I bambini senza età di Nisida di Teresa Ciabatti Corriere della Sera, 20 settembre 2020 “Qua dentro la barba è vietata”, dice Antonio (nome di fantasia), 18 anni. “Io invece la vorrei”. Siamo nel carcere minorile di Nisida, e la barba è davvero vietata. Come altri segni distintivi che le guardie penitenziarie hanno imparato a riconoscere: riga centrale ai capelli, maglietta nera, occhiali da vista dalla montatura nera, tatuaggio ES17. Segnali di appartenenza alla banda di Emanuele Sibillo (che a un certo punto si fece crescere la barba incolta come i j jihadisti dell’Isis, e da lì gli altri a imitarlo). Sibillo, capo della paranza dei bamb bini di Forcella, ucciso a 19 anni, che dopo la morte assurge alla figura di martire, guida spirituale che dall’alto accompagna i giovani camorristi marchiati dalla sigla ES17. ES17, le iniziali del capo più il numero 17, perché la S di Sibillo è la diciassettesima lettera dell’alfabeto, ma anche “la sfida che brucia” (così la definisce Mariarka, vedova di Sibillo, in ES17 - Dio non manderà nessuno a salvarci, documentario di Diana Ligorio e Conchita Sannino ispirato a La paranza dei bambini di Roberto Saviano). Benvenuti nel carcere minorile di Nisida, simile al carcere minorile dove si svolge Mare fuori, la serie che sta per andare in onda su Rai2 e che i ragazzi qui hanno visto in anteprima. I bambini, come li ha battezzati il capo. Bambini per età, poiché molti hanno cominciato a delinquere presto: dieci, undici anni. E bambini perché non hanno avuto alcun passaggio, nessuno stacco tra infanzia e adolescenza. La vita fin qui è stata un unico tempo indistinto tra giocattoli, moto, pistole ad acqua, pistole vere. I bambini di Nisida possono avere fino a 25 anni. Assassini, patricidi, matricidi, rapinatori, spacciatori, a noi che entriamo non è dato sapere. “Da piccolo giocavo alla PlayStation, da grande pure”, dice Pino (nome di fantasia), 18 anni, a cui in carcere manca la PlayStation, l’oggetto che più gli fa pensare a casa. A 6 anni, con il fratello di 7, passavano il giorno a giocare. Dodici-tredici ore di fila, mentre i genitori “faticavano” fuori. Viceversa Armando, 19 anni, dice che lui all’infanzia non ripensa, o meglio: da che ricorda, dai 6-7 anni, ha sempre avuto ragazze. L’ultima lasciata prima di entrare: chiuso il cancello, chiusa la storia. Non vuole pensieri, dice. E comunque era un rapporto che non andava, litigavano parecchio. Certo, adesso lei gli scrive, e lui risponde, ma per educazione. Qui in carcere si sono visti dalla finestra, lato mare. Erano riusciti a darsi appuntamento, non può dire come. Sono rimasti a guardarsi per trentaquaranta minuti. A quella distanza non puoi parlare, solo guardarti. Prima cosa che farà appena esce? Andare da lei. Palamara espulso definitivamente dall’Anm. Lui si difende: “Mai venduta la mia funzione” di Liana Milella La Repubblica, 20 settembre 2020 L’ex pm di Roma parla davanti ai colleghi in una drammatica assemblea dell’Anm: “Non ho mai detto muoia Sansone con tutti i filistei”. Il pm Palazzi replica: “Basta col dileggio contro chi non bussa alla porta dei potenti”. Definitivamente espulso dall’Anm. Con 111 voti (un solo voto a favore e una scheda bianca), il sindacato dei giudici ha confermato l’espulsione di Luca Palamara. La decisione era già stata presa a luglio, ma Palamara aveva presentato ricorso e aveva chiesto di essere ascoltato. Alla notizia del voto ha dichiarato: “Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione. Auguro buon lavoro all’Anm nell’auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati”. “Non ho venduto la mia funzione né a Lotti, né a Centofanti, né ad altri”. “L’accusa di corruzione per aver intascato 40mila euro è caduta”. “Sul piano personale ho sbagliato, ma non ho capito che anche la mia vita privata era pubblica”. “Non intendo sottrarmi né ai processi, né al confronto, ma chiedo di essere giudicato serenamente e di leggere le carte prima di essere giudicato”. Dopo l’espulsione di luglio dal sindacato dei giudici di cui è stato presidente, Luca Palamara si presenta davanti all’assemblea dell’Anm. Camicia bianca, accento romanissimo, un intervento a braccio in un silenzio spessissimo. Si definisce “scribacchino” per la sua attività di pubblico ministero e questo gli costa poi una serie di reazioni sdegnate dei colleghi. Si rivolge direttamente a due di loro, Mario Palazzi ed Eugenio Albamonte, presenti nell’auditorium dell’Angelicum, che sono stati pm a Roma con lui, e dice “in alcune frasi che ho pronunciato su di voi in momenti particolari della mia vita non mi riconosco”. Ma la relazione dello stesso Palazzi è durissima: “Dov’è Luca Palamara, che è entrato con il corteo di telecamere ed è uscito con lo stesso corteo? Io non accetto le sue scuse, se avesse detto che ho un brutto carattere, che sono antipatico, che professionalmente non valgo niente, avrei accettato il suo giudizio, anche se non vale niente. Invece Palamara, con due parlamentari della Repubblica, di cui per uno ho richiesto il rinvio a giudizio, pensa a un nuovo assetto della procura di Roma in cui uno come Mario Palazzi doveva mettersi in ginocchio, il nuovo procuratore doveva farlo inginocchiare. Palamara ha ammesso il fatto storico. Vogliamo ancora essere dileggiati da tutto il Paese indignato per le cose che ha letto?”. E poi rivolto direttamente a Palamara: “Avresti fatto bene ad avere maggiore eleganza verso una Anm che ti ha dato troppo, non devi più continuare in questa operazione deleteria di dileggio di una categoria che non bussa alle porte dei potenti, ma lavora dalla mattina alla sera. Palamara non può stare nella mia stessa associazione”. Inevitabilmente il confronto tra Palamara e i suoi colleghi del’Anm - pochi in verità nel grande Auditorium dell’Angelicum - assume toni drammatici. L’ex pm di Roma aveva chiesto a luglio di essere sentito pubblicamente. Oggi i colleghi lo hanno ascoltato per una ventina di minuti. In cui Palamara ha ripercorso le accuse rivoltegli dalla procura di Perugia e dalla procura generale della Cassazione. Lui chiarisce subito: “Non è mia intenzione sottrarmi, prima di me viene l’interesse della magistratura e dei colleghi che, mio malgrado, sono stati travolti”. Ancora: “Il mio intendimento non era scappare, nascondermi, andare via, ma solo spiegare quello che è accaduto”. Ai colleghi chiede di aspettare l’esito della pronuncia disciplinare del Csm prima di decidere definitivamente sulla sua espulsione dall’Anm, perché, dal suo punto di vista, “quella intercettazione dell’hotel Champagne, in quel modo, non poteva essere fatta, visto c’è un’indicazione della procura Perugia che chiede di spegnere il microfono in presenza di parlamentari”. Questione su cui deve pronunciarsi il Csm. Un differimento però che l’assemblea dell’Anm decide di non concedergli e quindi andare diritta alla conferma dell’espulsione. Dice Palamara: “Sulle chat io rispondo dei fatti che mi riguardano, non voglio coinvolgere nessuno, non ho l’atteggiamento di dire muoia Sansone con tutti i filistei”. Poi cita l’ex togato del Csm Piergiorgio Morosini di Area che in un’intervista disse “che vuole che le dica, qui la politica entra da tutte le parti, non vedo l’ora di tornare in trincea”. È la sua linea di difesa sin da subito. Tant’è che ripete: “Dagli accordi sono rimasti fuori i colleghi che non facevano parte delle correnti”. Sostiene che il suo rapporto con il deputato Pd Luca Lotti “era preesistente e si è intensificato con l’elezione del vice presidente Ermini (nel 2018)”. Poi una lunga confessione: “Ho sbagliato a tornare alla procura di Roma, soprattutto dopo l’uscita di un articolo che a settembre 2018 anticipava l’inchiesta di Perugia. È stato un errore fare domanda per procuratore aggiunto di Roma. Per le mille cariche fatte, le richieste incredibili arrivavano da tutte le parti della magistratura. Chi mi conosce sa che sono disordinato e la sera non cancellavo le chat, anche se mi hanno danneggiato perché da quando sono uscite sono aumentati i miei procedimenti disciplinari”. Poi ripercorre le fasi più calde che lo hanno portato sotto inchiesta. “Dal 2019 ho intensificato il mio rapporto con Stefano Fava, cui sono legato dal mio ingresso in magistratura, lui mi ha reso depositario di un suo racconto di lavoro, ho provato delusione per le notizie che arrivavano da Perugia”. Sostiene che quelli con Lotti (“che era già stato rinviato a giudizio”) e Cosimo Maria Ferri (deputato ex Pd oggi renziano) all’hotel Champagne “non erano incontri clandestini, quell’hotel non è un posto per nascondersi, è l’albergo dove abitava un consigliere, non c’è nessuna P2”. Racconta che “i segretari delle correnti sono presenti durante le riunioni del Csm”. Dice ancora: “Sono stato travolto e nella fiumana mi sono perso, io parlavo con tutti, ma non sono stato indegno moralmente nei confronti di qualcuno, rappresentavo Unicost, non è stato Palamara a inventare che per quattro posti di pm al Csm ci fossero solo quattro candidati”. E chiude: “Nella mia vita privata ho scritto messaggi privati, ho sbagliato perché non ho capito che invece la mia vita privata era pubblica”. Palamara commette tre errori strategici nella sua autodifesa. Entra nell’auditorium seguito dalle telecamere (anche se non dipende dalla sua volontà e non può evitarlo), ma questo irrita i colleghi. Durante la sua autodifesa, minimizza il suo lavoro svolto a Reggio Calabria e si definisce “scribacchino”. Parola che poi viene ripetuta in tutti gli interventi, ovviamente per smentire che un magistrato sia uno scribacchino e quindi prendere le distanze da lui. Infine, dopo aver parlato, va via sempre con le telecamere e non ascolta il dibattito. Che il presidente dell’Anm, il pm milanese Luca Poniz, chiude duramente così: “La sua fuga con seguito di telecamere ci ha impedito di rivolgergli delle domande. Cosa voleva dire quando ha detto che l’Anm non conta un ca... dopo esserne stato il presidente? Se l’Anm è quella che non pensa alle carriere, ma alla tutela dei diritti allora sono contento che non conti un ca...”. E comunque ribadisce che il sindacato dei giudici, in tutta la vicenda, “non ha avuto né preoccupazioni, né paura”. Racconta che, quando è scoppiato il caso a maggio 2029, è “andato subito dalla procura di Perugia, dal Guardasigilli Bonafede, dall’allora Pg Fuzio, dal vice presidente del Csm Ermini, per chiedere subito gli atti. Non ci siamo rassegnati in questa battaglia. Quando il caso è riesploso, il 3 maggio di quest’anno, ho reiterato le richieste, e io stesso sono andato a Perugia”. Adesso le carte, tutte le chat, sono arrivate. Toccherà ai probiviri occuparsene. Ma a questa giunta resta solo un mese davanti perché tra il 18 e il 20 ottobre le circa 10mila toghe italiane andranno al voto telematico per eleggere la nuova Anm. A favore dell’ex pm non c’è nessuna voce. E questo suona come un anticipo del voto che conferma la sua espulsione dal sindacato dei giudici. Ecco cosa dice il genovese Marcello Basilico: “Voglio un associazione indipendente da Ferri e da Lotti, e non voglio stare nella stessa Anm con Palamara”. La collega Fanteschi di Firenze: “Io mi sono vergognata non di fare il giudice, ma di stare nell’Anm”. Maria Rosaria Savaglio: “La delegittimazione dell’Anm è un vulnus. Anziché lui, tutta la magistratura sta diventando il capro espiatorio di Palamara, ci sono tantissimi giudici che non hanno mai pensato di rivolgersi a un politico per avere un incarico giudiziario. Chiudiamo questo capitolo e torniamo a parlare di ordinamento giudiziario”. Paola Cervo: “Mi sono sentita dire, ma chi te lo fa fare ad andare all’Anm? Sei marcia come loro?”. Lilli Arbore: “Non sono una schiava delle correnti. Votiamo e basta. E l’Anm sia la casa di tutti”. Tiziana Orrù, come tanti altri, dice: “Non sono una scribacchina delle carte”. Carlo Sabatini: “Sono fiero che l’Anm abbia dato una risposta immediata cosa, che altri non hanno fatto”. Paola Cameran: “Ho presentato le mie domande al Csm e sono state respinte. Ringraziamo tutti quelli che non sono stati questuanti perché c’era un mare di questuanti. Chiudiamo questa pagina e apriamone una bianca”. Cristina Ornano: “Mi dispiace per Palamara sul piano umano, ma le sue condotte hanno sporcato la faccia di tutti i magistrati”. Chiude il segretario dell’Anm Giuliano Caputo: “Oggi siamo chiamati a valutare dei fatti specifici, ma chiaramente non abbiamo risolto nulla con l’esplusione di Palamara. L’Anm è un patrimonio da preservare proprio perché ha ancora la capacità di rappresentare - in modo trasparente, lineare e con le conseguenti responsabilità - le istanze e le esigenze di tutti i magistrati”. Il “siete tutti coinvolti” di Palamara alle toghe dell’Anm che lo hanno espulso di Davide Varì Il Dubbio, 20 settembre 2020 L’Anm conferma l’espulsione di Luca Palamara. Ma lui: “Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito”. “Il confronto con la politica sulle nomine è sempre esistito”. Sono le ultime parole con cui Luca Palamara ha “salutato” l’Anm. Una sorta di “siete tutti coinvolti” pronunciato poco prima che l’assemblea dell’Anm confermasse la sua espulsione dal sindacato delle toghe. E parlando della famigerata riunione all’hotel Champagne sulla nomina del procuratore di Roma, Palamara ha chiarito: “Gli incontri non erano clandestini e l’hotel Champagne non è un posto per nascondersi né ho mai venduto la mia funzione, né a Lotti, né a Centofanti, né a nessuno”. Insomma, un intervento accorato e per certi aspetti drammatico quello del magistrato al centro del ciclone sul caos procure: “Non mi sono mai sottratto e non mi sottrarrò né dai procedimenti né in tutte le cose in cui sarò chiamato”, ha continuato. “Ma chiedo di essere giudicato serenamente”. “Sono qui - ha aggiunto Palamara - perché penso che prima venga l’interesse di tutti, della magistratura, di recuperare la fiducia dei cittadini, e l’interesse dei colleghi che mio malgrado sono stati travolti”. Palamara ha anche tenuto a ricordare che il Csm non si è ancora pronunciato sulla utilizzabilità o meno delle intercettazioni effettuate nel corso delle indagini delle indagini della Procura di Perugia. L’Anm conferma l’espulsione di Palamara - L’assemblea dell’Anm ha comunque confermato l’espulsione di Luca Palamara dal sindacato delle toghe: l’assemblea ha quindi respinto il ricorso del magistrato - che dal 2008 al 2012 è stato presidente dell’associazione - contro l’espulsione deliberata lo scorso giugno nei suoi confronti dal direttivo Anm in relazione ai fatti emersi dagli atti dell’inchiesta di Perugia. Su 130 accreditati, hanno votato in 113: 111 i voti favorevoli alla conferma dell’espulsione di Palamara e solo uno contrario, mentre una scheda è risultata bianca. “Da magistrato e da cittadino che crede profondamente nel valore della giustizia equa ed imparziale ribadisco che le decisioni devono essere rispettate. Con altrettanta forza ribadisco di non aver mai barattato la mia funzione”, ha dichiarato PAlamara dopo il voto di espulsione. “Auguro buon lavoro all’Anm nell’auspicio che torni ad essere la casa di tutti i magistrati”. Il sollievo di Poniz: l’Anm di Palamara non esiste più - “L’Anm a cui pensa Palamara non esiste piu’: oggi l’Anm non pensa alle carriere ma alla tutela dei colleghi”. Cosi’ Luca Poniz, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, ha concluso il dibattito relativo alle dichiarazioni che Luca Palamara ha voluto rivolgere all’assemblea del sindacato delle toghe: “Abbiamo avuto il privilegio di sentirlo e per questo lo ringrazio - ha detto Poniz - ma la sua fuga con telecamere al seguito mi ha impedito di fargli una domanda: cosa intendeva dire quando diceva che voleva mettere paura ai colleghi che si opponevano alla sua domanda? E cosa intendeva dicendo che l’Anm non conta un c.? Se intendeva dire che dopo di lui l’Anm ha svolto un altro ruolo, sono contento - ha concluso Poniz - perché è un primo, buon risultato”. Il testimone che accusò i sicari del giudice Livatino: “La mia vita in incognito” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 20 settembre 2020 In un libro - dall’eloquente titolo “Io sono nessuno” il racconto della sua vita a trent’anni dall’efferato omicidio del magistrato ucciso dalla mafia ad Agrigento, il 21 settembre 1990. “Mai ripensamenti, ho fatto il mio dovere”. I trent’anni dall’omicidio di Rosario Livatino coincidono con trent’anni di una vita in incognito. Quella del primo testimone di giustizia sul fronte antimafia, Piero Nava, protagonista di una odissea adesso raccolta in un libro dal titolo eloquente”Io sono nessuno”. Senza rimpianti? “Senza alcun ripensamento, cosciente di avere fatto esclusivamente il mio dovere”, risponde questo agente di commercio che il 21 settembre del 1990, in viaggio a bordo della sua auto fra Canicattì e Agrigento, vide il brutale inseguimento del “giudice ragazzino” ucciso sotto i suoi occhi. Pronto senza indugi ad avvertire le forze di polizia, a testimoniare contro assassini e mandanti. E, quindi, a cambiare con la sua famiglia identità e continente. Cos’è accaduto dopo? “Come raccontiamo nel libro scritto con il cuore da Stefano Scaccabarozzi, Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi, tre giovani della mia Lecco, io sono sparito per 11 anni cambiando città, stati, continente. Poi ho ricominciato a lavorare sotto nuova identità”. In Italia? “Nel Sud Italia. Io sono ormai un uomo del Sud dal 1978, quando la mia carriera commerciale cominciò a Napoli. Vendendo serramenti e porte per aziende del Nord. Come facevo nel settembre 1990 in provincia di Agrigento”. Ha ricominciato facendo lo stesso lavoro? “Sempre nel settore del commercio. Dalla base, come quando avevo 18 anni. Con datori di lavoro sorpresi. Un’esperienza boia la sua, mi dicevano. Maturata dove? E inventavo. Dovevo fingere di non avere mai fatto quel lavoro”. Adesso è arrivato il tempo del riposo? “Delle letture, della pensione. Da tre anni. I figli sono grandi, hanno la loro vita. Ovviamente anche loro non si chiamano più Nava”. Mai un dubbio nemmeno in famiglia? “Mai il dubbio che denunciando gli assassini del giudice Livatino e cambiando vita avessimo sbagliato. Esattamente il contrario. Tutti convinti che fosse giusto così. E non solo noi. Anche amici e parenti che non abbiamo più potuto frequentare con regolarità, come un tempo mai più tornato”. Si sente un modello per i giovani, come sostengono i tre autori del libro? “So che la mia scelta è stata obbligata dalla coscienza. È la sola strada maestra per mantenere rispetto di se stessi. Le conseguenze? Ricordo cosa diceva con saggezza antica mia madre, quando ero giovane: “Abbraccia la Croce e accada quello che Dio vuol蔓. Ha mai pensato che cosa sarebbe accaduto se quel giorno non avesse chiamato le forze di polizia? “Pensare di leggere la mattina la notizia in albergo sfogliando un giornale, magari con l’appello dei magistrati alla ricerca di eventuali testimoni, mi avrebbe fatto vomitare. Mi sarei sputato in faccia”. E sua moglie? “Sulla stessa trincea. Quella della coscienza. Appena vide che al tiggì parlavano finalmente di un testimone per un delitto in Sicilia scattò sicura: “È lui, Piero”. Sentendosi subito con il mio datore di lavoro: “Può essere solo lui”. Pronti a venirmi a prendere. Ma ero già avvolto dalla protezione dello Stato. Con agenti straordinari. Professionisti capaci di diventare amici dei miei ragazzi, giocare con loro, alleggerire ogni peso”. Cosa dice ai giovani di oggi? “Devono combattere soprattutto l’indifferenza. Essere partecipi. Conoscere. Coinvolgere se stessi”. C’è chi si volta indietro, chi si adatta, chi opera per piegare la cosa pubblica ai propri interessi... “E noi dobbiamo dare l’esempio opposto, come ho detto intervenendo per il libro solo in collegamento, con la voce distorta, nella piazza di Lecco il 15 settembre”. Con quali parole? “M’è scappato un verso di Dante. Come fossi Virgilio: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Il tutto nel girone degli ignavi”. Che stanno all’Inferno. “Mi appassiona la Divina Commedia. I ragazzi della scorta erano un po’ stupiti perché, vedendo la mia collezione di soldatini, pensavano che studiassi solo Napoleone”. Lo Stato con le sue articolazioni non l’ha mai delusa? “Solo adesso rischia di deludermi. Per la pensione. Anzi, per la pensione di reversibilità che dovrebbe andare a mia moglie, se mi accadesse qualcosa. Invece è sospesa...”. Ne parla nel libro. “È una pagina che spero lega il presidente Mattarella nella copia che gli ho fatto avere. Ogni cittadino, se muore, non lascia per strada la moglie grazie all’istituto della reversibilità. Ci ha provato pure Rosi Bindi a spiegare all’Inps... Rispondono a voce di stare tranquillo. No, va messo per iscritto. Non mollo”. Bonafede e i 5 Stelle siano coerenti e intervengano sull’arresto della portavoce no tav Lauriola di Michele Anzaldi* huffingtonpost.it, 20 settembre 2020 Pochi giorni fa a Torino è stata arrestata e reclusa in carcere la portavoce No Tav Dana Lauriola, dovrà scontare una condanna definitiva a 2 anni per una protesta del marzo 2012. Il reato: avere occupato il casello autostradale di Avigliana (To) facendo passare gli automobilisti senza pagare il pedaggio. Indipendentemente dalle idee che Lauriola esprime, e che non condivido, e dai modi utilizzati da molti di loro che hanno visto, troppo spesso, primeggiare la violenza contro le forze dell’Ordine e addirittura anche solamente contro chi la pensava diversamente da loro, nel caso specifico mi chiedo e chiedo: è accettabile che le venga riservato un trattamento diverso da qualunque altro accusato e condannato? Davvero per una condanna a 2 anni per un reato come quello commesso da Lauriola, aver bloccato le sbarre di un casello facendo passare gli automobilisti senza pagare, è legittimo rigettare qualsiasi misura alternativa al carcere? Richiesta di misure alternative per cui, peraltro, avevano dato parere favorevole anche gli assistenti sociali ministeriali e che sono state respinte. Davvero una donna di 38 anni non può scontare la pena per un reato del genere ai domiciliari o comunque in forma diversa dal carcere? Ho presentato un’interrogazione al ministro Bonafede ma mi auguro che intervenga subito, senza attendere i tempi della risposta in Parlamento. La storia di questa donna condannata a due anni di carcere per una manifestazione di protesta fatta quando aveva 32 anni mi ha portato a ricordare un evento differente ma simile in cui mi imbattei appena eletto nel 2013. La storia di Artic Sunrise, la nave di Greenpeace che fu sequestrata militarmente dall’esercito russo perché tentò un abbordaggio a una piattaforma petrolifera nel Mar Artico. Una delle famose manifestazioni pacifiche di Greenpeace di grande effetto comunicativo per protestare contro le estrazioni indiscriminate di petrolio in quello che è l’ultimo santuario ambientale come il Mare artico. Ma ieri, come oggi, la reazione fu esagerata: i 30 ragazzi di Greenpeace di 18 nazionalità furono abbordati dei militari con elicotteri, a mano armata, rinchiusi in carcere con l’accusa di pirateria e il rischio concreto di una condanna a 15 anni. In tanti si mobilitarono e tra questi Paul McCartney che scrisse una bella e toccante lettera che vi invito a cercare e leggere. Io stesso appena eletto deputato rimasi molto colpito e grazie alle informazioni dirette del direttore di Greenpeace Pippo Onufrio scrissi diversi articoli e appelli a personalità pubblicati da questo stesso giornale. Mi sembrava incredibile, ingiustificato, sproporzionato che delle persone che manifestavano pacificamente rischiassero 15 anni di carcere durissimo e pensavo che tutti quelli che potevano dovevano manifestare il loro disaccordo. Scrissi numerose lettere, molte pubblicate su Huffington post, per chiedere aiuto, un semplice interessamento o di esprimere la loro opinione. Tra questi ricordo quella al presidente confindustria Squinzi, all’Ad dell’Eni Scaroni, al premio Nobel Dario Fo. So bene che il paragone tra la storia di Arctic 30 e quella del movimento no notav è diversa e azzardata. Le azioni di Greenpeace si sono sempre caratterizzate nel mondo per la loro spettacolarità e per la loro pacificità, mentre quelle del movimento no TAV sono purtroppo note per la loro eccessiva violenza, molte persone hanno subito danni fisici e materiali e minacce, non sarebbe dovuto accadere. Ma nel fatto specifico negare le pene alternative, proposte anche dagli assistenti sociali del ministero, ed infliggere una detenzione di due anni a una donna di 38 anni è un procedimento inspiegabile a tanti ma soprattutto ai nostri giovani. Mi piace ricordare una delle lettere per chiedere aiuto per i giovani di Artic ed in particolare quella all’allora Amministratore Eni Scaroni, si citava un passaggio di una lettera che Don Milani del febbraio 1965 inviò ai cappellani militari. Allora gli attivisti erano gli obiettori di coscienza: “Aspettate ad insultarli: domani forse scoprirete che sono profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione ma non è bello star dalla parte di chi c’è li tiene”. Due anni dopo nel 2015 il Tribunale dell’Aja sentenziò che il sequestro dell’Artic Sunrise era illegale. Mosca violoò il diritto internazionale e doveva risarcire il Governo Olandese (la nave batteva bandiera olandese). Oggi come ieri, Il rischio concreto è quello che il provvedimento non riesca a correggere degli atteggiamenti sbagliati e non ottenga che non accadono mai più ma quello di rialzare la tensione sul territorio. Il ministro Bonafede e il suo movimento M5S, che tanto hanno promesso ai giovani del NO Tav, non possono e non devono girarsi dall’altra parte dinnanzi alla negazione delle pene alternative. Dovrebbero farlo per coerenza con le promesse fatte in campagna elettorale, dovrebbero farlo perché è giusto e se non lo fanno deve intervenire il presidente Conte. Quella scritta “la legge è uguale per tutti” non deve essere mai dimenticata o peggio sparire e ricomparire a secondo dei casi. *Deputato Italia Viva Sicilia. Gucciardi (Pd): “Intensificare controlli anti-Covid nelle carceri” tp24.it, 20 settembre 2020 “È indispensabile intensificare i controlli sanitari all’interno delle carceri per evitare che all’aumento degli ingressi giornalieri dopo il blocco dovuto all’epidemia di Coronavirus corrisponda un’impennata della diffusione del virus tra personale e popolaIone carceraria. Lo dice Baldo Gucciardi, parlamentare regionale de Partito Democratico e vice presiedente della Commissione Bilancio all’ARS, che sull’argomento ha presentato un’interrogaIone all’Ars “Sono ripresi i colloqui visivi con i familiari e presto saranno avviati i corsi professionali all’interno delle mura del carcere, ora più che mai, quindi, è urgente predisporre un piano che prevede, oltre alla misurazione della febbre, anche la possibilità di accedere ad un screening di massa con test diagnostici rapidi procedendo per altro all’immediato isolamento dei focolai eventualmente già presenti. La sicurezza lavorativa degli operatori e degli agenti di Polizia Penitenziaria, che all’interno del carcere espletano la propria attività e la salute dei detenuti e dei familiari - conclude - devono essere tutelati con ogni mezzo Genova. Malato in carcere, muore al San Martino. La procura indaga per omicidio colposo di Danilo D’Anna Il Secolo XIX, 20 settembre 2020 Operato per una grave patologia, era ricoverato nel reparto di Marassi. Assistenza nel mirino. La richiesta dei domiciliari venne respinta. Si trovava in carcere da maggio, nonostante fosse stato operato qualche anno fa per una grave patologia. Aspettava, ricoverato nel centro medico di Marassi, il processo che si sarebbe dovuto tenere il primo di ottobre. Quell’udienza, però, non ci sarà più perché Federico Carlevaro, 68 anni, si è spento nel reparto detenuti del San Martino, dove è stato portato d’urgenza nella notte tra venerdì e sabato 12 settembre. Una morte che secondo i suoi due figli e l’avvocato Vittorio Pendini, che lo difendeva dall’accusa di essere a capo di una organizzazione che gestiva lo spaccio di hashish, potrebbe essere frutto di una negligenza che ha provocato un’infezione letale: “Saranno i medici a stabilire se è stato fatto tutto il possibile per salvarlo - spiega il legale. Carlevaro ogni mese doveva recarsi al Galliera per una prestazione sanitaria estremamente delicata, e già una volta era finito all’ospedale d’urgenza per un problema insorto”. Ma prima ancora dei familiari era stato il magistrato di turno a volerci vedere chiaro: il sostituto procuratore Federico Manotti ha aperto un fascicolo contro ignoti, ipotizzando il reato di omicidio colposo. Ha acquisito la cartella clinica e ha disposto l’autopsia, che è stata già eseguita dal medico legale Venturi. Era presente pure il perito della famiglia Carlevaro, il dottor Luca Tajana dell’università di Pavia. Tra sessanta giorni l’esito dell’esame autoptico. Le condizioni del sessantottenne, immunodepresso, secondo il suo avvocato non erano compatibili con la detenzione. Ma l’istanza di mandare il suo assistito ai domiciliari ha trovato l’opposizione dello stesso Manotti, che per una singolare coincidenza è il pm che ha chiesto l’arresto e la carcerazione dell’uomo. Secondo la Direzione distrettuale antimafia, Carlevaro poteva stare in carcere. Dove, però, doveva ricevere le cure necessarie al suo stato di salute. Le ha ricevute? Il responsabile del centro medico della casa circondariale, il professor Marco Salvi, ne è certo: “Si è aggravato venerdì e lo abbiamo trasferito d’urgenza al San Martino. Lì è stato ricoverato nel reparto detenuti, dove purtroppo è morto”. Il difensore di Carlevaro aggiunge un particolare: “Mi ero recato a trovarlo in carcere per un colloquio il mercoledì, ma mi hanno detto che aveva la febbre e quindi ero andato via senza vederlo”. Il dottor Salvi conferma, ma chiarisce: “Con gli antibiotici la temperatura era scesa e il quadro clinico non era preoccupante. Quando è andato in sofferenza gli abbiamo fatto una ecografia, però non essendo attrezzati per esami più specifici abbiamo deciso di portarlo al policlinico”. Il San Martino, contattato dal Secolo XIX, non aggiunge nulla alla vicenda. Non spiega perché - visto quanto chiedevano di accertare da Marassi - invece di tenerlo al pronto soccorso è stato ricoverato nel reparto dei detenuti. Manotti attende la perizia del medico legale per capire se a quel fascicolo per omicidio bisogna aggiungere dei nomi oppure archiviarlo. Benevento. Covid-19 in carcere. Positivi tre detenuti e tre agenti di Alessandro Fallarino ottopagine.it, 20 settembre 2020 Il direttore Marcello: “Contagi scoperti grazie a tamponi di massa inviati dalla Regione”. Attualmente presso il carcere di contrada Capodimonte a Benevento sono risultati positivi al Covid 19 tre detenuti e tre agenti della Polizia Penitenziaria. Numeri forniti dal direttore dell’istituto di pena sannita, Gianfranco Marcello (nel riquadro) che spiega anche come siano state individuate le positività: “Grazie alla Regione Campania è stato possibile effettuare uno screening di massa programmato, ovvero senza essere dinanzi ad un’emergenza”. Il numero uno del carcere di Benevento spiega infatti come la Regione abbia “inviato 750 tamponi da fare ai detenuti e a tutti coloro che lavorano nella struttura. Un’operazione di prevenzione che ha funzionato tanto è vero che sono stati scoperti 3 casi tra i detenuti e 3 tra gli agenti”. Si tratta di persone risultate contagiate ma totalmente asintomatiche. Allo stato l’Asl ha effettuato oltre 200 tamponi a tutto il personale e ai detenuti e quotidianamente ne vengono fatti altri fino a raggiungere la soglia dei 750. “Un’operazione imponente possibile grazie all’Asl di Benevento che mette a disposizione personale qualificato che viene in carcere per eseguire i tamponi. Ora bisognerà attendere qualche giorno prima di avere un quadro completo”, ha concluso il direttore Marcello. Nulla cambia invece per quanto riguarda le visite dei familiari: “Come avviene ormai da mesi, grazie ai rigidi protocolli studiati e dettati dall’azienda sanitaria locale - conclude il direttore del carcere di Benevento -, i colloqui sono avvenuti e continueranno nella massima attenzione per tutti”. All’interno del carcere vengono infatti utilizzati tutti i dispositivi di protezione e “gli ambienti vengono sanificati con regolarità”. Sassari. Così Johnny “coltivava” il futuro di Luigi Soriga La Nuova Sardegna , 20 settembre 2020 “Animato più dall’amore che dalla voglia di lavorare”. Don Galia racconta la vita nella comunità. Altro che permessi premio. Per alcuni detenuti finire qualche giorno nella casa di accoglienza del centro salesiano di San Giorgio è un aggravio di pena. “Il problema è che molti di loro, se incontrano chi ha inventato il lavoro, rischiano davvero di beccarsi un ergastolo”. Della serie: provate a chiedere a un pusher di spaccarsi la schiena per 4 ore al giorno in cambio di un buon piatto di minestra o di qualche centinaio di euro al mese. “Mille euro li guadagnavano in dieci minuti di spaccio. Non hanno la percezione del valore dei soldi, della fatica e dei sacrifici. Piuttosto che chinarsi sulla terra, preferiscono stare in branda e fissare il soffitto”. Johnny lo Zingaro era una via di mezzo: non era uno stakanovista, e al lavoro amava dargli del voi. Rispetto reciproco, ma con un signorile distacco. “Però la pagnotta, anche se malvolentieri, se l’è sempre guadagnata. Ogni mattina giardinaggio e cura degli animali. Nella nostra casa l’assistenzialismo carcerario è bandito: ti paghi ciò che hai. Nessuna elemosina: reimpari a campare. Recuperi la tua dignità”. Quarant’anni di cella equivalgono a una formattazione mentale potentissima. A Johnny in fondo mancavano solo 6 mesi per ottenere il regime di semilibertà. Avrebbe potuto vedere la sua compagna ogni giorno, e non 4 o 5 volte al mese. Il pomeriggio della cattura, dopo la fuga d’amore, lui e Don Galia si sono incrociati per un istante. “Gli ho chiesto: perché? Perché una fesseria simile. E lui: Don, non può immaginare cosa passa nella testa di un ergastolano”. Sacrosanta verità: “Io avrei messo la mano sul fuoco su Johnny, si era conquistato la mia totale fiducia. È intelligente, istrionico, non è un uomo pericoloso, ha capito i suoi sbagli, non farebbe male a nessuno. Poteva rovinare tutto solo per una pazzia d’amore. Alla fine è impossibile sondare a pieno l’interiorità di un detenuto”. Suor Ornella però, col suo piglio da gendarme e col suo occhio clinico era andata più a fondo di una tomografia assiale: “A me quello non mi ha mai convinto, è sempre stato un po’ strano: sapevo che prima o poi l’avrebbe combinata grossa”. Se sul lato operosità e zelo non c’erano grosse aspettative, al contrario sul versante affettivo Johnny offriva molta materia prima da plasmare. “Lui era qui per stare col suo grande amore di una vita. Con Giovanna si conoscevano da quando erano bambini. E sapete la cosa curiosa? Quando c’è stata l’emergenza Covid, per loro abbiamo attrezzato una vecchia roulotte. Mi hanno detto: Don, più bel regalo non potevate farci. Ci ricorda la nostra infanzia da nomadi. La roulotte è una radice sempre verde. Ci sono capi sinti pieni di soldi, che abitano in vere e proprie regge, e poi nostalgicamente preferiscono andare a dormire in una roulotte”. Paradossalmente quel legame così forte doveva essere lo stimolo per il riscatto, e anche la garanzia di una buona condotta. “Johnny, come tutti i nostri ospiti, la mattina lavorava, poi dopo pranzo aveva due o tre ore libere: poteva uscire, fare compere, sbrigare commissioni e poi rientrare alle 20. Per capire se un carcerato è pronto al reinserimento, devi anche metterlo in condizioni di sbagliare, testarlo davanti ai bivi”. La comunità di recupero lavora molto sulla fiducia, fa in modo che tradire le aspettative riposte diventi doloroso. “Instauriamo rapporti chiari, mangiamo insieme, dormiamo insieme. Ognuno cucina, fa le pulizie, si lava la propria roba. Ci rapportiamo da uomo a uomo, con regole e rispetto reciproco. Qui in sette anni saranno passati più di 400 detenuti, e le evasioni sono state solo 4. Quella di Johnny, due tossicodipendenti e un albanese. Stop. Segno che il percorso di riabilitazione funziona. Salvo imprevisti d’amore”. Frosinone. Consegna del diploma operatore enogastronomico agli studenti-detenuti Ristretti Orizzonti, 20 settembre 2020 Il 17 Settembre 2020, nella Casa Circondariale di Frosinone, vi è stata la consegna del Diploma di Stato di Operatore eno gastronomico, dell’Istituto Alberghiero di Fiuggi, conseguito da un gruppo di detenuti durante la detenzione. I detenuti coinvolti hanno dimostrato interesse e particolare motivazione nel perseguire un obiettivo importante che ha consentito loro di affrontare la detenzione in modo costruttivo ed attivo. Il corso di studi intrapreso e concluso in carcere, è stato vissuto come una opportunità di miglioramento personale nella prospettiva del reinserimento nella società una volta conclusa la condanna. Con impegno hanno affrontato le difficoltà che si sono presentate nel periodo dell’emergenza Covid-19, a causa della quale sono stati sospesi gli ingressi in carcere degli insegnanti e i contatti con la comunità esterna. La preparazione didattica degli studenti è stata curata dagli operatori in collaborazione costante con i docenti e con la coordinatrice della scuola, anche con l’utilizzo della modalità a distanza. Il tempo dedicato allo studio delle materie, l’attesa del giorno dell’esame, l’emozione provata nell’incontrare la commissione esaminatrice, il dono simbolico offerto dalla scuola come riconoscimento dell’impegno dedicato hanno valorizzato il tempo della detenzione riempendolo di contenuti significativi coerenti con il dettato normativo, che indica nell’istruzione e nel lavoro, gli elementi fondamentali del reinserimento del condannato nella società civile. La presenza della scuola segna il passo nella vita detentiva e consente a chi è detenuto di riscoprire il valore sociale della quotidiana relazione tra docenti - studenti detenuti e operatori penitenziari. Anche la partecipazione della comunità esterna - in senso più ampio - (volontari - Caritas - Ministri di Culto - Associazioni ecc…) è di importanza fondamentale perché consente alle persone private della libertà, di mantenere in vita un progetto di costruzione e di “ricostruzione” della propria esistenza. In tutto questo la scuola svolge all’interno del carcere un’opera fondamentale nel sostenere, la persona privata della libertà, in collaborazione con gli operatori penitenziari, il percorso di cambiamento e di integrazione sociale. Nel carcere di Frosinone, in tema di Istruzione degli adulti è attiva la collaborazione con l’Istituto Cpia 8 e con l’Istituto Alberghiero di Fiuggi. Un ringraziamento alla Dirigente, Prof. Liberti F. e alla Prof.ssa Ferretti e ai docenti dell’ Istituto Scolastico Ipseoar di Fiuggi. Un ringraziamento alla Direttrice della Casa Circondariale, Dott.ssa Mascolo Teresa, e alle Vice Direttrici al comandante Mare Rocco Elio, e al Vice Comandante, e a tutti gli operatori penitenziari per la collaborazione virtuosa sviluppata nel tempo nella organizzazione delle attività trattamentali e, in particolare, nell’avere fronteggiato in maniera costruttiva le difficoltà sopraggiunte a causa della emergenza Covid-19, non ancora conclusa. La responsabile e gli operatori dell’Area Educativa La politica della cattiveria di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2020 La cattiveria è il segno più netto del nostro tempo. Attrae attenzione e incontra favore. Al punto che il rovinoso presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha serie possibilità di essere rieletto per guidare per altri quattro anni la più grande democrazia del mondo, perché sembra che non siano pochi coloro che apprezzano le sue esibizioni di cattiveria, ciò che umilia e fa male a qualcuno, purché sia debole. La campagna elettorale americana è esemplare. Comincia il giorno in cui, davanti alla Casa Bianca sostano uomini, donne e bambini, in gran parte neri, classe media, tipo “Diritti civili”, che pacatamente protestano contro i maltrattamenti verso i neri da parte della polizia americana. È il 2 giugno 2020. Non c’era tensione elettorale. Ma a Trump dà noia quella folla che lo fa sembrare assediato. Decide che deve uscire in persona dalla Casa Bianca, e mostrare il suo potere. Ordina, come in una scena del film Il Dottor Zivago, che la polizia a cavallo gli sgomberi la strada. E così, davanti alle telecamere, i cavalli si muovono a schiera compatta. La sorpresa è grande anche per i commentatori televisivi. La folla arretra, nel modo disordinato ma anche spaventato di una folla, qualcuno inciampa, qualcuno cade, e bisogna recuperare i bambini che, in una America normale, amano i cavalli e vorrebbero toccarli. Trump fa la sua figura quando attraversa la strada esibendo con orgoglio una Bibbia e la lunga cravatta, seguito da una decina uomini in nero. È evidente che l’uomo, spesso goffo e bugiardo, sta mostrando che ha potere. Parte di qui tutta la serie di eventi in cui le polizie di molte città americane si sentono autorizzate ad agire anche in modo estremo (il ginocchio strangolatore sul collo di George Floyd, gli spari alla schiena o dentro le auto di neri in fuga, con l’ausilio di volontari bianchi), e il tutto ha due scopi: uno, ti faccio vedere chi sono io. Due, gli aggrediti cadono nella trappola. Compaiono in strada gruppi di neri armati, Adesso il quadro è perfetto. I militanti del potere bianco potranno dire che “c’è guerra civile”. Gli appena un po’centristi possono parlare di “opposti estremismi”, nel Paese in cui il presidente, mesi prima, aveva sequestrato, e in parte non ha mai restituito, i bambini degli ispano-americani che tentavano di passare il confine degli Usa (circa 2000 bambini tuttora dispersi in campi di concentramento). E così, a mano a mano che le cattiverie di Donald Trump si accumulano, si erode il vantaggio iniziale dello sfidante democratico Biden che non ha alcuna cattiveria da vantare, è stato solo un bravo e attivissimo vicepresidente degli Stati Uniti (presidente Obama) quando i problemi erano aprire i confini e aprire gli ospedali. Ma guardiamoci intorno, guardiamo da vicino. Quali sono i titoli che hanno portato Orbán a una trionfale rielezioni in un Paese civile e colto come l’ungheria? Ha chiuso giornali, tribunali, università, ha intimidito quanto basta per dominare il Parlamento con una maggioranza di oltre due terzi. E la grandezza di Erdogan, il “sult ano turco” ha in quantità molto più vasta, le stesse credenziali: 135mila prigionieri politici, tra cui i direttori di tutti i giornali non servili al regime, l’arresto degli avvocati difensori dei presunti colpevoli (tra di essi la avvocata Ebru Timtik che si è lasciata morire di fame, detenuta illegalmente in una di quelle prigioni). Se volete, potete mettere in quella lista Putin, che provvede a far politica con il veleno per i suoi avversari. O del suo dipendente Lukashenko (Bielorussia) che si elegge da solo e sa come provvedere a chi dissente. Qui vorrei precisare che sto parlando di politica perché, se il tema è “cattiveria”, è facile e inevitabile fare un elenco della cattiveria del mondo se associata al potere. Ma l’episodio italiano del giovane Willy ammazzato di botte, in pubblico, o il tetro evento del fratello che uccide la sorella perché lui (con i suoi genitori, i suoi amici, il suo intero Paese) non tollera la scelta di vita della ragazza, ci dicono che da tempo siamo entrati in un cono d’ombra nel quale è la cattiveria a trovare la ragione per agire in modo feroce, e non una esasperazione ideologica o politica che spinge occasionalmente all’azione feroce. Non ci sono opposti estremismi, come si ama scrivere, pensate a Trump e Biden, ma anche a Willy e ai fratelli Bianchi. In questo cono d’ombra c’è una folla che preferisce non sapere e approvare. E approva di più, come sta accadendo a Trump, se aumenta la cattiveria e il disprezzo per la vittima. Pensate alle Cancellerie del mondo che si apprestano a onorare Erdogan come se non fosse un carceriere. Oppure Orbán, che pure si vanta di avere abolito il liberalismo. Come per il coronavirus, non abbiamo il vaccino di questo male. Ma non tocca agli scienziati. Tocca a ognuno di noi. E a quei centri di civiltà che una volta erano la politica e i partiti. Comuni sciolti al voto tra giunte in mano alla mafia e i miliardi del Recovery fund di Gianfrancesco Turano L’Espresso, 20 settembre 2020 Una su cinque delle 1200 giunte locali da rinnovare era commissariata dal Viminale. Ventuno erano infiltrate dal crimine organizzato. Mentre infuria la battaglia fra chi vuole una revisione della legge e chi denuncia gli interventi pilotati dai professionisti dell’Antimafia. Nell’appuntamento elettorale del 20 e 21 settembre, dominato dal referendum e dalle sei nuove giunte regionali, passa quasi inosservata la vicenda dei ventuno comuni che tornano al voto dopo essere stati sciolti per infiltrazioni del crimine organizzato. Eppure intorno a queste amministrazioni, e a quelle che resteranno più a lungo in mano ai commissari, è in corso una battaglia fra riformisti e riduzionisti che ha sullo sfondo l’altro grande evento dell’autunno: l’inizio della trattativa sul piano di investimenti del Recovery Fund. Molti Comuni, l’anello di base della democrazia, erano in crisi finanziaria prima del virus e molti, soprattutto al Sud, saranno chiamati a gestire un fiume di denaro messo a disposizione dall’Unione europea e, dopo anni di difficoltà anche nell’uso dei fondi europei ordinari. Sapranno farlo? E con quali delle garanzie antimafia che l’Ue giustamente richiede? Ed è sufficiente mandare a casa giunta e consiglieri quando il potere criminale può produrre metastasi nel tessuto, quasi inamovibile, di funzionari e dirigenti? Sul fronte riformista, c’è chi pensa ad aggiornare una legge che compirà trent’anni nel 2021 e che ha mostrato più di un caso di cattivo funzionamento. Sullo schieramento opposto dei riduzionisti, molti attaccano uno strumento che sposta il potere del popolo in mano ai prefetti e sembrano sottovalutare l’impatto distruttivo delle mafie sulla volontà democratica. Buona fede o mala fede, il problema esiste. Ad aprile, nel pieno della chiusura da virus che i nemici degli scioglimenti hanno usato gridando alla diserzione del commissario in remoto, il presidente della commissione antimafia siciliana Claudio Fava ha parlato di “uso disinvolto degli scioglimenti dei Comuni per mafia” e ha rievocato il sistema Montante, l’ex leader regionale degli industriali che dai primi di luglio affronta il processo di appello dopo una condanna in primo grado a quattordici anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. I commissariamenti per infiltrazioni del crimine organizzato sono una minoranza. I motivi di scioglimento, previsti dalla legge del 1991, sono undici e vanno dalla morte del sindaco alla sfiducia alla giunta, dalle irregolarità elettorali alle dimissioni di consiglieri fino ai problemi di bilancio. Su 1183 amministrazioni comunali al rinnovo nel terzo fine settimana di settembre, il 19,5 per cento (231) è commissariato. Altri quaranta Comuni in mano all’amministrazione prefettizia non andranno al voto per un complesso di 271 scioglimenti sull’intera rete nazionale, fatta da 7903 Comuni. Pur minoritario, lo scioglimento per mafia rimane il caso traumatico per eccellenza, quello che mette in discussione l’esistenza della democrazia nelle zone, non necessariamente al Sud, dove il crimine diventa potere legislativo e gli eletti burattini. Neppure il Covid-19 ha fermato l’ondata di commissariamenti. Nel 2020 i prefetti hanno mandato a casa quattro amministrazioni calabresi (S. Eufemia di Aspromonte, Cutro, Pizzo, Amantea), due siciliane (Partinico, Maniace), una nella città metropolitana di Napoli (S. Antimo), una nel leccese (Scorrano). La nona giunta si trova nell’unico Comune del centro-nord al momento sciolto per infiltrazioni criminali. Saint-Pierre, pochi chilometri a ovest di Aosta, è il quinto stop imputabile alla ‘ndrangheta sui nove ordinati quest’anno dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese. Secondo i dati che Openpolis aggiorna mensilmente dal Viminale e dalle Camere con la collaborazione di Giulio Marotta, la ‘ndrangheta è attualmente responsabile di 19 scioglimenti contro i 13 della Sicilia, gli otto della Puglia, i sei della Campania e Scanzano Jonico in Basilicata. A questo elenco vanno aggiunte due aziende sanitarie (Reggio e Catanzaro). Lo stesso provvedimento è toccato all’Asl 1 di Napoli a fine maggio. Anche la serie storica non lascia dubbi su quale sia l’organizzazione più pervasiva. Su 349 scioglimenti per mafia la Calabria primeggia con 123, davanti alla Campania (110) e alla Sicilia (84). La provincia più infiltrata è Reggio con 555 mila abitanti e 70 scioglimenti incluso quello del capoluogo, seguita da Napoli che ha oltre tre milioni di abitanti, Caserta (900 mila residenti) e Palermo che ha una popolazione della sola area urbana maggiore dell’intera area metropolitana della città sullo Stretto. Il massimo di commissariamenti (34) risale al 1993, quasi il doppio dell’anno scorso (19). Dal 1991, il primo anno di applicazione della legge, undici regioni italiane hanno conosciuto almeno uno scioglimento per infiltrazioni criminali. Nel Lazio è capitato a Nettuno, in provincia di Roma. In Piemonte a Bardonecchia, Leinì, Rivarolo. In Lombardia a Sedriano (Milano), in Liguria a Lavagna nell’area metropolitana di Genova. Il record assoluto di scioglimenti spetta a Corato ma nessuno dei quattro commissariamenti del centro barese è dovuto alla criminalità al contrario di quanto accade con il record di tre interruzioni che tocca a dieci comuni calabresi (Lamezia Terme, Briatico, Limbadi, San Ferdinando, Gioia Tauro, Taurianova, Roccaforte del Greco, Melito Porto Salvo, Africo e Platì) più uno siciliano (Misilmeri) che ha un’amministrazione regolare dal 2014 guidata dal centrosinistra di Rosalia Stadarelli. Molte di queste località andranno alle urne in autunno. Alcune escono da lunghi periodi di amministrazione prefettizia. È il caso di Platì, il comune dell’Aspromonte che con San Luca (due stop per ‘ndrangheta) e con il santuario di Polsi chiude un triangolo ad altissima densità mafiosa. A Platì, che l’anno scorso si è vista prorogare di sei mesi la gestione commissariale con decreto di Matteo Salvini, si candidano Pietro Marra e Rosario Sergi, già eletto quattro anni fa contro Ilaria Mittiga, figlia di un sindaco missino, Francesco, arrestato per mafia nel 2003, prosciolto e risarcito. Nel 2016 Platì aveva visto il fallimento del progetto di Matteo Renzi che alla Leopolda, da segretario nazionale, aveva lanciato la candidatura Anna Rita Leonardi contro il muro di indifferenza dei ras locali. Il comune aspromontano ha un record di dieci anni consecutivi (2006-2016) in mano ai commissari e anche la giunta Sergi è durata meno di due anni, fino alle dimissioni in blocco di mezzo consiglio comunale. Il funzionamento disuguale degli scioglimenti ha aperto la strada al discorso riduzionista. Quattro anni fa l’ex sindaco e attuale candidato Sergi dichiarò: “A Platì esiste la mafia, come a Roma, come a Milano e come in altre città”. Che le organizzazioni criminali puntino al giro d’affari delle metropoli è un’ovvietà. Che si possa paragonare il livello di penetrazione esistente nelle aree dominate dalle mafie con quello di Roma o di New York è un ragionamento che rischia di scivolare nel negazionismo: se la mafia è dovunque, bisogna commissariare tutti. Fra gli scioglimenti del 2020 c’è Cutro, il comune in provincia di Crotone noto per le imprese criminali dei Grande Aracri e per il suo gemellaggio con Brescello, il paese del reggiano dove centinaia di cutresi sono emigrati. L’ex ministro ed ex sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio, è stato redarguito nel verdetto del processo “Aemilia” per il suo viaggio elettorale nel paese che sovrasta lo Jonio insieme ad altri due candidati (Fabio Filippi e Antonella Spaggiari). Cutro è stata sciolta all’inizio di agosto e affidata al prefetto in pensione Domenico Mannino in seguito all’operazione “Thomas”, guidata dalla Dda di Catanzaro, contemporaneamente a S. Eufemia, investita dall’operazione Eyphemos della Dda reggina che ha portato all’arresto del sindaco Domenico Creazzo per voto di scambio con le cosche. A Cutro è collegato indirettamente un altro evento di cronaca. Pochi giorni fa a Reggio Emilia gli eredi di Ignazio Salvo, esattore di Cosa nostra, hanno chiesto il commissariamento giudiziario per la loro Lg costruzioni finita in lista nera proprio per i suoi rapporti con uomini del clan Grande Aracri di Cutro. Il commissariamento giudiziario è una sorta di male minore rispetto all’interdittiva antimafia disposta dal prefetto, una delle misure di contrasto alle infiltrazioni più contestata da alcuni circuiti imprenditoriali. Il decreto legislativo sulle interdittive del 2011, il cosiddetto Codice antimafia, che rischiava a volte di uccidere l’impresa penalizzando lavoratori e creditori, si è dotato di uno strumento introdotto nel 2017. Con l’articolo 34 bis, è possibile affidare l’azienda a un commissario indicato dall’autorità giudiziaria in modo da proseguire le attività di gestione senza toccare l’assetto della proprietà nel presupposto che l’infiltrazione sia occasionale. Maria Laura Tortorella, candidata a sindaco alle elezioni di Reggio Calabria, ha una lunga esperienza sul campo. Laureata in economia ha lavorato anni nelle terne prefettizie a partire da Rizziconi, sulla Piana di Gioia Tauro. “Il commissariamento”, dice, “è uno strumento validissimo che però richiede competenza e amore per il territorio. È giusto essere aperti alle riforme, come si è fatto per le interdittive che a volte sono state male utilizzate ma spesso hanno riaccompagnato le imprese alla normalità. Va sempre ricordato che un’impresa criminale toglie spazio a un’impresa sana”. Il tema è quello della macchina amministrativa che, una volta infiltrata, risulta difficile da sanificare anche per il sindaco più motivato. Rizziconi è finita sui giornali nazionali a novembre del 2011 quando la Nazionale guidata da Cesare Prandelli ha tenuto un allenamento su un campo sottratto al patrimonio della ‘ndrangheta. Nell’ottobre di cinque anni dopo il comune della Piana è stato di nuovo sciolto su provvedimento del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, fino all’autunno 2018 quando è stato eletto Alessandro Giovinazzo, ex presidente del consiglio comunale sciolto nel 2016. Nella parte centrale della Calabria è complicata la situazione di Pizzo. Il comune era guidato fino a dicembre 2019 da Gianluca Callipo, solo lontano parente di Filippo, industriale del tonno e candidato perdente del centrosinistra alle regionali di gennaio. Il 19 dicembre 2019 l’inchiesta Rinascita Scott, guidata dal procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che l’ha definita “la più grande operazione antimafia dopo il maxiprocesso di Palermo”, ha portato Callipo agli arresti seguiti da dimissioni e commissariamento. Dopo che la Cassazione ha annullato senza rinvio l’ordinanza di arresto di Callipo, dopo Ferragosto un quartetto di ex consiglieri e assessori si è rivolto al Tar del Lazio per ottenere la revoca del provvedimento prefettizio. Anche per Scanzano (Matera) il Tar ha accolto il ricorso dell’ex sindaco Raffaello Ripoli e ha chiesto al Viminale di integrare i documenti coperti da omissis. L’intervento dei tribunali amministrativi si è già verificato al Nord. Lo scioglimento di Ventimiglia è stato annullato nel 2016 e il sindaco forzista Gaetano Scullino, molto vicino a Claudio Scajola, è stato assolto dalle accuse di mafia ed è tornato in carica un anno fa. Nel 2013 il Consiglio di Stato aveva cancellato il commissariamento per mafia deciso per un altro comune ligure, Bordighera. In totale, in Italia ci sono state 25 revoche su 349 provvedimenti, il 7 per cento. La ricerca di una revolving door fra politici collusi e amministratori ha portato a frizioni nella maggioranza di governo. Su Briatico, comune del vibonese arrivato al terzo scioglimento per infiltrazioni criminali, il presidente grillino della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra ha presentato lo scorso 23 giugno un’interrogazione al ministro Lamorgese. Secondo Morra, i commissari avrebbero considerato l’assunzione come dirigente dell’ex sindaco Andrea Niglia, condannato in primo grado a due anni per corruzione aggravata dal metodo mafioso. A luglio il caso si è sgonfiato perché il posto da dirigente era già stato assegnato a un’altra persona e non a Niglia. Il braccio di ferro fra le istituzioni è continuato in Sicilia sulla scia della denuncia di Fava. Un anno e mezzo dopo lo scioglimento del comune di Scicli per mafia il sindaco Franco Susino (Pd), processato per concorso esterno, è stato assolto dal tribunale di Ragusa. Oggi ai più strenui difensori di Susino, oltre al Pd, si è aggiunto Salvo Sallemi, responsabile provinciale di Fdi, che da destra chiede una revisione della normativa e punta il mirino sulla vicenda, a suo dire analoga, che ha colpito l’amministrazione di Vittoria. Il caso Scicli ha avuto strascichi. Il 21 aprile il senatore Davide Faraone, ex coordinatore regionale democrat passato con Italia viva, ha presentato un’interrogazione che, oltre alla cittadina del ragusano, mette in dubbio la legittimità dei commissariamenti di due comuni agrigentini. Uno è Siculiana, il paese da dove è partita l’avventura internazionale della cosca Caruana-Cuntrera. L’altro è Racalmuto dove il prossimo 8 gennaio si celebreranno i cento anni dalla nascita di uno dei più grandi scrittori europei del Novecento, Leonardo Sciascia, che ha spiegato all’Italia la mafia e, a chi ha voluto starlo a sentire, l’antimafia. L’America perde Ruth Ginsburg, la sua giudice più giusta di Roberto Zanini Il Manifesto, 20 settembre 2020 La scomparsa di “Notorious RBG”. Baluardo dei diritti di tutte le donne statunitensi, il membro più radicale dell’Alta corte, un’icona pop suo malgrado. Aveva 87 anni. Le ultime parole scritte a una nipote: “Il mio più fervente desiderio è di non essere sostituita fino all’insediamento di un nuovo presidente”. Non andrà così. “Quando ci saranno abbastanza donne alla Corte suprema? Quando ce ne saranno nove”. Il bon mot del “giudice supremo” Ruth Ginsburg fece il giro degli Stati uniti in un lampo, e ce n’era motivo. Quella anziana signora sorridente e tanto bassetta da mettere in crisi le foto di gruppo era il difensore non ufficiale di ogni donna d’America da almeno mezzo secolo. Aveva 87 anni, Ruth Bader Ginsburg, e un cancro al pancreas. Il cancro ha vinto, ma gli sono serviti dieci anni e cinque assalti per piegare justice Ginsburg, che faceva la chemio solo di venerdì e usava il weekend per riprendersi (due sole assenze in 27 anni). Ieri gli Stati Uniti hanno perso il giudice più radicale che avessero, diventata nel tempo e suo malgrado un’icona pop, e il presidente Trump ha guadagnato l’insperata l’occasione di nominare un giudice supremo di fiducia a poche settimane da elezioni molto rischiose. Una Corte suprema addomesticata può regalargli la presidenza. Ruth Ginsburg lo sapeva. Era successo proprio a lei di firmare l’opinione di minoranza quando la Corte suprema convalidò il pasticcio elettorale della Florida nel 2000. Nella sentenza Gore versus Bush, la giudice attaccò con un secco “Io dissento”, mozzando il “rispettosamente” con cui ogni giudice sempre iniziava. Vent’anni dopo, l’ultimo lascito della giurista morente sono poche parole scritte a una nipote: “Il mio più fervente desiderio è di non essere sostituita fino all’insediamento di un nuovo presidente”. I nove giudici supremi sono nominati dal presidente e sottoposti al vaglio del Senato, restano in carica a vita o finché se la sentono, le loro sentenze costituzionali hanno enormi poteri. Ebrea di Brooklyn, nata nel 1933 mentre la Depressione mordeva, Ruth Bader riuscì a andare alla Cornell e poi alla scuola di legge di Harvard, una di 9 donne su 500 studenti - e a tutte il decano chiese come si giustificassero ad aver tolto il posto a un maschio. Ma non era così Martin Ginsburg, studente disposto a farsi affascinare da una donna gravata di cervello. Laurea, matrimonio, due figli, specializzazione, prima classificata dei 500 del suo corso… e nessuna offerta di lavoro. A New York, dove ci sono più studi legali che carretti di hot dog. Martin guadagnava come tributarista, ma soprattutto cambiava pannolini, faceva bagnetti e spazzava casa esattamente come la moglie. Negli anni Cinquanta. Anni in cui era legale licenziare le donne all’inizio di una gravidanza (come capitò alla futura giudice Ginsburg). Cucinare no, ai fornelli c’era sempre lui. “Ruth era una cuoca atroce - raccontò - e per niente interessata a imparare”. “Ero ebrea, ero donna, ero madre”: preclusi gli studi legali, Ruth Ginsburg puntò sull’università, negli anni Sessanta si fece un nome sui diritti di genere e nel ‘71 vinse la sua prima causa alla Corte suprema, che riguardava la preferenza ai maschi come esecutori testamentari. La già assai prestigiosa American civil liberties union (Aclu) la arruolò negli anni Settanta per dare la caccia alle discriminazioni, con un approccio che diventerà caratteristico: sfidare le iniquità una alla volta sul terreno dell’applicazione pratica più che sui principi. Negli anni Ottanta Jimmy Carter la nominò alla Corte d’appello federale di Washington. Il profilo delle sue sentenze era moderato, centrista, persino timido. E poi arrivò Bill Clinton. Appena eletto, nel 1993, scelse lei per la Corte suprema al posto del vecchio Byron White, indicato da John F. Kennedy. Ma quando entrò per la prima volta nel palazzone neoclassico in marmo bianco del Vermont, la democratica moderata si trasformò in una radicale. E nei 150-200 casi che i supergiudici valutavano ogni anno (su circa 7.000 richieste), cominciarono a fioccare gli “I dissent”. Dalle donne nelle forze armate ai matrimoni omosessuali, dal finanziamento pubblico della sanità al divieto di deportare naturalizzati americani se commettono crimini: dove i diritti rischiavano, Ruth Ginsburg si metteva in mezzo e spesso si tirava dietro i moderati. E diventò un’icona. Una studentessa di legge aprì un account su Tumblr a suo nome, e sulla popolare piattaforma di microblogging la giudice Ruth Bader Ginsburg diventò Notorius RBG, la famigerata RBG, citazione del rapper Notorious BIG ucciso a colpi di pistola nel ‘97. Un trionfo: richieste di selfie per strada, ritratti su magliette, tazze, borse e ammennicoli vari, il celebre collarino di pizzo della sua toga rifatto da Banana Republic in cristalli swarowski… Proprio RBG (in italiano Alla corte di Ruth) è il film che gli dedicano nel 2018, candidato a due Oscar. Nel coro di condoglianze, ieri Washington ribolliva di nomi per sostituirla: i senatori Ted Cruz e Tom Cotton, la giurista di Chicago Amy Coney Barrett, cattolica con 7 figli… I giudici supremi sono cinque conservatori (il presidente John Roberts e Samuel Alito, Clarence Thomas, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh) e tre progressisti (Stephen Breyer, Elena Kagan e Sonia Sotomayor). Il leader di maggioranza al senato, il repubblicano Mitch McConnell, ha già dichiarato che “il nome scelto dal presidente Trump sarà messo ai voti”. Con eccezionale improntitudine, perché si tratta dello stesso Mitch McConnell che aveva rifiutato di mettere ai voti il giudice supremo scelto da Obama nel 2016, perché “il popolo americano deve far sentire la sua voce”. Per finire il mandato a Obama mancavano otto mesi, a Trump sei settimane. Bielorussia. Botte e arresti ma a Minsk le donne restano in piazza di Yurii Colombo Il Manifesto, 20 settembre 2020 Per il sesto sabato di fila nella capitale e in tante altre città donne di tutte le età marciano per la democrazia e i loro diritti. Ieri oltre 300 arresti. La grande sorpresa del movimento democratico bielorusso è sicuramente il protagonismo delle donne in un paese dove la misoginia è stata a lungo una costante. Anche ieri a Minsk e in altre città della Bielorussia tante donne sono scese in piazza per chiedere democrazia e riaffermare i diritti e la dignità femminile (durante la campagna elettorale il presidente Lukashenko aveva sostenuto che una donna non può fare il presidente della repubblica). A Minsk, in migliaia, come già ormai ogni sabato da sei settimane, si sono mobilitate sfidando il divieto della polizia a manifestare. Molti i cartelli in solidarietà con Marya Kolesnikova, uno dei membri più in vista dell’opposizione in prigione con l’accusa di “tentato golpe” che rischia una pesantissima condanna. Ieri, la mano dei reparti speciali antisommossa e della polizia nei confronti delle donne è stata particolarmente pesante. Già al mercato Komarovsky la polizia ha cercato di impedire il concentramento e si sono viste scene - ormai purtroppo diventate abitudinarie nella capitale bielorussa - di violenza e di intimidazione, a cui le donne hanno cercato di porre un argine formando i cordoni. Alla fine, il corteo è riuscito a partire allungandosi per i viali del centro ma il prezzo è stato salato: sono 309 i fermi denunciati dalle associazioni dei diritti umani, alcuni dei quali si trasformeranno in arresto. Tra le persone portate in questura anche un cittadino/a italiano/a. Alcune decine di donne sono rimaste contuse e una purtroppo è finita in ospedale. Oltre tantissime giovani perfino adolescenti si sono fatte notare in piazza anche un drappello di anziane. Lyudmila, 71 anni, che organizza un gruppo di “pantere grigie” cerca di sostenere in ogni modo la lotta. È stata fermata più volte nelle manifestazioni di queste settimane ma non ha perso il buonumore. “Porto sempre con me il numero di telefono di un avvocato in caso di necessità. Siamo qui per sostenere le giovani e nel caso prendere una manganellata al posto loro”, afferma l’arzilla signora. Le iniziative si moltiplicano e ieri nei quartieri periferici si sono tenute molte feste (in cui sono coinvolti anche i bimbi) e assemblee. “La lotta per raggiungere la libertà non è una cosa di un giorno, sappiamo che sarà una maratona e ci stiamo attrezzando”, sostiene Vera che è sempre in prima fila nelle iniziative. L’appuntamento è già per oggi con il solito grande corteo domenicale. Iran. Nasrin Sotoudeh, la lotta per i diritti umani finisce in ospedale di Viviana Mazza Corriere della Sera, 20 settembre 2020 L’avvocata-attivista era in carcere, ora è ricoverata per insufficienza cardiaca. Era il suo quarantesimo giorno di sciopero della fame nella prigione di Evin: ieri Nasrin Sotoudeh, la più nota avvocata iraniana impegnata per i diritti umani, è stata ricoverata in ospedale per insufficienza cardiaca. Il marito, Reza Khandan, lo ha reso noto con un tweet, spiegando di averlo saputo non dalle autorità carcerarie ma dal coniuge di un’altra prigioniera che ha potuto telefonare e trasmettere la notizia. Sotoudeh ha 57 anni e due figli. Fisicamente fragile, ha una volontà ferrea. Mentre altri difensori dei diritti umani hanno lasciato l’Iran, lei è rimasta, continuando a rappresentare attivisti studenteschi, curdi, di religione bahai, minorenni nel braccio della morte, e anche le cosiddette “ragazze di via Rivoluzione”, che si sono tolte il velo obbligatorio sventolandolo come una bandiera. All’Europa, che le ha assegnato nel 2012 il premio Sakharov, l’avvocata chiedeva nell’ultima intervista concessa al Corriere (cinque mesi prima dell’arresto nel giugno 2018) di aiutare i manifestanti scesi in piazza per il carovita e la corruzione: “Se la Ue resterà in silenzio i ragazzi spariranno nelle carceri”. Nelle carceri è tornata anche lei, per la seconda volta (la prima fu dal 2010 al 2013). Stavolta la condanna prevede 38 anni di cui 12 almeno da scontare (ne restano dieci) per “propaganda contro il sistema” e altre accuse. Spesso Sotoudeh è stata paragonata a Mandela. Come lui, anche in carcere non ha smesso di lottare. L’11 agosto ha iniziato lo sciopero della fame contro la detenzione “illegale” dei prigionieri politici: per l’emergenza Covid decine di migliaia di detenuti sono stati rilasciati temporaneamente ma quelli più in vista (non solo lei ma Narges Mohammadi, Sepideh Gholian e molti altri) restano dietro le sbarre. Pur indebolita, aveva dedicato il premio che l’Associazione dei Giudici Tedeschi le ha da poco assegnato a quattro iraniani nel braccio della morte per le proteste anti-governative: tra loro, Navid Afkari che poi è stato giustiziato. Anche molte delle femministe americane che ieri piangevano la scomparsa della giudice della Corte suprema Ruth Bader Ginsburg lanciavano appelli per salvare quest’altra donna che difende la Giustizia in un Paese con cui gli Stati Uniti sono in guerra fredda da oltre 40 anni.