona? Per Morra è colpa degli avvocati di Angela Stella Il Riformista, 23 settembre 2020 L’avvocatura è chiaramente sotto attacco e da più fronti. Ormai è prassi che gli avvocati vengano aggrediti verbalmente e ricevano anche minacce di morte da quel “Tribunale del Popolo” che non accetta che difendano anche il peggiore dei criminali; ieri però è arrivato anche un duro attacco da un esponente di spicco del Movimento Cinque Stelle, Nicola Morra, Presidente della Commissione Antimafia, che in un post su Facebook ha scritto: “Nel 1996 in Italia avevamo 87mila quasi iscritti all’albo degli avvocati. Nel 2019 erano 245mila, quasi tre volte quelli di 23 anni prima. Con una popolazione italiana che è aumentata nel frattempo di poco più del 5%. Facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione della giustizia”. Quindi, mentre il Ministro Bonafede qualche tempo fa diceva “guardo all’avvocato in Costituzione con particolare favore”, Morra sembra ignorare i reali problemi che stanno attanagliando la giustizia e incolpa gli avvocati. Parole definite “inaccettabili, offensive e fuori luogo” dall’Aiga, l’Associazione italiana giovani avvocati che chiede anche “con forza una presa di posizione” da parte del responsabile di via Arenula. Ma qualche giorno fa è stato il consigliere del Csm Nino Di Matteo, in un convegno organizzato dalla Camera Penale di Palermo, a lanciare delle pesanti accuse nei confronti dell’avvocatura: evidenziando come negli ultimi 20-30 anni non vi sia stata una guerra tra magistratura e politica, ma “un’offensiva unilaterale, e organizzata molto bene, da un sistema malato e alimentato da una parte consistente e trasversale della politica e da una parte della stessa magistratura”, ha aggiunto che bisogna prendere atto che anche l’avvocatura “con i suoi organismi rappresentativi si è schierata dalla parte sbagliata, da quella del potere di coloro che attaccavano i magistrati liberi, coraggiosi e indipendenti, attaccando chi partecipava ai dibattiti organizzati da un partito politico, o accusato di politicizzazione coloro che hanno osato alzare il livello e l’asticella delle indagini, anche nei confronti di esponenti di governo o dell’opposizione. Non ha avuto la forza e l’intelligenza per attaccare quei rapporti, quelli sì di vero collateralismo politico tra una parte dei magistrati e il potere politico”. Dallo stesso convegno però è arrivata la risposta esemplare di Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane: “Noi contestiamo la premessa del suo ragionamento, consigliere Di Matteo. Noi ci occupiamo come professionisti nella nostra vita e come associazione politica del tema del rispetto delle regole processuali. Noi non abbiamo da schierarci per la corruzione o contro la corruzione, per la buona politica o contro la cattiva politica. Noi dobbiamo essere sicuri che il giudice chiamato a giudicare - non di un fenomeno di corruzione politica - ma delle responsabilità di Tizio o di Caio o di Sempronio, che hanno un nome e un cognome, ragioni su Tizio, su Caio e su Sempronio. Questo è preteso dal nostro sistema costituzionale prima e processuale dopo. Qual è la degenerazione che noi abbiamo visto negli ultimi, diciamo, 25 anni di amministrazione della giustizia in questo Paese in modo chiaro? È che ci si è sempre più allontanati da questa urgenza inderogabile: che il processo penale non divenisse un luogo dove si risolvono le questioni sociali e politiche, ma è il luogo dove si giudica la responsabilità individuale”. Ieri Caiazza ha aggiunto un commento al nostro giornale: “Se il confronto con Nino Di Matteo è stato franco, leale e segnato dal rispetto reciproco, a Morra non è nemmeno possibile replicare, dato il livello desolante dei suoi poveri ragionamenti. Posso tutt’al più parafrasarlo. Dunque dirò: ascoltiamo Morra e facciamoci qualche domanda. Forse capiremo perché abbiamo qualche problema nell’amministrazione del Paese”. I magistrati cacciano Palamara dall’Anm, e avvertono Bonafede: “No alle riforme!” di Paolo Comi Il Riformista, 23 settembre 2020 L’Anm ha chiuso il proprio mandato, iniziato quattro anni fa con la presidenza di Piercamillo Davigo, con il classico “botto”. Dopo aver confermato l’espulsione di Luca Palamara dai ranghi dell’associazione, al termine dell’assemblea nazionale dello scorso fine settimana ha trovato il tempo di approvare una mozione che renderà sicuramente felici tutti i manettari d’Italia. Questi alcuni dei punti salienti della delibera destinata al ministro della Giustizia ed al Parlamento: nessuna sanzione disciplinare nei confronti dei magistrati pigri, nessuna ipotesi di separazione delle carriere, nessun termine predeterminato per la definizione di ogni fase del procedimento e del processo, sia civile che penale. In altre parole, processo eterno e deresponsabilizzazione totale dei pm. Sul fronte Csm, invece, tutto rimane come adesso. Il Palamaragate non ha portato le toghe ad alcun ripensamento, confermando la chiusura totale a qualsiasi ipotesi di sorteggio dei componenti di Palazzo dei Marescialli. Anzi, l’auspicio è un bel sistema “proporzionale” in modo da permettere alle correnti di continuare a fare accordi spartitori in tema di nomine. Se qualcuno, dunque, pensava che l’Anm, dopo tutto quello che è successo in questo anno e mezzo potesse avere un cambio di rotta sarà rimasto deluso. L’Assemblea generale di Roma, da programma, doveva discutere, secondo l’ordine del giorno, della riforma dell’associazionismo giudiziario. Invece ha voluto mandare un “avviso” ad Alfonso Bonafede in vista della sua epocale riforma della giustizia, attesa da due anni. Il Guardasigilli per far digerire agli alleati di governo il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado aveva previsto tempi certi per le differenti fasi del processo e conseguenti sanzioni per i magistrati che non le avessero rispettate. Nelle intenzioni ci sarebbe dovuto essere lo stop ad indagini preliminari senza fine, con scadenze predeterminate entro cui chiedere il processo o l’archiviazione. Con la presa di posizione dell’Anm in favore dello “status quo”, aggravato dal blocco della prescrizione già in vigore da gennaio, i processi in Italia avranno una durata indefinita ed indefinibile. Bella prospettiva per un Paese che si vanta di essere la culla del diritto. Dopo il sorteggio dei componenti del Csm, la calendarizzazione dei tempi del processo sarà dunque la seconda riforma che Bonafede si rimangerà. Difficile per il Guardasigilli impuntarsi dopo avere collocato magistrati in tutti i vertici dell’amministrazione di via Arenula. Sulla separazione delle carriere, ora in discussione in Parlamento, l’intervento dell’Anm stoppa poi ogni eventuale proposito riformatore. Le Camere penali avevano raccolto 80mila firme al riguardo. Tornando a Palamara, sono stati sufficienti centoundici magistrati per espellerlo dall’Anm. Poco più dell’un per cento degli iscritti. Già questi numeri danno il senso della votazione. Se un decimo dei miracolati da Palamara con incarichi e prebende si fosse presentato all’assemblea in sua difesa il risultato sarebbe stato molto diverso. Ma tutti, dopo averlo assediato con le chat, si sono tenuti alla larga. La numericamente scarsa votazione ha segnato la crisi profonda dell’associazionismo giudiziario. L’attuale dirigenza, pensando che la partecipazione fosse numerosa, aveva organizzato l’evento presso l’Aula magna della Pontificia Università San Tommaso D’Aquino, da oltre mille posti, quando sarebbe stata sufficiente la sala conferenze della Corte d’Appello di Roma. In platea nessun big. Molti i pm. Fra i volti noti, direttamente dalla Procura di Roma, Eugenio Albamonte e Mario Palazzi che con Palamara erano ai ferri corti. Fra i presenti alcune toghe dissidenti aderenti ad Articolo 101, la nuova formazione a favore del sorteggio e della rotazione degli incarichi. Palamara, dopo l’espulsione, ha incassato ieri una nuova sconfitta a Perugia. Il giudice ha dichiarato utilizzabili tutte le conversazioni intercettate con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri. Piove sempre sul bagnato. Separare le carriere in magistratura, per scongiurare nuovi scandali di Bruno Ferraro* Libero, 23 settembre 2020 La nostra Costituzione, come tutte le Costituzioni dei Paesi di cultura occidentale, è basata sul principio della separazione dei poteri. Egualmente dovrebbe e potrebbe ritenersi che anche all’interno della magistratura operi il principio della netta distinzione tra giudici e pubblici ministeri, ovvero tra chi giudica sulla fondatezza di un’accusa e chi del potere di accusare è l’indiscusso titolare. Purtroppo, una tale costruzione nel nostro Paese, benché concettualmente e costituzionalmente sostenibile, non si è mai realizzata. Il pm continua ad accusare, spesso con un grande spiegamento di mezzi e di risorse nonché di sovraesposizione mediatica, ma quando si arriva al dunque, ovvero ad acclarare l’infondatezza delle accuse, gli inquirenti si fanno scudo delle “guarentigie” costituzionali che furono volute esclusivamente per i giudici. Per rendersene conto basta leggere l’articolo 107 della Costituzione, ed in particolare l’ultimo comma che fa discendere le garanzie per i Pm non dalla Carta fondamentale bensì da una legge ordinaria. Così la storia di Mani Pulite è costellata di assoluzioni per personaggi troppo presto condannati alla gogna mediatica. Ricostruzioni storiche effettuate sulla base di dichiarazioni di pentiti si sono rivelate fasulle. Arresti eccellenti sono stati enfatizzati dai mass media anche sulla base di roboanti dichiarazioni dei magistrati delle Procure, che hanno indossato i panni ed il ruolo dei poliziotti dismettendo la prudenza e la riservatezza che dovrebbero caratterizzare i magistrati. Le responsabilità dei magistrati, pur dopo la così detta riforma del governo Renzi, hanno continuato a far capolino in danno dello Stato e quindi della collettività, che possono rivalersi sul magistrato per l’errore inescusabile commesso solo nella misura non superiore alla metà dello stipendio entro due anni dalla condanna e purché il magistrato non sia andato in pensione. È evidente che così non va, anche perché il tasso di deontologia della categoria non è oggi misurabile, mentre il convincimento accusatorio iniziale viene spesso anteposto all’accertamento dei fatti dando spazio alle deduzioni, alle illazioni, all’ideologia, alla sostanziale inversione dell’onere della prova. Un ex pm, condannato e poi assolto sulla base di dichiarazioni di un pentito successivamente suicidatosi, ha riportato in un libro la sua odissea affermando che “il vero problema in materia di giustizia non è quello di fare riforme epocali ma di recuperare la distinzione dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non come servizio nei confronti del cittadino ma come esercizio di un potere”. Vogliamo pensarci, attuando normativamente la separazione di poteri e carriere? Ponendo un argine al collateralismo con la politica ed alla degenerazione correntizia? Questa, tra l’altro, è la lezione che proviene dal caso Palamara e da fin troppo numerosi casi di accuse sbollite in fase dibattimentale. Sarebbe interessante conoscere, in proposito, le intenzioni del ministro Bonafede dopo le sbandierate dichiarazioni di volontà riformatrice rese all’indomani della scarcerazione di centinaia di malavitosi pesantemente condannati. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione “Il giubbotto antiproiettile di Giletti? Riprovevole!”, l’accusa di Claudio Fava di Giorgio Mannino Il Riformista, 23 settembre 2020 C’è un’immagine nei ricordi dei siciliani che il tempo non ha sbiadito. Sono gli anni della cosiddetta “primavera di Palermo”, quando un giornalista americano arriva in città per raccontare il movimento politico e sociale che, all’inizio degli anni Novanta, scuote i palermitani stanchi della cultura dell’illegalità promossa dalla mafia. Il cronista cammina indossando un giubbotto antiproiettile. Un ricordo, questo, tornato ancor più vivo alla memoria pochi giorni fa, quando Diva e Donna pubblica un servizio fotografico che immortala il conduttore e giornalista Massimo Giletti, seguito dalla scorta assegnatagli lo scorso luglio, camminare lungo le vie di Roma col giubbotto antiproiettile. Un’immagine che ha infiammato i social. Il giornalista e presidente della Commissione Antimafia dell’Ars, Claudio Fava, ha parlato, sul suo profilo Facebook, di “miseria di un paese in cui l’esibizione della vita ha preso il posto della vita reale. Da oggi all’antimafia da talk show e fanfare dobbiamo aggiungere quella da giubbotto antiproiettile”. Presidente, cos’ha pensato quando ha visto le foto di Massimo Giletti pubblicate da Diva e Donna? Una tradizione di sobrietà, che va avanti da anni, è stata spazzata via da quella foto. Abbiamo avuto centinaia di persone che sapevano davvero che la loro vita era in pericolo. E magari a qualcuno di loro è stato anche detto che indossare un giubbotto antiproiettile o ricorrere ad altri strumenti di tutela avrebbe offerto un livello di sicurezza maggiore. Ma a questi consigli è sempre seguito un senso di normalità alla propria esistenza in modo che il rischio non fosse esibizione. La cosa peggiore, in questi casi, è permettere che la propria condizione di persona sottoposta a tutela diventi oggetto di racconto mediatico, di suggestione popolare. Parlo per conto dei vivi ma ci sono anche quelli che sono morti per i quali bisognerebbe avere più rispetto. Sapevano di rischiare e hanno vissuto con sobrietà. Massima solidarietà a chi si trova in queste condizioni ma l’esibizione è riprovevole. Ha parlato di antimafia da talk show: cosa sta diventando, in questo senso, l’informazione che parla di mafia? Il giornalista antimafia è un neologismo circense di questi anni. I giornalisti fanno i giornalisti e se devono raccontare la mafia, lo fanno dando notizie, cercando di approssimarsi alla verità. Se raccontando la mafia, questa ci rimane male e ti presenta il conto, non sei un giornalista antimafia ma un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere. Queste etichette da grande fratello che raccontano fuochi d’artificio in salotti televisivi sono la fotografia di un tempo che con la lotta alla mafia c’entra poco. La lotta alla mafia è fatta di poche parole e di toni bassi. E sono tanti i colleghi che, pagati tre euro a pezzo, senza contratto e senza forme di protezione raccontano il malaffare. A quest’antimafia da salotto si aggiunge un altro problema. Talvolta gli strumenti della lotta alla criminalità organizzata, ad esempio lo scioglimento dei Comuni infiltrati dalle mafie, sono funzionali a garantire carriere e proteggere interessi politici ed economici. La Commissione che presiede si è occupata a lungo, in maniera dettagliata, di alcuni casi di scioglimenti per mafia sospetti. Ad esempio Scicli, Racalmuto e Siculiana. Da cosa nasce l’utilizzo distorto e disinvolto di questi strumenti antimafia? Si è determinata una sorta di mitologia sulla parola mafia, diventata un passepartout. Ad esempio si diceva “in quel comune c’è la mafia” e si urlava “sciogliamolo”. O ancora “io sono l’antimafia” e il coro gridava “accompagniamolo”. Questi usi disinvolti e distorti di strumenti importanti nell’azione di contrasto alla mafia nascono dal fatto che mettersi alla testa di un plotone di anti-mafiosi garantisce visibilità e carriera. Sulla vicenda di Scicli, ad esempio, abbiamo scritto una relazione e sono venute fuori interrogazioni parlamentari lunghissime in cui il titolo era “Scicli delenda est”, cioè dev’essere sciolta comunque. Dal punto di vista mediatico si racconta di una cupola mafiosa, di un sindaco mafioso, di una città mafiosa e dunque da sciogliere. Poi col tempo si scopre che la cupola era formata da un soggetto condannato per furto di carburanti, che il sindaco viene assolto e il presidente del tribunale si chiede com’è stato possibile rinviarlo a giudizio. Nelle conclusioni della relazione sullo scioglimento del Comune di Scicli, la Commissione scrive che “s’impegnerà a proporre un approfondimento specifico e una valutazione critica e organica sul testo del Tuel, relativo allo scioglimento dei comuni”: cosa non la convince? E in che modo si può intervenire? Gli strumenti attuali non sono sufficienti per comprendere realmente quale sia il grado di contaminazione mafiosa all’interno di un Comune. Non sempre ci sono queste evidenze. E poi sciogliere un consiglio comunale non significa necessariamente bonificare un Comune. Il lavoro del commissario prefettizio può arrivare fino a un certo punto. Bisognerebbe prevedere una capacità d’intervento che riguardi ancor più la struttura amministrativa interna piuttosto che consigli comunali e giunta. I consiglieri cambiano, i funzionari restano. E anche per prevedere forme di accompagnamento che siano meno drastiche dello scioglimento. Mi riferisco ad un lavoro sussidiario di tutela e sorveglianza attiva lasciando il Comune in vita. Poi abbiamo scoperto che, in questi anni, alcuni scioglimenti sono stati pilotati da una bolla d’opinione pubblica, giornalistica, istituzionale e imprenditoriale che vuole che in quei Comuni ci sia la mafia. E i commissari, i prefetti, sentono il peso di quella vulgata così radicata. Secondo lei a Mezzojuso, sciolto per mafia, questa bolla di opinione pubblica ha avuto il suo peso? La Commissione Antimafia si è occupata del caso delle sorelle Napoli. Prima dell’avvenuto scioglimento abbiamo solo ascoltato gli amministratori del Comune e le sorelle Napoli. Poi abbiamo ritenuto che non ci fossero ragioni per aprire un’indagine sul Comune di Mezzojuso. Ma non do giudizi su vicende che conosco marginalmente. Le scarcerazioni di alcuni mafiosi hanno fatto infuriare parte dell’opinione pubblica. Sul tema della giustizia, secondo lei, in relazione al contrasto alle mafie, c’è un po’ di confusione o no? Abbiamo una magistratura molto attenta, fatte le debite eccezioni, con un’esperienza di lotta alla mafia unica al mondo. La necessità di ricorrere al 41bis è un’affermazione di debolezza perché vuol dire che non siamo capaci di garantire che le carceri siano un luogo che impedisca alle organizzazioni criminali di riorganizzarsi. Detto questo, in questa fase storica, il 41-bis è una necessità, non un’ansia di punizione o di vendetta. Ma occorre una gestione che sia conseguente alla responsabilità che lo Stato si assume. Bisogna procedere con grande prudenza e buon senso. Penso che un capomafia che sta per morire debba avere il diritto a morire a casa sua, perché la dignità della morte è quella della vita. Allo stesso tempo penso che se quel capomafia si trova in regime di 41-bis è necessario venga rispettato lo spirito della norma. La legge Spazza-corrotti la convince? Ho la preoccupazione che queste norme si carichino di una funzione risolutrice e salvifica. Ma non è così. La norma serve fino a un certo punto. Se non si ripensa il rapporto tra amministrazione e comunità, fra funzione politica e società le cose non funzioneranno. Il paese che si affida solo alle norme di repressione e alle sentenze ritenendo sia il metro etico, è un paese distratto. L’intervento del giudice è sempre una sconfitta, non perché non debba intervenire, ma perché significa che prima non c’è stato un intervento di autotutela del corpo politico e istituzionale attraversato da interferenze. Delegare alla magistratura è troppo comodo. Torna al carcere duro il camorrista che non dimostra di voler cambiare rotta di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2020 Legittima la sospensione della proroga delle regole previste per il regime ordinario, nei confronti del soggetto sottoposto al 41-bis se cerca di aver contatti con l’esterno e non è disponibile né al lavoro né allo studio. Il ricorrente, affiliato alla camorra, non aveva inoltre mai preso le distanze dal suo passato criminale e dal suo clan pienamente operativo sul territorio. La Corte di cassazione, con la sentenza 26482, respinge il ricorso e afferma l’esistenza di tutti gli elementi indicativi della elevatissima pericolosità sociale del condannato. Per la Suprema corte il regime ordinario era del tutto inefficace ad arginare il condannato che aveva dimostrato con la sua condotta una perdurante capacità criminale, “all’altezza” della sua biografia e del ruolo svolto nella consorteria: una posizione di vertice, confermata da una sentenza, irrevocabile, della Corte d’Appello. Nel suo curriculum carcerario c’erano molte sanzioni disciplinari severe e nessun indizio di voler cambiare rotta. Tanto basta per sospendere la proroga concessa al carcere duro e tornare al trattamento di maggior rigore. Tolta dalla cella la foto della madre deceduta. La Cassazione: “Lesa la dignità del detenuto” tusciaweb.eu, 23 settembre 2020 Una foto della madre, deceduta. Tommaso Costa, esponente di spicco dell’omonima ‘ndrina di Siderno (Reggio Calabria), la teneva con sé nella cella del carcere di Viterbo, dove è detenuto. Gli agenti di Mammagialla trovano quell’immagine il 3 maggio 2016, e la sequestrano perché “eccedente (18 x 15) le misure massime (10 x 15) stabilite dal regolamento interno” del carcere. Un provvedimento contro il quale Costa si “ribella”, rivolgendosi al magistrato di sorveglianza di Viterbo che però “rigetta il reclamo”. Ma il presunto capobastone ricorre per Cassazione, chiedendo la restituzione della foto “in virtù del fatto che l’immagine della madre deceduta era da ritenere funzionale alla cura del proprio diritto all’affettività”. La suprema corte accoglie il ricorso. “La domanda è da ritenersi inerente a un diritto soggettivo della persona reclusa, individuabile in quello alla cura delle relazioni affettive e da ritenersi esercitabile anche attraverso la conservazione di immagini riproducenti le persone care, specie se decedute. Il diritto in questione comprende quello alla conservazione dell’immagine che riproduce la persona defunta, sorta di diritto al ‘mantenimento della memoria’ attraverso la visione dell’immagine, aspetto che rientra nel mantenimento della dignità della persona” Sì ai domiciliari anche se l’ospitante non garantisce il mantenimento al detenuto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 21 settembre 2020 n. 26507. La capacità economica di chi si rende disponibile a ospitare nella propria casa il detenuto che chieda il beneficio degli arresti domiciliari non incide sulla concessione degli stessi. E, come afferma la Corte di cassazione con la sentenza n. 26507 depositata ieri, il giudice “non deve” prendere in considerazione tale elemento ai fini della concessione della detenzione domiciliare, in quanto la sua decisione va fondata solo sull’idoneità del luogo indicato per la detenzione domiciliare e sulla raggiunta valutazione che escluda la “prevedibilità” di un mancato rispetto delle prescrizioni, che vengono imposte al richiedente la misura alternativa al carcere. Gli obblighi dell’ospitante - Va, infatti, sottolineato che non scatta alcun obbligo di mantenimento da parte della persona ospitante. Sussiste, infatti, solo un obbligo strettamente alimentare, correlato all’impossibilità di procacciarsi un reddito da parte della persona ristretta e che rappresenta, tra l’altro, condizione superabile - almeno in linea di principio - con la concessione dell’autorizzazione a svolgere un lavoro all’esterno. La prescrizione della Cassazione - Da ciò discende che la valutazione del giudice chiamato a decidere sulla richiesta del beneficio non deve in alcun modo prendere in considerazione la forza economica dell’ospitante a provvedere al mantenimento del detenuto, cioè a soddisfare le esigenze personali ed economiche del congiunto sottoposto alla misura restrittiva: essendo i familiari gravati solo da un obbligo “strettamente alimentare”, che in ipotesi può essere anche soddisfatto dal possibile lavoro all’esterno del congiunto ristretto in casa. Compensi della difesa, nessuna decadenza di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2020 Corte di cassazione - Sentenza 26507/2020. Nel patrocinio a spese dello Stato, l’avvocato che deposita la domanda di liquidazione dopo la pronuncia non incorre in nessuna decadenza. La Corte di cassazione, con la sentenza 26507, accoglie il ricorso del legale contro il no alla liquidazione degli onorari per l’attività svolta come difensore del fallimento di una Srl, ammessa al gratuito patrocinio. Alla base del rifiuto della Corte d’Appello, confermato dal consigliere delegato, c’era l’interpretazione del testo unico sulle spese di giustizia. L’articolo 83, comma 3-bis del Dpr 115/2002, prevede, infatti, che l’emissione del decreto di pagamento sia contestuale alla pronuncia del provvedimento che chiude la fase a cui si riferisce la richiesta. Nel caso esaminato la domanda tesa ad avere gli onorari era, invece arrivata dopo, quando, ad avviso della Corte territoriale, il giudice aveva perso la sua potestas iudicandi. Ma la Cassazione ribalta il verdetto, chiarendo che la norma in questione ha è a tutela del difensore. E ha lo scopo di raccomandare la sollecita definizione delle procedure di pagamento dei compensi, senza imporre per l’avvocato alcuna decadenza. A supporto della decisione la Cassazione ricorda che, al contrario, per l’ausiliario del giudice c’è un dead line espressa, con contestuale perdita del diritto, se l’istanza non arriva entro 100 giorni dalla fine delle operazioni. Campania. Regionali, al voto solo 48 detenuti su un migliaio di aventi diritto di Viviana Lanza Il Riformista, 23 settembre 2020 “Poche informazioni sui diritti e disaffezione per la politica”. Così il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, commenta i dati sull’affluenza al voto all’interno delle carceri. I detenuti che hanno esercitato il diritto di voto per il referendum e per le elezioni regionali sono stati, in tutta la Campania, appena 48. Su una popolazione di migliaia di detenuti, 48 sono un numero minimo. “Un numero decisamente inferiore anche rispetto ai detenuti votanti del 2018 che sono stati 120 su un migliaio di aventi diritto”, aggiunge Ciambriello. “Sono i detenuti che beneficiano della legge del 23 aprile 1976, la legge che permette l’esercizio del diritto di voto da parte degli imputati di qualsiasi reato mediante la creazione di un’apposita sezione elettorale all’interno dell’istituto di pena e che raccoglie il voto dei detenuti, quelli aventi diritto e che hanno manifestato la volontà di esprimere il voto nel luogo di detenzione”, spiega il garante illustrando l’iter all’interno degli istituti di pena. Per i detenuti, infatti, è stato allestito un seggio ad hoc all’interno del carcere. La procedura non è stata immediata, nel senso che c’è stato un preciso iter da seguire, in base i detenuti che intendevano votare hanno dovuto presentare una specifica istanza al sindaco del proprio Comune di residenza (l’istanza è valida fino a tre giorni dalle elezioni e il Comune a cui viene inoltrata deve verificare che il richiedente abbia diritto al voto). Fatta questa verifica, i Comuni in questione hanno inoltrato i certificati elettorali alle carceri dove si sono costituiti appositi seggi, con apposite commissioni, per raccogliere i voti dei detenuti. “È una procedura che non ha mai dato problemi”, spiega Ciambriello. Eppure, a leggere i numeri, i detenuti alle urne tra domenica e ieri sono stati pochi, pochissimi. Nelle carceri di Bellizzi, Ariano, Airola, Lauro e Benevento non c’è stata alcuna richiesta per esercitare il diritto al voto, vuol dire che nessuno dei reclusi di questi istituti ha voluto esercitare quello che resta un diritto valido anche per chi vive dietro le sbarre come a rimarcare una distanza non solo fisica con il mondo fuori. Nelle altre strutture penitenziarie della regione, soprattutto in quelle più grandi, l’affluenza al voto, pur se limitata, c’è stata. Ma ancora una volta basta leggere i numeri per avere un’idea della realtà. A Poggioreale, nel più grande carcere d’Italia e forse d’Europa, hanno votato solo tre detenuti, a Secondigliano sono stati quattro. Numeri esigui anche nel carcere femminile di Pozzuoli, dove hanno esercitato il proprio diritto di voto soltanto tre detenute, e in quello minorile di Nisida, dove ha votato un solo detenuto. Un votante anche nel carcere di Aversa, uno in quello di Santa Maria Capua Vetere, uno anche nelle strutture penitenziarie di Salerno, Vallo della Lucania, Arienzo. Nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere hanno votato tre detenuti, mentre a Carinola cinque, a Eboli quattro e a Sant’Angelo Dei Lombardi venti. “Cresce il disinteresse dei detenuti verso la politica che ha rimosso il carcere dai suoi interessi - osserva Ciambriello. Ma è anche vero che i detenuti sono poco informati sui loro diritti e su come esercitarli e soprattutto proiettano i loro interessi e le loro energie sulle criticità interne agli istituti e sulle loro vicende giudiziarie, vivendo il carcere come un proprio microcosmo”. Benevento. Visita in carcere del Garante regionale, insieme al direttore della Caritas linkabile.it, 23 settembre 2020 In questi giorni nel carcere di Benevento è stato al centro dell’attenzione, poiché è stato avviato uno screening di massa, per complessivi 752 tamponi da effettuarsi. Al momento sono risultati positivi sia tre detenuti del reparto alta sicurezza che tre agenti di polizia penitenziaria. Tutti asintomatici. Non è escluso che alla fine dei tamponi per agenti, personale sanitario, amministrativo e detenuti ci possano essere altri casi. Ieri il Garante delle persone private della libertà della Regione Campania Samuele Ciambriello si è recato nel carcere per osservare da vicino la situazione ed effettuare colloqui con i detenuti, accompagnato dal suo staff. Il Garante campano ha dapprima incontrato il Responsabile della Caritas don Nicola De Blasio e il direttore della casa circondariale di Benevento, con i quali ha discusso della possibilità di attivare una convenzione, con un contributo del garante, per detenuti che escono dal carcere per lavori di pubblica utilità e/o socialmente utili. I tre poi si sono recati presso la sede della cooperativa N.C.I.S., dove un gruppo di detenute, socie della cooperativa stessa, svolgono attività di sartoria. Hanno poi proseguito verso la biblioteca del carcere, per visitarla e parlare con il detenuto responsabile dell’archiviazione e della cura della biblioteca stessa. Successivamente il garante e il suo staff hanno iniziato i colloqui con detenuti e detenute che ne hanno fatto richiesta. Nel pomeriggio il professore Ciambriello si è invece recato nella sezione femminile, dove è stato avviato proprio oggi un progetto trattamentale promosso dal Garante e gestito dalla cooperativa I Care. Durante la giornata il Garante ha inoltre potuto assistere al compimento di complessivi 48 tamponi effettuati al personale di polizia penitenziaria, agli operatori sanitari e ai detenuti. Bologna. Inclusione lavorativa dei detenuti in carcere: alcuni aspetti da conoscere aspbologna.it, 23 settembre 2020 Diverse settimane fa avevamo introdotto la figura dell’operatore Cefal, ovvero chi nel carcere della Dozza si occupa dei detenuti, cercando di aiutarli e sostenerli per un corretto reinserimento in società. Questo obiettivo si può raggiungere mediante un percorso di inclusione lavorativa che avevamo solo accennato nel precedente articolo, ma che non avevamo approfondito nello specifico. Ci preme ora andare più in profondità rispetto all’inclusione lavorativa in carcere, analizzando i settori più appetibili per le persone detenute e scoprendo, inoltre, come ciò può essere di grande aiuto per la comunità bolognese. Il target di persone che ottiene maggiori risultati - I percorsi di inclusione lavorativa in carcere non sono a disposizione di ciascun detenuto, è bene specificarlo fin dall’inizio. Dentro le mura della Dozza, infatti, ci sono circa 700 detenuti e sarebbe praticamente impossibile riuscire a garantire un impiego per ciascuno di loro. I percorsi, dunque, sono a numero chiuso e quando si apre una possibilità d’inserimento all’interno di un percorso, basato su formazione in aula e 3 mesi di tirocinio, gli operatori Cefal chiedono sempre la disponibilità a più persone, individuando quelle maggiormente interessate e compatibili con i percorsi disponibili. In generale è stato constatato che le persone anziane sono quelle più difficili da collocare e da inserire all’interno di tali progetti, a differenza invece della fascia di adulti che va dai 30 ai 40 anni. Le persone di questa fascia d’età, mediamente, sono quelle più motivate e più propense a svolgere invece percorsi di inclusione lavorativa. Si trovano infatti in una fase della loro vita particolare, durante la quale hanno capito l’approccio corretto utile per potersi riabilitare all’interno non solo delle mura del carcere, ma anche al di fuori, quando rientreranno a contatto con la comunità bolognese. Da non sottovalutare anche l’approccio delle donne all’interno del carcere. Pur essendo in netta minoranza, si rivelano sempre molto impegnate e motivate, soprattutto perché sentono la responsabilità dei figli e dei mariti a casa. I settori più appetibili per le persone detenute - Quando si scelgono i settori più appetibili e le attività di maggior interesse per i detenuti, si tiene ovviamente conto delle loro passioni e delle esperienze pregresse che hanno accumulato negli anni. In linea di massima, i settori che vanno per la maggiore tra i programmi di inclusione lavorativa per le persone detenute sono nell’ambito della ristorazione, quello del video-making, della sartoria e del giardinaggio. Un altro ambito che spesso viene proposto ma che non prevede un inserimento altrettanto facile da parte dei reclusi è quello delle pulizie. Quest’ultimo infatti è abbastanza difficoltoso per il tipo di lavoro che propone, dato che prevede turni complicati e un lavoro di squadra, caratteristiche non sempre nelle corde delle persone detenute per il contesto in cui vivono. Su tutti, i settori della ristorazione e del giardinaggio, invece, sono quelli che riscontrano il successo maggiore, nei quali l’impiego di persone detenute avviene con alta frequenza. Questo grazie ai corsi di formazione ad hoc, ma anche per la possibilità di trovare degli impieghi già durante il reinserimento in società. Non è raro il fatto che le persone, dopo essere state scarcerate, siano riuscite a farsi assumere in alcune aziende dello stesso settore. Per le persone detenute è fondamentale quindi poter avere la possibilità di seguire questi percorsi lavorativi. Innanzitutto per attivare la propria volontà di lavorare continuativamente, ma soprattutto perché possono offrire una possibilità concreta di guadagno col passare del tempo. Non ha alcun senso, dunque, lasciare le persone detenute abbandonate a loro stesse all’interno del carcere. Bisogna concedere anche a loro la possibilità di trovare un’attività interessante, e magari un lavoro, come primo spiraglio per un pieno reinserimento in società. Cagliari. “I nostri cari in carcere a Uta, e quei colloqui così degradanti” L’Unione Sarda, 23 settembre 2020 “Per chi entra in carcere l’impatto è fortissimo, disumanizzante, e per i bambini nessuna protezione”. “Cara Unione, giorni fa sono stata in carcere a Uta. Come fare per ottenere una visita? Ore e ore attaccata al telefono, difficilissimo riuscire a prendere la linea, una e con un solo operatore. Bisogna prendere un appuntamento, per evitare assembramenti inutili e pericolosi. Quindi, il giorno dell’agognata visita, si attende sotto una tenda nel parcheggio. Pochi giochi di plastica, sporchi, sono ammassati in un angolo, ovviamente inutilizzabili dai bambini presenti, che corrono in tondo, senza alternative. Si entra, superando i vari controlli, certificando, firmando, seguiti dalle guardie carcerarie, molto disponibili. Anche attraversando grate, immagini forti cui i bambini - ne ho visti di piccolissimi - vengono esposti senza alcuna attenzione e protezione. Dopo un’ora, si viene condotti nella stanza dei colloqui, su sei postazioni, quattro sono occupate. Quattro nuclei familiari che parlano insieme, con un’acustica che non permette di sentirsi. Rumore. L’effetto è devastante, forse ci si abitua, ma l’impatto è fortissimo, disumanizzante. Come è possibile che sia stato pensato un luogo preposto alla rieducazione con caratteristiche degne di un carcere ottocentesco? Come è possibile permettere l’ingresso di bambini in un ambiente così squallido, senza tutelare la possibilità di favorire la loro relazione con il genitore? Come si può pensare che ci si possa redimere se il trattamento, cioè anche la relazione col nucleo familiare di appartenenza, è così degradante? Queste e altre domande mi ha suscitato questa triste esperienza. Mi chiedo, cui prodest?”. Lettera firmata Sassari. Da una cella di Bancali al diploma all’Alberghiero La Nuova Sardegna, 23 settembre 2020 Lo scorso 9 settembre, nella sessione dei privatisti, un detenuto della sezione dei comuni della Casa circondariale di Bancali ha sostenuto con esito positivo l’esame di Stato all’Ipsar (Istituto Professionale per i Servizi per l’Enogastronomia e l’Ospitalità Alberghiera) di Sassari, conseguendo il diploma di Tecnico dei Servizi Enogastronomici. Questo risultato è stato conseguito con un percorso sostenuto da un gruppo di volontari dell’Associazione “Oltre i muri-Volontari a Bancali”. All’interno dell’Associazione si è costituito un “gruppo formazione”, composto da docenti di varie discipline che ha permesso al detenuto di ottenere in un anno l’idoneità al quinto anno, dando l’esame di terza e quarta all’Ipsar, e proseguendo quest’anno con la preparazione per l’Esame di Stato. Questo percorso è stato costruito per la scelta del detenuto di voler avviare un suo personale itinerario di riabilitazione e di reinserimento sociale acquisendo capacità e competenze spendibili in un contesto sociale in cui la professionalità possa essere spendibile, indipendentemente dai precedenti giudiziari di una persona. L’azione è stata possibile grazie alla disponibilità della Direzione della Casa circondariale e delle educatrici che l’hanno sostenuta. I volontari sono entrati nella Casa circondariale seguendo un calendario di lezioni articolato settimanalmente. “La nostra associazione - sottolineano da “Oltre i muri” intende mobilitare altre associazione, altri organismi e singole persone per dialogare con la Casa circondariale su progetti e proposte che possano contribuire a qualificare alcuni aspetti della vita quotidiana in carcere e ad offrire ai detenuti strumenti e competenze per acquisire consapevolezza delle loro capacità e della possibilità di utilizzarle in modo costruttivo all’interno del carcere e nel comunicare sé stessi al mondo esterno. In questa prospettiva sono state attivate altre iniziative del gruppo formazione di carattere culturale e formativo”. Catanzaro. Convegno “Carcere e sistema penale al tempo del covid-19: realtà e prospettive” weboggi.it, 23 settembre 2020 Si svolgerà giovedì 1 ottobre 2020, con inizio alle ore 15.30, in modalità webinar, il convegno dal titolo “Carcere e sistema penale al tempo del covid-19: realtà e prospettive”, organizzato dalla Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro. L’evento si propone di operare una riflessione sulla situazione penitenziaria italiana, con particolare attenzione alle misure emergenziali adottate dal Governo italiano per prevenire e arginare la diffusione del covid-19 e alle possibili strade che possano consentire di superare le croniche criticità del mondo carcerario italiano. Dopo i saluti istituzionali del presidente della Camera Penale, avv. Valerio Murgano, i lavori saranno introdotti e moderati dall’avv. Orlando Sapia, responsabile dell’Osservatorio Carcere. Saranno chiamati a confrontarsi sul tema il prof. Mauro Palma (Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà), la dott.ssa Laura Antonini (Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro), l’avv. Agostino Siviglia (Garante per la Regione Calabria dei diritti delle persone private della libertà), il Prof. Alberto Scerbo (docente di Filosofia del Diritto presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro) e l’avv. Gianpaolo Catanzariti (Responsabile dell’Osservatore Nazionale Carcere dell’Ucpi). Carolina Crescentini: ho imparato che le regole si scontrano con il cuore La Stampa, 23 settembre 2020 “Mare Fuori”, una produzione sul disagio giovanile. Carolina Crescentini per la prima volta impegnata in una novità assoluta, un prison drama che scava nella pelle dei giovani e in quella di quanti si trovano a dover comunicare con loro, per educarli, correggerli, salvarli. “Un istituto di pena minorile si spera essere un luogo di passaggio e di trasformazione verso una vita all’opposto. Il cambiamento deve essere soprattutto emotivo, plasmato anche dalla necessità di vivere lì dentro. Quando si è adolescenti, il confine fra bene e male è spesso labile, un filo sottile sul quale si vuole camminare per mettersi alla prova e per soddisfare i propri desideri senza paura o almeno senza mostrare di averla. Raccontare la loro quotidianità, andare oltre le sbarre. A volte per loro che vengono da famiglie “di sistema” si tratta quasi di un percorso obbligato. Ma ci sono pure coloro che, per leggerezza, hanno fatto un errore inaspettato. Sono luoghi, gli istituti di pena, che la società tende a dimenticare. Noi non voltiamo lo sguardo”. Prodotta da Rai Fiction e da Picomedia, la serie in sei puntate diretta da Carmine Elia, Mare Fuori va in onda da stasera su Rai 2 e vede appunto Carolina Crescentini nei panni della direttrice del carcere, rigida, donna di protocollo, per lei esistono solo responsabilità, regole e rapporto causa- conseguenze. Ha la necessità di far capire ai reclusi che anche una leggerezza è una colpa e come tale viene trattata. Ma quando poi entra in campo il cuore e con dei ragazzi è impossibile tenerlo fuori, tutto cambia. Con lei Carmine Recano, una guardia carceraria che non si rassegna al destino, all’apparenza segnato dei giovani detenuti e invece tenta di cambiare la loro condizione. Perché anche lui viene dalla strada. Racconta Crescentini: “Abbiamo incontrato i ragazzi di Nisida (il carcere minorile di Napoli) e abbiamo parlato con loro. Si sono aperti, come gli operatori e gli agenti penitenziari. Anche il direttore della struttura, che lavora in condizioni disagiate, cerca di dare ai ragazzi la consapevolezza di non essere soli”. Per rispondere a una precisa struttura narrativa si indulge anche sul melò, ritenuto una vitamina necessaria a che una produzione non risulti esangue. E il Mare Fuori del titolo a che si riferisce? “Il mare fuori - dice Crescentini - è il bosco delle favole che bisogna attraversare per crescere. Il mare fuori è anche quello che si vede oltre le sbarre”. Per quanto riguarda i giovanissimi attori sono stati scelti ragazzi che vengono da un tessuto sociale complicato. Spiega il regista Carmine Elia: “La produzione ha attinto all’esperienza di Don Antonio, parroco della Sanità a Napoli, che è riuscito a creare una cooperativa fortissima che si occupa di arte, un’orchestra, Sanità Ensemble, attori, registi. Un sacerdote manager che ha saputo bonificare il quartiere”. Per il direttore di Rai 2 Ludovico De Meo questa serie si inserisce nel lavoro della rete che vuole recuperare nel racconto il pubblico dei giovani”. “I social paiono tribunali. Ma la gogna mediatica ti uccideva anche prima” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 23 settembre 2020 “Si chiese, per l’ennesima volta in vita sua, che senso avesse continuare a esibirsi su quello sgangherato e traballante palco- osceno che era ormai diventata la sua professione, che senso avesse il processo penale, in cosa consistesse la giustizia e quali fossero le differenze - perché ce n’erano, eccome - con la legge, che senso avesse la stessa esistenza dell’uomo e quale significato potesse essere attribuito a certi fatti, a certi comportamenti, a certe tragedie, alla morte di un ragazzino, alla vita di un assassino, chiunque fosse e qualunque fosse il motivo che ne aveva armato la mano”. Riflette, Alessandro Gordiani, senza riuscire a frenare quel rovello interiore che da sempre lo tormenta. Protagonista del nuovo romanzo di Michele Navarra, “Solo Dio è innocente” (Fazi Editore), l’avvocato romano viene chiamato nella Sardegna profonda a difendere Mario Serra, una lunga scia di sangue e vendetta alle spalle, principale sospettato dell’omicidio a sangue freddo di un quindicenne. Scrittore e avvocato penalista dal 1992 - nel corso della sua lunga carriera ha potuto seguire alcuni tra i casi più controversi della storia italiana, dalla strage di Ustica alla banda della Uno bianca: “Il processo penale italiano è assolutamente avvincente e anche spettacolare, basta essere capaci di rappresentare, con il giusto grado di tensione narrativa, ciò che avviene nelle aule giudiziarie”. Lei e il protagonista del suo nuovo romanzo, Alessandro Gordiani, siete accomunati dalla medesima professione, ovvero quella di avvocato. Condivide i dubbi e le considerazioni che esprime il suo personaggio? Quando - una decina di anni fa - ho cominciato a scrivere, era molto più facile imprimere sulla carta i sentimenti e le sensazioni del personaggio: mi basavo su quello che provavo in prima persona. Mi sono tuttavia reso conto che, con il tempo e con il procedere della scrittura - questo è il mio sesto romanzo -, il personaggio si affrancava, diventando qualcosa di diverso da me, o, meglio, un me aspirazionale: non era più tanto Alessandro Gordiani che mi somigliava quanto io che avrei voluto somigliare a lui. Condivido molti dei dubbi di Alessandro; si tratta di un avvocato di carta, ed è quindi molto più facile per lui prendere decisioni che nella pratica quotidiana, ci vengono impedite. I modi di pensare possono essere coincidenti o leggermente divergenti, ma nella sostanza Alessandro Gordiani non penserà mai qualcosa di diametralmente opposto rispetto a me. Altra grande protagonista del libro è la Sardegna. Sono presenti anche riferimenti al codice barbaricino... A mio avviso, oggi il codice barbaricino non esiste più. Le regole su cui si fonda sono tramandate oralmente di generazione in generazione; negli anni Cinquanta un grande giurista e filosofo come Antonio Pigliaru ha provato a metterle per iscritto, dopo importanti ricerche a carattere socio- antropologico effettuate sul campo. Si tratta, volendo riassumere in maniera superficiale, di una sorta di legge del taglione, pur con norme specifiche. All’inizio della mia attività professionale mi sono imbattuto in episodi di questo tipo. In quanto alla Sardegna, devo confessare che la conosco molto bene. Sono stato accudito fin da piccolo da - per usare una parola ormai desueta - una tata sarda, per la quale provo un affetto smisurato, mentre mia suocera è di Fonni, che fa da cornice al racconto. Ho potuto visitare di persona i luoghi, i murales, i ristoranti. La Sardegna, contrapposta a Roma, così strutturata e al contempo caotica, emana un fascino intenso, selvaggio. “Dicevano tutti così gli imputati: sempre innocenti a dar retta a loro”: quanto può essere determinante il pregiudizio in casi del genere? Dipende dalla sensibilità individuale. Per l’imputato, l’avvocato rappresenta sempre il primo banco di prova per testare la propria versione. Non sappiamo mai se la persona che abbiamo davanti sia colpevole o innocente, non ci viene mai detto, ad eccezione di casi eclatanti. Per esperienza so che molte volte gli assistiti mentono. Ciò nonostante, si cerca sempre di tarare la veridicità di quanto ci viene detto, anche per impostare una difesa efficace. A volte diventa necessario convincere l’imputato a seguire una linea difensiva piuttosto che un’altra. Si ha nelle mani la vita di una persona, e non si può sapere a priori se la strategia che si sta intraprendendo sia vincente. Il pregiudizio c’è e ci deve essere: se non ci si ponesse in maniera critica di fronte al proprio assistito si diventerebbe semplicemente i suoi portavoce. Bisogna quindi sempre valutarne le parole; dopo, ogni avvocato segue una propria linea. È indubbio che, in un ordinamento civile e democratico, tutti abbiano diritto a una difesa, poi sta alla sensibilità individuale come affrontare i diversi casi. Cosa ne pensa del fenomeno del naming and shaming? È qualcosa che, anche se in altro modo, è sempre esistito, fin dai tempi del Dopoguerra, quando la gente si assiepava fuori dalle Corti d’Assise per assistere ai processi ed emettere già un giudizio di colpevolezza, anche senza bisogno dei social. Ancora oggi, a Roma, se qualcuno osserva in una certa maniera una ragazzina, circola la battuta: “Ma chi sei, Girolimoni?”, citando un uomo ingiustamente accusato di essere un pedofilo assassino, autore di cinque omicidi irrisolti, e, in seguito, completamente assolto. A distanza di tanti anni ricordiamo a sproposito il cognome di una persona innocente per indicare un mostro. Si potrebbe fare l’esempio del portiere Pietrino Vanacore, in riferimento al delitto di Via Poma, come anche tanti altri. Oggi, con l’amplificazione dei social media e dai programmi televisivi, si emettono continuamente giudizi sui processi in corso. Nel romanzo Alessandro esprime la sua perplessità circa la coincidenza tra legge e giustizia. Condivide? La differenza tra legge e giustizia servirebbe proprio a mitigare i giudizi sommari frequentemente espressi. Ogni caso, in realtà, non è, come tutti vorremmo credere, solo in bianco e nero, presenta varie tonalità di grigio. Se facessimo l’esempio classico della legittima difesa - un ladro entra in una casa e il proprietario, spaventato e armato, lo uccide - c’è chi giudicherebbe eccessiva la sua reazione e chi converrebbe sulla necessità di difendersi anche commettendo un omicidio. Un giudice, che si trova a dover interpretare la legge, può emettere una sentenza di assoluzione o di condanna - quindi due esiti diametralmente opposti - sulla stessa base di elementi giuridicamente corretti. Applicare in maniera corretta la legge, quindi, non significa necessariamente aver fatto giustizia. Esiste sempre un minimo spazio di interpretazione: la legge è sempre scritta da uomini e non può mai essere perfettamente coincidente con la giustizia. Una certa ambiguità di fondo costituisce proprio l’humus su cui si fondano generi letterari come il noir o il legal thriller... Parafrasando il titolo del mio libro, solo Dio è innocente. E forse nemmeno lui. Il dopo Covid è un’occasione per rilanciare la scuola di Mauro Magatti Corriere della Sera, 23 settembre 2020 Buona parte dell’estate è stata spesa a discutere della riapertura della scuola. E finalmente, dopo mesi di incertezze e discussioni, gli studenti sono tornati in classe. I problemi certo non sono finiti. Sarà una battaglia. Ma al di là di tutto, un obiettivo è già stato raggiunto: dopo anni di trascuratezza, il Covid ha riportato alla ribalta la scuola. Oggi c’è più consapevolezza che senza una buona offerta formativa non c’è futuro. Una nuova sensibilità filtrata fin dentro le linee guida approvate dal governo per il Recovery Plan, dove “istruzione e formazione” costituiscono una delle sei macro aree su cui si intendono spendere le risorse in arrivo dall’Europa (le altre sono: digitalizzazione e innovazione; transizione ecologica e rivoluzione verde; infrastrutture per la mobilità; equità, inclusione sociale e territoriale; salute). Un ottimo proposito. Come un aereo, una società avanzata si regge solo su due ali: l’infrastruttura tecnica e la qualità delle sue persone. La realtà però è un’altra: in questo campo, infatti, abbiamo accumulato un grave ritardo. Nella fascia d’età 25-34 anni, il 44% ha una laurea, ma siamo comunque indietro: in Corea sono al 70% e in Canada e in Irlanda al 60%. Soprattutto siamo ancora lontani da un livello accettabile di efficacia del percorso scolastico: ancora oggi uno studente italiano su quattro non raggiunge il livello 2 di competenza in lettura, che significa riuscire a identificare l’idea principale in un testo, trovare informazioni basate su criteri espliciti, e riflettere sullo scopo e la forma del contenuto proposto (dati test Pisa). Va male anche per le competenze digitali dove, nel 2018, l’Italia si piazza quart’ultima fra i Paesi dell’Unione Europea (seguita solo da Bulgaria, Grecia e Romania). Si stima che, ad oggi, il 40% dei lavoratori non è nelle condizioni utilizzare in modo efficiente gli strumenti digitali. Nonostante questi dati, da anni stiamo disinvestendo: secondo Eurostat, nell’ultimo decennio la nostra spesa in istruzione (dalla scuola dell’infanzia all’università) è diminuita ponendoci all’ultimo posto in Europa rispetto alla spesa pubblica totale (circa l’8%, più o meno quanto spediamo per gli interessi sul debito) e al quintultimo posto rispetto al Pil (meno del 4%). Con il Nord - in primis la Lombardia - che ha dati peggiori del Sud. Né le cose vanno meglio se guardiamo il mondo delle imprese, dove la voce formazione dei dipendenti rimane più bassa della media dei paesi Ocse. Senza dir nulla poi del nodo irrisolto della formazione professionale e della difficoltà nell’avvicinare il pensare con il fare. Ci sfugge il rapido aumento della complessità che caratterizza la nostra vita sociale: l’elevato contenuto cognitivo dei mondi altamente tecnicizzati; la complessità culturale derivante dalla integrazione tra diverse aree del mondo; la difficoltà di riuscire a trattare l’enorme quantità di informazioni caotiche a cui siamo esposti. In questa situazione, mancare di una solida formazione di base e dei necessari percorsi di aggiornamento significa, come ha insegnato Bernard Stiegler, finire prigionieri delle nuove forme di proletarizzazione che producono la perdita di “saper fare”, “saper vivere” e “saper pensare”. In un mondo sempre più accelerato e tecnicizzato, la formazione delle persone è condizione per avere crescita economica, presupposto per rendere stabile la democrazia, antidoto per contenere l’odio e la violenza. Se l’Italia oggi arranca è perché - dopo il grande salto compiuto con l’introduzione della scuola pubblica universale - sono ormai decenni che abbiamo smesso di investire nelle persone. Ora, la crisi del Covid ci porta a un bivio: o si sarà capaci di cambiare strutturalmente la rotta oppure il sistema scolastico (e non solo) collasserà. Il gran parlare, a volte un po’ surreale, di scuola non si esaurisca dunque col suono della prima campanella. Rispetto al tema formazione, dobbiamo recuperare una arretratezza più che decennale. Cominciando con tante realizzazioni concrete. Ma avendo anche il coraggio di osare pensare in grande. Come sono stati capaci di fare i nostri padri. Proviamo a pensarci: non erano forse degli autentici visionari coloro che hanno cominciato a immaginare la scuola obbligatoria per tutti quando solo pochi sapevano leggere e scrivere? In realtà, cio che serve è una nuova comprensione del significato della formazione in una società avanzata. Lo ha detto, a suo modo, il presidente Mattarella nel suo intervento per la giornata mondiale dell’alfabetizzazione. Termine bellissimo - fatto delle prima due lettere dell’alfabeto - che va interpretato nel suo senso più vero: che cosa serve per essere capaci di usare le tante lingue e i molteplici segni del nostro tempo e così diventare cittadini del mondo avanzato? Non preoccupiamoci di avere subito tutte le risposte. Non rinunciamo, piuttosto, a porci domande ambiziose. Come vanno ripensate le scuole, soprattutto oggi dopo la pandemia, affinché riescano a diventare polmoni diffusi di conoscenza, luoghi di interazione col territorio, vettori di sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo che sempre più è e sarà “on-life”? Come va riqualificato (e diversamente pagato) il ruolo docente affinché possa tornare a essere una figura di riferimento in grado di accompagnare le nuove generazioni a misurarsi con un mondo tanto complesso? Quali forme dovrà assumere un sistema organizzato e efficace di formazione continua, pilastro mancante nell’idea novecentesca di istruzione? Migranti. Stavolta forse si cambia davvero di Carlo Lania Il Manifesto, 23 settembre 2020 Alla fine di luglio si erano lasciati con la promessa di rivedersi a settembre per mettere fine alla revisione dei decreti sicurezza e portare finalmente il nuovo provvedimento su “immigrazione e sicurezza” in consiglio dei ministri. Nessuno, però, di certo immaginava che l’esito delle elezioni regionali avrebbe ridisegnato gli equilibri all’interno della coalizione, al punto che quello che fino a ieri era solo un impegno oggi starebbe per diventare realtà, con il Pd che preme per accelerare i tempi. L’ordine del giorno del prossimo consiglio dei ministri, che potrebbe tenersi già domani, dovrebbe così contenere anche il lavoro di riscrittura svolto dalla maggioranza sui decreti voluti da Matteo Salvini quando era ministro dell’Interno e sui quali anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva mosso dei rilievi. Le modifiche fatte vanno ben oltre le obiezioni del Quirinale e sono il frutto di un attento lavoro di mediazione svolto dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Le novità più importanti riguardano le navi delle ong per le quali sono state cancellate le maxi multe. Si torna alle sanzioni già inserite nel Codice della navigazione che prevede multe comprese tra i 10 mila e i 50 mila euro per le navi che non rispetteranno il divieto di ingresso nelle acque nazionali (articolo 1102, navigazione in zone vietate). Una modifica resa possibile dalla trasformazione dell’illecito da amministrativo in penale. Su questo punto si erano manifestate le resistenze maggiori da parte dei 5 stelle. Altre novità di rilievo riguardano la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe comunale (abolita con il primo decreto sicurezza ma ripristinata dalla Corte costituzionale) con in più la possibilità di richiedere la carta di identità. Viene inoltre ricreato di fatto il sistema di accoglienza, più che dimezzato dal precedente governo. Il nuovo testo prevede una riduzione drastica dei circa 5 mila Cas (Centri di accoglienza straordinaria), mega strutture che verrebbero sostituite con centri più piccoli dove troverebbero posto al massimo cento persone e diffusi nel territorio. Due i livelli di accoglienza: il primo, al momento dello sbarco, gestito dal governo attraverso i prefetti, e un secondo gestito dai Comuni per i quali potrebbero esserci degli incentivi. Vengono inoltre ridotti i tempi di detenzione all’interno dei Centri per i rimpatri (Cpr) dagli attuali 180 giorni a 90, e vengono estesi i casi in cui sarà possibile vedersi riconoscere la protezione umanitaria, allargata a chi rischia di subire “trattamenti inumani e degradanti” nel Paese di origine, a chi necessita cure mediche, a chi proviene da Paesi in cui sono avvenute gravi calamità oltre che alle famiglie con figli minori, alle persone gravemente malate e a quelle con disagio psichico. Migranti. Oggi il nuovo piano europeo, ma è già scontro di Leo Lancari Il Manifesto, 23 settembre 2020 Non c’è intesa sul ricollocamento dei richiedenti asilo. L’Italia promette battaglia. Rimandato per mesi prima per l’emergenza Covid e poi per la discussione sul recovery fund, il nuovo piano europeo su immigrazione e asilo verrà presentato questa mattina dalla presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen e dalla commissaria agli Affari interni, la svedese Ylva Johannson, in una conferenza stampa che si terrà alle 12 a Bruxelles. “Aboliremo il regolamento di Dublino”, ha promesso Von der Leyen nel discorso tenuto la scorsa settimana sullo stato dell’Unione. Un annuncio che ha ovviamente alimentato le speranze dei Paesi del Mediterraneo, Italia in testa, che da anni chiedono una più equa distribuzione del peso dei migranti che arrivano in Europa. In realtà c’è più di una possibilità che le cose possano andare diversamente. Come ammesso dalla stessa Von der Leyen, in questi mesi la Commissione ha dovuto lavorare alla ricerca di un compromesso con i Paesi dell’Europa centro orientale da sempre contrari ad accogliere richiedenti asilo. Le possibilità che si possa quindi arrivare finalmente a un meccanismo obbligatorio di ricollocamento dei profughi tra i 27 Stati - come più volte sollecitato negli ultimi anni da Italia, Malta, Grecia e Spagna - è quindi molto labile. Più facile che la Commissione, venendo incontro alle richieste di Austria, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, proponga la cosiddetta “solidarietà flessibile” offrendo a chi non vuole accogliere richiedenti asilo la possibilità di intervenire in aiuto ai Paesi di primo approdo stanziando fondi oppure fornendo mezzi e personale specializzato. Un po’ come accaduto nelle scorse settimane dopo l’incendio del campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo, dove anziché farsi carico delle famiglie di profughi alcuni Paesi hanno preferito offrire tende e coperte per allestire un nuovo campo. Non a caso proprio ieri, ai giornalisti che lo interrogavano in proposito, un portavoce della Commissione Ue ha liquidato l’eventuale abolizione e o riforma del regolamento di Dublino come un semplice “questione semantica”. Discorso diverso, invece, per quanto riguarda i rimpatri dei migranti ai quali non verrà riconosciuto il diritto ad avere la protezione internazionale: verranno intensificati e saranno a carico degli Stati membri. La presentazione di oggi è comunque solo l’avvio di un percorso che già si annuncia difficile. Il piano, composto da cinque regolamenti, dovrà essere discusso dal parlamento europeo prima di approdare in Consiglio Ue (il prossimo, previsto per domani e venerdì è slittato perché il presidente Charles Michel è in quarantena dopo essere entrato in contatto con una persona positiva al Covid) dove è previsto che Italia, Grecia e Spagna daranno battaglia per vincere le resistenze del blocco di Visegrad e dei suoi alleati. Intanto mentre l’Europa discute nel Mediterraneo la nave Alan Kurdi attende da giorni di poter sbarcare i migranti tratti in salvo. Ieri due donne, un uomo, quattro bambini e un neonato sono stati evacuati dalla Guardia costiera che li ha trasportati a Lampedusa. A bordo restano ancora 125 persone. “The Lancet” denuncia i medici complici di torture nelle carceri medinews.it, 23 settembre 2020 In circa cento Paesi in tutto il mondo ci sono medici che sono complici di torture nelle carceri. A denunciare questa gravissima violazione della Dichiarazione di Tokyo sull’etica medica e la tortura è stato un articolo pubblicato sulla rivista The Lancet. I compiti dei medici che collaborano con i torturatori sono diversi: vanno dal ridurre il più possibile i segni delle violenze all’accertarsi che il detenuto sia in grado di sopportare il trattamento riservatogli mantenendolo in vita, fino al valutare se aumentare o meno l’intensità della tortura. Ciò dimostra che la Dichiarazione di Tokyo sull’etica medica e la tortura, firmata nel 1975, non ha ottenuto gli obiettivi che si era prefissata e che troppi camici bianchi sono tuttora complici di gravi violazioni dei diritti umani. Per questo gli autori dell’articolo, Steven Miles del Centro di Bioetica dell’Università del Minnesota e Alfred Freedman del New York Medical College, hanno proposto quattro modifiche urgenti al documento del 1975: l’introduzione di una definizione di tortura riconducibile alla legislazione internazionale per rendere penalmente perseguibile il medico coinvolto in episodi di tortura, la pubblicazione del certificato di morte di ogni detenuto come previsto anche dalla Convenzione di Ginevra; l’obbligo di costringere i medici colpevoli di tali reati di esercitare la professione una volta giunti in altri paesi; semplificare al massimo il linguaggio del documento perché diventi comprensibile anche a persone con un livello di istruzione basso. Iran. I giuristi democratici a Conte: “Liberare Nasrin Soutudeh” Il Dubbio, 23 settembre 2020 L’appello per l’avvocata prigioniera del regime iraniano. I Giuristi Democratici di nuovo in campo per i diritti: hanno inviato un appello al ministero degli Esteri e al Presidente del Consiglio affinché il governo italiano intervenga con il governo iraniano per salvare la vita alla avvocata Nasrin Sotoudeh, detenuta ingiustamente in carcere. Nella lettera a Giuseppe Conte, a Luigi Di Maio e tutti i suoi viceministri e sottosegretari si denuncia “l’aggravarsi delle condizioni di salute dell’avvocata e attivista per i diritti umani Nasrin Sotoudeh, già condannata in Iran a 33 anni di prigione e 148 frustate, per reati quali l’aver “complottato contro la sicurezza nazionale”, “minacciato il sistema”, “istigato alla corruzione e alla prostituzione” e per essere comparsa in un’aula di tribunale senza velo islamico? Da oltre quaranta giorni Nasrin Sotoudeh - che è detenuta dal 2018 dopo aver già scontato tre anni di carcere tra il 2010 e il 2013, e dovrà scontare almeno altri 12 anni per la più grave delle condanne ricevute - sta attuando uno sciopero della fame al fine di ottenere il rilascio dei prigionieri politici, detenuti in condizioni disumane durante la pandemia da Covid19, e continua a rivendicare le sue battaglie in difesa, tra l’altro, dei diritti delle donne. Per questo, come saprete, è stata anche insignita di molti premi, tra cui il Premio Internazionale per i Diritti Umani Trarieux, nel 2018; riconoscimenti per il lavoro di “una donna che non si è inchinata davanti alla paura e alle intimidazioni e che ha deciso di mettere la sorte del proprio Paese davanti alla propria”, come la definì l’allora presidente del parlamento europeo Martin Schulz nel 2012. Ebbene, è notizia del 19 settembre che l’avvocata iraniana è stata trasferita nell’ospedale Telaghani a Teheran per insufficienza cardiaca, e le preoccupazioni per il suo stato di salute aumentano di ora in ora, considerato “l’indebolimento fisico, le palpitazioni di cuore e il respiro affannoso”, come precisato al canale della Bbc in persiano dal marito Reza Khandan. Crediamo che l’Italia e l’Unione Europea debbano impegnare tutto il loro peso politico e morale perché non siano violati in nessun luogo. Per questo, pensiamo sia urgente promuovere una presa di posizione istituzionale concreta in favore del rilascio di Nasrin Sotoudeh, così come degli altri prigionieri politici in Iran. Domandiamo a tal fine anche la possibilità di una interlocuzione per discutere delle azioni più utili e opportune affinché questo e altri casi di grave violazione dei diritti umani possano cessare”.