Niente sorteggio e niente sanzioni sui tempi dei processi. Ecco l’Anm del “dopo Palamara” di Davide Varì Il Dubbio, 21 settembre 2020 Approvata la mozione finale dall’Assemblea generale dell’Anm. “Netta contrarietà rispetto a qualsiasi utilizzo del sistema del sorteggio, anche se soltanto limitato al funzionamento dell’organo consiliare”. A esprimerla è l’Associazione nazionale magistrati in una mozione approvata al termine dell’Assemblea generale che si è svolta ieri e oggi a Roma, “dopo un diffuso e partecipato dibattito sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura”. L’Anm ritiene che “al di là delle differenti opzioni il sistema elettorale che verrà adottato debba garantire i seguenti risultati: assicurare che il Consiglio sia rappresentativo del pluralismo di idee che caratterizza la magistratura; garantire la rappresentanza di genere; consentire agli elettori una effettiva scelta tra un’ampia pluralità di candidati; assicurare la qualità professionale e morale nonché l’autorevolezza dei candidati; evitare la concentrazione di candidati ed eletti in pochi grandi centri”. Questi risultati, sottolinea la mozione, “sono certamente garantiti dall’adozione di un sistema che contenga componenti di proporzionalità ed auspica che simili opzioni possano essere valutate dal legislatore senza pregiudizi nell’esclusivo interesse di restituire al Csm piena rappresentatività e legittimazione”. Una “ferma e intransigente contrarietà” viene espressa dall’Assemblea dell’Anm anche rispetto “a qualunque ipotesi di separazione delle carriere”. L’Anm, “fermo restando l’impegno dei magistrati a garantire la ragionevole durata del processo compatibilmente con le risorse date”, è anche “contraria a qualunque riforma che preveda termini brevi, predeterminati e fissi per la definizione di ogni fase del procedimento e del processo e alla previsione di sanzioni disciplinari conseguenti alla violazione di quei termini, perché questo pregiudica la serietà e la serenità dell’accertamento e la qualità della giurisdizione”. Lo si legge nella mozione finale approvata oggi dall’assemblea dell’Anm, in cui si sottolinea che la riforma approvata in Cdm lo scorso agosto, pur con “numerose previsioni condivisibili, che per molti profili hanno accolto le richieste dell’Anm” contiene “punti critici che meritano un ripensamento”, tra cui la “previsione di sanzioni disciplinari quali strumenti per garantire la maggior tempestività dei processi”: questa, “in assenza di misure che effettivamente rendano funzionale il meccanismo processuale”, secondo il sindacato delle toghe, “è destinata a produrre risultati ingiustamente punitivi in danno dei singoli magistrati, senza apportare alcun positivo contributo all’effettività e tempestività della giustizia civile e penale”. Nella mozione approvata a conclusione dei suoi lavori, l’Anm chiede “inoltre che con il nuovo comitato direttivo centrale” che sarà eletto dopo il voto che si terrà dal 18 al 20 ottobre “venga avviata una costituente per il rilancio dell’azione dell’Anm su rinnovate basi etiche e statutarie con il contributo paritario delle diverse sensibilità culturali presenti in magistratura”. Caso Palamara: quanta fretta al Csm di Paolo Mieli Corriere della Sera, 21 settembre 2020 Il Consiglio Superiore, che finora se l’è presa più che comoda, adesso vuole arrivare rapidamente alla sentenza. In principio fu, la sera dell’8 maggio 2019, un incontro malandrino all’Hotel Champagne di Roma. C’erano cinque magistrati che, assieme ai deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, discussero in modo probabilmente improprio di nomine ai vertici di importanti procure. Di lì in poi un curioso trojan - che intercettava con modalità intermittenti - mise agli atti una gran quantità di altrettanto impropri scambi d’opinione, tra Palamara e altri suoi amici togati. Ne nacque una tempesta. Oltre un terzo dei consiglieri del Csm dovette lasciare l’incarico allorché furono riconosciute le loro voci captate dal trojan. Alcuni, non identificati, tremano tuttora. Ascoltate le registrazioni, il magistrato Nino Di Matteo disse che quel modo di trattare sottobanco l’affidamento di incarichi gli ricordava i “metodi mafiosi”. Un suo collega, Giuseppe Cascini, osservò che mercanteggiamenti del genere gli facevano tornare alla mente “i tempi della P2”. Sembrava fosse giunta l’ora del giudizio universale. Ma siamo pur sempre in Italia e, a poco a poco, abbiamo dovuto arrenderci alla costatazione che si è proceduto (e si procederà) alla maniera di sempre. E che a pagare il conto per quei tramestii sarà il solo Luca Palamara, ex potentissimo capo dell’Associazione nazionale magistrati, ora abbandonato da tutti (quantomeno dagli ex colleghi). Per quel che riguarda poi l’annunciata riforma di purificazione della magistratura che, dopo la scoperta di quel verminaio, sembrava improcrastinabile - pulizia che fu sollecitata in più occasioni persino dal Capo dello Stato - se ne sono perse le tracce. Nel procedere contro Palamara gli ex colleghi del Csm per un bel po’ di tempo se la sono presa comoda. Più che comoda. Adesso invece, all’improvviso, mostrano di aver fretta e di voler giungere rapidissimamente alla sentenza che segnerà la conclusione del procedimento disciplinare contro di lui. Si tratterà quasi sicuramente di un verdetto di condanna che porterà, con identica probabilità, alla espulsione di Palamara all’ordine giudiziario. Allo stesso modo con cui lo stesso Palamara è stato cacciato dall’Associazione nazionale magistrati. Palamara, per difendersi, avrebbe voluto poter provare che non era il solo a compiere quel genere di manovre. In effetti ancora oggi non è chiaro dove si collochino i confini tra l’operato suo e quello dei suoi colleghi (quantomeno una parte di loro). Possibile che Palamara decidesse da solo gli incarichi delle procure di mezza Italia? E che il suo modo di trattare con i vertici della politica fosse sconosciuto agli altri magistrati? Palamara ritiene di poter dimostrare che tutti (o quasi) sapevano e si comportavano come lui. Sarebbe stato interessante poter assistere a una pubblica discussione su questi temi, avendo a disposizione il tempo necessario ad ascoltare un consistente numero di testimoni qualificati. Qui però si è fortuitamente inserito il “caso Davigo”. Che c’entra Davigo? L’ex pm di Mani pulite, dal 2018 consigliere del Csm, è entrato a far parte del collegio disciplinare che si occupa del caso in questione. Ma il 20 ottobre prossimo Davigo compirà settant’anni e, a norma di legge, quel giorno stesso dovrebbe essere collocato a riposo. Lasciando anche il Csm? Neanche per idea, è la sua risposta: il posto che si è conquistato al Csm ha una durata di quattro anni, perciò- pensione o non pensione- lui ha intenzione di restare in carica fino al 2022. La corrente di sinistra “Magistratura democratica” - per voce di un suo rappresentante, Nello Rossi - ha criticato la posizione di Davigo. Critiche a cui Davigo ha risposto con un’alzata di spalle: è vero - ha riconosciuto - che il magistrato deve essere “in funzione” nel momento in cui è eletto al Csm, ma - ha poi aggiunto - non è detto da nessuna parte che se, dopo qualche tempo, va in pensione, debba contestualmente rinunciare alla carica conquistata. Rossi e quelli di Md gli hanno fatto osservare che nel caso “da ex” commettesse scorrettezze, non sarebbe esercitabile nei suoi confronti alcuna azione per violazioni del codice disciplinare. Ma nessuno ai vertici del Csm ha raccolto queste obiezioni. Certo, è curioso che un caso del genere si affacci - per la prima volta nella storia della magistratura italiana - proprio adesso. Tra l’altro che potesse sorgere questa complicazione non era imprevedibile: il dottor Davigo nel momento in cui è entrato nell’organismo ristretto che si occupa di Palamara era evidentemente a conoscenza del fatto che il prossimo 20 ottobre avrebbe compiuto settant’anni talché, come tutti i suoi colleghi, sarebbe stato collocato a riposo. Considerati i pro e i contro di questo singolare intrico, avrebbe potuto cedere il passo a un collega con meno anni di lui e in questo modo il problema non si sarebbe neanche posto. Ma, evidentemente, Davigo ha preferito essere presente di persona a Palazzo dei Marescialli in questo delicato frangente della vita della magistratura italiana. Desidera poter assistere direttamente al confronto con Palamara. Ed essere tra coloro che valuteranno le decisioni da assumere contro di lui. Anche a costo di sfidare la “legge dell’età”. A questo punto però si pone un problema. Palamara, che tra l’altro aveva cercato (senza successo) di portare Davigo sul banco dei testimoni, potrebbe approfittare di questo garbuglio per provare a mandare gambe all’aria l’intero procedimento a suo carico sollevando, dopo il 20 ottobre, eccezioni sulla presenza tra i suoi “giudici” dell’ex pm di Mani pulite. Ed ecco che allora si è escogitata una soluzione. L’uomo della cena all’Hotel Champagne - dopo essere rimasto a bagnomaria per un anno e mezzo - verrà adesso giudicato in un lampo. Veloci, veloci, veloci. Si cercherà di giungere alla sua più che probabile decapitazione prima che sia scoccata l’ora del compleanno di Davigo. Non c’è spazio per i centotrenta testimoni di cui Palamara aveva chiesto la convocazione. Del resto gli erano già stati negati quasi tutti, diciamo pure tutti (almeno per quel che riguarda magistrati). Il processo interno al Csm deve essere rapidissimo. Gli altri magistrati pizzicati dal trojan, verranno “trattati” in tempi successivi quando ormai nessuno presterà più attenzione a questa torbida storia. Spiace che le cose siano andate in questo modo. Ci sono procedimenti giudiziari in cui il dibattimento vale davvero molto e un’accurata, attenta escussione dei testi conta forse più della sentenza finale. E questo è uno di quei casi. Va detto infine che non è un bene venga emessa una dura sentenza anche contro il peggiore dei presunti malfattori, senza che gli sia stata data la possibilità di difendersi. In particolar modo quando l’imputato appare condannato in partenza. Va infine aggiunto che con questo genere di procedimento, fulmineo e senza testimoni, ci toccherà rinunciare a capire se c’erano - e, nel caso, chi erano - i colleghi di Palamara che, assieme a lui e a qualche parlamentare, decidevano irritualmente gli incarichi apicali della magistratura italiana. Peccato. Certo, contro Palamara ci saranno altri processi. A cominciare da quello di Perugia. Ma per i modi in cui viene giudicato dal Csm, è difficile immaginare che nel prossimo futuro le cose andranno in modo radicalmente diverso. La lezione di Livatino, il giudice che sbarrò le porte ai mafiosi di Giuseppe Pignatone* La Repubblica, 21 settembre 2020 Trent’anni fa ad Agrigento il delitto del magistrato 38enne, per il quale è in corso il processo di beatificazione. Si era al culmine di un decennio in cui sembrava che in Sicilia la vita non avesse valore. Livatino venne ucciso perché “perseguiva le cosche impedendone l’attività criminale”. “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Sono parole di Rosario Livatino, il magistrato siciliano ucciso il 21 settembre di trent’anni fa a colpi di mitra e di pistola, mentre si recava al Tribunale di Agrigento dove prestava servizio dal 1979, prima come sostituto procuratore e poi come giudice. La sua morte ricade quindi in quel periodo terribile della nostra storia recente, iniziato nell’agosto 1977 con l’omicidio del colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e che aveva già visto cadere vittime della mafia, oltre a centinaia di cittadini, decine di esponenti delle istituzioni, tra cui quattro magistrati Cesare Terranova, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici e Antonino Saetta - oltre a Carlo Palermo, salvo per puro caso. Tutte vittime della sfida allo Stato voluta dalla Cosa nostra corleonese di Riina e Provenzano che culminerà con le stragi del 1992 e 1993 e l’omicidio di don Pino Puglisi (15 settembre 1993). È in questo contesto che matura e si realizza l’omicidio di Rosario Livatino, al culmine di un decennio in cui sembrava che in Sicilia la vita umana non avesse più valore. Una situazione eccezionale, difficile perfino da immaginare per chi non abbia vissuto quegli anni, anche da semplice cittadino. Al di fuori di questo contesto l’omicidio del giovane magistrato, appena 38 anni, sarebbe incomprensibile e, anzi, con ogni probabilità quel delitto non sarebbe potuto avvenire. Questa considerazione resta valida anche se non è stata accertata in sede giudiziaria la responsabilità quali istigatori dei capi della “famiglia” di Cosa nostra di Canicattì, la cittadina dove Livatino viveva con i suoi genitori. È invece accertata la responsabilità dei killer, indicati dalla coraggiosa testimonianza di Pietro Ivano Nava, un rappresentante di commercio lombardo che assistette per caso all’omicidio, nonché dei mandanti e organizzatori del delitto, alcuni dei quali nel tempo sono diventati collaboratori di giustizia. Tutti erano “stiddari”, cioè appartenenti a gruppi criminali, a volte staccatisi da Cosa nostra (da qui il nome: stidda è un pezzo di legno staccato dal tronco), che dalla metà degli anni 80 avevano cercato di conquistare spazio e potere ai danni dell’organizzazione mafiosa, soprattutto nelle province di Agrigento e Caltanissetta. Le diverse “stidde” si erano poi dissolte nell’arco di pochi anni a seguito della reazione feroce di Cosa nostra e della efficace repressione dello Stato, lasciando però una lunga scia di delitti. Livatino venne ucciso, secondo la sentenza di condanna dei mandanti (1999), perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”. Gli stessi collaboratori di giustizia appartenenti alla “stidda” avevano riferito del suo rigore e della sua severità, mentre per quelli provenienti da Cosa nostra “Livatino era inavvicinabile”, tanto che “aveva chiuso un ingresso di casa per evitare di incontrare” il boss di Canicattì, Giuseppe De Caro, che abitava nel suo stesso palazzo. Come disse all’epoca il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, la vittima dell’assassinio era stata scelta “per questo suo essere simbolo di intelligenza, di operosità, di incorruttibilità della giustizia dello Stato”. Tutti poi, anche i mafiosi, sapevano della sua fede religiosa, una fede dichiarata e vissuta, che caratterizzava la sua personalità. A essa si ricollegava - come hanno dichiarato alcuni giudici che lavorarono con lui - la sua visione dell’amministrazione della giustizia come una forma di servizio reso all’uomo, il rigore e la limpidezza con cui svolgeva la sua attività professionale che era per loro di esempio in un contesto ambientale così difficile, e anche la sua decisione di continuare, nonostante le minacce ricevute, a fare il giudice penale rifiutando di passare alla sezione civile. Rosario Livatino (per cui è in corso il processo canonico di beatificazione) era una personalità sobria, addirittura schiva: mai rilasciato interviste, mai un intervenuto a manifestazioni pubbliche. Restano di lui i testi di due conferenze e gli appunti sulle sue agende; risalgono a oltre trent’anni fa, eppure sono di una attualità estrema. Così egli scriveva nel 1984: “L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza”. Livatino concludeva a questo punto che “l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività”. Riflessioni preziose nella fase di crisi che attraversa oggi la magistratura e che spiegano perché, secondo papa Francesco, “Livatino continua a essere un esempio, anzitutto per coloro che svolgono l’impegnativo e complicato lavoro di giudice”. *Presidente del Tribunale della Città del Vaticano, ex procuratore di Roma Livatino, giudice martire protettore della giustizia di Fabio Marchese Ragona Il Giornale, 21 settembre 2020 Ucciso dalla mafia, vicino alla beatificazione. Potrebbe diventare il Patrono delle toghe. Non aveva voluto una scorta per non mettere a rischio altri uomini, perché, in cuor suo, sapeva che qualcosa, prima o poi, gli sarebbe accaduto. E alla fine è morto da solo, scappando in mezzo a delle sterpaglie che paradossalmente per lui rappresentavano la vita. Esattamente 30 anni fa, era il 21 settembre del 1990, veniva ucciso da un commando mafioso il giudice Rosario Livatino, originario di Canicattì (Agrigento), 38 anni, conosciuto da tutti, dopo la morte, come “il giudice ragazzino”, così come ribattezzò l’allora capo dello Stato, Francesco Cossiga, i giovani magistrati che venivano mandati in terre di mafia. E la mafia, la Stidda (un gruppo di fuoriusciti di Cosa Nostra) con l’eclatante uccisione di Livatino voleva dare un segnale forte al capo dei capi, Totò Riina, che, pur sapendo che qualcosa nell’aria stava avvenendo, tacendo permise che quel delitto, alla fine, andasse in porto. Livatino, che dai boss di Cosa Nostra veniva definito uno “scimunito”, un “santocchio”, un bigotto, per quel suo attaccamento alla fede, non si occupava, però, soltanto di piccole questioni di paese: il magistrato canicattinese che indagava anche su appalti e massoneria aveva incontrato Giovanni Falcone a Palermo con cui stava collaborando. Dalle agende personali di Livatino emerge, infatti, il 10 luglio del 1986, un “appuntamento con il giudice Falcone”. “Il magistrato di Canicattì”, spiega a il Giornale monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro e Postulatore della Causa di Beatificazione di Rosario Livatino, “prima di morire aveva anche collaborato ad una relazione redatta dai magistrati d’appello delle quattro corti siciliane, che diverrà la base del lavoro di Giovanni Falcone in qualità di Direttore affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia”. Ecco il perché di quell’incontro, da molti descritto come “segreto”, avvenuto cinque mesi dopo l’apertura del primo maxiprocesso a Cosa Nostra. Le numerose agendine del giudice, dove appuntava tutto ciò che faceva “Sub Tutela Dei”, nelle mani di Dio, ci consegnano l’immagine di un uomo che divideva le sue giornate tra il tantissimo lavoro, la famiglia (viveva con i genitori), le visite ai parenti e numerosi momenti di preghiera in chiesa, dove teneva anche corsi alle giovani coppie. Emerge un attaccamento particolare alla madre, un interesse per il calcio (nel giugno del 1978 appunta di esser andato a casa di amici per seguire la partita dei mondiali Germania-Italia perché il televisore di casa è guasto) e poi convegni, incontri, considerazioni personali sulla propria esistenza, spezzata improvvisamente in una mattina di fine estate. “Non sapevo nemmeno chi fosse Rosario Livatino”, spiega Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer del commando omicida che ha testimoniato per la causa di beatificazione, “quella mattina speravo che Livatino non uscisse di casa o facesse un’altra strada: eravamo dei ragazzini poco più che ventenni, ci avevano detto che il magistrato lavorava contro noi giovani, che favoriva i nostri rivali. Soltanto dopo ho capito che quell’uomo stava lavorando anche per noi, per il nostro futuro. E ho voluto testimoniare per la sua causa perché glielo dovevo”. “Livatino aveva anche rinunciato al matrimonio per non coinvolgere altri innocenti”, spiega il Postulatore monsignor Bertolone, “se il magistrato sarà dichiarato Beato dalla Chiesa, potrebbe diventare Patrono di tutti gli operatori della giustizia: ma questo potrà avvenire soltanto se una folla di fedeli e l’arcivescovo di Agrigento sottoporranno una richiesta ufficiale alla Santa Sede”. Rafforzata la tutela penale contro le aggressioni verso i sanitari di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2020 Legge 14 agosto 2020 n. 113. La disciplina recentemente approvata - con legge 113/2020 - in tema di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni contiene alcune disposizioni in materia penale su cui ci si vuole soffermare per coglierne l’ambito di operatività. Le ragioni dell’intervento - Viene rafforzata la tutela penale contro le aggressioni subite dai medici e dal personale sanitario. Ciò a seguito di numerosi fatti di cronaca che hanno visto ingiustificati atti di violenza nei confronti del personale sanitario, specie in servizio di pronto soccorso. Non infrequenti, tra queste, quelli dei parenti e/o amici del paziente, per pretendere una maggiore attenzione o per protestare per il ritardo nella cura o per lamentarsi del mancato buon esito dell’intervento. Bene si è osservato, in proposito, nella Relazione al disegno di legge, che i fattori di rischio responsabili di atti di violenza diretti contro gli esercenti le professioni sanitarie sono numerosi, ma “l’elemento peculiare e ricorrente è rappresentato dal rapporto fortemente interattivo e personale che si instaura tra il paziente e il sanitario durante l’erogazione della prestazione sanitaria e che vede spesso coinvolti soggetti, quali il paziente stesso o i familiari, che si trovano in uno stato di vulnerabilità, frustrazione o perdita di controllo, specialmente se sotto l’effetto di alcol o droga”. Di qui, l’avvertita esigenza di prendersi cura e tutelare i soggetti che necessitano di cure, ma anche quella altrettanto avvertita di tutelare la sicurezza e il benessere fisico del personale sanitario. Una disciplina incostituzionale? - È evidente che il novum normativo determina un differenziato e più tutelato trattamento dei sanitari rispetto a tutti gli altri professionisti non sanitari. Nella Relazione al disegno di legge ci si impegna a escludere profili di incostituzionalità (articolo 3 della Costituzione) sottolineando che il trattamento sanzionatorio differenziato troverebbe una ragione di essere specializzante proprio nel rischio più elevato rispetto ad altre figure professionali che i sanitari correrebbero nell’esercizio della loro funzione. La verità è che, come spesso accade, le nostre leggi sono frutto dell’emotività e dei singoli fatti di cronaca. E allora, se nessuno vuole negare il rischio che possono correre i sanitari nell’esercizio della loro attività, tale rischio non risulta essere stato in alcun modo “quantificato”, né valorizzato come superiore rispetto ad altre categorie. Lo stesso legislatore, nella Relazione al disegno di legge, ammette la “mancanza di statistiche certe” sulla diffusione degli atti di violenza. Si tratta di un vulnus in termini di ragionevolezza che potrebbe in effetti far dubitare della tenuta della disciplina derogatoria. L’introduzione di specifiche fattispecie aggravate - Nello specifico, per soddisfare lo scopo di assicurare al sanitario una migliore condizione di sicurezza, il provvedimento interviene sull’articolo 583-quater del Cp, già introdotto dal decreto legge 8 febbraio 2007 n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 aprile 2007 n. 41, che sanziona con pene aggravate le lesioni personali gravi o gravissime cagionate a un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive. Con la novella, con analoga finalità di rafforzare la tutela sanzionatoria, si dispone che le medesime pene aggravate si applichino quando le lesioni gravi o gravissime siano procurate in danno di personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio delle sue funzioni o a causa di esse. Per l’effetto, ora, sono punite con la reclusione da 4 a 10 anni le lesioni gravi e con la reclusione da 8 a 16 anni le lesioni gravissime, laddove commesse in danno di personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio delle sue funzioni o a causa di esse (“le stesse pene si applicano in caso di lesioni personali gravi o gravissime cagionate a personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria nell’esercizio o a causa delle funzioni o del servizio, nonché a chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, nell’esercizio o a causa di tali attività”). Viene ovviamente modificata anche la rubrica della norma che contempla non più solo le lesioni gravi o gravissime in danno di un pubblico ufficiale in servizio di ordine pubblico in occasione di manifestazioni sportive, ma anche quelle commesse in danno di “personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria” e di “chiunque svolga attività ausiliare ad essa funzionali”. La natura giuridica - Non si tratta di un titolo autonomo di reato, bensì di circostanze aggravanti speciali e a effetto speciale del delitto di lesioni personali, che sanzionano in maniera autonoma e più grave rispetto a quanto ordinariamente previsto dall’articolo 583 del Cp i fatti lesivi - gravi o gravissimi- commessi nei confronti dei sanitari - e personale assimilato - in servizio. Gli effetti - Trattandosi di circostanze a effetto speciale, ne discende, oltre che l’applicabilità della speciale disciplina in tema di giudizio di comparazione stabilita dall’articolo 63, comma 3, del Cp, la computabilità agli effetti della determinazione della pena per l’applicazione delle misure cautelari da parte dell’autorità giudiziaria (che risultano consentite) e per l’esercizio dei poteri di arresto in flagranza e di fermo da parte della polizia giudiziaria (sono consentiti l’arresto in flagranza e il fermo di indiziato di delitto). Il bene giuridico tutelato, allora, non è più solo rappresentato dall’integrità fisica dell’esercente l’attività sanitaria (o assimilato), ma è accompagnato anche dall’altro bene protetto rappresentato anche dalla libertà di azione e di cura, che non ammette indebite interferenze, anche allorquando alla base vi sia una ingiustificata pretesa ad ottenere una “migliore cura”, ovvero una maggiore attenzione rispetto a quella che si sostiene essere insufficientemente prestata dall’esercente l’attività sanitaria. Si tratta di una conferma dell’ambito di discrezionalità valutativa e operativa riservata all’esercente l’attività sanitaria allorquando si trovi a dovere affrontare contestualmente (l’ipotesi tipica, è quella del pronto soccorso) diversi casi, di diversa gravità, in contesti spesso di difficoltà gestionale. In ragione della rilevata natura delle circostanze in esame, e giusta il disposto dell’articolo 4 del Cpp, la competenza è del tribunale in composizione collegiale nell’ipotesi di lesioni gravissime, mentre, invece, è del tribunale monocratico nell’ipotesi di lesioni gravi. Interdittive antimafia: crescono gli stop alle aziende di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2020 Il lockdown non ha fermato le interdittive antimafia, ossia i provvedimenti delle prefetture che bloccano l’attività delle imprese sospettate di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. Anzi. Secondo i dati del ministero dell’Interno, da agosto 2019 a luglio 2020 ne sono state adottate 1.865 contro le 1.491 dello stesso periodo precedente (agosto 2018-luglio 2019) con una crescita del 25,1%. Un trend in aumento confermato anche dai dati elaborati per anno solare: ad oggi le Prefetture hanno già varato 1.394 interdittive, più di 5 al giorno, contro le 4 del 2019. Con l’obiettivo di impedire l’infiltrazione nell’economia legale, l’interdittiva blocca l’attività dell’impresa alla quale viene interdetto non solo qualsiasi rapporto con la Pa (a partecipazione a gare pubbliche o sottoscrizione di contratti) ma vengono negate anche autorizzazioni e licenze commerciali. La Regioni del Sud (con la Calabria in testa) restano quelle con il maggior numero di provvedimenti, ma l’estensione della penetrazione criminale nel Centro-Nord emerge dal dato dell’Emilia Romagna che quest’anno ha superato la Sicilia. Azione preventiva - Basata non su prove certe ma su una valutazione probabilistica (indizi gravi, precisi e concordanti), l’interdittiva ha carattere preventivo e viene adottata in seguito alla richiesta di verifiche da parte di Pa, Comuni e altre stazioni appaltanti. I numeri forniti dal ministero dell’Interno fotografano le risposte negative, che bloccano l’attività richiesta: più provvedimenti di diniego possono quindi riguardare anche la stessa azienda. Ad introdurla è stato il Codice antimafia (Dlgs 159/2011) per il settore degli appalti pubblici. Nel 2014 è stata estesa a autorizzazioni e licenze commerciali che ormai costituiscono l’oggetto della maggior parte degli stop. Nel 2019 infatti solo 633 delle 1.541 interdittive adottate dalle Prefetture ha colpito aziende coinvolte in appalti e quindi censite dall’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione. Le altre hanno quindi riguardato attività (come esercizi commerciali, bar o ristoranti), che necessitano di autorizzazioni o licenze. “È uno dei problemi cruciali del rapporto tra amministrazione della giustizia e sistema economico - dice Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali - Ed ormai è un’emergenza. Il Consiglio di Stato respinge il 100% dei ricorsi: questo vuol dire che non esiste più alcun controllo giurisdizionale su un’attività di polizia che può distruggere un’impresa. È un tema talmente importante che sarà al centro di un convegno a ottobre”. Le ragioni dell’aumento - Nel 2020 (se si proiettano su 12 mesi i dati relativi al periodo gennaio-15 settembre) la crescita delle interdittive è del 27% rispetto al 2019 e del 53% rispetto al 2018. Un aumento incessante dovuto a diversi fattori. Da una parte l’incremento della pressione mafiosa. Nella relazione 2020, l’Anac a commento della crescita del 10% delle interdittive legate agli appalti (dalle 573 del 2018 alle 633 del 2019) sottolinea come le organizzazioni criminali approfittino delle situazioni emergenziali “con effetti devastanti sulle imprese sane, già pesantemente colpite dalla crisi”. Dall’altra, la maggiore capacità di contrasto. Non solo la normativa ha allargato i casi in cui è necessaria la documentazione antimafia ma è anche cresciuta la collaborazione fra Prefetture, Comuni, Asl e altre stazioni appaltanti con accordi e protocolli di intesa che hanno fatto aumentare la richiesta di verifiche. Gli effetti - Lo stop all’attività ha conseguenze pesanti. “Per ridurre l’impatto sull’occupazione - spiega il prefetto di Napoli, Marco Valentini - spesso si decide di commissariare l’impresa fino alla fine dei contratti in essere. Ma questo è possibile solo nei settori dei servizi essenziali. Si potrebbe estendere ad attività che hanno molti occupati, come ristoranti e supermercati”. Negli ultimi tempi sta anche crescendo il ricorso al controllo giudiziario. La decisione spetta al giudice che può consentire la prosecuzione delle attività, nel rispetto di prescrizioni specifiche e con l’ausilio di un controllore nominato dal Tribunale. Circonvenzione incapaci: c’è reato in presenza di un rapporto squilibrato fra vittima e agente di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2020 Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 11 agosto 2020 n. 23792. Sul reato di circonvenzione di persone incapaci, la Cassazione con la sentenza 23792/2020, spiega che può essere commesso in danno - oltre che di minori - di persona in stato di infermità psichica, cioè affetta da un vero e proprio stato patologico, conosciuto e codificato dalla scienza medica o da una condizione soggettiva, che, sebbene non patologica, menomi le facoltà intellettive e volitive del soggetto quale conseguenza di una anomalia mentale, non importa se in modo definitivo o temporaneo; ovvero in danno di un soggetto in stato di deficienza psichica, intendendosi per tale sia una alterazione dello stato mentale, ontologicamente meno grave e aggressiva dell’infermità, dipendente da particolari situazioni fisiche (età avanzata, fragilità di carattere), o da anomale dinamiche relazionali, idonee a determinare una incisiva menomazione delle facoltà intellettive e volitive, inficiando il potere di autodeterminazione, di critica e di difesa del soggetto passivo dall’altrui opera di suggestione. La giurisprudenza è costante nel ritenere che in tema di circonvenzione di persone incapaci, il fatto che la legge individui tre categorie di soggetti passivi (il minore, l’infermo psichico e il deficiente psichico), distinguendo quindi tra infermo psichico e deficiente psichico e non considerando necessario che il soggetto passivo si trovi nella condizione per essere interdetto o inabilitato, induce a ritenere che per “infermità psichica” deve intendersi ogni alterazione psichica derivante sia da un vero e proprio processo morboso (quindi catalogabile tra le malattie psichiatriche) sia da una condizione che, sebbene non patologica, menomi le facoltà intellettive o volitive, mentre la “deficienza psichica” è identificabile in un’alterazione dello stato psichico che, sebbene meno grave dell’infermità, è comunque idonea a porre il soggetto passivo in uno stato di minorata capacità in quanto le sue capacità intellettive, volitive o affettive, fanno scemare o diminuire il pensiero critico (vi rientrano, per esempio, l’emarginazione ambientale, la fragilità e la debolezza di carattere). In ogni caso, minimo comune denominatore rinvenibile in entrambe le situazioni consiste nel fatto che, in tanto il reato può essere configurato, in quanto si dimostri l’instaurazione di un rapporto squilibrato fra vittima e agente, nel senso che deve trattarsi di un rapporto in cui l’agente abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima a causa del fatto che costei si trova, per determinate situazioni da verificare caso per caso, in una minorata situazione e, quindi, incapace di opporre alcuna resistenza a causa della mancanza o diminuita capacità critica. Tale situazione di minorata capacità deve essere oggettiva e riconoscibile da parte di tutti in modo che chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti (sezione IV, 30 marzo 2017, D.M. e altri, relativa a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretto il ragionamento del giudice di merito che aveva ravvisato il reato motivando in termini convincenti non solo sulle accertate condizioni psicofisiche pregiudicate di alcune delle vittime, ma anche e soprattutto sul tema della riconoscibilità di tali condizioni, tali da avere indotto gli imputati alla scelta delle vittime e poi ad approfittare di queste condizioni pregiudicate - in primo luogo, l’ipoacusia - determinate anche dall’età avanzata; in termini, sezione II, 12 giugno 2014, S. In altri termini, per la configurabilità del delitto di cui all’articolo 643 del Cp, non si richiede che il soggetto passivo versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente che esso sia affetto da infermità psichica o deficienza psichica, ovvero da un’alterazione dello stato psichico, che sebbene meno grave dell’incapacità, risulti tuttavia idonea a porlo in uno stato di minorata capacità intellettiva, volitiva o affettiva che ne affievolisca le capacità critiche. In particolare, lo stato di deficienza psichica del soggetto passivo richiesto per la configurabilita? del reato, anche inteso quale presupposto oggettivo, non e? quello di una completa assenza delle facoltà mentali o di una totale mancanza della capacita? di intendere e di volere, pur momentanea, essendo sufficiente una minorata capacita? psichica, uno stato di deficienza del potere di critica e di indebolimento di quello volitivo tale da rendere possibile l’altrui opera di suggestione, o tale da agevolare l’attività? di induzione svolta dal soggetto attivo per raggiungere il suo fine illecito (sezione II, 18 luglio 2018, V. e altro). Utilizzabili nella fase procedimentale le dichiarazioni spontanee della persona indagata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2020 Sono utilizzabili nella fase procedimentale, e dunque nell’incidente cautelare e negli eventuali riti a prova contratta, le dichiarazioni spontanee rese dalla persona sottoposta alle indagini alla polizia giudiziaria ai sensi dell’articolo 350, comma 7, del codice di procedura penale, purché emerga con chiarezza che l’indagato ha scelto di renderle liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione, proprio perché tale norma ne limita l’inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza 4 settembre 2020 n. 25044. I precedenti - In termini, di recente, sezione II, 13 marzo 2018, Basso, secondo cui, in particolare, le dichiarazioni spontanee anche se rese in assenza del difensore e senza l’avviso di poter esercitare il diritto al silenzio, sono pienamente utilizzabili nella fase procedimentale (ovvero nella fase della cognizione cautelare e in quella sulla responsabilità che si svolge nei riti a prova contratta, nella piena disponibilità dell’accusato), nella misura in cui emerga con chiarezza che l’indagato abbia scelto di renderle liberamente, senza alcuna coercizione o sollecitazione: spetta in proposito al giudice accertare, anche d’ufficio, sulla base di tutti gli elementi a sua disposizione, l’effettiva natura spontanea delle dichiarazioni, dando atto di tale valutazione con motivazione congrua e adeguata. Tale disciplina del resto è pienamente compatibile con le indicazioni della normativa europea e segnatamente con quelle contenute nella direttiva 2012/13/UE in materia di diritti di informazione dell’indagato: tale direttiva, infatti, è stata attuata con il decreto legislativo n. 101 del 2014, che non ha modificato l’articolo 350 del codice di procedura penale. Ed è anche compatibile con le con le indicazioni fornite dalla Corte Edu, emergendo dalle decisioni di tale organo sovranazionale solo l’esigenza che l’indagato sia protetto da ogni forma di coercizione quando viene “escusso”, che è situazione diversa rispetto al caso in cui questi decida liberamente di rendere dichiarazioni. La disciplina normativa - Si tratta di assunto condivisibile, e in linea con la disciplina normativa, opportunamente letta anche alla luce dei principi comunitari. Infatti, alle dichiarazioni spontanee del soggetto indagato non si applica la disposizione dell’articolo 64 del codice di procedura penale, che attiene all’interrogatorio, che non può essere confuso con le spontanee dichiarazioni, nelle quali, proprio per la loro caratteristica, nessun avvertimento preliminare potrebbe essere rivolto al dichiarante (si veda sezione VI, sentenza 6 novembre 2009, Colace e altro). Va del resto ricordato che ciò che caratterizza, rispetto alle “dichiarazioni spontanee”, l’assunzione di informazioni e indicazioni utili per le investigazioni, sono la direzione dell’escussione del soggetto da parte dell’operatore di polizia giudiziaria e la riconduzione dell’escussione in un preciso ambito scelto e limitato da quest’ultimo. In questa prospettiva, peraltro, una generica sollecitazione da parte della polizia giudiziaria (nella specie, sostanziatasi nella generica frase: “che è successo?”) non è idonea a tramutare la “ricezione” delle dichiarazioni spontanee del soggetto in una “assunzione” vera e propria delle stesse, sicché non sono necessari in tal caso il previo invito alla nomina del difensore, la presenza di quest’ultimo o l’avvertimento della facoltà di non rispondere (cfr. sezione II, 12 novembre 2009, Saleem e altri). Toscana. Giustizia riparativa: accordo per la realizzazione del progetto MeF laprimapagina.it, 21 settembre 2020 Un protocollo d’intesa per la realizzazione del progetto MeF (Mediazione, attività riparative e Formazione): lo hanno firmato la Regione Toscana, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, il Centro di giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria, Anci Toscana, e le associazioni Apab e Aleteia. L’accordo consentirà, nell’arco di tre anni, di dare concretezza al progetto presentato dalle associazioni Apab e Aleteia, finalizzato al coinvolgimento attivo del reo, della vittima e della comunità civile, così come prevedono i modelli europei di giustizia riparativa, non esclusivamente penale, che si avvale di strumenti, finalizzati a promuovere la riparazione del danno, causato dal reato, tramite un percorso di responsabilizzazione che si sviluppa nel corso della pena, e che, nel caso di reati lievi, può anche sostituirla. L’intesa fa seguito ad accordi precedenti, che da alcuni anni consentono, in tutta la Toscana, un progressivo sviluppo di progetti di giustizia riparativa e di ascolto alle vittime, realizzati in rete tra uffici di esecuzione penale esterna e di servizio sociale per i minorenni, associazioni ed enti locali, in linea appunto con le indicazioni e le esperienze europee. È la stessa assessora al regionale al diritto alla salute a ricordare l’importanza di una collaborazione avviata nel 2014, che, proprio grazie alla sinergia venutasi a creare con tutti i soggetti istituzionali interessati, ha consentito di promuovere e realizzare interventi, che potessero offrire ai cittadini una maggiore accessibilità alla giustizia, alle vittime una nuova attenzione e agli autori di reato opportunità di percorsi formativi di responsabilizzazione, interpretando alla lettera uno dei principi cardini dello statuto della Regione Toscana, volto a favorire il pieno sviluppo della persona, nel rispetto della dignità e dei diritti umani. Un protocollo d’intesa per la realizzazione del progetto MeF (Mediazione, attività riparative e Formazione): lo hanno firmato la Regione Toscana, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, il Centro di giustizia minorile per la Toscana e l’Umbria, Anci Toscana, e le associazioni Apab e Aleteia. L’accordo consentirà, nell’arco di tre anni, di dare concretezza al progetto presentato dalle associazioni Apab e Aleteia, finalizzato al coinvolgimento attivo del reo, della vittima e della comunità civile, così come prevedono i modelli europei di giustizia riparativa, non esclusivamente penale, che si avvale di strumenti, finalizzati a promuovere la riparazione del danno, causato dal reato, tramite un percorso di responsabilizzazione che si sviluppa nel corso della pena, e che, nel caso di reati lievi, può anche sostituirla. L’intesa fa seguito ad accordi precedenti, che da alcuni anni consentono, in tutta la Toscana, un progressivo sviluppo di progetti di giustizia riparativa e di ascolto alle vittime, realizzati in rete tra uffici di esecuzione penale esterna e di servizio sociale per i minorenni, associazioni ed enti locali, in linea appunto con le indicazioni e le esperienze europee. È la stessa assessora al regionale al diritto alla salute a ricordare l’importanza di una collaborazione avviata nel 2014, che, proprio grazie alla sinergia venutasi a creare con tutti i soggetti istituzionali interessati, ha consentito di promuovere e realizzare interventi, che potessero offrire ai cittadini una maggiore accessibilità alla giustizia, alle vittime una nuova attenzione e agli autori di reato opportunità di percorsi formativi di responsabilizzazione, interpretando alla lettera uno dei principi cardini dello statuto della Regione Toscana, volto a favorire il pieno sviluppo della persona, nel rispetto della dignità e dei diritti umani. Tra gli obiettivi generali del progetto sono previsti dunque: una metodologia innovativa e condivisa che migliori l’efficacia del percorso dell’esecuzione penale e della messa alla prova; interventi finalizzati alla riduzione dei conflitti; attività volte alla diminuzione della recidiva e alla sensibilizzazione della società locale. Benevento. Positivi al Covid cinque poliziotti penitenziari retesei.com, 21 settembre 2020 “Dopo quello di Palermo scoppia un altro focolaio a Benevento. Tra l’uno e l’altro circa trenta poliziotti contagiati. E speriamo si fermi qui.” Sostiene il leader del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, Sappe. “Sono molto deluso, oltre che preoccupato, dal modo di gestire l’emergenza coronavirus da parte del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Tanto per quel che riguarda l’ex Capo Dap Francesco Basentini, quanto per quel che (non) stanno facendo gli attuali vertici Petralia e Tartaglia, lasciando la responsabilità ai direttori dei singoli istituti” spiega il segretario del Sappe. “Sia l’uno che gli altri, infatti, si sono limitati a recepire e diramare in periferia le direttive delle Autorità Sanitarie Nazionali e del Governo, senza nulla togliere e nulla aggiungere per le particolarità delle carceri.” prosegue Capece “Sappiamo che nella Polizia di Stato, il Capo Gabrielli ha convocato più volte le organizzazioni sindacali sull’argomento concordando protocolli specifici per i poliziotti e per i particolari servizi che essi svolgono.” E a tal riguardo, Capece rivela: “Niente di tutto ciò, invece, per quanto riguarda la Polizia Penitenziaria … niente convocazioni sul tema, niente protocolli condivisi e, soprattutto, niente indicazioni specifiche per i poliziotti penitenziari che svolgono i più svariati servizi.” “È per questo che mi auguro con tutto il cuore - auspica Capece - che continui ad assisterci la buona stella che ci ha salvaguardato fino ad oggi facendoci passare quasi indenni (due vittime) la prima ondata dei contagi e le rivolte dei detenuti”. “Ma per questo, non dobbiamo certo ringraziare le decine e decine di dirigenti dipartimentali che hanno pensato bene di mettere al riparo solo se stessi con smart working, lavoro agile e altri espedienti del genere … tanto in sezione, in mezzo ai detenuti, ci stanno solo i poliziotti penitenziari”, conclude il capo del più grande sindacato della Polizia Penitenziaria. Bari. I penalisti al contrattacco: le parole di Buonafede suonano come una beffa di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 21 settembre 2020 Il ministro aveva detto nei giorni scorsi: “I miracoli non si possono fare”. “Dopo averci abbandonato da tempo, le parole del ministro suonano come una beffa”. Non usa giri di parole l’avvocato Guglielmo Starace che commenta così le recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sull’edilizia giudiziaria. “C’è un progetto di cittadella giudiziaria anche a Bari su cui stiamo portando avanti il percorso che abbiamo già progettato - ha detto il ministro giovedì scorso in visita nel Tribunale di Foggia - speriamo di poter accelerare ulteriormente i tempi” per la realizzazione del Polo unico. “I miracoli non si possono fare”. E poi, ancora: “Sapete qual è stato il mio impegno a Bari. La mia prima visita da Ministro è stata proprio a Bari. Lì la giustizia si celebrava nelle tende, a distanza di sei mesi, più o meno, siamo riusciti a dare un edificio che ha una sua dignità”. Bene, se ieri il presidente dell’Ordine degli avvocati di Bari Giovanni Stefanì non ha risparmiato aspre critiche al ministro, anche la Camera penale di Bari è sulla stessa linea. Del resto, sono proprio i penalisti a pagare il conto più salato per il cosiddetto “spezzatino”, ovvero la frammentazione delle sedi giudiziarie che costringono a farsi in quattro per riuscire a fare tutto. “Non è possibile continuare con questa storia delle tende ripetuta periodicamente dal ministro - premette l’avvocato Satrace. Stando alla sua narrazione, le abbiamo lasciate grazie a lui che è riuscito a trovare un palazzo di dieci piani. L’edificio di via Dioguardi, cui si riferisce, non risolve i problemi. In era Covid, poi, non ne parliamo, visti spazi esigui e ambienti ristretti in cui bisogna anche assicurare distanze che in questi locali non si possono garantire nonostante tutta la buona volontà. Magistrati, avvocati e personale amministrativo si stanno facendo in quattro per cercare di portare avanti la giustizia penale per far sì ad esempio che le udienze si celebrino agli orari fissati, che le comunicazioni arrivino per tempo e via discorrendo. Insomma, noi lavoriamo in condizioni difficili e il ministro quasi due anni e mezzo dopo le tende allestite nell’atrio del vecchio Palagiustizia di via Nazariantz dichiarato inagibile, dice che non può fare miracoli. Davvero senza vergogna”. Come è noto, il progetto per realizzare il Polo unico della giustizia nell’area dell’ex Casermette è attualmente in una fase di stallo. “Sin dal primo momento, era maggio 2018, invocando la nomina di un commissario per l’edilizia giudiziaria. Non fummo ascoltati, ci fu detto “Non vi preoccupate, me la vedo io” e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Non solo. Noi scriviamo al ministero e non riceviamo alcuna risposta”. Accesso per appuntamento in cancelleria, termo scanner all’ingresso, bisogna dire dove si va, accesso nelle aule non molto tempo prima rispetto alla fissazione del proprio processo. Ma soprattutto, la giustizia penale disseminata in più sedi: via Dioguardi (Procura e Tribunale penale compreso ufficio gip e Riesame); via Brigata Regina (dove ci sono alcuni uffici della Procura come il dibattimento e della polizia giudiziaria); via Tommaso Fiore (Tribunale e Procura per i Minorenni); piazza De Nicola (Tribunale di Sorveglianza, Procura generale e Corte d’Appello); San Paolo (Giudice di Pace) e, all’occorrenza, aula bunker a Bitonto e carcere dove gli avvocati si recano per i colloqui con i loro assistiti e anche per celebrare a volte le udienze di convalida degli arresti o gli interrogatori di garanzia. Ma non dite ai penalisti che ormai sono rassegnati rispetto a una situazione incancrenita. “È nostro dovere fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità per rendere il servizio giustizia il migliore possibile nell’interesse dei cittadini”, conclude Starace. Agrigento. Da Palma di Montechiaro parte “Il viaggio della speranza” Quotidiano di Sicilia, 21 settembre 2020 Parte oggi dalla città dell’Agrigentino candidata a capitale della Cultura e del Perdono, il tour in Sicilia del racconto - per immagini, parole e atti - dell’ottavo congresso dell’Associazione Nessuno tocchi Caino. Un viaggio che si protrarrà fino al quattro ottobre. Prende il via oggi da Palma di Montechiaro, nell’Agrigentino, candidata a capitale della Cultura e del Perdono, “Il viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino. Si tratta del racconto per immagini, parole e atti dell’ottavo congresso dell’Associazione umanitaria svoltosi nel Carcere di Opera a Milano nel dicembre del 2019 e che viene riproposto nel trentesimo anniversario della morte del giudice Rosario Livatino. “Il viaggio della speranza” non è solo un libro, è un viaggio vero e proprio che attraverserà la Sicilia dal 21 settembre al 4 ottobre, venendo dalla Calabria dopo aver attraversato la Puglia. Ci saranno incontri, presentazioni del libro e manifestazioni sui temi dell’associazione, a partire dal superamento degli stati di emergenza verso l’affermazione dello Stato di Diritto. Il sindaco di Palma di Montechiaro Stefano Castellino, ha scelto di accogliere la presentazione del libro “Il viaggio della speranza”, alle 18 al Palazzo degli Scolopi, e presentare la candidatura della sua città a capitale della cultura e del perdono. Oltre al Sindaco, saranno presenti gli esponenti di Nessuno tocchi Caino Sergio d’Elia, Segretario, Rita Bernardini, Presidente ed Elisabetta Zamparutti, Tesoriera. “Abbiamo voluto iniziare - hanno spiegato - il viaggio in Sicilia da Palma di Montechiaro perché il Sindaco con la sua proposta di candidatura della sua città esprime il senso di una giustizia rinnovata capace di guarda al futuro piuttosto che fossilizzarsi su fatti passati che pure sono incancellabili”. “Una giustizia - hanno scritto in una nota i rappresentanti di Nessuno tocchi Caino - scevra da vendetta e capace di ri-conoscere, ri-parare e ri-comporre il tessuto sociale. Una giustizia che comprende il perdono”. Il titolo del volume di 440 pagine, dedicato a Marco Pannella, è tratto dal nome di un’associazione americana contro la pena di morte, Journey of Hope - from Violence to Healing (Viaggio della speranza - dalla violenza alla guarigione), costituita da parenti delle vittime di reato e parenti dei detenuti nel braccio della morte che ogni anno, insieme, con una sorta di carovana della pace e della giustizia, attraversano gli Stati Uniti. Le deboli reazioni al neo-oscurantismo di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 21 settembre 2020 In vari Paesi europei si ripetono squillanti annunci di neo-oscurantismo relativi alla condizione della donna accolti quasi nel silenzio, tranne l’ammirevole resistenza delle studentesse francesi che si sono recate a scuola con l’ombelico scoperto. Sta emergendo una singolare contraddizione, sulla condizione della donna nel nostro Occidente, tra le parole e le cose. Da una parte l’attenzione iper-corretta alimentata dal #metoo, l’eccesso di zelo lessicale, un certo bigottismo che allarga a dismisura l’area del proibito, del non dicibile, del censurabile. Dall’altra, i segnali di un nuovo oscurantismo che penetra nelle nostre società e che non siamo più in grado, prigionieri dei nostri sensi di colpa e del poco amore per i nostri valori di libertà, di contrastare efficacemente. Dieci anni fa sarebbe stata inconcepibile la legittimazione di quella tremenda umiliazione nei confronti della donna che è il test di verginità, praticato nel medioevo degli Stati dell’integralismo islamico e di cui si vorrebbe replicare la vergogna nelle nostre società pluralistiche e tolleranti. In Francia è accaduto: e deve intervenire il governo per rintuzzare l’ondata oscurantista che difende il test di verginità. Sempre in Francia a una donna è stato impedito l’ingresso nel Museo d’Orsay, nel museo che esibisce il nudo femminile più perturbante della storia dell’arte che è “L’origine del mondo” di Gustave Courbet, per via di un suo presunto abbigliamento poco consono. In Italia la vicepreside di una scuola romana ha esortato le studentesse a evitare le minigonne per evitare che ai maschi “cada l’occhio” sulle loro gambe. Sempre in Italia una sentenza ha mitigato la pena comminata a uno stupratore perché la ragazza violentata manifesterebbe un comportamento “disinvolto”, con ciò stabilendo un nesso grottesco tra i costumi sessuali della vittima e il diritto del carnefice a pretendere, anche con la forza, la stessa disponibilità avuta con gli altri uomini. Generalmente questi squillanti annunci di neo-oscurantismo sono stati accolti da proteste molto blande, tranne l’ammirevole resistenza delle studentesse francesi che si sono recate a scuola con l’ombelico scoperto. È il senso di colpa, appunto. Un atteggiamento omertoso per non occuparsi delle donne che, ancora fuori dell’Occidente ma chissà, vivono una condizione di oppressione spaventosa. Come Nasrin Sotoudeh che in Iran patisce anni di galera e decine di frustate per aver difeso i diritti delle donne a liberarsi del velo e che oggi è in ospedale, dopo quaranta giorni di sciopero della fame. Stati Uniti. Cattolica e anti-abortista, la favorita di Trump per la Corte Suprema di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 21 settembre 2020 Chi è Amy Coney Barrett, favorita di Trump per prendere il posto di Ruth Bader Ginsburg alla Corte Suprema. Amy Coney Barrett, 48 anni, sette figli, due dei quali adottati ad Haiti, cattolica fondamentalista e fieramente anti abortista, sembra essere la favorita per succedere a Ruth Bader Ginsburg tra i nove togati della Corte Suprema. Il nome di Barrett era emerso già nel luglio del 2018 tra i quattro candidati finalisti per il posto del dimissionario Anthony Kennedy. Donald Trump l’avrebbe nominata volentieri, ma rinunciò dopo che i suoi consiglieri verificarono che la magistrata non avrebbe superato il vaglio del Senato, per l’opposizione delle repubblicane moderate Lisa Murkowski (Alaska) e Susan Collins (Maine). In quella fase i repubblicani controllavano il ramo alto del Congresso con soli due seggi di scarto (51 a 49) e quindi il “no” di Murkowski e Collins sarebbe stato decisivo. Alla fine il presidente scelse Brett Kavanaugh e fece sapere di “aver voluto preservare Barrett per il posto di Ginsburg”. Nel 2017 Trump la nominò comunque giudice della Corte d’appello del Settimo distretto, con sede a Chicago. Ora sembra essere arrivato il momento per il grande salto verso la Corte Suprema. La maggioranza dei repubblicani al Senato è più ampia (53 a 47) e Trump ha interesse a trasformare la campagna elettorale in uno scontro ideologico ed “epocale” tra i “patrioti difensori della tradizione” e i “socialisti nemici dell’identità americana”. La figura di Coney Barrett calzerebbe alla perfezione. Nata a New Orleans, la prima di sette figli. Il padre era un avvocato della Shell, la madre si occupava della famiglia. Studentessa modello fin dalle elementari, Amy si è costruita una solida formazione giuridica, laureandosi con il massimo dei voti alla Notre Dame Law School, nell’Indiana. Comincia come assistente giudiziaria a Washington. Prima nella Corte di Appello, poi, per un anno, alla Corte Suprema, alle dipendenze del giudice Antonin Scalia, da cui assorbe i principi della “dottrina originalista”: la Costituzione va applicata alla lettera, non interpretata seguendo lo spirito dei tempi. All’inizio degli anni Duemila, Amy alterna l’attività di avvocato a quella di docente universitario, tornando alla Notre Dame Law School. In quel periodo matura la sua visione giuridico-culturale, aderendo a un’associazione Pro Life e facendosi notare per la sua severa posizione anti-abortista. Analizza e critica a fondo la sentenza Roe v. Wade, che dal 1973 autorizza l’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti. Sostiene che i tempi siano maturi perché la Corte Suprema possa modificarla, se non abolirla del tutto. Basterebbe questo per spiegare quale sarebbe l’impatto della sua nomina sull’orientamento della Corte Suprema e quindi sulla società e la politica americane. Trump starebbe considerando anche un’altra candidatura meno dirompente: Barbara Lagoa, 52 anni, nata a Miami, figlia di immigrati cubani, giudice federale ad Atlanta. Anche Lagoa è una magistrata conservatrice, ma con un approccio più morbido rispetto a quello di Barrett. Non a caso il Senato ratificò la sua nomina con un voto trasversale: 80 a favore contro 15 contrari. Amy Coney Barrett, invece, passò con un margine decisamente più ristretto: 55 a 43. Guerra in Siria, dopo il ritiro-fantasma gli Usa inviano altri soldati di Chiara Cruciati Il Manifesto, 21 settembre 2020 L’annuncio dopo lo scontro, in mezzo al deserto, tra un blindato russo e uno statunitense. L’annuncio della ritirata nel 2019 fu via libera occulto all’invasione turca, oggi sotto accusa dell’Onu per crimini di guerra. Un centinaio di soldati statunitensi e sei veicoli blindati arriveranno a breve nel nord della Siria, rinforzo del contingente presente. In contemporanea aumenterà sia la frequenza dei pattugliamenti che i sistemi radar. La notizia è stata data una fonte anonima dell’esercito degli Stati uniti, descrivendo la mossa come necessaria a evitare (o accendere, dipende dai punti di vista) un’escalation militar-diplomatica con la Russia nella regione. Alla fine di agosto due veicoli militari, uno russo e l’altro americano, si sono scontrati nel nord della Siria, sette soldati Usa sono rimasti feriti. Scambio vicendevole di accuse, chi ha colpito chi nel bel mezzo del deserto: Mosca aveva dato comunicazione all’esercito Usa di sue pattuglie nella zona, la versione russa; quell’area è una “zona di sicurezza” in cui i russi non devono entrare, la versione statunitense. Da cui la decisione di inviare altri uomini, ha detto venerdì il portavoce del Comando Usa, il capitano Bill Urban, senza nominare la Russia: serviranno a “garantire la sicurezza delle forze della Coalizione”. Ed ecco che, apparentemente di colpo, ritornano tensioni che si immaginavano sopite e le sirene di una guerra mai finita, quella siriana. Ma gli americani dal nord della Siria non si sono mai ritirati. Undici mesi fa, nell’ottobre 2019, l’annuncio del presidente Trump di ritirare le truppe Usa dava un occulto via libera alla Turchia del presidente Erdogan per invadere il nord della Siria, il Rojava a maggioranza curda. Gli americani in ritirata verso il vicino Kurdistan iracheno avevano intercettato la rabbia dalle comunità locali, lanci di pietre e insulti ai blindati che lasciavano gli alleati preda della galassia turco-diretta di milizie islamiste e jihadiste. Ma gli americani non hanno mai lasciato il nord della Siria. Hanno lasciato Manbij, la città simbolo della sconfitta dell’Isis inferta dalle Sdf (la federazione multietnica e multiconfessionale nata dall’esperienza curda del confederalismo democratico) dove erano di stanza per la regione di Deir Ezzor. Appena una settimana dopo l’invasione turca, Trump candidamente annunciava l’intenzione di non ritirarsi più: “Un piccolo numero di soldati” rimarrà al confine centro-orientale con Giordania “a protezione del petrolio” perché “se entri dentro tieni il petrolio”. Annuncio confermato dal Pentagono che parlava di una redistribuzione di una quota dei 2mila marines all’epoca presenti nel Rojava. Infine, a fine novembre 2019, da Manama interveniva il generale McKenzie del Commando centrale Usa: “Non ho una data di fine” per il ritiro, aveva detto indicando in almeno 500 i marines che sarebbero rimasti al fianco delle unità di difesa curda in chiave anti-Isis. In un tripudio di ipocrisia, i soldati americani sono rimasti in Siria. E non sono 400 o 500, sarebbero almeno mille secondo quanto dichiarato dal Pentagono. Ora aumentano di nuovo. Perché la missione non è accomplished: c’è ancora il grande punto interrogativo di Idlib, tuttora in mano ai jihadisti filo-turchi, ma soprattutto non c’è pace all’orizzonte né un effettivo avvio della ricostruzione, enorme business su cui si stanno lanciando da tutti, dai russi (ovviamente) a cui il presidente Assad ha garantito la parte del leone ai paesi del Golfo, alleati Usa. Iran. Gravissime le condizioni dell’avvocata Nasrin Sotoudeh di Tiziana Ciavardini e Cristina Perozzi articolo21.org, 21 settembre 2020 L’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh è grave. Suo marito Reza Khandan attraverso i canali social ha informato sabato 18 settembre, che le condizioni di sua moglie sono molto gravi. Nasrin è stata trasferita dalla prigione di Evin al Taleghani Hospital di Teheran e subito dopo trasportata in terapia intensiva per insufficienza cardiaca. L’avvocata è in sciopero della fame dallo scorso 11 agosto per protesta contro il mancato rilascio dei prigionieri politici, che si trovano nelle carceri iraniane senza alcuna protezione al Covid19. Per Articolo 21 abbiamo contattato Reza Khandan il marito di Nasrin che ci ha esternato le sue forti preoccupazioni sulle condizioni di sua moglie. “Nasrin è molto debole - ci ha detto - e la sua salute sta peggiorando ogni giorno”. Nasrin Sotoudeh insignita del premio Sacharov dal Parlamento Europeo nel 2012, venne arrestata nel 2018 e condannata nel 2019 ad un totale di 38 anni e mezzo di prigione e 148 frustate per il suo pacifico lavoro in favore dei diritti umani, inclusa la difesa delle donne che protestano contro l’obbligo di indossare il velo islamico in Iran. Giá ad agosto le sue condizioni di salute si erano aggravate ed era stata portata nella clinica della prigione. La situazione della diffusione del Covid19 all’interno delle carceri iraniane é estremamente complessa. La Boroumand Foundation, con sede a Washington, che documenta le violazioni dei diritti umani in Iran, ha dichiarato in un rapporto del 2 settembre scorso che “il Covid-19 è molto diffuso nelle carceri iraniane in cui il sovraffollamento rende difficile il distanziamento sociale”. Secondo i dati ufficiali in Iran, la pandemia ha ucciso più di 22.000 persone e ne ha infettate oltre 380.000. Alcune ricerche hanno mostrato che questi numeri non sono tuttavia quelli effettivi, poiché le autorità iraniane hanno voluto tenere nascosti i dati reali. Lo scorso marzo in piena pandemia l’Iran ha rilasciato temporaneamente 85.000 detenuti dopo che si erano riscontrati disordini all’interno delle carceri, per la paura di diffusione del virus, ma non ha concesso lo stesso permesso ai prigionieri politici. In questi mesi le condizioni di alcuni detenuti rimasti all’interno del carcere sono deteriorate. Il portavoce della magistratura Gholamhossein Esmaili, aveva già allora dichiarato che erano stati liberati solo coloro che stavano scontando condanne a meno di cinque anni, mentre i prigionieri politici e quelli accusati di condanne più pesanti, legate alla partecipazione di proteste antigovernative, sarebbero rimasti in prigione. Secondo le autorità i prigionieri non rilasciati temporaneamente sarebbero quei prigionieri politici considerati “terroristi” e “spie straniere” e per questo definiti dallo stesso Esmaili “criminali contro la sicurezza”. In una delle telefonate dal carcere con suo marito Reza, Nasrin aveva espresso rammarico per la morte dell’avvocata Ebru Timtik ed aveva inviato le sue condoglianze alla famiglia. Ebru era una collega turca di Nasrin ed è morta il 27 agosto 2020 nell’ospedale militare presso cui era stata trasferita dal carcere di Silviri, in Turchia, dove era detenuta dal settembre 2017. È deceduta dopo 238 giorni di sciopero della fame, che aveva deciso di iniziare proprio per protestare contro le deteriorate condizioni della giustizia turca. L’avvocata Timtik, unitamente ad altri 18 colleghi appartenenti a diverse associazioni progressiste e di sinistra attive nella difesa di casi politicamente sensibili, venne arrestata con l’accusa di collaborazione e asseriti legami con il Fronte Rivoluzionario della liberazione popolare (Dhkp/C), gruppo di estrema sinistra considerato organizzazione terroristica dal governo turco, dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti. Ma a quanto risulta Ebru Timtik era responsabile solo di aver svolto con lealtà e diligenza la sua professione legale, assumendo la difesa di chiunque ne avesse bisogno. Aveva difeso la famiglia di Berkin Elvan, un adolescente morto nel 2014 per le ferite riportate durante la repressione delle proteste di Gezi Park di un anno prima. Si era occupata dal 2008 dell’omicidio per tortura dell’attivista per i diritti umani Engin Çeber e del disastro minerario di Soma che il 13 maggio 2014 causò la morte di 301 minatori. Dopo un processo definito farsa dagli osservatori, con testimoni reticenti e contraddittori e la sostituzione immediata dei magistrati che si erano dichiarati favorevoli al suo rilascio, l’avvocata venne condannata a 13 anni e 6 mesi di carcere. Nel gennaio del 2020 Ebru Timtik e Aytaç Ünsal, altro suo collega condannato a 10 anni e sei mesi, avevano iniziato uno sciopero della fame per reclamare il diritto ad un processo equo e per protestare contro l’attuale sistema della giustizia turca, che molti avvocati lamentano essere contaminata da continui controlli e supervisioni politiche. Gli amici che sono riusciti a vederla hanno riferito che Ebru Timtik pesava solo 30 chilogrammi al momento della morte. Il giorno dei suoi funerali, mentre la bara coperta dalla sua toga e dai garofani rossi transitava per la strada verso il cimitero, la polizia turca ha sequestrato il feretro ed impedito la sua sepoltura pubblica, dissipando con numerose raffiche di gas lacrimogeni la folla che si era radunata per salutarla l’ultima volta. Per salvare la vita di Nasrin siamo ancora in tempo. In queste ultime settimane moltissime associazioni per i diritti, alle quali ci uniamo, noti gruppi di avvocati, politici e esponenti di spicco nel mondo della cultura, dello spettacolo e della politica, hanno chiesto il rilascio immediato e le cure mediche adeguate per l’avvocata iraniana. Augurandoci, che almeno questa volta, le autorità della Repubblica Islamica ascoltino la nostra voce. Algeria. Se fai bene il giornalista finisci nelle patrie galere di Rachida El Azzouzi* Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2020 Il pugno di ferro del regime sull’informazione. Il giornalista Khaled Drareni, in prigione dallo scorso 7 marzo, è stato condannato, martedì 15 settembre, dalla corte d’appello di Algeri, a due anni di reclusione, semplicemente per aver svolto il suo lavoro. A agosto era stato condannato in primo grado a tre anni. Il suo crimine: aver pubblicato degli articoli sull’ “Hirak”, in un paese come l’Algeri che sta sprofondando nella repressione dal giorno dell’elezione del suo nuovo presidente, Abdelmadjid Tebboune, nel dicembre 2019, ex fedele del presidente Abdelaziz Bouteflika, costretto alle dimissioni nell’aprile 2019. Ecco dunque quale è il reato commesso da Drareni: aver seguito in modo libero e indipendente le manifestazioni dell’Hirak, la rivolta popolare che ha spinto l’ex presidente “fantasma” a cedere il potere e che da più di un anno reclama un “sistema nuovo”, un’Algeria “libera e democratica” e uno stato di diritto. Se la condanna è stata ridotta di un anno in appello, la sentenza dei giudici algerini resta una delle più pesanti mai pronunciate prima contro un giornalista dalla proclamazione di indipendenza del paese, nel 1962. Nel 2004, sotto Bouteflika, il giornalista Mohammed Benchicou era stato per esempio condannato a sua volta a due anni di prigione per trasferimento illecito di valuta. Drareni non è un giornalista qualsiasi. Il suo nome è noto ai media internazionali. È corrispondente da Algeri per la tv internazionale in lingua francese TV5 Monde, lavora per l’ong francese Reporter senza frontiere, che difende la libertà di informazione e di stampa in tutto il mondo, ed è fondatore del sito di informazione online, a accesso gratuito, Casbah Tribune. È un giornalista molto popolare in Algeria, ma anche all’estero. Chi si interessa all’Algeria lo segue su Twitter, per la sua precisione e professionalità. Proprio questa popolarità, ben oltre i confini dell’algeria, lo rende colpevole agli occhi delle autorità, che lo puniscono con la prigione e che più in generale tentano di imbavagliare ogni voce critica. La condanna di Khaled Drareni, per “istigazione a manifestazione non armata” e “minaccia all’integrità del territorio nazionale”, suona dunque oggi come un monito per tutti i giornalisti, che in Algeria lavorano già in condizioni molto difficili: il paese è al 146mo posto su 180 nella classifica per la libertà di stampa nel mondo. Questo è il messaggio delle autorità algerine: o ti metti in riga, al servizio del potere, o finisci in prigione. Il messaggio è rivolto anche a tutti i cittadini algerini, perché il processo a Khaled Drareni non è solo quello della libertà di stampa, è anche quello della libertà di espressione e delle libertà individuali, che vengono violate ogni giorno. “Due anni di prigione per Drareni. Faremo appello in Cassazione”, ha fatto sapere all’agenzia France Presse uno degli avvocati del giornalista, a sua volta figura di punta dell’hirak, Mustapha Bouchachi. “Il fatto che sia mantenuto in prigione e condannato è la prova della chiusura del regime in una logica di repressione assurda, ingiusta e violenta”, ha osservato a sua volta Christophe Deloire, segretario generale di Reporter senza frontiere. “Colpendo e mettendo a tacere i giornalisti che lavorano sull’hirak, la giustizia algerina, agli ordini del regime, crede di poter rinchiudere la protesta dentro una pentola a pressione. È una strategia inefficace e esplosiva, che mina la legittimità di chi la mette in atto”, ha denunciato l’ong francese, che sta conducendo una campagna internazionale per la liberazione immediata di Khaled Drareni. Il giornalista non era comparso in tribunale da solo. A processo con lui c’erano anche Samir Benlarbi e Slimane Hamitouche, due volti noti dell’hirak. I due uomini, su cui pesavano gli stessi capi di imputazione di Drareni, sono stati condannati a quattro mesi di prigione ciascuno. Avendoli già scontati nell’attesa del processo, sono usciti liberi dal tribunale di Algeri. Arrestato il 7 marzo scorso, durante una manifestazione repressa dalla polizia, per attacco all’unità nazionale, posto in un primo tempo sotto controllo giudiziario, poi in custodia cautelare, Khaled Drareni, che ha festeggiato il suo quarantesimo compleanno dietro le sbarre, è diventato suo malgrado il simbolo di una stampa sempre più oppressa in Algeria. Poco più di un mese fa, lunedì 3 agosto, è apparso tra le mura del carcere di Kolea, emaciato ma con il suo abituale grande sorriso, davanti ai giudici del tribunale Sidi Mohamed di Algeri al momento del processo di primo grado, che si è svolto in videoconferenza a causa della pandemia di Covid-19. La scorsa settimana, durante l’udienza d’appello, il viso era ancora più magro, ma il sorriso era lo stesso. Davanti ai giudici, Drareni ha ripetuto che non aveva fatto altro che “svolgere il suo lavoro di giornalista indipendente e di esercitare il suo diritto di informare in quanto giornalista e cittadino”. Ha precisato di aver lavorato su tutte le proteste, comprese quelle favorevoli al governo. Ha insistito sul suo diritto come cittadino di esprimere il proprio punto di vista, la “cosiddetta libertà di espressione”. La giustizia gli rimprovera in particolare una pubblicazione su Facebook in cui il giornalista ha solo detto la verità, cioè che il sistema politico in Algeria non è cambiato dopo l’elezione del presidente Tebboune. Drareni è accusato di aver criticato “la corruzione e il denaro” del sistema politico e di aver pubblicato il comunicato di una coalizione di partiti favorevoli allo sciopero generale. “Sono un giornalista, non un criminale - ha detto in sua difesa al termine dell’udienza d’appello -. Il tipo di giornalismo che svolgo non minaccia la sicurezza del paese, ma lo protegge”. Come in prima istanza, anche in appello, il pubblico ministero aveva chiesto contro di lui quattro anni di prigione, 100 mila dinari di multa e quattro anni di privazione dei diritti civili. “La prigionia di Khaled Drareni è il risultato dell’accanimento di un solo uomo: il presidente Tebboune - ci ha detto un osservatore di primo piano, che preferisce restare anonimo. Tebboune si sta comportando con Drareni come aveva fatto Gaïd Salah, l’ex capo dell’esercito che aveva preso il posto di Bouteflika al momento della sua destituzione, contro Karim Tabbou, l’oppositore politico, recentemente rilasciato. Allo stesso modo Tebboune si accanisce contro Drareni che, durante una conferenza stampa, ha trattato da spia, da informatore. È una cosa senza precedenti. I giudici hanno avuto paura. Si sono detti: non si può rilasciare una persona che, stando al primo magistrato del paese, è un informatore”. Questa condanna arriva in Algeria anche a due mesi da una riforma costituzionale prevista per il prossimo primo novembre, giorno anniversario dell’inizio della guerra d’indipendenza dell’Algeria (1954-1962), mentre la repressione è sempre più forte nei confronti dei media indipendenti, degli attivisti dell’hirak e degli oppositori politici. Dei giornalisti sono stati accusati dal regime di seminare la “sedizione” nel paese e di essere al soldo di “par ti straniere”. Diversi sono in prigione, come Abdelkrim Zeghileche, direttore della radio indipendente online Radio Sarbacane, condannato il 24 agosto a due anni di prigione per un post su Facebook in cui lanciava un appello alla creazione di un nuovo partito politico. Altri processi sono in corso. “Ormai gli oppositori algerini, appena parlano, vengono accusati di attacco all’unità nazionale”, osserva il suo avvocato Djamel Aissiouane. Anche Elwatan, il principale quotidiano in lingua francese in Algeria, che stenta a sopravvivere, ha subito questa ondata di repressione senza precedenti che si è intensificata con la pandemia. Gli sono state ritirate delle pubblicità pubbliche dopo aver pubblicato a fine agosto un’inchiesta sulle origini opache del patrimonio dei figli del generale Ahmed Gaïd Salah, l’ex uomo forte del paese a capo dell’esercito, che ha gestito la transizione prima di morire improvvisamente nel dicembre 2019. *Traduzione di Luana De Micco Hong Kong. Familiari arrestati in Cina chiedono l’assistenza dei legali di loro nomina agenzianova.com, 21 settembre 2020 I familiari di alcuni residenti di Hong Kong arrestati in mare il mese scorso dalle autorità della Cina continentale si sono rivolti oggi alla polizia di Hong Kong per chiedere che i loro congiunti possano incontrare gli avvocati scelti dalle famiglie e i parenti e che la Regione amministrativa speciale si attivi per ottenere informazioni dalle autorità cinesi continentali. Le richieste sono contenute in un comunicato letto fuori dal quartier generale della polizia dall’attivista Owen Chow Ka-shing, che ha assistito le famiglie. Secondo quanto dichiarato, finora i legali nominati dalle famiglie non sono stati autorizzati a incontrare i detenuti e le condizioni delle persone arrestate sono note solo alle autorità cinesi. Per questo i familiari hanno sollecitato le autorità di Hong Kong a inviare rappresentanti e a chiedere l’accesso a documenti di interesse tra i quali i dati radar. Ieri il segretario alla Sicurezza di Hong Kong, John Lee Ka-chiu, ha dichiarato che le 12 persone sono tutte in buona salute e hanno scelto ciascuna due avvocati da un elenco fornito dalle autorità cinesi, precisando che le procedure legali nella Cina continentale sono diverse da quelle dell’ex colonia britannica. Lee ha detto di non poter inviare funzionari. Il legislatore Eddie Chu Hoi-dick, membro del Consiglio legislativo, ha criticato Lee per il mancato aiuto alle famiglie dei detenuti. I 12, undici uomini e una donna di età comprese tra 16 e 33 anni, sono considerati attivisti democratici. Sono stati intercettati dalla guardia costiera del Guangdong il 23 agosto su una imbarcazione diretta a Taiwan e si trovano in un centro di detenzione nel distretto Yantian di Shenzhen. Il governo di Hong Kong ha rifiutato di interferire, sostenendo che il caso è di competenza della Cina continentale e che questi individui sarebbero “separatisti”. “Il reato in questione rientra nella giurisdizione della Cina continentale, e il governo della regione amministrativa speciale rispetta e non interferirà con le azioni delle forze dell’ordine”, ha spiegato il governo di Hong Kong in un comunicato del 13 settembre. Il capo esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, ha poi aggiunto che le 12 persone non sono “attivisti pro-democrazia oppressi” e che dieci di loro erano stati accusati di reati quali produzione o possesso di esplosivi, incendio doloso, sommosse, aggressione alla polizia o possesso di armi.