L’emblematica fuga per amore di “Johnny lo Zingaro” di Domenico Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 22 settembre 2020 La storia di Giuseppe Mastini è la triste fotografia della giustizia italiana che non funziona. Emblematico, prevedibile, quanto meno ipotizzabile, in una vita “normale”. Giuseppe Mastini (da tutti detto “Johnny lo Zingaro”, tanto per non contraddire l’infelice attualità in tema di espressioni linguistiche da superare), con una delle più semplici spiegazioni rese alla Polizia, per giustificare il mancato rientro in carcere si è riferito direttamente al desiderio e al bisogno di amore. Si, una pura e semplice spiegazione: bisogno di amore e niente altro. Come la necessità di camminare, come l’esigenza dell’ora d’aria, di respirare, di pensare… Sembrerebbe strano, eppure questo bisogno è solo per ritrovarsi con la donna che una volta si era amata. No, questa non è la breve storia di un romanzetto tra l’avventuroso e il passionale che narra le vicende di un condannato (per gravissimi reati) all’ergastolo che fugge per stare con quella che fu una volta la sua donna. È invece un fatto vero che narra, con la sola apparente banalità delle cose avvenute, una fuga, una ricerca della polizia del fuggitivo per le campagne. Poi la cattura e quindi una spiegazione solo in apparenza semplice del mancato rientro in carcere. L’assenza di un contatto amoroso, il bisogno di un abbraccio, il riconoscimento di una umanità carcerata che non sia solo un urlo, un cancello, delle sbarre di ferro, un lungo corridoio, sono la causa di un fenomeno molto più complesso che chiamano in causa la Costituzione, i diritti umani, la “qualità” e il senso della pena, le modalità della detenzione, le strutture penitenziarie, la normativa, la cultura giuridica, la politica e tanto altro di non risolto ancora della giustizia italiana. Già, quella (sedicente) giustizia, dopo i tanti scandali che l’hanno ferita, umiliata e contraddetta che abbiamo conosciuto essere amministrata nel modo a tutti noto e disvelato, purtroppo non le fa onore. La domanda e le risposte che debbono essere date, sono ancora le stesse. Oggi a maggior ragione: a cosa serva e come debba essere concepita la detenzione per i prossimi trenta, quaranta anni, per il “futuro” in Italia? E, in special modo, quando la condanna è a vita? Quando questa si chiama ergastolo, o “fine pena mai”. Dovremmo ricorrere al carcere per i soli reati più gravi. Quel luogo, comunque, dove soltanto il “tempo” e non altro venga sequestrato al condannato. Ma la carcerazione abusa fin troppo del corpo dell’uomo, schiacciando le sue funzioni, cancellando di fatto anche la sua mente in un vuoto senza tempo, carcerando oltre al tempo anche la facoltà di rigenerarsi attraverso un percorso di recupero umano e civile. Chi più non ama, chi più non ha la speranza di poter tornare ad una vita in cui l’amore non sia stato cancellato per sempre, non può ripresentarsi alla vita libera in una condizione migliore rispetto a quando entrò in carcere. Chi nella costrizione della pena debba subire altre durezze, esercitando una sessualità non voluta e spesso con imposta violenza, non subisce una condanna che limita e restringe solo la sua presenza e il suo movimento nella società libera, ma subisce una brutalità che cancella il suo corpo, riducendo la sua carne ad un avanzo, ad una inutile scoria. Non si può uscire dall’esperienza di un carcere siffatto in meglio cambiati. Non si può sperare che il tempo sequestrato con il carcere e mantenuto nelle condizioni di negazione del corpo e dell’affettività, possa poi, a pena terminata, restituire una persona migliore nel fisico e nella mente. Una carcerazione di questo tipo non è vicina ai diritti umani, non è vicina alla Costituzione. È solo una legittimazione di una rivalsa rivestita di ufficialità che sul piano sociale legittima la subcultura che chiede solo vendetta. Ma la politica, che dovrebbe avere l’onere e la responsabilità di promuovere civiltà, cultura, educazione e sviluppo, purtroppo preferisce assecondare l’istinto primario dell’occhio per occhio. Cancellando, con la condanna di una legge (non per tutti uguale), il corpo e la mente di coloro che sono condannati, di fatto delegittima la legge e il diritto. La storia di Giuseppe Mastini (lo Zingaro) scappato per amore, non è la storia di un evaso ma la triste fotografia della giustizia italiana che non funziona e non solo in questo caso dimentica i Beccaria, i Voltaire, i Diderot. *Vicepresidente Centro Studi Penitenziari Rossana Rossanda e il legame con Antigone: nelle carceri trovò la sua esigenza di riflessione di Susanna Marietti* ilfattoquotidiano.it, 22 settembre 2020 Rossana Rossanda, che si è spenta nelle scorse ore all’età di 96 anni, è una delle figure che hanno tenuto a battesimo - in senso sia ideale che concreto - la nostra associazione. Era il marzo del 1985 quando venne pubblicato il primo numero della rivista che portava il medesimo nome, Antigone. La rivista era veicolata dal quotidiano Il Manifesto e voleva costituire uno spazio di riflessione per pensatori dalla formazione culturale anche diversa tra loro, quali tra gli altri Stefano Rodotà, Massimo Cacciari, Mauro Palma, Luigi Ferrajoli, Luigi Manconi, Luca Zevi, Giuseppe Bronzini. E, appunto, Rossana Rossanda. Spazio di riflessione su che cosa? Il sottotitolo della rivista era Bimestrale di critica dell’emergenza. L’emergenza di allora, una delle più evidenti che la storia italiana ci abbia gettato in faccia, era quella che proveniva dall’epoca della lotta armata e alla quale l’istituzione aveva risposto con norme e prassi che configuravano troppo spesso abusi giuridici di tipo procedimentale e sostanziale. Ma la critica dell’emergenza portata avanti dalla rivista Antigone andava oltre il contesto politico del momento e voleva riflettere sul corretto utilizzo che il potere costituito può e deve fare di un diritto penale che rimanga sempre ordinario, senza modificare se stesso a seconda, da un lato, dei singoli accadimenti che si trova ad affrontare e, dall’altro, delle emergenze che la società si trova a percepire di volta in volta come tali (e tra le due cose, come abbiamo ben imparato, non sempre vive un rapporto di causalità, dato il potere e spesso l’abilità della politica di indurre questa o quella percezione di pericolo anche a prescindere da qualsiasi conoscenza del dato di realtà). Rossana Rossanda - insieme ad altri, tra cui l’attuale Garante delle persone private della libertà, Mauro Palma - aveva costituito all’inizio degli anni 80 il Centro di documentazione sulla legislazione di emergenza. Proprio nel rispetto del principio di realtà, il Centro intendeva monitorare i cambiamenti apportati alla legislazione per combattere le bande armate, ma anche lo svolgimento concreto dei relativi processi penali. Giornate intere trascorse nelle aule di giustizia, prendendo appunti su quanto accadeva in procedimenti quali quello contro esponenti del movimento extraparlamentare Autonomia Operaia, noto come “Processo 7 aprile” e da molte parti - Amnesty International, per non fare che una citazione - criticato per l’uso spropositato della custodia cautelare e per la presunzione di colpevolezza del pubblico ministero (il cosiddetto “teorema Calogero”). E una ricostruzione matematica del panorama giudiziario - mancante alla maggioranza delle proposte che pendevano in Parlamento per riequilibrare un sistema punitivo che le leggi emergenziali avevano reso folle - che ci mostrava l’enorme incidenza sulle pene comminate di un’interpretazione ampia del “concorso morale” (per cui si trovavano a rispondere di reati anche molto gravi persone che di fatto non vi avevano partecipato) o l’allungamento a dismisura della custodia cautelare ottenuto attribuendo tante imputazioni analoghe “per fatti connessi” così da poter ricominciare il computo per ciascuna di esse. Rossana Rossanda spendeva la propria voce per una soluzione politica di quegli anni, per una riflessione collettiva che fosse capace di comprendere cosa era accaduto nella società, senza limitarsi a espungere dal concetto di società stessa quella parte che si era unita al movimento, trattandola - con poca distinzione tra armi e non armi - come una malattia da curare con il solo strumento di ordine pubblico. L’esigenza di riflessione collettiva su pezzi, anche tragici, della propria storia non può che arricchire la convivenza e sicuramente quell’occasione mancata ce la portiamo ancora dentro. Questa esigenza, non raccolta all’esterno, Rossana Rossanda l’aveva trovata nelle carceri. Nel primo numero della rivista Antigone, parlando del movimento di coloro che in carcere cominciarono a riflettere sulla dissociazione, scriveva che “esso rappresentava infatti il bisogno di riflettere criticamente su di sé e sulla sconfitta, come prodotto non solo della forza del “nemico” ma della debolezza delle proprie premesse o conclusioni; tuttavia conservando l’ispirazione dei bisogni radicali che il movimento aveva inteso interpretare, anche se le sue pratiche li avevano talvolta immiseriti o contraddetti, armate o no che fossero. Gli armati furono sempre una minoranza, ma non si intenderà nulla della dissociazione se non si intende come essa si rivolgesse a tutto un movimento antagonista alle cui radici si sentiva legata”. Dall’esperienza della rivista nacque anni dopo, nel febbraio 1991, l’associazione Antigone, di cui Mauro Palma fu il primo presidente. Da allora tante cose sono cambiate, nella storia d’Italia e nelle esigenze. Sono cambiate le distorsioni nell’uso dello strumento penale contro le quali ci siamo trovati a intervenire. Non è cambiata però, nel lavoro di Antigone, l’importanza che diamo all’insegnamento secondo cui ogni opinione deve partire dalla conoscenza del proprio oggetto di studio, non da percezioni indotte bensì da fatti e numeri, pur giustamente letti e interpretati attraverso i propri valori di riferimento. Non è cambiata l’importanza che diamo all’idea che la lettura dei processi sociali o è complessa o non è affatto, rinunciando - con il trascurare soggetti o ambiti per loro portatori di significato - a essere una lettura e trasformandosi in un pericoloso strumento di manipolazione. Non è cambiata l’importanza che diamo a un diritto penale che non sia mai vendetta o espunzione di categorie di persone dal dibattito sociale. Per tutto questo e per altro ancora, grazie Rossana. *Coordinatrice associazione Antigone Rossana Rossanda. La voce discordante di “Antigone” di Mauro Palma Il Manifesto, 22 settembre 2020 La critica dell’emergenza. “Ho sempre diffidato della parola verità e del suo uso specie quando riguarda la conoscibilità della persona”, diceva. Il 7 aprile 1979, l’inchiesta padovana e poi quella romana resero evidente l’urgenza di opporsi a ricostruzioni onnivore e distruttive di soggettività. “Un ricordo di studi ormai lontani mi ha fatto sempre diffidare della parola verità e del suo uso, specie quando riguarda la conoscibilità della verità della persona, soprattutto in quell’intrico di calcolo, emozioni, passione che è l’atto trasgressivo. E così complessa è la verità della persona che, in fondo, può apparire che la verità processuale sia la più semplice perché sorretta da un sistema convenzionale come quello delle procedure”. Rossana parlava, in quell’occasione di più di trent’anni fa di verità processuale - era un confronto su tale tema con alcuni magistrati, giuristi e parlamentari organizzato da Antigone - e di come attorno ai diversi tentativi di appropriarsi della presunta verità si giocasse un ruolo tutto stretto all’interno di ricostruzioni o giudiziarie o complottistiche. Ricostruzioni che perdevano comunque lo spessore politico e collettivo di azioni, che però solo attraverso tale dimensione potevano essere inquadrate. La verità diveniva solo quella processuale e vite, aspirazioni, progetti sparivano, portando con sé, in tale dissolversi, anche la riflessione doverosa sugli errori commessi e sulle loro conseguenze, spesso gravi. Proprio il rischio di una lettura della complessità con la sola lente delle ipotesi investigative e il prevalere di una tendenza a rileggere una storia come mero “romanzo criminale” aveva portato Rossana e uno stretto drappello di persone a esaminare sin dall’inizio le conseguenze delle ricostruzioni delle procure e le prassi processuali indotte da misure di emergenza adottate alla fine degli anni Settanta. Una riflessione che, affiancandosi a quella sulle radici e sugli snodi che avevano indotto settori del vasto movimento degli anni precedenti a imboccare la via della lotta armata, apriva anche all’analisi delle regole e alle garanzie. Tema, questo, certamente non usuale nel pensiero e nella tradizione comunista, ma che proprio perché non scisso dall’altro relativo all’analisi dei processi che si erano sviluppati nella complessità sociale, non rischiava di concedersi al pensiero liberale. Al contrario, apriva un nuovo fronte di rifondazione di un garantismo non formalista, ma attento ai mutamenti normativi, ai processi, ai rischi che l’eccezione diventasse normalità, a che una presunta ragione politica prendesse il sopravvento sull’ordinamento. Il Centro di documentazione sulla legislazione d’emergenza che avviammo insieme in quel periodo, con alcuni altri e sostenuti dal sapere giuridico di Papi Bronzini, Luigi Ferrajoli, Gianni Palombarini, si mosse nella direzione di esaminare i primi processi e darne sul manifesto un resoconto diverso dal coro che caratterizzava l’informazione. Trovò poi terreno di sviluppo quando il 7 aprile 1979 l’inchiesta padovana e quella successiva romana resero evidente l’urgenza di opporsi a ricostruzioni onnivore e distruttive di soggettività e pensiero. Tutte le udienze del processo che si tenne anni dopo, vennero da me seguite accanto a un’attenta Rossanda e alla lettura della sentenza di appello che smantellò quell’impianto non gioimmo perché pezzi importanti di vita erano stati fatti trascorrere in carcere, per molti. In quegli anni, il manifesto giocò un ruolo importante: era la voce non soltanto dissenziente rispetto al coro, ma la più documentata. Per questo, si avviò l’iniziativa della rivista Antigone che portava nel suo sottotitolo Bimestrale di critica dell’emergenza. Era la metà degli anni Ottanta e la necessità di ricercare una soluzione politica che non abbandonasse un periodo all’oblio e non destinasse una generazione al dissolvimento del proprio futuro portò a elaborare ipotesi che facessero uscire dalla secca alternativa tra la collaborazione attiva e l’irriducibile conflitto armato con lo Stato. Nel primo numero della rivista, proprio Rossanda scrisse attorno alla mancata risposta da parte delle istituzioni alla richiesta di uscita di chi prendeva atto del venir meno delle presunte condizioni iniziali del proprio agire. Il primo numero di Antigone venne presentato in un giorno triste: la fatale coincidenza con un grave omicidio da parte di gruppi residui della lotta armata attuato pochi giorni prima. E ciò consentì a Repubblica - che pure oggi sembra aver trovato un residuo di apprezzamento di quelle riflessioni e di quel dibattito - di titolare l’uscita della rivista in modo infamante: “Ma Antigone non uccideva”. Il manifesto è stato da solo nella costruzione di un pensiero che riuscisse a leggere le ferite di quel periodo per capire, non per giustificare, ma per evitare la rimozione secondo le due linee prevalenti: una qualche etero-direzione o una storia solo di competenza giudiziaria. Per questo tutte le facili ricostruzioni sono state sottoposte al criterio della possibile falsificazione, inglobando in questo garantismo critico strutturalmente ancorato ai principi costituzionali, anche l’attenzione a inchieste che riguardavano l’ambito politico culturalmente e operativamente avverso. Accanto, l’attenzione che Rossana ha sempre avuto ai destini individuali: di chi era in carcere e di chi aveva ricostruito una vita lontano. Quando negli anni trasformammo le iniziali conoscenze costruite attorno al tema settoriale della detenzione dell’emergenza in attenzione alla totalità della detenzione stessa, dando luogo ad Antigone, non più rivista, ma associazione, Rossana mantenne il punto di un’attenzione specifica del manifesto al carcere chiedendo sempre che si coniugassero la funzione del diritto penale, la sua regolazione e la sua materialità. Nei nostri incontri parigini, nel mio periodo a Strasburgo, mi interrogava su come il carcere riproponesse nella sua composizione sociale e nella sua quotidianità le asimmetrie classiste della società esterna e subito il pensiero era: “questo il giornale deve riportarlo perché solo il nostro giornale ha la capacità di dirlo”. Manconi: “Garantista e libertaria, quella di Rossanda era un’eleganza dell’anima” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 22 settembre 2020 Intervista a Luigi Manconi: “Credo che all’origine del suo garantismo ci fosse la volontà di comprendere le ragioni, per quanto orribili, di chi commette reato. Nel caso del terrorismo, di chi commette reato in nome di un progetto rivoluzionario che Rossanda vedeva come derivato da una concezione di cui conosceva l’origine”. Di Rossana Rossanda si racconta soprattutto l’eccezionale carisma. La Signora della sinistra, come la definiscono in molti, esercitò sugli amici più cari e meno vicini una solenne fascinazione: ricordarla significa ripercorrere il secolo scorso attraverso il suo sguardo perché chiunque abbia condiviso un pezzo di quegli anni con lei ne riconosce la particolare profondità. “La fisionomia, il volto, la capigliatura: tutto in lei la rendeva una personalità dal tratto ieratico”, racconta Luigi Manconi - giornalista, politico, già senatore del Partito Democratico - che con Rossanda promosse quel laboratorio culturale che fu la rivista Antigone. Il “bimestrale di critica dell’emergenza” nato tra il 1985 e il 1986 attorno a un gruppo di intellettuali e militanti che, con ispirazione garantista, elaborò una lettura critica delle vicende giudiziarie seguite alla stagione del terrorismo in Italia. On. Manconi, qual è il suo ricordo di Rossana Rossanda? La sua eleganza era un’eleganza dell’anima. C’era in lei una certa naturalezza, un comportamento fatto di discrezione, di toni bassi della voce, di moderazione. La sua solida educazione borghese, colta e misurata, non rendeva la sua condizione sociale un fattore di potere, né di prevaricazione. E certamente non di superiorità: la sua condizione borghese rappresentava una modalità di stare al mondo vivendolo, intrattenendo le relazioni con l’altro. Come la conobbe? Come redattore, per un periodo, del quotidiano il Manifesto. Si tenga conto che io militavo in Lotta Continua, una formazione lontanissima da quella realtà: non venivo da un’esperienza leninista, ma da un movimento fatto di spontaneità, emotività e innovazione. Lotta Continua fu “uno stato d’animo”, come lo definì la giornalista Rina Gagliardi (direttrice del Manifesto tra il 1985 e il 1986, ndr), legatissima a Rossanda. Ma non ricordo per questo alcuna frattura. Come nacque, in seguito, l’idea di fondare la rivista Antigone? La spinta fu una vicenda pubblica di grande impatto, nota come “Caso 7 aprile”: la serie di processi, svolti tra il 1979 e il 1988, che seguirono agli arresti dei militanti di Potere operaio e Autonomia operaia. Un gruppo di persone, tra cui me, Rossana Rossanda e Massimo Cacciari, sviluppò un pensiero critico nei confronti di quell’azione giudiziaria. L’Italia è un paese in cui a cadenza ravvicinata si promuovono le emergenze: eventi storici che la classe politica tende a gestire come stati d’eccezione, e in risposta ai quali produce leggi speciali. Questo accadde soprattutto negli anni del terrorismo nero e rosso: quelle leggi emergenziali, ad avviso di quel gruppo di persone, introducevano lesioni allo Stato di diritto. Lei ha scritto di una Rossana Rossanda garantista, come si sviluppò questa sua sensibilità? Credo che all’origine del suo garantismo ci fosse la volontà di comprendere le ragioni, per quanto orribili, di chi commette reato. Nel caso del terrorismo, di chi commette reato in nome di un progetto rivoluzionario che Rossanda vedeva come derivato da una concezione di cui conosceva l’origine. C’era la volontà di comprendere le ragioni per cui un ideale si deforma fino a farsi crimine. Questa ispirazione si manifestò a partire dal 1978, in seguito al sequestro di Aldo Moro. Poi ci fu la vicenda del 7 aprile, appunto, intorno alla quale certamente la sua riflessione si sviluppò con molta intensità. Antigone fu una palestra importante: per la prima volta, forse, si aggregarono intellettuali di varie discipline e militanti con sensibilità diverse intorno al consolidarsi di un tema, il garantismo, che corrispondeva a una parola allora molto poco diffusa. Ma la sua sensibilità non si arrestò con la chiusura della rivista. Tanto è vero che coltivò questa riflessione anche nei confronti delle successive grandi vicende giudiziarie italiane. Fu garantista anche negli anni di Tangentopoli, e certamente guardò con atteggiamento razionale e grande capacità critica anche tutte le vicende che riguardarono Silvio Berlusconi. Anche questo ha contribuito ad assegnarle l’appellativo di comunista “eretica”? Questa è una definizione giornalistica, abusata e inservibile. Il suo dissenso con il Partito Comunista - in seguito all’invasione di Praga, come è noto - fu profondo, qualcosa di molto serio. Era un dissenso sul socialismo reale, e non soltanto di linea sul programma del Pci nel nostro paese: qualcosa di molto più radicale. E ad oggi, qual è l’eredità dell’elaborazione politica di quegli anni? Se dovessi esprimere un giudizio comparativo, direi che oggi una certa attenzione garantista è certamente più diffusa. Ma spesso si manifesta nella classe politica come movimento filatorio, come atteggiamento ondivago a tutela dei propri e mai come principio universale. Ma questa è l’unica interpretazione possibile del garantismo: o vale per tutti, per gli amici come per gli avversari, o non è. Quella elaborazione teorica era già allora coltivata da personalità irregolari come fu Umberto Terracini, uno dei padri costituenti, tra i fondatori del Pci. Ma l’unico soggetto garantista programmaticamente era ed è il Partito Radicale. Quale fu il rapporto di Rossanda con i radicali? Ritengo che sia la cultura che lo stile politico di Rossanda fossero molto distanti dalla cultura politica di Marco Pannella. Tuttavia, la sua libertà di pensiero e il suo apprezzamento per una teoria libertaria della società, certamente la resero curiosa verso quella esperienza. Anm al voto dopo la bufera di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 22 settembre 2020 Poniz si ricandida. La sinistra di “Md” resta alleata con Area, la moderata “Mi” farà cartello unico coi fuoriusciti di Unicost. Bisognerà attendere ancora una settimana per conoscere i nomi dei candidati alle prossime elezioni per il rinnovo del comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati. Trentasei i posti in palio. Una volta eletto, il cdc eleggerà poi la giunta esecutiva, composta da nove membri, tra i quali il presidente e il segretario generale. Le liste depositate a gennaio sono state ritirate per permettere ai gruppi associativi di “aggiornare” le candidature. Il nuovo termine per la presentazione è fissato al 28 settembre. L’affaire Palamara non poteva, infatti, non avere conseguenze anche nelle elezioni per l’Anm. La tornata elettorale, inizialmente prevista per marzo, era stata in un primo momento rinviata a giugno a causa dell’emergenza sanitaria. Poi la decisione finale di votare il prossimo 20, 21 e 22 ottobre. Il voto avverrà per la prima volta in modalità telematica. Da quanto si è potuto apprendere, la lista di Unicost, la corrente di centro di cui Luca Palamara per anni è stato il leader indiscusso, è quella che sta subendo più cambiamenti. Sembra che alcuni magistrati inizialmente disponibili alla candidatura l’abbiano ritirata o siano in procinto di ritirarla, sopratutto nel distretto di Roma. Perciò Unicost avrebbe riaperto la lista, anche con l’obiettivo di individuare figure il cui nome non compaia nelle chat e che non possa essere strumentalmente associato alll’ex presidente Anm. Insomma, volti nuovi. L’attuale vertice dell’Associazione, il pm milanese Luca Poniz, eletto nel cartello progressista “Area”, ha fatto sapere che si ricandiderà. Non ci sarà il suo predecessore, Pasquale Grasso, che ha però svolto un ruolo politico cruciale nell’aggregazione del neonato rassemblement attorno a “Mi”: la storica compagine moderata della magistratura sarà infatti alleata in un’unica lista con il gruppo “Movimento per la Costituzione”, creato da alcuni colleghi usciti circa un anno fa da Unicost, e guidati da Enrico Infante e Antonio Sangermano. I due promotori della nuova formazione saranno certamente candidati. Smentite invece, sul fronte opposto, le voci su un distacco di “Magistratura democratica” da Area. La storica componente “di sinistra” resta alleata nella componente guidata dal segretario Eugenio Albamonte, e schiererà in lista, fra gli altri, la “uscente” Silvia Albano, Stefano Celli e Domenico Santoro. Il “quarto incomodo”, la davighiana “Autonomia e Indipendenza” dovrà fare a meno del proprio leader, l’ex pm di Mani pulite, che il 20 giugno si congederà dalla magistratura. Nonostante le ipotesi di un riavvicinamento a “Mi”, avrà comunque una propria lista autonoma. Oltre alle quattro liste tradizionali, la novità delle prossime elezioni è rappresentata da una quinta lista “fuori dal coro”. Si chiama “Articolo 101” ed è composta da magistrati che non si riconoscono negli attuali quattro gruppi associativi. Dovrebbe essere formata da circa venti toghe che hanno già dato la disponibilità a essere inseriti. Fra i cavalli di battaglia di Articolo 101, la rotazione degli incarichi, il sorteggio per l’elezione dei componenti del Csm, la riforma dell’associazionismo giudiziario. Non è comunque da escludere che in futuro ci possa essere una scissione all’interno dell’Anm con la creazione di una nuova associazione togata. L’assemblea generale dello scorso fine settimana ha infatti messo in luce le tante difficoltà dell’Anm nel gestire il post Palamara. Pochi i presenti. La limitata partecipazione al voto sulla definitiva espulsione del magistrato romano potrebbe essere spiegabile con la disaffezione delle toghe sui temi non prettamente “sindacali”. Dopo mesi e mesi di discussione, hanno partecipato, sui circa 9000 magistrati iscritti all’Anm, poco più di 100. Presenti solo la metà dei componenti dell’attuale Cdc, falcidiato dalle dimissioni nelle scorse settimane. Sul fronte disciplinare, la sentenza a piazza Indipendenza è prevista per il prossimo 16 ottobre. La Procura generale, come già dichiarato da procuratore Giovanni Salvi, è intenzionata per Palamara la sanzione massima, quindi la rimozione dall’Ordine giudiziario. Palamara giustiziato, toghe ancora deboli. A Perugia ok a tutte le intercettazioni di Errico Novi Il Dubbio, 22 settembre 2020 L’espulsione c’è stata. Definitiva e plebiscitaria. Ma il voto con cui sabato scorso l’assemblea nazionale dell’Anm ha apposto l’ultimo sigillo all’estromissione di Luca Palamara è un atto a cui forse si affidano aspettative esagerate. Come se liberarsi della figura divenuta incarnazione di tutti i traffici sulle nomine possa scacciare via anche un brutto sogno, così sintetizzato dal presidente dell’Associazione magistrati Luca Poniz: “La fiducia che i cittadini nutrono nei nostri confronti è drammaticamente precipitata”. Non è che espellere Palamara dall’organismo di rappresentanza “politica”, e poi magari il 16 ottobre dalla magistratura stessa, possa magicamente scogliere il vero nodo. Cioè, sempre per usare le espressioni di Poniz, il “rapporto ormai guasto tra correntismo e carrierismo”. È quello il virus che ha trasformato il Csm, e certo non solo Palamara, in un nominificio. Più una dinamica socio- politica che una degenerazione “morale”. Eppure la tensione della magistratura sembra tutta rivolta verso l’illusione che, una volta archiviato il proprio ex presidente, il protagonista della cena all’hotel Champagne, si possano ritrovare l’autorevolezza e il peso politico perduti. C’è da temere che non sia così. E non è un caso se il “momento drammatico” (ancora Poniz) in cui la magistratura si trova ha indotto un analista di gigantesco spessore come Paolo Mieli a notare, sul Corriere della Sera di ieri, la strana “fretta” del Csm nel procedimento disciplinare. Con ordine: sabato l’Anm ha espulso Palamara; il Consiglio superiore ha già messo in moto il turboprocesso dinanzi alla sezione disciplinare in modo da concluderlo il 16 ottobre; martedì 20 ottobre Piercamillo Davigo si congederà dalla magistratura e l’Anm concluderà la propria tre giorni elettorale. Intanto ieri la gip di Perugia Lidia Brutti ha dichiarato ammissibili tutte le oltre 200 intercettazioni via trojan depositate dai pm umbri (ora guidati Raffaele Cantone) nell’ambito del procedimento penale, in cui Palamara è indagato per corruzione. Una reazione a raffica, così frenetica che, pur di assicurane la rapida conclusione, il Csm per esempio ha accantonato le posizioni di altri ex togati pendenti dinanzi alla sezione disciplinare. Fare presto, espellere Palamara, poi radiarlo, poi magari rinviarlo a giudizio a Perugia. In pratica un sacrificio umano a rate. Sabato Palamara ha ammesso gli errori ma ha detto di non sentirsi “moralmente indegno”. Davvero è degno di un accanimento tanto “mirato”? In attesa che la macchina da guerra disciplinare completi la propria opera, da ieri sappiamo anche che il perito nominato a Perugia per trascrivere le captazioni, incluse quelle con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti (non prevedibili, quindi non volontarie e perciò bisognose di autorizzazione dalle Camere, per il Tribunale) dovrà depositare tutto il 13 gennaio: altra data da cerchiare. Ma la batteria punitiva basterà a restituire all’Anm anche forza politica? Poniz e la mozione approvata sabato dall’assemblea hanno detto hanno no al sorteggio per la scelta dei togati e a quello previsto - nella riforma Bonafede - per individuare i componenti delle commissioni Csm. No anche alle sanzioni previste, all’interno della riforma penale, nei confronti di pm e giudici per i ritardi dei processi. Rivendicazioni pure giuste. Ma che rischiano di non essere sostenute dal diminuito potere contrattuale di cui oggi i magistrati godono nei confronti della politica. Ecco il vero nodo che il “sacrificio” di Palamara potrebbe non bastare a sciogliere. Ecco il senso di quel “momento drammatico”. Nella mozione finale c’è anche un lascito al nuovo parlamentino Anm: una “costituente etica e statutaria” per rilanciare l’azione politica. Forse il punto preliminare a ogni “no”, e molto più importante dell’esecuzione capitale di un singolo ex presidente Anm. “Gravissima perdita di credibilità della magistratura nei confronti dei cittadini” di Valter Vecellio Italia Oggi, 22 settembre 2020 Dovuto a ciò che si è appreso con il caso Palamara. Lo dice Luca Poniz, neopresidente dell’Anm. Illusioni, no: non se ne fa, mentre si avvicina al palco. Sa che non c’è possibilità di ribaltare il verdetto del direttivo. Infatti lo ascoltano, parla a braccio per una ventina di minuti, poi la conferma: Luca Palamara, un tempo potente, influente esponente della magistratura associata viene espulso per “gravi violazioni etiche”: 113 voti, 111 contro. Un intervento dai toni dimessi quello di Palamara; una chiamata di correo, l’unica possibile difesa: lavare in pubblico i panni di famiglia. Le stoccate non mancano: ricorda che in mille hanno bussato al suo uscio di presidente. Ammette di essere stato travolto dall’imperante, straripante, generale “clima di sfrenato carrierismo”. Snocciola nomi, situazioni, episodi. Lui ha assecondato e favorito; ma è un “sistema” che non ha creato, esisteva da prima… Lui si è adeguato. Sembra di sentire la “Canzone del Maggio” di Fabrizio De André: “Per quanto voi vi crediate assolti / Siete per sempre coinvolti”. I rimproverati rapporti con la politica? Niente di clandestino, pratica comune, comunemente accettata, con buona pace della tanto sbandierata indipendenza e autonomia della magistratura: è un mantra che viene salmodiato solo quando si accenna alla possibilità che un magistrato debba rispondere di gravi e dolosi episodi di mala-giustizia come quello che ha colpito Enzo Tortora; per il resto, porte girevoli: i due mondi, quello della magistratura e della politica, si frequentano, si fanno favori, si usano l’un l’altro. Alzi la mano chi lo può davvero negare. Tutto questo c’era prima di Palamara: un sistema, ben oliato, conosciuto, praticato. In quanto al merito… Palamara rotea lo sguardo nell’emiciclo dell’Angelicum che ospita l’assemblea: con aria candida ricorda cose note: quando si trattava di scegliere chi collocare nei posti apicali della magistratura, la lottizzazione era normale: i beneficiati appartenevano alle varie correnti dell’Anm. Pazienza per chi non ne faceva parte. Palamara, non ci sta a fare da capro espiatorio. Ripercorre le varie fasi che lo hanno portato sotto inchiesta. I rapporti con Luca Lotti? Cosa normale; gli incontri con Cosimo Ferri? Cosa normale… Cosa c’è di strano nel discutere chi deve essere capo della procura di Roma, anche con un politico di primo piano che in quella procura risulta indagato? Perché sollevare il sopracciglio severi se si discute del ruolo apicale della procura di Perugia, competente per quel che riguarda i reati eventualmente commessi da magistrati romani? Un sistema. Al di là delle individuali responsabilità, il nodo è questo: lo “sfrenato carrierismo”; le “correnti” che lottizzano; la dipendenza dalla politica, che a sua volta dipende dalla magistratura… Poi certo: come s’usa dire, non bisogna fare un fascio di tutte le erbe; occorre separare il grano dal loglio, e tutti i discorsi che si fanno in simili situazioni. L’affaire Palamara è una pietra sollevata che rivela uno sconcertante, avvilente verminaio. “L’Anm di Luca Palamara non esiste più”, assicura il presidente Luca Poniz. “I fatti disvelati dall’indagine di Perugia, l’emergere, pochi mesi fa, di altri gravi episodi, hanno provocato conseguenze drammatiche per il sistema, ed innescato una crisi profonda, i cui effetti non sono del tutto prevedibili, oltre alla già percepibile, gravissima perdita di credibilità del nostro ruolo, con ciò che esso significa nel rapporto tra giustizia e cittadini”. Il punto è perfettamente colto: la “gravissima perdita di credibilità” del ruolo del magistrato agli occhi dei cittadini. Recuperarla non sarà semplice, facile. È una questione di sistema. Lo dirà strumentalmente, pro domo sua; ma Palamara, su questo non ha torto. Così parlò il grande inquisitore di Luigi Manconi e Federica Graziani La Repubblica, 22 settembre 2020 Ama da sempre i dettagli. È un amore assoluto, che richiede una vita di spasmodica applicazione alla causa. Pignolissimo, è nemico giurato dei perplessi, ma più di loro detesta gli altri pignoli, che gli offuscano quel sentimento del rimanersene a godere dell’esistenza svelata delle piccole cose. Si tiene ben lontano da chiunque, come chi ha spazio per una passione soltanto e sente quanto sia fragilmente fondata quella sua via esclusiva di accesso al mondo. E la protegge, e nel proteggerla vi aggiunge un particolare ogni giorno, e a ciascuna aggiunta gli pare di darle un poco di più di fondamento. Così si è scelto il mestiere del giornalista, che ha inteso come il modo più elegante di custodire i suoi archivi, dargli la più larga pubblicità possibile e insieme guadagnarci il pane. Come inizia la sua carriera, comincia anche a tenere dei dossier nominativi sui politici. Ne ricerca le dichiarazioni, le segue giorno dopo giorno, le conserva. E poi aspetta la contraddizione. Il gusto della scoperta delle prime incoerenze lo rende impaziente. Vuole pescare le bugie dei potenti. Beccarne le incongruenze. Coglierli in fallo. A furia di stare all’erta dei possibili raggiri, ne vede più di quel che trova e incomincia a sospettare la corruzione più dell’omissione, il peccato più dell’errore. A rischio e pericolo altrui, allena la memoria sulle cronache giudiziarie. Gli interessano i fatti, solo i fatti, nient’altro che i fatti. Di evidenza in evidenza, si fa l’idea che la verità sia una soltanto. Chi non la riconosce, ha qualcosa da nascondere. Sempre più abbacinato dall’indignazione, non c’è reato così lieve da non suscitare una sua denuncia e non c’è avversario che non meriti almeno un insulto infilato nell’editoriale per l’indomani. Coltiva le sue forze di scrittore saggiandole su riferimenti culturali che vanno da Totò a Montanelli. Certo non gli mancano le occasioni di trovare impuniti tra le schiere dei potenti che voleva castigare, ma la postura del giustiziere è difficile da dismettere, ormai se la lira dietro chiunque condanni. E il contagio dalle persone si trasmette fatalmente all’ambiente. L’Italia in cui vive è una nazione predata. “I nostri guai derivano dal fatto che abbiamo due bande che si fanno chiamare destra e sinistra e che per ragioni affaristiche e di convenienza si sono impadronite del Paese e se lo sono mangiato, proprio a colazione, pranzo e cena, lasciandoci soltanto gli ossicini e le briciole”. Sempre più puntiglioso e superficiale su ogni aspetto della vita politica nazionale, giurerebbe che si può contare su un solo uomo che sia capace di snidare e insieme sottrarsi a questo contagio di ladrocinio: lui stesso. Marco Travaglio in persona. Quando, alla vigilia della campagna elettorale del 2018, il Partito Democratico rimproverò a Travaglio l’uso disinvolto e sventato della formula “sciogliere con l’acido”, ne era evidente la forzatura polemica. Ma la difesa fatta a proposito del ricorso a quelle parole non fu efficace: la scelta non poteva giustificarsi come una metafora ardita, un’immagine forte o un paradosso linguistico. Leggiamo quella frase: “La legislatura che sta per essere sciolta (si spera nell’acido) è stata una delle peggiori della storia repubblicana”. È ovvio, almeno per noi, che Travaglio non auguri a nessuno di venire sciolto nell’acido. Figuriamoci. Ma perché quella frase orribile è apparsa così immediatamente nuda, priva del filtro dell’iperbole che la astraesse da qualunque rapporto con la realtà dei cattivi pensieri e dei desideri indicibili? Perché, per un effetto paradossale del linguaggio immaginifico, appare più realistico ciò che più sfida la realtà. Ma se questo accade, nel caso specifico, si deve al fatto che nella scrittura e nell’oratoria di Travaglio, di tanti articoli del Fatto Quotidiano, del Movimento 5 Stelle e di tutta la subcultura loro correlata emergono due costanti, due tic, due veri e propri disturbi del linguaggio. Il primo: un vocabolario agonistico e aggressivo, militarizzato e bellico, dove ogni confronto porta a una resa dei conti. Dove la sconfitta e la vittoria sono, in tutti i campi, un gioco a somma zero. Il secondo: un’idea di democrazia e di giustizia molto - come dire? - violenta, dove le sole virtù apprezzate si basano sulla forza (certo, democratica), sulla coercizione (certo, legale), sulla repressione (certo, governata). L’intera rappresentazione sociale, i suoi attori, le reti di relazioni, le forme di comunicazione, i prodotti culturali, tutto è descritto a tinte forti e a tratti ben marcati. Tutto è pronunciato con toni vibranti, si affida a gesti robusti, a conflitti brutali e a una lunga sequenza di categorie e procedure simil-giudiziarie: imputazioni, chiamate in causa, colpe, responsabilità, prove, indizi, condanne, giudizi, sentenze, sanzioni, pene. Nel ritmo parossistico di una messa in stato d’accusa generalizzata, si alza il volume e si inaspriscono le pene. Si pubblicano editti e si annunciano misure repressive. E si agitano i castighi come corpi contundenti. Se non come strumento di purificazione, di emancipazione dal male, di lavacro. Più la pena è pena, più è capace di dare sofferenza e afflizione, più sarà in grado di svolgere una funzione salvifica. In questa esasperata rappresentazione penitenziaria, le fantasie punitive e le paranoie vendicative, in un quadro alterato e deformato da diffuse patologie sociali, possono arrivare a suggerire associazioni mentali che assegnino all’acido la funzione svolta dal fuoco nei roghi e nelle pire. Cosa c’entra tutto ciò con Travaglio e con le sue responsabilità culturali? Nulla ovviamente, se non per il contributo da lui dato alla creazione di un clima. Un clima in cui l’esecuzione della pena non ne prevede la sospensione; il rigore rifiuta la clemenza; la certezza respinge l’indulgenza; la severità disprezza la mitezza. In quell’atmosfera segnata dalla richiesta di “più condanne” e “più carcere”, non c’è punizione che sembri eccessiva se considerata meritata. Ecco la trappola semantica in cui si è cacciato Travaglio. L’andamento ordinario della sua scrittura manifesta quella componente violenta. La stessa di larga parte degli articoli del Fatto e di molti post dei militanti ed elettori del Movimento 5 Stelle, come su un altro versante il linguaggio della Lega e dell’arcipelago dei gruppi che guardano a essa. Va ribadito ancora una volta: non è solo e non è tanto il potenziale di minaccia che contiene, bensì il tono e il colore ferrigno e cruento del vocabolario utilizzato. E ciò avviene come inavvertitamente, a tal punto quelle parole si sono andate via via corazzando, diventando sempre più combattive, perdendo la distinzione tra descrizione della realtà e sua traduzione in immagini, metafore, iperboli. La realtà stessa diventa tutta un’iperbole. Prevale una lettura sempre visionaria del reale. Una sorta di mitologia della cronaca. In questo linguaggio gonfio e traslato, l’acido non risulta così fuori luogo. Attualità e modernità del messaggio del “giudice ragazzino” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 settembre 2020 In occasione del trentennale della morte di Rosario Livatino “Nessuno Tocchi Caino” ha presentato a Palma di Montechiaro il libro “Il viaggio della speranza”. Ha partecipato anche l’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino al ricordo del 30esimo anniversario dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Un giudice ucciso, all’età di 37 anni, dai sicari della Stidda, una mafia considerata “minore”, ma che ha attuato vere e proprie strategie di sterminio per il controllo del territorio, talvolta in contrasto violento, altre volte in maniera parallela, a “Cosa nostra”. Il Sindaco di Palma di Montechiaro Stefano Castellino, nel presentare la candidatura della città a capitale della cultura ha scelto di connotarla con la cultura del perdono come elemento essenziale per sanare le ferite del passato e ripristinare l’ordine e l’armonia violati. Il Sindaco ha voluto presentare nel corso della manifestazione il libro “Il viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino con la partecipazione di Sergio d’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti. Come nel docu-film “Spes contra spem - Liberi dentro” anche nel libro “, che dell’opera di Ambrogio Crespi è il seguito letterario, dalle testimonianze - in particolare dei detenuti del carcere di Opera - emergono con chiarezza una rottura esplicita con logiche del passato, una maggior fiducia nello Stato di Diritto, la possibilità del cambiamento anche nel carcere e la conversione di persone detenute in persone autenticamente libere. Non è un caso che proprio l’anno scorso, durante il congresso di Nessuno Tocchi Caino, hanno preso parola i due killer del giudice, ergastolani oggi cinquantenni ma che all’epoca erano ventenni. Parole forti, di ammissione degli sbagli e della loro presa di coscienza sul male arrecato. Il “viaggio della speranza” - il libro dove com’è detto c’è il racconto per immagini, parole e atti dell’VIII Congresso di Nessuno Tocchi Caino che si è tenuto nel Carcere di Opera a Milano nel dicembre del 2019, è diventato un viaggio vero e proprio che è iniziato nella giornata di ieri proprio a Palma di Montechiaro, nella commemorazione del giudice. Diverse sono le tappe del viaggio, che si concluderà il 4 ottobre a Palermo, dove si discuterà delle misure di prevenzione e delle interdittive antimafia. Ma ritorniamo all’anniversario dell’omicidio di Livatino maturato anche con il silenzio/assenso di Totò Riina. Un giudice che aveva avuto dialoghi con Falcone e che fu tra i primi che intuì quel legame mafioso, politico e imprenditoriale che ruotava intorno agli appalti. Il giudice era anche un fervente cattolico, tanto che nel 1993, l’allora Papa Giovanni Paolo II, quando lanciò gli anatemi contro la mafia durante il famoso discorso ad Agrigento, definì Livatino “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Vale la pena riportare un passaggio dell’intervento del “giudice ragazzino” (così lo definì Cossiga) durante un convengo dei giuristi cattolici: “Il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta”. Attualmente è in corso il processo di beatificazione. Camorra, il boss Pasquale Zagaria torna in carcere di Liana Milella La Repubblica, 22 settembre 2020 Il boss è sottoposto al 41bis, ma si trovava ai domiciliari per le misure legate al coronavirus. Il suo caso aveva aperto lo scandalo scarcerazioni. Nonostante la malattia, per lui oggi è stato deciso il ritorno dietro le sbarre a Opera. Stop agli arresti domiciliari del boss Pasquale Zagaria. Da pochi minuti dopo le otto è di nuovo in carcere. Questa volta nel penitenziario milanese di Opera. Il suo caso aveva aperto lo scandalo delle scarcerazioni di importanti mafiosi, ndranghetisti e camorristi che, per via dell’emergenza Covid, avevano ottenuto gli arresti domiciliari a seguito di una circolare autorizzata dall’ex direttore Francesco Basentini e diretta ai giudici di sorveglianza. La sua scarcerazione era stata decisa dal giudice di Sassari Riccardo De Vito che aveva giudicato grave la sua malattia - una patologia cancerogena - dopo uno scontro con la direzione delle carceri che lo stesso De Vito aveva accusato di non trovare una situazione carceraria alternativa per poterlo curare adeguatamente. La detenzione domiciliare di Zagaria, iniziata il 22 aprile, era scaduta ieri dopo una seconda riconferma, nonostante il decreto legge del Guardasigilli Alfonso Bonafede che ordinava di riconsiderare la situazione sanitaria di tutti i mafiosi scarcerati per il Covid. I giudici di Napoli, il 4 settembre, avevano espresso parere contrario alla sua permanenza in detenzione domiciliare. La direzione delle carceri invece - il capo Dino Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia - ha approntato una serie di valutazioni istruttorie e indicato anche una struttura penitenziaria considerata idonea alla sua situazione clinica. Zagaria ad aprile era stato trasferito dalla Sardegna presso la sua famiglia a Brescia, con più di una polemica per via delle spese sostenute dallo Stato. Questa volta la sua situazione sanitaria non è stata valutata da De Vito a Sassari il quale ha eccepito la competenza del luogo dove Zagaria era in detenzione domiciliare. Infatti è stato il giudice di sorveglianza di Brescia Alessandro Zaniboni, con un’ordinanza di quattro pagine, a decidere che la situazione di Zagaria era compatibile con la permanenza in una struttura attrezzata dal punto di vista sanitario. Fornendo una serie molto dettaglia di particolari sanitari, il giudice ha ritenuto che anche ad opera Zagaria possa usufruire delle cure necessarie “nel rispetto del diritto alla salute del detenuto”. Ma ha aggiunto: “È di tutta evidenza che non possa nemmeno accennarsi a un potenziale conflitto con il senso di umanità nel caso della prosecuzione del trattamento medico in forma intramuraria, con tutte le cautele che i responsabili sanitari riterranno di adottare di volta in volta”. Il giudice Zaniboni scrive inoltre: “Nel rispetto dei limiti temporali istruttori tipici di un procedimento provvisorio, non si ravvisano, allo stato, le condizioni per la proroga della misura domiciliare, anche concentrandosi esclusivamente sul profilo medico sanitario che appare, in tutta evidenza, tranquillizzante, sia in punto prognostico, sia in relazione alla tutela del diritto alla salute, assolutamente preservabile anche in detenzione carceraria”. Come spiega l’avvocato di Zagaria, Andrea Imperato, che ha appreso stamattina del nuovo ingresso in carcere del suo assistito, la direzione delle carceri ha garantito la tutela sanitaria per Zagaria - che è sottoposto al regime del 41bis e che in questi mesi si è sottoposto a numerosi controlli e ricoveri - sia nei reparti di Opera, sia in altri centri necessari. Ucciso da proiettile vagante a Capodanno, ora la famiglia deve pagare le spese di giudizio di Giovanni Pisano Il Riformista, 22 settembre 2020 Era uscito fuori al balcone di casa per richiamare il fratellino che era sceso in cortile durante i festeggiamenti di Capodanno a Napoli ed è morto dopo essere stato raggiunto da un proiettile vagante a un occhio. È la storia di Nicola Sarpa, pizzaiolo di 24 anni, ucciso nei primi minuti del 2009 da un colpo partito dalla pistola impugnata da Emanuela Terracciano (all’epoca 23enne), figlia di Salvatore ‘o nirone, uno dei boss dei Quartieri Spagnoli. Undici anni dopo per la sua famiglia, costituitasi parte civile nel processo che ha portato alla condanna a circa 10 anni per omicidio volontario ma con dolo eventuale, arriva l’ulteriore beffa: una cartella esattoriale con richiesta perentoria di 18.600,89 euro. È quanto pretende l’Agenzia delle Entrate dai genitori di Nicola. La “colpa” di questa famiglia, difesa dagli avvocati Angelo e Sergio Pisani, è di essersi costituita parte civile nel processo contro Emanuela Tarracciano, condannata al risarcimento ma di fatto nullatenente. “Per la giustizia italiana - precisa Pisani - a pagare spese e tasse processuali deve essere questa sfortunata famiglia della vittima innocente uccisa dalla criminalità”. Pisani spera in un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e in una revisione della normativa anche fiscale che non sia sempre un ostacolo e una beffa per le vittime. “Il ragazzo - ricorda Pisani - fu ucciso da un colpo di pistola, la mamma e la sorella chiesero giustizia e dopo anni di causa arriva la condanna in sede penale e civile dell’autore della responsabile dell’omicidio, una donna della famiglia Terraciano ai Quartieri Spagnoli, ma ora l’Agenzia delle Entrate addebita e imputa ai familiari della vittima innocente euro 18.819,25 per spese/tasse della causa vinta risultando l’assassina nullatenente”. “La cifra imposta senza pietà dallo Stato alle vittime - denuncia Pisani - ammonta a 18.819,25 euro. L’assassina, condannata in via definitiva dalla Cassazione ad 8 anni di reclusione ed anche a risarcire i danni, risulta nullatenente e non pagherà, ma ai familiari della vittima oltre al danno irreparabile della morte del figlio anche la beffa di dover pagare spese e tasse di registrazione con il pericolo di perdere ogni altro bene a seguito espropriazioni esattoriali. La notifica è stata recapitata ai malcapitati e poveri familiari della vittima innocente, che per dieci anni si sono difesi con grandi sacrifici e dignità grazie al gratuito patrocinio dello Stato, per il recupero delle tasse e sanzioni delle cause intentate per la punizione dell’assassino della giovane vittima innocente”. “La Terracciano è stata condannata in via definitiva. L’Agenzia delle Entrate ha intimato oggi ai familiari della vittima di rimborsare le spese di tasse e sanzioni della causa perché la condannata risulta nullatenente: non ha risarcito i danni e nemmeno le spese legali, che ora lo Stato, che non ha saputo garantire sicurezza e la vita del giovane sparato a morte mentre era sul balcone, pretende anche i soldi dalla mamma e fratelli della vittima”. “L’Agenzia delle Entrate - conclude Pisani - annulli in autotutela una crudele condanna beffa in danno di chi già ha sofferto e non avrà alcun risarcimento”. Interrogatorio di garanzia: non lede il diritto di difesa l’avviso il giorno prima di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2020 Non lede il diritto di difesa l’invio dell’avviso dell’interrogatorio di garanzia, al difensore il giorno precedente. L’avvocato della parte ha, infatti, la facoltà se impossibilitato per la distanza a presenziare di chiedere un differimento. La Corte di cassazione, con la sentenza 26343, sottolinea la ratio dell’istituto che è quella di consentire un immediato contatto tra la persona privata della libertà e il giudice che ha emesso la misura, sulla base di atti che, di regola, non sono formati in contraddittorio. Per quanto riguarda il lasso di tempo che deve passare tra l’avviso dell’atto e il suo compimento, in assenza di una specifica disciplina, l’effettività del rispetto delle garanzie di difesa, va valutata in base al caso concreto per verificare se il difensore abbia o meno la possibilità di svolgere il suo mandato. Tra le circostanze da esaminare, pesano la distanza tra il luogo in cui il difensore svolge la sua attività professionale e quello dell’interrogatorio; i collegamenti disponibili per coprire la distanza; il tempo che passa tra l’avviso e l’atto e la diligenza del difensore nel chiedere un differimento correlato a concrete e dimostrate difficoltà nel presenziare di persona all’interrogatorio e alla impossibilità di nominare un sostituto. Nello specifico il difensore aveva lo studio a 600 chilometri ma aveva la possibilità di prendere un aereo. L’avviso non era arrivato poche ore prima, ma il giorno precedente l’interrogatorio. Il legale avrebbe potuto ottenere uno slittamento della data motivando le sue difficoltà. Cosa che non aveva fatto restando inerte. Il “gioco delle tre carte” non integra l’illecita gestione di scommesse di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione penale feriale - Sentenza 22 settembre 2020 n. 26321. L’ormai classico banchetto delle 3 carte che da sempre gli spettatori della Formula Uno incontrano nei sottopassi all’interno dell’autodromo di Imola non costituisce illecita raccolta, perché non autorizzata, di pubbliche scommesse e non può in alcun modo integrare il reato previsto dal comma 1 dell’articolo 4 della legge 401/1989. In quanto il gioco, di reminiscenza napoletana, delle tre carte o delle tre campanelle non è di quelli oggetto di concessione governativa. Come spiega la Cassazione, con la sentenza n. 26321 di ieri, che ha sancito l’“indifferenza giuridica” per questa tradizionale forma di scommessa da strada, la prescrizione della legge del 1989 riguarda solo quei giochi istituiti o disciplinati dall’Agenzia dei monopoli e delle dogane. Tra l’altro la fattispecie contravvenzionale colpisce l’organizzazione di scommesse e, per i giudici la presenza di un banchetto e dei due compari non integra tale organizzazione. L’orientamento - In simili casi non si realizza mai il reato per cui erano stati condannati i ricorrenti. Dice la cassazione, inoltre, che la giurisprudenza non ha ravvisato neanche l’ipotesi dell’articolo 718 del Codice penale, che punisce l’esercizio del gioco di azzardo, inteso come quello dove l’abilità del giocatore non può mai superare se non eccezionalmente la sorte. Conclude la Cassazione dicendo che in situazioni simili può al limite prospettarsi il reato di truffa, ma solo se il gioco viene truccato, impedendo che la fortuna o l’abilità dello scommettitore possa fare il proprio corso in contrasto all’insita aleatorietà della vincita. Quindi anche nel caso della consueta presenza di compari, che svolgono la funzione di finti giocatori occasionali e fortunati, la loro funzione di indurre gli avventori a scommettere non costituisce quel raggiro o artificio che punta ad assicurarsi il denaro del malcapitato. Provveditorato Triveneto e Ucai: la collaborazione continua di Marina Caneva gnewsonline.it, 22 settembre 2020 Prosegue la collaborazione tra il Provveditorato Regionale per il Triveneto e l’Unione delle Comunità Africane in Italia (Ucai) a seguito della firma del Memorandum d’Intesa per il progetto sperimentale “Win Win”, per la predisposizione di attività professionalizzanti per i detenuti africani ristretti nelle carceri del territorio di competenza del Prap di Padova. In questo modo si vuole rendere sempre più proficuo il tempo della pena. L’attenzione è rivolta soprattutto a quei soggetti che non hanno alcuna esperienza in campo lavorativo e per cui una formazione professionalizzante potrebbe sostenere l’inclusione sociale prima in Italia e successivamente, se ricorrono i requisiti di legge, nel Paese di origine attraverso un rientro assistito. Di recente è stato ipotizzato il coinvolgimento di un istituto bancario tra gli attori che animano il progetto, che potrebbe fornire fondi per erogare credito a persone fisiche e giuridiche nella fascia di prima esclusione. L’intervento di un istituto bancario nel progetto potrebbe anche consentire di studiare sinergie e collaborazioni con le banche dei Paesi di rientro o con enti sovranazionali che operano in Africa, per accompagnare il reinserimento dei detenuti e favorire l’avvio di una attività propria. All’incontro organizzato il 15 settembre scorso presso il Provveditorato e alla successiva visita agli istituti padovani hanno presenziato i vertici di Ucai, che hanno potuto apprezzare le numerose offerte trattamentali e lavorative disponibili nella Casa Circondariale e nella Casa di Reclusione di Padova, tra cui il laboratorio di ristorazione, la produzione di prodotti da forno e pasticceria, le attività di assemblaggio, il call center e la redazione giornalistica. Il viaggio della speranza spezzato dalla commissione del reato e successiva detenzione può divenire un momento di riscatto personale, rendendo il rientro nel proprio Paese non una sconfitta, ma un’occasione di rinascita e una possibilità concreta di utilizzare il bagaglio di conoscenze acquisito per migliorare sé stessi e il contesto di origine. Campania. Teatro in carcere, ad Aics la gestione delle attività nelle carceri aics.it, 22 settembre 2020 La casa di reclusione di Carinola, lo storico complesso di Poggioreale e il carcere di Santa Maria Capua a Vetere, con uno specifico intervento delle sezioni femminile e di massima sicurezza, hanno affidato la gestione dell’attività teatrale per i detenuti ospiti dei relativi istituti, alla Associazione Il Profeta che, dopo aver vinto il bando dell’estate romana rivolta ai minori di Casal del Marmo, ha avuto la meglio in tutti e tre i bandi delle strutture penitenziarie indicate. L’Associazione, nata sulle ceneri della storica Rino Gaetano è iscritta da tempo al Comitato Provinciale di Roma ed è presieduta da Antonio Turco, il Responsabile Nazionale del Settore delle Politiche Sociali Aics, che coordinerà tutti gli interventi all’interno dei singoli complessi penitenziari. Si tratta di un vero e proprio intervento unico nella storia penitenziaria italiana e che nessuna associazione di teatro penitenziario ha mai gestito quattro realtà carcerarie nello stesso momento. A Carinola l’operatività sarà indirizzata ad un corso di scrittura creativa che sarà condotto dalla pedagogista Tamara Boccia. A Poggioreale, così come a Santa Maria Capua a Vetere l’indirizzo operativo sarà impostato sui canoni classici della drammaturgia penitenziaria che presuppone la partecipazione diretta dei detenuti alla stesura del testo. Un progetto estremamente ambizioso è quello che nelle intenzioni di Antonio Turco che ha già sperimentato con successo e da anni tale impostazione con i detenuti attori della storica Compagnia Stabile Assai: la realizzazione all’esterno dei Carceri degli spettacoli elaborati con i partecipanti ai laboratori. Il team operativo sarà sostenuto anche dalla presenza del regista Fabio Venditti, autore del film “Socialmente pericolosi” dedicato ai ragazzi del quartiere Spagnoli di Napoli e dal musicista Roberto Turco. Frosinone. 70 detenuti senza la possibilità di frequentare l’istituto alberghiero frosinonetoday.it, 22 settembre 2020 L’Ufficio scolastico regionale del ministero dell’Istruzione non ha autorizzato alcuna classe d’insegnamento nella struttura penitenziaria ciociara. “Sono più di 70 i detenuti del carcere di Frosinone che hanno chiesto di frequentare l’istituto alberghiero, già attivo in quel penitenziario. Eppure, l’Ufficio scolastico regionale del ministero dell’Istruzione non ha autorizzato alcuna classe d’insegnamento in quel carcere”. È quanto ha dichiarato il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasìa, al termine della visita nella casa circondariale “G. Pagliei” di Frosinone, per presentare gli sportelli per i diritti dei detenuti, il progetto di integrazione tra Garante (espressione del Consiglio regionale che lo ha istituito con legge regionale 31/2003), università e associazioni qualificate. Dopo avere appreso che per l’anno scolastico 2020-21 l’istituto alberghiero “Michelangelo Buonarroti” di Fiuggi non avrebbe potuto attivare tutte le classi richieste per la sede sezione carceraria, a giugno il Garante aveva scritto al direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale, Rocco Pinneri, chiedendo un’attenta verifica delle effettive potenzialità dell’offerta formativa, al fine di non compromettere la continuità di percorsi d’istruzione avviati, ma, a tutt’oggi, le attività scolastiche in carcere non sono ancora iniziate. “C’è ancora la possibilità di rimediare - ha proseguito Anastasìa - Speriamo che così sia fatto. In questo tempo sospeso del Covid l’istruzione scolastica è essenziale per garantire un minimo di attività e di offerta trattamentale ai detenuti, altrimenti abbandonati a sé stessi dalla mattina alla sera. Spero che il protocollo del Miur con la Giustizia, in corso di rinnovo, possa essere anticipato da buone prassi di potenziamento dell’offerta di istruzione a livello locale”. Lo sportello all’interno del carcere di Cassino - Dopo Frosinone, Anastasìa è andato a presentare lo sportello nella casa circondariale di Cassino, con il coadiutore Mauro Lombardo e l’avvocata Sarah Grieco la quale per conto dell’università di Cassino e del Lazio meridionale coordinerà lo sportello per i diritti nelle carceri del frusinate. Saluzzo (Cn). Tredici papà detenuti hanno scritto il libro per bambini “Il Bosco Buonanotte” targatocn.it, 22 settembre 2020 La stesura è avvenuta all’interno del progetto Liberandia promosso dall’Associazione Voci Erranti Onlus di Savigliano. Si chiama “Il Bosco Buonanotte”. È il titolo del libro per bambini frutto di una scrittura collettiva di tredici papà-detenuti di Alta Sicurezza della casa di reclusione “R. Morandi” di Saluzzo. Edito dalla Scritturapura Casa Editrice di Asti, con le illustrazioni di Francesca Reinero e una prefazione curata da Simona Vinci, vincitrice del premio Campiello 2016, il libro racconta per illustrazioni una storia che parla di maschere e di solitudini, di grandi illusioni e di mancanza di amori. La realizzazione del libro è avvenuta all’interno del laboratorio di scrittura del progetto Liberandia (2019-2020) promosso dall’Associazione Voci Erranti Onlus di Savigliano, autrice del libro. Il progetto è stato realizzato grazie al contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo e Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e ha compreso un percorso psicologico sul tema della genitorialità per i detenuti, tenuto dall’equipe dell’associazione Mamre Onlus di Torino e un laboratorio di scrittura creativa gestito da Grazia Isoardi (direzione artistica Voci Erranti Onlus) e Yosuke Taki (scrittore, artista e regista teatrale). Il libro è stato presentato sabato 19 settembre al teatro Milanollo di Savigliano. È in vendita al prezzo di 20 euro sul canale di distribuzione Messaggerie e da ottobre nelle principali librerie. Per maggiori informazioni è possibile scrivere alla casa editrice Scritturapura all’indirizzo email stefano@scritturapura.it “Dall’esperienza del teatro alla scrittura di un racconto per bambini: questo è l’ultimo anello del percorso di lavoro e di formazione che Voci Erranti ha realizzato presso la casa di reclusione di Saluzzo - afferma Grazia Isoardi, direttrice artistica di Voci Erranti -. Chi vive il carcere nella quotidianità conosce bene le sofferenze che comporta una vita privata non solo della libertà individuale, ma degli affetti familiari, la mancanza del rapporto con la propria famiglia, in modo particolare con i propri figli. L’essere padre in carcere significa fare i conti con una assenza che, inevitabilmente, lascerà tracce indelebili nel percorso di crescita dei figli, della coppia e, nello stesso tempo, aumenta il senso di colpa senza possibilità di riparazione. La genitorialità è minata alla base e la relazione padre-figlio soffre da entrambe le parti. Dopo circa tre mesi di laboratorio e incontri, il gruppo, composto da un gruppo di partecipanti-papà, ha prodotto questa storia, Il Bosco Buonanotte, una storia per bambini che va bene anche per gli adulti e che spera di portare occasione di riflessione”. Il laboratorio di scrittura è durato dal mese di settembre 2019 fino a gennaio di quest’anno; oltre ai 13 papà detenuti tutti con figli che vivono lontani e che vedono poche volte all’anno, ha visto la partecipazione di due psicologhe, un antropologo narratore, un artista giapponese, due educatrici dell’istituto penitenziario, un’illustratrice, un tirocinante. “Il gruppo è partito con un desiderio comune: arrivare al mondo dei bambini attraverso la creazione di una storia - conclude Grazia Isoardi. Insieme abbiamo scritto, disegnato, ascoltato e condiviso paure e desideri per il futuro. Ad ogni appuntamento nasceva un nuovo racconto, le pagine bianche si riempivano di parole autentiche da tempo non pronunciate. Nomi. Luoghi. E poi tanti silenzi. Il Bosco Buonanotte è il frutto di questo bel viaggio, lavoro collettivo di un gruppo che si è messo in gioco con disarmante sincerità”. “Mare fuori”, storie anti Gomorra: “Ragazzi dietro le sbarre, con la speranza di riscattarsi” di Silvia Fumarola La Repubblica, 22 settembre 2020 Da mercoledì 23 settembre su Rai 2 la serie con Carolina Crescentini direttrice del carcere minorile a Napoli. Nel cast giovanissimi talenti. “Le cose belle che ti aspettano fuori, non buttarle via” dice il capo delle guardie Carmine Recano al giovane detenuto. Cresciuto in un ambiente difficile, usa l’empatia per far capire ai ragazzi che il carcere deve essere solo una parentesi nella loro vita, che devono riscattarsi. È un racconto di errori e rinascita, di destino e di scelte, “di assunzione di responsabilità, perché si devono pagare sempre le conseguenze delle proprie azioni”, come ripete la direttrice dell’Istituto di pena minorile interpretata da Carolina Crescentini, quella raccontata da Mare fuori, la serie diretta da Carmine Elia girata a Napoli, in onda da mercoledì 23 settembre su Rai 2. “Realista e non buonista”, spiega il regista, “alcuni ragazzi, che sono molto vicini alle famiglie ‘di sistema’, appartengono a una realtà difficile e hanno scelto la recitazione per evolversi ma vivono in un tessuto sociale complicato. Napoli è un personaggio e non fa da cornice; la storia fa capire come gli adulti siano modelli positivi fondamentali per i ragazzi. Come la famiglia, le istituzioni e tutti noi dobbiamo indirizzare il loro futuro, ma lo Stato spesso manca”. Una storia dura, già definita l’anti-Gomorra perché comunque apre alla speranza. “È dura ma con un fondo melò” dice il vicedirettore di RaiFiction Francesco Nardella “perché pur mantenendo le domande etico morali, la nostra fiction deve essere anche larga, inclusiva. Gomorra è una serie che come spettatore mi piace molto ma come dirigente del servizio pubblico non avrei fatto, perché offre un unico punto di vista”. Piccolo dettaglio, è andata in onda su Rai 3. Gli autori - “Mare fuori” spiega Cristiana Farina, ideatrice e autrice (con Maurizio Careddu) del soggetto della serie “racconta cosa succede quando finisci in carcere e qualcuno si occupa del futuro, di restituire uno sguardo positivo sulla vita e dare un’alternativa. In questi due anni abbiamo fatto tantissime interviste negli istituti minorili e nelle associazioni che si occupano del recupero dei ragazzi, di cui siamo debitori. Li ringrazio, insieme agli educatori e agli agenti penitenziari, che fanno un lavoro spesso mal pagato, ma non perdono mai la presa”. I conflitti - “Interpreto un poliziotto che non si rassegna al destino, vuole cambiare la vita di questi ragazzi” spiega Carmine Recano “comprende il loro stato d’animo: abbiamo lavorato molto sui personaggi e sulle gerarchie all’interno del carcere. Soprattutto all’inizio sono in contrasto con la direttrice, è inflessibile, ma poi anche lei tirerà fuori la sua umanità”. Parlare dei ragazzi che sbagliano e si rovinano la vita, è una responsabilità. “Il problema è culturale, ovviamente legato ai contesti in cui si cresce: io credo che la scuola” dice l’attore “abbia un po’ perso la centralità. Ne abbiamo discusso anche con i ragazzi, li vedremo durante l’arresto e prima, c’è violenza ma non è una serie sulla camorra. Sono storie di denuncia sociale e di riscatto, affrontiamo l’imprudenza, basta poco per rovinarsi la vita”. Dura, appoggiata al suo bastone per camminare (zoppica e i ragazzi la chiamano “punto e virgola”), Crescentini ha il ruolo della direttrice, donna molto dura: “Si spera che un carcere minorile sia un luogo di passaggio, ripete ai ragazzi concetti semplici: che contano la responsabilità, le regole e che ogni azione ha le sue conseguenze. La leggerezza non esiste, l’incidente è una colpa e nella vita si paga. Il carcere è un luogo che la società tende a dimenticare, le proteste dei detenuti durante il lockdown che aveva impedito i colloqui e i rapporti con l’esterno, devono farci riflettere. La storia del ragazzo che ha bevuto troppo e per fare un selfie fa cadere l’amico, spiega bene come sia facile sbagliare. Ci si può rovinare la vita per una bravata”. Il cast - Bravissimi i giovani interpreti: Valentina Romani, la zingara Naditza che preferisce il carcere a un matrimonio combinato col padre. “Nella fase di preparazione tenevo un quadernino e scrivevo alcune parole chiave per aiutarmi: il personaggio è colorato, con tante sfumature: Naditza è solare e al tempo stesso complessa, come tutti gli adolescenti”. Nicolas Maupas è Filippo, ragazzo di buona famiglia milanese, studente di pianoforte al Conservatorio, che per fare un selfie a testa in giù, ubriaco, non riesce a tenere per le gambe un amico che si schianta a terra e muore. “Il percorso che fa è l’accettazione della sua colpevolezza, l’assunzione di responsabilità mentre continua a ripetere: “È stato un errore”. È abituato a essere protetto dalla famiglia”, racconta l’attore “ad avere un atteggiamento arrogante, imparerà che l’arroganza non porta a niente e che nel carcere esiste una gerarchia molto più forte che all’esterno. Con gli attori abbiamo creato una famiglia, stavamo sempre insieme e mi hanno aiutato sul set. Si parla in napoletano stretto e a volte non capivo”. Massimiliano Caiazzo ha il ruolo di Carmine, detto ‘Piecuro’, viene da una famiglia di camorristi da cui vuole emanciparsi, ma reagisce senza controllo, uccide un giovane che tenta di violentare la sua ragazza. “Carmine viene da un contesto difficile dal quale cerca di prendere le distanze, si sente un pesce fuor d’acqua rispetto al suo ambiente. È stato bello il rapporto tra noi ragazzi, era la mia prima esperienza, avevo tante ansie ma abbiamo condiviso tutto, la consapevolezza di non essere soli aiuta”. Nel cast Giacomo Giorgio, Ar Tem, Vincenzo Ferrera, Antonio De Matteo, Anna Ammirati, Serena de Ferrari, Matteo Paolillo che ha anche realizzato il brano dei titoli della serie ‘O mar for. “Vogliamo recuperare il racconto dei giovani e il pubblico giovane”, spiega il direttore di Rai 2 Ludovico Di Meo “spero che il cinema italiano si accorga di una nuova generazione di attori”. Le vendite all’estero - Il carcere minorile da cui si vede il mare, a due passi ma lontanissimo per chi vive dietro le sbarre, in realtà è la sede della Marina Militare di Napoli. “Molti si chiederanno: ma la vita del carcere è questa o no?” commenta Roberto Sessa che produce la serie con Rai Fiction “Ci siamo ispirati a Nisida e siamo andati per la nostra strada, stiamo scrivendo la seconda serie. Abbiamo scelto un partner importante distributivo, Beta, che ci ha dato segnali incoraggianti: Mare fuori è stata venduta in Francia, Spagna, Germania, Scandinavia e stanno negoziando con gli Stati Uniti, è una storia universale”. Il muro che tiene separati gli anziani di Marco Impagliazzo* Corriere della Sera, 22 settembre 2020 Un’ampia categoria di cittadini è ancora grandemente esclusa da questo ritorno ad una “normalità protetta”. Caro direttore, nelle ultime settimane, nonostante la permanenza della pandemia da Covid 19, si è giustamente scelto il progressivo ritorno - con le precauzioni del caso - non solo alle attività lavorative e scolastiche, ma anche alle relazioni sociali, a partire dall’estate, nei luoghi turistici e in ogni città, talvolta con preoccupazione per gli assembramenti provocati. C’è però un’ampia categoria di cittadini che è ancora grandemente esclusa da questo ritorno ad una “normalità protetta”: gli anziani “istituzionalizzati”. La Comunità di Sant’Egidio, presente da anni con operatori e volontari in centinaia di residenze sociosanitarie e socio-assistenziali, ritiene fortemente riduttive le “nuove linee guida” dell’Istituto Superiore di Sanità per le visite negli istituti di familiari ed amici. L’iniziativa poteva essere un passo positivo verso il reinserimento degli anziani nella socialità. In realtà così non è stato. Nonostante le pesantissime restrizioni alle relazioni sociali patite dagli over 65 durante il lockdown fino ad oggi, con gravi conseguenze psicologiche e sanitarie, le linee guida esprimono una politica di protezione degli ospiti estremamente restrittiva riguardo alle relazioni interpersonali, tale da configurare una violazione dei diritti individuali. Mentre si comprendono facilmente le restrizioni applicate a chi è infetto e dunque sottoposto a regime di quarantena, appare assai più discutibile attuarle per chi dovrebbe essere protetto e non è portatore di alcuna infezione. Si giunge, in taluni casi, ad imporre misure restrittive non lontane da quelle utilizzate in un regime carcerario. Basta pensare che non viene affermato il diritto a ricevere visite, ma tutto rimane a discrezione del responsabile della struttura e riservato a casi eccezionali oltre alla limitazione a un solo familiare per visitatore e il massimo di 30 minuti per la visita. Piuttosto che una politica restrittiva, riteniamo sia necessario il contrario, cioè favorire maggiormente i rapporti degli ospiti con l’esterno, pur con le necessarie cautele, includendo, oltre ai familiari, anche amici e volontari, considerato il grande numero di persone sole tra gli ospiti. Tali restrizioni non garantiscono una protezione efficace per i più fragili, mentre è accertato che sono le relazioni personali a costituire un indispensabile fattore di protezione per la salute fisica, mentale e psichica di ogni individuo. Certo, occorre assolutamente evitare nuovi focolai di Covid-19 negli istituti, come è purtroppo avvenuto in modo drammatico nei primi mesi della pandemia. Va però ricordato che la grande maggioranza dei contagi in queste strutture non è avvenuta a causa delle relazioni con i familiari o altri visitatori - che invece sono stati i primi a denunciare ciò che stava accadendo - ma per la mancata osservanza delle norme di prevenzione da parte degli istituti che ospitano gli anziani. È necessario, piuttosto, produrre controlli più stringenti sul personale sanitario che - nonostante l’eroismo personale di molti operatori - risulta troppo spesso coinvolto, suo malgrado, nella catena dei contagi e sulle politiche attuate dalle direzioni di tali strutture. La difficoltà o l’impossibilità di fatto di avere notizie degli ospiti, lamentata da più parti - spesso dai parenti - non è stata inoltre oggetto di attenzione nell’ambito delle linee guida fissate dall’Istituto superiore di sanità. È invece necessario, quando non sia possibile un incontro in presenza, indicare almeno figure di riferimento che garantiscano informazioni e relazioni, anche con videochiamate e mezzi informatici, strumenti che mancano quasi del tutto nelle strutture ospitanti. Anche per quanto riguarda la tutela della salute degli ospiti degli istituti rileviamo pesanti criticità. Il documento sconsiglia, ad esempio, di uscire per visite specialistiche senza proporre alternative: è una disposizione che limita di fatto il diritto alla cura, tenendo presente che si tratta di persone con patologie anche gravi o croniche che necessitano di essere seguite adeguatamente. E anche il suggerimento ai medici di famiglia di ricorrere alla telemedicina, notoriamente ancora poco diffusa negli istituti per anziani, invece della visita in presenza - che non sarebbe impossibile garantire - produrrà probabilmente una riduzione della tutela sanitaria. Gli anziani, anche quelli “istituzionalizzati”, non possono diventare cittadini di serie B, ma al contrario, nel rispetto rigoroso delle procedure di prevenzione, essere i primi a godere delle attenzioni delle istituzioni e della società italiana. Non separiamo i destini di chi è più giovane da chi è anziano! La società ha bisogno di ponti e non di muri. *Presidente della Comunità di Sant’Egidio Migranti. A bordo della nave-quarantena: “Questo è un limbo nel limbo” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 22 settembre 2020 Il racconto del Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private di libertà, Palma, salito a bordo della Rhapsody: le navi quarantena non possono essere rese permanenti. “Le navi quarantena in cui i migranti vengono trattenuti per accertare la presenza o meno di casi di Covid-19 sono soluzioni di emergenza, non possono essere rese permanenti. Ciò detto, la Rhapsody ci è parsa adeguata dal punto di vista logistico e sanitario. Al momento, invece, il vero problema è rappresentato dal sovraffollamento dell’hotspot di Lampedusa e da Centri di permanenza per il rimpatrio come quello romano di Ponte Galeria, davvero indecoroso”. Mauro Palma presiede il collegio del Garante per i diritti dei detenuti e delle persone private di libertà. Con Daniela de Robert (altra componente, insieme ad Emilia Rossi) è reduce da una visita a bordo della nave “Rhapsody”, attraccata in rada a Palermo e che ospita in quarantena 868 migranti, provenienti dall’hotspot di Lampedusa. Fra loro, spiega Palma ad Avvenire, “54 sono positive asintomatiche e vengono alloggiate nelle cabine di un ponte dell’imbarcazione, separato dagli altri ponti”. La nave ha una capienza complessiva di oltre 2mila passeggeri. Nella visita, i membri del Garante sono stati accompagnati dal capo dipartimento per l’immigrazione del Viminale, il prefetto Michele di Bari. Sulla situazione a bordo, Palma non ha criticità da segnalare, a parte “l’assenza di materiale scritto in più lingue per informare i migranti sui propri diritti rispetto alla procedura per la richiesta d’asilo. È poco comprensibile, giacché la quarantena potrebbe e anzi dovrebbe essere utilizzata per dare informazioni cruciali sul dopo. A bordo c’erano interpreti e mediatori culturali, ma nemmeno un depliant da distribuire ai migranti”. Per il resto, prosegue Palma, “tenuto conto che si tratta di persone che sono in un ‘limbo del limbo’, perché finita la quarantena dovranno ancora presentare la richiesta d’asilo, la soluzione mi è parsa adeguata dal punto di vista logistico e sanitario. Ho parlato con una donna in stato di gravidanza che era stata collocata in una cabina in una cabina singola con bagno, ma prima era passata per Lampedusa, dove aveva dovuto dormire per terra”. Sta lì, lamenta il Garante, il vero ‘buco nero’ nella rete di prima accoglienza: “Presenta problemi sotto vari punti di vista. Intanto, è una sorta di ‘altrove giuridico’, nel senso che non ha una copertura giurisdizionale, a differenza dei Cpr dove almeno c’è un giudice a cui presentare ricorso - considera Palma -. Inoltre, ha un sovraffollamento dovuto ai continui arrivi che rende la situazione insostenibile: su circa 150 posti disponibili, si trova a ospitare spesso oltre mille persone”. I migranti sulla Rhapsody, prosegue il Garante, “ci hanno riferito di aver dormito a Lampedusa per terra o all’aperto. E la situazione potrebbe essere analoga in queste ore, mentre gli sbarchi si susseguono, anche se so che si sta provvedendo a trasferimenti di alleggerimento”. Oltre al nodo Lampedusa, Palma punta l’indice su un’altra struttura, stavolta nel Lazio: “Abbiamo appena rivisitato il Cpr di Ponte Galeria, a Roma, dove sono trattenuti in attesa di rimpatrio 354 migranti, fra cui 6 donne”. In che condizioni si trova? “Francamente, è un Cpr indecoroso. Ad esempio, nella parte riservata alle donne non ci sono le porte nei gabinetti. Nella parte maschile, i migranti non possono usare affatto il cellulare, nemmeno per sentire i propri cari, a differenza di quanto avviene in altri Cpr”. Ancora, “è il prototipo del Cpr come gabbia, perfino peggio di un carcere. Anzi, è una ‘matrioska’ di gabbie”, mentre in altri centri “come quello di Gradisca d’Isonzo, ci sono pareti di plexiglas trasparenti”. Infine, ad accrescere l’angoscia e l’aggressività degli ospiti contribuisce la lunga permanenza: “Sei mesi è un tempo troppo lungo, tanto più le persone vengono tenute senza far niente. Ci si lamenta che a Ponte Galeria molti ospiti rompano le suppellettili: non li giustifico, ma cosa faremmo noi, se tenuti in gabbia a quel modo?”. Oltre ai Cpr, il Garante sta considerando di visitare realtà di sfruttamento lavorativo: “Sono i vari ‘ghetti’, da Borgo Mezzanone a San Ferdinando fino a Saluzzo - conclude Palma -. Formalmente non sono luoghi di detenzione, ma stiamo accedendo grazie a degli agreement con le prefetture”. Migranti. Amnesty denuncia l’utilizzo della quarantena come forma di repressione La Repubblica, 22 settembre 2020 Amnesty International in un nuovo rapporto documenta il trattamento dei migranti, rifugiati, persone che rientravano in patria e rinchiusi in condizioni a volte disumane. Dallo scoppio della pandemia nel mese di marzo, le autorità di governo in Venezuela, El Salvador e Paraguay hanno tenuto decine di migliaia di persone in strutture inadeguate alla quarantena gestite dallo stato, senza proteggerle sufficientemente dalle violazioni dei diritti umani. Questo comportamento potrebbe rappresentare un maltrattamento e la detenzione potenzialmente arbitraria. La denuncia arriva da Amnesty International in un nuovo rapporto che documenta come le autorità dei tre Paesi abbiano sottoposto migranti, rifugiati, persone che rientravano in patria e comunità a basso reddito a quarantene gestite dallo stato, spesso in condizioni non igieniche e a volte disumane, senza cibo, acqua e assistenza medica adeguati. Quarantene che potrebbero configurarsi come occasioni di maltrattamenti e spaventose condizioni igieniche in spazi dove le persone sono a rischio di contrarre il Covid-19. In Venezuela. Secondo i dati del governo, prima della fine di agosto le autorità venezuelane avevano sottoposto a quarantena obbligatoria circa 90.000 venezuelani rientrati nel paese dopo aver perso lavoro e casa in paesi confinanti come Colombia e Perù, o nazioni dove sono approdati, come l’Ecuador, per poi proseguire il viaggio in altri Paesi dell’America Latina. Persone finite in centri di quarantena antigienici e a volte disumani, sotto il controllo militare. El Salvador e Paraguay. Qui erano stati chiusi i centri di quarantena gestiti dallo Stato o li avevano ridotti entro la fine di agosto. Il governo del presidente Bukele aveva sottoposto a quarantena oltre 16.000 persone, tra le quali quelle accusate di aver violato il lockdown nazionale obbligatorio, le persone di rientro da oltreoceano o coloro sospettati di essere stati a contatto con persone risultate positive al Covid-19. Verso la fine di giugno, anche in Paraguay le autorità avevano sottoposto a quarantena obbligatoria circa 8.000 persone, principalmente paraguaiani che avevano fatto ritorno nel proprio paese dopo aver perso il lavoro nel settore informale nel vicino Brasile, dove era in corso il lockdown per il Covid-19. Decine di video analizzati. Amnesty International ha esaminato e verificato decine di video disponibili sui social o inviati direttamente all’organizzazione, perlopiù girati dalle persone che si trovavano nei centri di quarantena obbligatoria, come depositi, stadi e altre strutture. I filmati descrivono le condizioni in cui queste persone venivano tenute. Sono state anche condotte 14 interviste telefoniche, sono state esaminate decine di normative, misure e protocolli di recente approvazione relativi ai lockdown e all’attuazione delle quarantene obbligatorie, così come atti di tribunali e relazioni di osservatori indipendenti e giornalisti. Violati i diritti dell’informazioni. L’organizzazione ha ricevuto informazioni secondo le quali nei tre paesi spesso le persone sono state sottoposte a quarantena per ben oltre i 14 giorni attualmente raccomandati dall’Oms, a volte per più di un mese. Le persone sottoposte a quarantena non hanno avuto accesso sufficiente a informazioni in merito alla durata della loro quarantena o sui criteri scientifici che sarebbero stati utilizzati per stabilire il loro eventuale sollevamento dall’obbligo di quarantena o isolamento. Ciò rappresenta una violazione del loro diritto all’informazione e dell’obbligo secondo il diritto umanitario internazionale che ogni privazione della libertà, anche se al fine di proteggere la salute pubblica, deve essere stabilita per legge e deve essere necessaria, proporzionata e limitata nel tempo. La quarantena come una punizione. Il ministro di Giustizia e sicurezza di El Salvador ha avvertito ad aprile che coloro che avessero violato il lockdown nazionale sarebbero stati messi in un centro di contenimento, “lontani dalle proprie famiglie ed esposti al rischio anche di contrarre il virus”, un indizio che la quarantena veniva vista come una punizione e che le autorità erano pienamente consapevoli che i centri non rispettavano gli standard adeguati per la prevenzione del contagio. La testimonianza. “Vorrei dimenticare tutto questo, ma non ci riesco”, ha detto Ana Cristina ad Amnesty International dopo aver descritto i suoi 40 giorni trascorsi a dormire su un materasso sporco su un pavimento in una struttura per la quarantena di El Salvador. Vi era stata portata verso la metà di aprile dalla polizia che l’aveva accusata di aver violato il lockdown nazionale quando era uscita per comprare generi alimentari e medicinali, attività ritenuta essenziale e consentita al momento del suo arresto. Considerati come “armi biologiche”. L’esempio più inquietante della campagna di stigma e discriminazione patrocinata dallo stato viene dal Venezuela. Negli ultimi mesi, mentre si imponeva a tutti i venezuelani di ritorno nel paese di stare nelle strutture per la quarantena obbligatoria, i massimi esponenti del governo del presidente Nicolás Maduro descrivevano contemporaneamente i rifugiati venezuelani di ritorno dalla Colombia come “armi biologiche” inviate per infettare le persone che vivono in Venezuela. I massimi funzionari hanno anche definito “traditori” le persone che facevano ritorno. Corte Suprema Usa: un incubo che diventa realtà? di Alessandro Maran Il Riformista, 22 settembre 2020 “Quella che era solo una remota possibilità è diventata realtà”, ha detto alla CNN la senatrice repubblicana dell’Alaska, Lisa Murkowsky. Per molti, si tratta di un incubo: con la morte, avvenuta venerdì scorso, della giudice icona liberal della Corte suprema, Ruth Bader Ginsburg, Donald Trump ha l’opportunità di plasmare la vita americana nei decenni a venire. Il presidente americano progetta, infatti, di nominare rapidamente un giudice (il terzo nel corso del mandato) alla più alta Corte del Paese in modo da sancire una inespugnabile maggioranza conservatrice (di sei a tre; la Corte è composta di nove membri) alla Corte suprema. Il che significa che il cambiamento politico che qualsiasi futuro presidente democratico (ed il Congresso) dovesse avviare, potrebbe essere vanificato dalle interpretazioni costituzionali della Corte, indipendentemente da quello che vuole la maggioranza del Paese. Nominati a vita, i giudici possono cambiare orientamento nel corso degli anni, qualche volta in un modo che sorprende e irrita i presidenti che li hanno nominati; si suppone, inoltre, che rispettino i precedenti, pertanto è impossibile prevedere come si comporterà l’alta corte su tutte le questioni. Ma ora c’è la possibilità molto concreta che i diritti delle donne sull’aborto, sanciti nel 1973 dal caso Rose v. Wade, possano essere revocati o limitati. Una Corte suprema dominata dai conservatori potrebbe anche ridimensionare i tentativi futuri di disciplinare le leggi sulle armi, ostacolare i tentativi di regolare le emissioni nella lotta contro il cambiamento climatico, o incoraggiare le provocazioni alla legislazione sul diritto di voto e sulla messa al bando della discriminazione razziale. Non a caso, aumenta la preoccupazione tra i sostenitori dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, legalizzati soltanto nel 2015. La riforma sanitaria dell’ex presidente Barack Obama, che ha consentito a milioni di persone di accedere ai programmi assicurativi, sembra già essere nel mirino. Dopo le elezioni, la Corte si riunirà per decidere in merito al tentativo dell’amministrazione Trump di annullarla. Anche se l’ultima scelta del presidente Trump non è ancora al suo posto ed il giudice John Roberts dovesse votare per salvare la legge per la terza volta, un risultato potenziale di parità (4 a 4) tra i giudici, significherebbe che la riforma potrebbe essere invalidata dalla decisione di una corte inferiore. Le tendenze demografiche negli Stati Uniti non sono allettanti per i repubblicani; ci sono validi motivi per ritenere che, nei prossimi decenni, il paese diventerà più laico, urbano, liberale dal punto di vista sociale e diverso dal punto di vista razziale. Ma una Corte suprema conservatrice potrebbe rivelarsi un bastione contro il cambiamento politico. Non per caso, i conservatori hanno lavorato per diverse generazioni per costruire questa maggioranza. E c’è il rischio che i democratici debbano rimpiangere a lungo il loro insuccesso nelle elezioni del 2016 che hanno spianato la strada a questo momento straordinariamente importante. Per ora, due senatori repubblicani hanno detto che si opporranno alla nomina del giudice della Corte suprema prima dell’Election Day. La senatrice Lisa Murkowsky dell’Alaska e la senatrice Susan Collins del Maine. “Per settimane ho dichiarato che non avrei sostenuto la copertura di un potenziale posto vacante alla Corte suprema così vicino alle elezioni. Sfortunatamente, quella che allora era un’ipotesi ora è una realtà, ma la mia posizione non è cambiata”, ha detto ieri, appunto, la senatrice Murkowski. “Non ho sostenuto l’idea di nominare un giudice otto mesi prima delle elezioni del 2016 per colmare il vuoto creato dalla scomparsa del giudice Scalia. Ora siamo ancora più vicini alle elezioni del 2020 - meno di due mesi - e credo che si debba applicare lo stesso metro di misura”. Insomma, due dei più divisivi e turbolenti avvenimenti nella politica americana, la battaglia per la nomina di un giudice della Corte suprema e una elezione presidenziale, stanno per aver luogo nello stesso momento. A quanto pare, il presidente americano designerà il candidato per rimpiazzare Ruth Bader Ginsburg questa settimana. Trump ha promesso di nominare una donna e i repubblicani cercheranno di portarla alla Corte prima delle elezioni di novembre (o subito dopo). I democratici sono furiosi e accusano giustamente i repubblicani di grande ipocrisia: nel 2016 quando il giudice conservatore Scalia è scomparso nel febbraio di quell’anno (diversi mesi prima delle elezioni) il leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell, si è rifiutato perfino di considerare la designazione dell’allora presidente Barack Obama, sostenendo che spettava agli elettori decidere chi doveva riempire il posto vacante. Ora, con un repubblicano alla Casa Bianca e le elezioni tra appena 40 giorni, McConnell si rifiuta di applicare lo stesso criterio. Quattro anni fa, la mossa del senatore del Kentucky si è rivelata una delle manovre più scaltre e spregiudicate nella politica americana moderna; una mossa che ha aperto la strada alla maggioranza conservatrice alla Corte. Non c’è molto che i democratici possano fare per fermare McConnell. Perfino se a novembre Joe Biden dovesse vincere le elezioni e i democratici dovessero riconquistare il Senato, McConnell potrebbe ancora tirare dritto per confermare la scelta di Trump in una “lame-duck session” del Congresso (cioè dopo l’elezione del successore di Trump, ma prima dell’inizio del suo mandato) prima che, a gennaio, arrivino i nuovi legislatori. Alla luce di questa prospettiva, alcuni democratici (che ritengono di essere stati defraudati dalla possibilità di costruire una maggioranza liberal nella più alta corte del paese) stanno pensando alle “opzioni nucleari”, come, ad esempio, quella di espandere il numero dei componenti della Corte se dovessero riconquistare il Senato. L’improvvisa battaglia per la Corte suprema potrebbe avere anche un effetto imprevisto sulle stesse elezioni. Potrebbe consentire a Trump di distogliere l’attenzione dalla pandemia e rinsaldare la sua posizione tra gli evangelici e gli elettori più conservatori, che possono, certo, indispettirsi di fronte ai principi morali esibiti dal presidente, ma per i quali una Corte suprema conservatrice è una questione di vita di morte. Tuttavia, ridare fiato allo scontro sull’aborto nel corso del conflitto per la nomina del giudice, potrebbe alienargli il voto delle donne dei sobborghi (che si stanno già allontanando da lui) di cui Trump ha bisogno; senza contare che i senatori repubblicani più vulnerabili potrebbero tenersi alla larga da una questione che potrebbe fare arrabbiare i moderati di cui hanno bisogno per sopravvivere. Nel frattempo, il posto vacante ha già elettrizzato la sinistra e potrebbe portare ai seggi un maggior numero di elettori di Biden. Irlanda. Prigionieri in sciopero della fame per solidarietà con un detenuto palestinese di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2020 Oltre una cinquantina di prigionieri irlandesi (in gran parte militanti repubblicani, ma anche “comuni”) rinchiusi nella prigione di Maghaberry (Irlanda del Nord, un carcere tristemente ben noto a generazioni di Repubblicani) si sono uniti allo sciopero della fame del Dr. Issam Hijjawi Bassalat per protestare contro l’isolamento imposto al detenuto palestinese dalle autorità carcerarie. Originario della West Bank, in UK dal 1995, Bassalat è considerato un militante antimperialista oltre che eminente esponente della sua comunità in Scozia. Il sessantaduenne medico palestinese era stato arrestato con nove militanti repubblicani in seguito a una operazione - denominata “Operazione Arbacia” - contro la New IRA (repubblicani dissidenti contrari agli accordi di Pace). Frutto di un’ampia collaborazione tra Servizi britannici (MI5), polizia irlandese (Gardai), polizia scozzese, polizia londinese e centinaia di membri della PSNI (polizia nord-irlandese). Afflitto da varie patologie (in questi giorni ha subito una IRM), il Dr. Issam Hijjawi Bassalat è attualmente rinchiuso a Foyle House, prigione considerata pericolosa in quanto contaminata dal Covid-19. Bassalat aveva avviato lo sciopero della fame il 16 settembre dopo essere stato nuovamente sottoposto all’isolamento. E immediatamente i prigionieri irlandesi - repubblicani e non - sono entrati in sciopero della fame al suo fianco. Dopo che gli è stata rifiutata anche la scarcerazione su cauzione, il medico palestinese dovrebbe ora far ricorso all’Alta Corte per poter rimanere in libertà, per quanto vigilata, fino al processo. Al di là delle legittime riserve in merito alla dissidenza repubblicana e all’antistorica pretesa di proseguire nella lotta armata (nel 1998 la New IRA si rese responsabile del criminale attentato di Omagh provocando una trentina di vittime civili) quella di Issam Hijjawi Bassalat è una situazione che richiama al rispetto per gli elementari diritti umani dei detenuti, politici e non, in attesa di processo. Iran. Gravi le condizioni di Nasrin Sotoudeh, ricoverata in terapia intensiva di Simona Musco Il Dubbio, 22 settembre 2020 Da 40 giorni è in sciopero della fame in difesa dei diritti dei detenuti. Sono gravi le condizioni di Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa iraniana per i diritti umani vincitrice del Premio Sakharov, attualmente detenuta. A renderlo noto è stato il marito Reza Khandan, che ha denunciato l’impossibilità di avere contatti con la moglie, finita in terapia intensiva al Taleghani Hospital di Tehran per insufficienza cardiaca, dopo 40 giorni di sciopero della fame. La protesta è iniziata l’11 agosto, contro le condizioni di detenzione dei prigionieri politici in Iran. Sotoudeh è stata arrestata nel 2018 per il suo impegno a favore dei diritti umani, con l’accusa di “collusione contro la sicurezza nazionale, propaganda contro lo Stato, istigazione alla corruzione e alla prostituzione”, per avere difeso donne che avevano osato mostrarsi senza lo hijab, e per essere lei stessa apparsa in pubblico senza velo, “reati” che le sono costati una condanna in via definitiva a 38 anni di prigione e 148 frustate. Secondo la legge, dovrà scontare almeno 12 anni prima di poter ottenere la libertà condizionale. E proprio come la collega turca Ebru Timtik, morta dopo 238 giorni di digiuno, rischia ora di perdere la vita solo per essersi opposta a politiche repressive e a palesi violazioni dei diritti civili. Khandan ha potuto “incontrare” la moglie solo per caso: l’uomo ha intravisto Sotoudeh su una sedia a rotelle, nel corridoio dell’ospedale, mentre veniva portata in reparto per un esame cardiaco. La donna era visibilmente sofferente e molto magra. Attorno a lei circa 10 agenti di sicurezza e soldati, che durante il giorno si recano in ospedale “istruendo” il personale sul da farsi. Oltre alla detenzione ingiusta di un gran numero di prigionieri politici, Sotoudeh ha denunciato le condizioni delle carceri iraniane durante la pandemia: molti prigionieri, infatti, hanno contratto il virus, rimanendo comunque in stato di promiscuità in prigioni sporche e affollate. Le autorità giudiziarie hanno rilasciato un gran numero di prigionieri, ma la maggior parte di coloro che si trovano in carcere per ragioni politiche è stata esclusa dal beneficio. Nasrin, ha dunque dichiarato Khandan a Deutsche Welle, “è sia prigioniera che paziente e in entrambi i casi ho il diritto di visitarla, ma questo ospedale non ha principi né regole. È molto debole e la sua salute sta peggiorando ogni giorno”. Ad informare la famiglia di Sotoudeh delle sue condizioni di salute sono state le compagne di cella, due delle quali, le prigioniere politiche Mojgan Kavousi e Rezvaneh Khan Beigi, hanno lanciato un appello alla magistratura affinché le richieste di Sotoudeh vengano accolte. “Poiché la sua richiesta non è altro che l’attuazione della legge approvata di recente sulla riduzione delle pene, vi chiediamo di affrontare la questione, il prima possibile, per porre fine allo sciopero della fame della signora Sotoudeh”. Intanto si moltiplicano gli appelli per chiederne il rilascio. “Il presidente Conte e il ministro Di Maio compiano tutti i passi necessari sulle autorità di Teheran e sollecitino la Presidente Von der Leyen e l’Alto Commissario Borrell ad assumere tutte le iniziative necessarie a scongiurare un esito tragico”, ha dichiarato Piero Fassino, presidente della commissione Esteri della Camera. “Già nel marzo del 2019 - ha dichiarato la senatrice Monica Cirinnà, responsabile diritti del Pd - avevo promosso un’interrogazione al ministro degli Esteri (all’epoca Moavero Milanesi), nella quale chiedevamo al governo di attivarsi presso le corrispondenti autorità iraniane. È passato più di un anno, tutto tace e le condizioni di Nasrin Sotoudeh peggiorano. Abbiamo imparato dal caso di Ebru Timtik che il silenzio, in questi casi, è una colpa grave”. E ad esprimere preoccupazione è anche Mario Perantoni (M5s), presidente della Commissione Giustizia alla Camera. “Ovunque nel mondo l’avvocatura svolge un ruolo di fondamentale importanza e non è tollerabile nessuna limitazione al diritto di difesa e alla libertà degli avvocati connessa all’esercizio della propria funzione - ha sottolineato. La morte di Ebruk Timtik deve essere un monito costante in tal senso”. Bielorussia. La resistenza delle donne Arrestati o deportati quasi tutti i capi di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 22 settembre 2020 La battaglia contro il dittatore di Minsk Aleksandr Lukashenko non trova uno sbocco politico: tutti i leader dell’opposizione sono in esilio o in prigione. Le proteste continuano regolarmente, con decine di migliaia di persone che scendono in piazza ogni domenica. Ma la battaglia contro il padre-padrone Aleksandr Lukashenko, accusato di aver vinto le elezioni del 9 agosto solo grazie ai brogli, non sembra trovare uno sbocco politico. E l’opposizione non ha praticamente più leader che non siano in esilio all’estero o in prigione. Così i bielorussi che vorrebbero cambiare un sistema che va avanti da 26 anni si aggrappano a tutto per tenere assieme le loro forze e mantenere vivo l’interesse dei cittadini che sono sempre più in difficoltà per la pesante crisi economica. Lukashenko per ora è soddisfatto, visto che sei settimane di protesta non sono riuscite a disarcionarlo. Ma ha dovuto fare quello che fin dall’inizio ha sempre tentato di evitare, finire cioè nell’abbraccio di Mosca. Che fa sentire una certa pressione: manovre militari congiunte, truppe anti-sommossa al confine (appena ritirate perché non più necessarie), eccetera. La maggior parte di coloro che potevano sfidare apertamente il “babbo”, come Lukashenko ama farsi chiamare, sono fuori combattimento. Alle consultazioni presidenziali dovevano presentarsi tre candidati alternativi, l’ex viceministro degli Esteri Valery Tsepkalo, il blogger Sergej Tikhanovsky e il banchiere Viktor Babariko. Il primo è fuggito in Russia e poi in Polonia e gli altri due sono in carcere. Tre donne sono apparse sulla scena politica al loro posto: Viktoria, moglie di Tsepkalo, Maria Kolesnikova, capo della campagna elettorale di Babariko, e Svetlana, moglie del blogger Tikhanovsky. Quest’ultima si è candidata alle elezioni e, secondo i suoi, avrebbe vinto se i risultati non fossero stati falsati. Ma dopo le iniziali violenze contro le proteste iniziate subito dopo lo scrutinio lo stesso 9 agosto, Lukashenko ha cambiato tattica, prendendo di mira direttamente coloro che guidavano il movimento. Tikhanovskaya è stata così costretta a rifugiarsi oltrefrontiera, come pure Viktoria Tsepkalo, con pesanti pressioni. Maria Kolesnikova si è rifiutata di lasciare il paese stracciando il suo passaporto ed è stata portata dentro. Arrestati o deportati anche tutti i membri del direttivo del Comitato di coordinamento dell’opposizione, Latushko, Kovalkova, Vlasova, Dylevskij, Znak. In libertà ne è rimasto uno solo, Svetlana Aleksiyevich, la scrittrice settantaduenne premio Nobel per la letteratura nel 2015. Agenti avevano bussato alla sua porta, ma il pronto intervento di giornalisti e degli ambasciatori europei che sono accorsi nel suo appartamento ha probabilmente evitato che l’arrestassero. La scrittrice, che non sta bene, è ora un po’ defilata e, probabilmente, non sarà più infastidita dalle autorità. Ma chi rimane a guidare la protesta? Vari personaggi minori che la gente ha imparato a conoscere e ad amare. Come l’ex geologa Nina Baginskaya, 73 anni, che partecipa a tutte le dimostrazioni contro il potere dal 1988. Piccolina ma estremamente combattiva, la donna è diventata famosa per aver risposto con semplicità a un poliziotto che le chiedeva cosa facesse in piazza: “Sto passeggiando”. Da allora quel “Ya guliayu” è diventato uno slogan. In tutti questi anni è stata multata innumerevoli volte e deve allo Stato l’equivalente di 14 mila euro. Ogni mese le sequestrano mezza pensione (140 euro) e da tempo cercano di vendere la sua dacia. Ma nessuno si fa avanti per comprarla. Tailandia in rivolta. I giovani di Bangkok sfidano il re, i militari e i tycoon di Emanuele Giordana Il Manifesto, 22 settembre 2020 Tra sabato e domenica decine di migliaia di persone sono scese in piazza nella capitale chiedendo le dimissioni del premier, la revisione della Costituzione e la riduzione dei poteri del monarca. Mercoledì si replica. Ieri Bangkok è tornata la città di sempre. Traffico, caldo e il lento scorrere del Chao Phraya, il “fiume dei re” che attraversa la capitale tailandese anche conosciuta come Krung Thep, la Città degli Angeli. Ma tra sabato e domenica, Bangkok e stata davvero la città degli angeli e assai meno la capitale del re di una delle monarchie più longeve (e autoreferenziali) del pianeta. Sabato diverse decine di migliaia di abitanti - in gran parte giovani studenti ma non solo - si sono riversati in centro per tenere l’ennesima manifestazione di protesta che chiede di cambiare la Costituzione, le dimissioni del premier e un ridimensionamento del ruolo della corona, cui non dovrebbero competere ingerenze politiche. La novità del corteo, protrattosi nella notte con concerti e balli e terminato domenica mattina con la posa di una placca metallica con la data “20 settembre” (sostituisce l’originale del 1932 per la fine della monarchia assoluta rimosso nottetempo nel 2017), non sono solo i numeri e la partecipazione mai vista così di massa. Le novità sono la possibile creazione di un partito - per ora semplicemente Peoplès Party - e la presenza in piazza dell’opposizione parlamentare (il Pheu Thai che sostiene gli ex premier Shinawatra, all’inizio tiepido con la protesta) e delle nuove stelle della politica “tradizionale” tra cui spiccava il milionario modernista e progressista Thanathorn Juangroongruangkit (espulso dal parlamento con un cavillo) del Future Forward Party (sciolto nel 2020 dopo gli ottimi risultati alle elezioni del 2019). Non solo: l’agenda delle prossime mosse è piena. Il nuovo appuntamento davanti al parlamento è per domani, mercoledì, per chieder conto di una lista di domande per ora solo consegnate dai leader studenteschi sabato alla polizia che li aveva dissuasi dal marciare verso gli uffici del premier Prayut Chan-o-cha. E in piazza il 14 ottobre quando il Paese sarà chiamato a uno sciopero generale. Gli studenti hanno chiesto intanto che il loro manifesto sia sottoposto anche al Privy Council, il Consiglio del re, una sorta di Camera privata eletta dal monarca, segnatamente uno degli oggetti delle richieste del movimento. Movimento variegato ma in grado di originare consenso e che ha già dei leader noti e agguerriti come Parit “Penguin” Chiwarak o Panusaya Sithijirawattanakul dell’United Front for Thammasat and Demonstration e più in generale del cosiddetto Free Youth Movement. I loro simboli sono il saluto con tre dita - mediato dal film del 2012 di Gary Ross Hunger Games - e la partecipazione alla Milk Tea Alliance, che riunisce le proteste di Thailandia, Taiwan e Hong Kong da cui è forse arrivata la maggior ispirazione per il movimento. Un movimento eminentemente politico - sempre meno solo giovanile - con idee chiare: contestare la casta militare ma anche quella dei tycoon, avere libertà di critica anche su quel che fa il monarca, cambiare una Costituzione voluta dai militari che dà loro potere di veto (la Camera Alta non viene eletta ma scelta) in Parlamento.