Il caso che interroga sul carcere. Direttrice modello o collusa alla ‘ndrangheta? di Federica Olivo huffingtonpost.it, 1 settembre 2020 Parlano Rita Bernardini e Gianpaolo Catanzariti. Maria Carmela Longo, ex direttrice del penitenziario di Reggio Calabria, arrestata per concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale nega ogni addebito: “Era così stimata che le offrirono il Dap”. L’accusa è di quelle pesanti: concorso esterno in associazione mafiosa. Ma l’arresto dell’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria riapre il dibattito sulla gestione dei penitenziari. E sulla funzione stessa della detenzione. Maria Carmela Longo fino a pochi giorni fa era al vertice della sezione femminile dell’istituto romano di Rebibbia. Fino a quando il gip di Reggio Calabria Domenico Armoleo non ha chiesto per lei i domiciliari. Le ragioni sono specificate in un’ordinanza dai toni duri: “L’indagata Longo non ha lesinato durante il periodo della sua reggenza (nel carcere reggino di San Pietro, ndr) di intrattenere rapporti quanto mai inopportuni con i parenti di alcuni detenuti, per non dire che ella con il suo inqualificabile comportamento ha sistematicamente violato le norme dell’ordinamento penitenziario così; agevolando, ed alleggerendo, il periodo di detenzione dei maggiori esponenti della ‘ndrangheta cittadina e non solo”. Alla Longo si contesta, tra l’altro, di aver ritardato volutamente i trasferimenti di alcuni detenuti che si trovavano in Calabria per i processi - su questo l’avvocato la difende sostenendo che in quel momento ci fosse mancanza di personale - di aver consentito che questi incontrassero i parenti durante le visite mediche e ci parlassero, che i familiari potessero stare in cella insieme, nel circuito di alta sicurezza. Comportamenti, questi, che avrebbero - secondo l’accusa - favorito la criminalità organizzata. Nell’ordinanza si fa poi riferimento a contatti frequenti del direttore con i detenuti e con i loro parenti. Comportamento, quest’ultimo, non vietato dalla legge. Ma secondo l’accusa questi confronti sarebbero stati funzionali a favorire i reclusi per ‘ndrangheta. Ma se il capo d’imputazione è un macigno, altrettanto dura è stata la sua difesa: in un interrogatorio di garanzia durato cinque ore, Maria Carmela Longo ha negato di aver voluto favorire i detenuti. “La dottoressa Longo - ha spiegato il suo avvocato, Giacomo Iaria, al termine dell’interrogatorio - contesta di aver favorito alcuno e di aver creato un regime preferenziale. Il concorso esterno presuppone che la mia assistita avesse coscienza di favorire la ‘ndrangheta. Ma non è stato così tanto è vero che tutte le ispezioni fatte al carcere non si sono tradotte in procedimenti disciplinari”. Anzi, il carcere San Pietro, che Longo ha diretto per 15 anni - fino all’inizio del 2019 - era considerato un modello, proprio per come era gestito. Raggiunto da HuffPost, l’avvocato Iaria ha spiegato: “L’apprezzamento per la mia assistita era tale che nel 2018 ha ricevuto la proposta di diventare vicecapo del Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr). Proposta che lei ha rifiutato”. Non nega il legale che qualche circolare sia stata disattesa: “Ma in ogni caso si tratterebbe di illeciti disciplinari”. Non di reati, quindi, men che meno di concorso esterno in associazione mafiosa. “Che a Reggio Calabria ci potesse essere la possibilità per i detenuti di collocarsi in una sezione piuttosto che in un’altra è vero, ma che questo sia funzionale a favorire la ‘ndrangheta è tutto da dimostrare”, ha concluso. Contro la dirigente restano, però, le tesi della direzione distrettuale antimafia, che invece proprio a reati gravi si riferiscono. Sono basate su alcune intercettazioni e sul racconto di collaboratori di giustizia che hanno scontato parte della detenzione a Reggio Calabria. In un passaggio dell’ordinanza sono riportate le parole di uno di loro: “I detenuti reggini hanno potere con chi prende le decisioni nel carcere”. Per il gip, infatti, l’indagata “è scesa a patti con detenuti del calibro di Michele Crudo, appartenente alla cosca tegano, e con molti altri aderenti alla ‘ndrangheta del mandamento reggino”. E ancora “con costanza e sistematicità le molteplici norme che disciplinano la vita penitenziaria così, di fatto, consegnando il carcere Panzera ai detenuti per reati di mafia”. Con il suo comportamento, quindi, Maria Carmela Longo avrebbe messo l’istituto in mano alle ‘ndrine. A scorrere l’ordinanza ci sono vari episodi che, per gli inquirenti, vanno in questo senso. Nell’inchiesta è emerso, ad esempio, che l’ex direttrice Longo si sarebbe interessata per fare ottenere la possibilità di lavorare all’esterno del carcere all’ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti. Avrebbe impedito, inoltre, che l’avvocato Paolo Romeo, principale imputato del processo “Gotha”, fosse trasferito a Tolmezzo. “È davvero sconcertante - scrive il gip - che la direttrice di un Istituto Penitenziario si siede a tavolino con il difensore di un detenuto del calibro del Romeo per pianificare una strategia strumentale ad impedire che questi, come prescrive la legge, faccia rientro presso la Casa circondariale di provenienza”. Comportamenti non conformi alle regole sembra che ce ne siano stati vari. Bisognerà capire, se si arriverà a processo, se effettivamente di concorso esterno in associazione mafiosa si tratta, o se, per quanto non conformi alle regole, gli episodi di cui Longo è stata protagonista corrispondano a un illecito meno grave. Ci sono poi, nelle carte, dei riferimenti al cibo somministrato ai ristretti. Uno dei collaboratori di giustizia parla di un agente che portava, in un sacco nero, alimenti come il salmone, la cioccolata, gli alcolici, alcuni prodotti da pasticceria. Un comportamento vietato? Sì. Ma - alcolici a parte, la cui introduzione è non consentita in alcun penitenziario, come si legge sul sito del ministero della Giustizia - la questione forse merita un approfondimento ulteriore. “Ogni istituto ha un regolamento su quali alimenti possano essere dati ai detenuti. In questo caso, da quello che mi sembra di capire, a disattenderlo è stato un agente. Mi chiedo cosa c’entri la direttrice”, dice all’Huffpost l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio Carcere delle Camere penali”. Di Longo dice: “Per quella che è la mia esperienza, posso dire che si è sempre mostrata molto professionale, determinata. Gestiva un carcere particolare, dove c’è una sezione femminile e poi quella di alta sicurezza, e non ci ha mai dato l’impressione che volesse favorire qualcuno”. Ma, secondo gli inquirenti, gli ‘aiuti’ alla ‘ndrangheta sarebbero durati dal 2015 alla fine della sua esperienza in Calabria, a inizio del 2019. Nelle cronache di questi giorni si dà l’idea che il penitenziario di Reggio Calabria fosse una specie di ristorante. Violazioni presunte a parte, a chi conosce bene il funzionamento delle carceri italiane risulta molto difficile pensare che fosse effettivamente così. “Sa quanto stanzia lo stato per l’alimentazione di ogni detenuto? - dice ad HuffPost Rita Bernardini, esponente del partito Radicale e presidente di Nessuno tocchi Caino - 3,50 euro. Una cifra che a una persona non detenuta non basta neanche per fare colazione. Posso immaginare che la direttrice abbia preteso che il cibo dato ai detenuti non fosse di infima qualità”. Bernardini ha visitato il penitenziario diretto a lungo da Maria Carmela Longo e ricorda la differenza con alcuni istituti della stessa regione, come quello di Vibo Valentia: “Io mi preoccuperei più dei direttori che non rispettano la Costituzione. Longo non ha rispettato le circolari? Queste non possono superare la Carta, né le leggi. Il problema in Italia è che si ha una visione punitiva delle carceri e nessuno si scandalizza quando è lo stato a violare le norme”. In un passaggio dell’ordinanza ci si sofferma sui colloqui della direttrice con i familiari dei detenuti. Vietato? No: “Inutile dire che non tutti i capi dei penitenziari sono aperti a parlare con i parenti. Ma non esiste una norma che lo vieta. I contatti ci sono stati, ma non erano inopportuni”, spiega ancora l’avvocato Giacomo Iaria. Nelle carte si indugia poi sul rapporto tra la direttrice e i detenuti. Gli scambi non sono vietati, anzi è previsto che i reclusi possano fare domanda per parlare con i vertici. Può avvenire tutto alla luce del sole. Per gli inquirenti, però, in questo caso non si trattava di interlocuzioni normali. I reclusi per ‘ndrangheta avrebbero instaurato un rapporto stretto con la Longo per ottenere vantaggi. Per gestire il carcere. E, sostengono i pm, ci sarebbero riusciti. Accuse che se confermate restituirebbero il ritratto di un istituto che, lungi da essere un modello di gestione “umana” dei detenuti, era in mano alle ‘ndrine. Ma tutto ciò andrà dimostrato in giudizio. Nel 2013, parlando a Propaganda Live, Maria Carmela Longo diceva: “Noi siamo deputati a contenere e rieducare, questo è il senso del nostro lavoro: porre in essere una serie di iniziative per far recuperare il senso del proprio futuro”. Ora dovrà provare che il suo comportamento era orientato a questo e non ad altri scopi. Il suo legale ha annunciato il ricorso al tribunale della Libertà. Per il momento resta l’arresto di una direttrice considerata illuminata. E molte riflessioni su come il carcere è stato presentato in questa vicenda: “Quello che dispiace è che è stato data all’opinione pubblica l’idea di un carcere che debba fare solo del male, quasi essere un luogo di tortura, che fa soffrire”, sostiene l’avvocato Catanzariti. Un messaggio che, conclude, “è contrario alla Costituzione”. Strasburgo ordina: Italia protegga il detenuto dal suicidio di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 settembre 2020 Farà prima lui - detenuto in “alta sicurezza” a Bari - a riuscire a impiccarsi, come tentato 4 volte in un anno, o lo Stato che lo custodisce a decidere come curarlo? La “Corte europea dei diritti dell’uomo” di Strasburgo, con rara “misura provvisoria urgente”, ordina all’Italia di assicurare ad A.Z. “necessaria sorveglianza e trattamento psichiatrico” visto che nulla è cambiato dopo 5 udienze di Sorveglianza rinviate sinora all’1 ottobre, un ordine del giudice nel settembre 2019 disatteso per 8 mesi circa “la necessità di osservazione psichiatrica”, la “scarsa compatibilità” con la detenzione (per l’Atsm di Spoleto) e la “necessità di comunità terapeutica a contatto con la famiglia”; e dopo che il Dap fatica ad attuare l’altro ordine giudiziario di trovare un “istituto penitenziario dedicato a curare gli affetti da patologie psichiatriche”. Nelle risposte alla Corte il governo ha prospettato che il potere di disporre la “grande sorveglianza” non sarebbe attribuito all’Amministrazione penitenziaria ma alla Asl, “come se ciò” (osservano i legali Marina Silvia Mori, Michele Passione e Eustachio Solazzo), “potesse sollevare lo Stato da responsabilità” per le “eventuali omissioni di tutte le proprie articolazioni”. Perché ripensare la magistratura di Salvatore Zecchini formiche.net, 1 settembre 2020 Secondo un’indagine europea sull’indipendenza di giudici e corti da politica e pressioni economiche, cittadini e imprese italiane si esprimono negativamente. Non è quindi il caso di ripensare il nostro sistema magistratuale ed avvicinare il popolo alla funzione della giustizia? Non poche volte i pronunciamenti dei giudici suscitano polemiche ed accese contrapposizioni, altre volte indignazione e spesso rassegnazione. L’ultima querelle di grande risonanza, dopo una lunga serie, è sorta sul provvedimento del Tar della Sicilia che ha sospeso la chiusura degli hotspot dove sono accolti gli immigrati clandestini. Al di là del merito della specifica questione, l’opinione pubblica è colpita da diversi aspetti dell’esercizio della giustizia che lasciano la società e l’economia profondamente insoddisfatti e ne condizionano i comportamenti in senso non favorevole a uno sviluppo stabile verso una maggiore prosperità. Dei mali della giustizia si è dibattuto a lungo, ma poco si è detto su cosa pensino le imprese e le famiglie della classe magistratuale, né quest’ultima si è interrogata sulle loro opinioni. A gettar luce su questo aspetto ha contribuito di recente un’indagine di opinione condotta da un’istituzione europea, Eurobarometer, all’inizio dell’anno e pubblicata nel luglio scorso. A un campione rappresentativo di 6807 imprenditori e di 26.578 cittadini di tutti i paesi dell’Unione europea sono state poste domande sull’indipendenza dei giudici e delle corti dai governi e dai politici, nonché da pressioni provenienti da interessi economici o di altro genere. Si è chiesto anche se lo status e la posizione dei giudici garantiscano a sufficienza la loro autonomia di giudizio. Il quadro, che ne risulta, dà conto dei dubbi che albergano tra le imprese e i cittadini sull’operato dei giudici e sulla loro posizione, e come il Paese si distanzi molto da quanto riscontrato in altri paesi membri più sviluppati economicamente e socialmente. Il dato riassuntivo delle opinioni colloca l’Italia al quintultimo posto tra i 28 paesi dell’Ue per percentuale di giudizi soddisfacenti sull’indipendenza espressi dalle imprese, davanti a quattro paesi dell’Est europeo, nell’ordine Polonia, Ungheria, Croazia e Slovacchia. Soltanto il 3% delle imprese la giudica “ottima” e un terzo “abbastanza buona”, ma ben il 49% ne dà una valutazione negativa o pessima. La distanza dalle impressioni negli altri paesi non potrebbe essere più evidente, laddove si consideri che nella media dell’Ue la maggioranza (54%) manifesta fiducia nell’indipendenza dei propri magistrati, e solo il 31% è insoddisfatto. Altro aspetto meritevole di attenzione è l’assenza nell’ultimo quadriennio di una stabile tendenza all’allargamento della quota dei giudizi positivi in Italia, come invece si osserva nella media dell’Ue, perché miglioramenti e peggioramenti si sono susseguiti di anno in anno. Scendendo nei particolari delle valutazioni positive, la netta maggioranza delle imprese (82%) le attribuisce alla posizione giuridica e sociale dei giudici, posizionandosi al di sopra della media europea, mentre pesa meno la quota di coloro che la attribuiscono alla estraneità da interessi economici o particolari, e ancor meno pesano quanti si riferiscono alla impermeabilità a interferenze del governo o di politici, un gruppo che tende a ridursi nell’ultimo quadriennio. In termini più semplici, l’impressione di indipendenza dei magistrati è attribuita più al loro status che alla loro resistenza alle pressioni dell’economia e della politica. Il riscontro si ritrova analizzando i fattori che spiegano i giudizi negativi. Per la stragrande maggioranza delle imprese (84%), l’impressione negativa è dovuta alle interferenze o pressioni del governo o dei politici; per una quota altrettanto elevata (83%) è imputabile a particolari interessi economici o di altra natura, mentre solo il 56% ritiene che lo status di giudici non garantisca a sufficienza la loro indipendenza. Tra i mille cittadini italiani intervistati le impressioni risultano ancor più negative che tra le imprese. Soltanto il 31% si pronuncia favorevolmente sull’esistenza dell’indipendenza della giustizia, laddove la maggioranza (54%) ha una impressione negativa. Anche tra i cittadini la maggioranza (82%) ritiene che lo status dei giudici garantisca adeguatamente la loro indipendenza, ma solo il 51% li ritiene esenti da pressioni di interessi economici e meno della metà (48%) pensano che siano al riparo da interferenze o pressioni del governo e dei politici. In particolare, i giudizi negativi sono attribuiti prevalentemente all’influenza del governo, nonché di interessi politici ed economici. Ma come ha reagito la magistratura a questa immagine sfavorevole maturata da tempo nelle menti di troppi italiani? Negli ultimi anni qualche provvedimento è stato preso dagli stessi magistrati verso alcuni componenti di fronte a evidenti comportamenti da biasimare o sanzionare, ma nulla più, e certamente un’azione ben lontana dal rendere la loro immagine più accettabile. Non tutta la responsabilità delle disfunzioni della giustizia è tuttavia ascrivibile ai giudici. Non poche sono da ricondurre al potere legislativo: norme spesso poco chiare, non coerenti con le esigenze dello sviluppo economico e sociale, vaghe nell’applicazione, con molta latitudine lasciata al giudizio dei magistrati di fronte all’incapacità del parlamento di fare scelte nitide ed agevoli da applicare. Una parte della responsabilità, tuttavia, ricade sulla classe magistratuale, sui tempi lunghi del rendere giustizia, sulla conduzione delle istruttorie, sulla scarsa corrispondenza con cui il suo giudizio collima col pubblico sentire entro i limiti consentiti dalle norme e sull’astrusità delle sentenze che giustificano o lasciano spazio a prolungamenti del giudizio. I tempi, i costi e i modi della giustizia italiana pongono il Paese in una posizione di svantaggio rispetto ai maggiori partner: sono comparativamente molto più onerosi di altri paesi, come dicono le rilevazioni della Banca Mondiale e di altre organizzazioni, incidono negativamente sulle attività economiche e finanziarie, lasciano adito a comportamenti predatori o opportunistici, e tendono a frenare gli investimenti e la produttività, come si è visto nell’ultimo ventennio. Di tutto questo, verso chi deve rispondere la magistratura? Nella nostra democrazia il governo risponde al Parlamento e alla giustizia, il Parlamento risponde all’elettorato e alla giustizia, ma la magistratura risponde a sé stessa e a nessun altro. Questo è il frutto di una malintesa applicazione del principio della separazione dei poteri nello stato democratico. Si è venuta, quindi, a creare nel tempo una classe di intoccabili ed insindacabili; qualcuno parla di una vera casta. Ebbene un ripensamento a fondo del sistema magistratuale è opportuno per migliorarne l’immagine, a cominciare dal reclutamento alla verifica della sua performance. Giudicare implica maturità di giudizio e conoscenza basata sull’esperienza del vivere in società e dei meccanismi del suo produrre, investire, consumare e fare ricerca ed innovazione. Invece, i nostri magistrati maturano in un mondo chiuso in cui i contatti con lo spettro del vivere sono prevalentemente limitati alle fattispecie giudiziarie e in cui scarseggia la capacità di porsi nei panni del comune cittadino o impresa che si trova alle prese col vivere quotidiano e con il mercato aperto. Si diventa magistrati solo per la capacità di dominare la selva di norme in cui il Paese si è smarrito, senza uno scrutinio delle sue esperienze nella vita sociale, della sua partecipazione al mondo del lavoro privato, della sua dirittura morale, della sua equanimità. Alcuni paesi hanno deciso di superare questi limiti affiancando al giudice togato in ogni grado di giudizio un rappresentante della società che partecipa al giudizio su un piano di parità. Questo rappresentante è eletto da popolo e scelto in un elenco di soggetti che hanno grande esperienza e sapere, indipendentemente dal diritto. Nella nostra democrazia si è finora rifiutato questo approccio adducendo il rischio di distorsioni. Ma già oggi la tanto vantata indipendenza della magistratura non resiste ai diffusi sentimenti popolari di segno contrario. Non è quindi il caso di ripensare il nostro sistema magistratuale ed avvicinare il popolo alla funzione della giustizia scegliendone i rappresentanti in una schiera di esperti ed inappuntabili cittadini che affianchino i giudici di carriera nel giudicare? Non è questa l’essenza della democrazia in cui la fonte del potere sta nelle mani del popolo? Operativa la riforma intercettazioni, al Pm il giudizio sulla rilevanza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2020 Coniugare esigenze di tutela della privacy con la funzionalità delle indagini. È su questa scommessa che si gioca la riforma delle intercettazioni da oggi in vigore dopo una lunga e tormentata sequenza di rinvii. Perché la prima versione dell’intervento era stata messa a terra nello scorcio finale della passata legislatura ed è stata poi perfezionata dall’attuale maggioranza giallorossa alla fine dello scorso anno. Tra l’altro il passaggio temporale non è affatto neutro, perché, come segnalato dalla stessa Cassazione, potrebbero già emergere problemi di diritto transitorio, per esempio nel caso in cui all’iscrizione di un reato avvenuta prima del 31 agosto, ne facciano seguito altre in epoca successiva con oggetto altri titoli di reato. Ma questioni di diritto intertemporale potrebbero nascere anche nel caso in cui due o più procedimenti con data diversa di iscrizione, per alcuni antecedente e per altri successiva al 31 agosto, venissero riuniti, oppure, viceversa, quando da un procedimento iscritto prima del 31 agosto ne derivi, per separazione, un altro iscritto dopo questa data. Nella sostanza sono numerose le modifiche alla disciplina degli ascolti sinora prevista. A partire dagli accresciuti compiti dei pm, cui viene affidata, dopo che in un primo tempo la selezione era affidata alla polizia giudiziaria, la competenza sulla valutazione di quanto è attinente alle indagini e quanto invece non ha rilevanza penale. A non dovere essere trascritte sono le conversazioni relative a dati sensibili, come pure quelle idonee a danneggiare la reputazione dei soggetti intercettati. Sui verbali la vigilanza spetta al pubblico ministero, dove già alcune Procure, come Milano e Bologna, hanno iniziato a fornire con circolari indicazioni sulle modalità di trascrizione in tutti i procedimenti (anche se resta possibile che per alcune e più delicate indagini possano essere previste forme specifiche). Alla polizia giudiziaria, deputata agli ascolti, il compito di segnalare al pm le conversazioni potenzialmente non suscettibili di trascrizione, in maniera da lasciare a lui la decisione finale. In realtà, ed è la stessa Cassazione a segnalarlo, l’assenza di un espresso divieto e la mancanza di una sanzione processuale e l’ampiezza del criterio di selezione potrebbero rendere la riforma “scarsamente idonea ad evitare l’ingresso nei brogliacci di ascolto di comunicazioni che, in seguito, si possono rivelare di nessuna utilità probatoria, ma che, nello stesso tempo, possono rappresentare una lesione rilevante della privacy delle persone coinvolte”. Tutto il materiale confluirà poi in un archivio informatico sotto la vigilanza del pm, con possibilità di accesso da parte delle difese, evitando in una prima fase che possano trarne copia, ma garantendone l’ascolto, in vista della possibile udienza stralcio, nella quale il giudice dovrà procedere alla selezione del materiale rilevante. Previsto il divieto di pubblicazione di tutte le intercettazioni considerate irrilevanti per le finalità investigative. Disciplinato poi un altro snodo nevralgico come l’utilizzo dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali sono state originariamente autorizzate. Alla regola generale del divieto vengono così formalizzate due eccezioni, sempre a patto che siano rilevanti e indispensabili: quando il reato è tanto grave da rendere possibile l’arresto in flagranza e quando per il titolo di reato accertato sarebbe stato comunque possibile procedere comunque agli ascolti. Quanto all’utilizzo del trojan, la riforma estende la possibilità del suo utilizzo in tutti i reati contro la pubblica amministrazione commessi non solo dal pubblico ufficiale, ma anche dall’incaricato di pubblico servizio. In ogni caso, vista la particolare invasività dello strumento, il decreto di autorizzazione al suo impiego dovrà rendere evidenti le ragioni che ne hanno giustificato l’impiego. Meno carte a disposizione dei cronisti giudiziari di Alessandro Galimberti Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2020 Maggiori difficoltà di accesso alle proverbiali “carte”. La riforma delle intercettazioni che entra in vigore oggi, dopo una lunga teoria di stop-and-go, per i giornalisti vede la luce con uno scenario molto diverso da quello più volte ipotizzato (e temuto) negli ultimi 15 anni. “Saltato” in corsa il divieto di trasmissione al Pm - da parte della polizia giudiziaria - di ogni informazione non pertinente al reato che emerga dalle intercettazioni telefoniche/informatiche, rimossa dal campo di gioco anche la versione sintetica delle ordinanze di custodia cautelare ambìta dall’ex ministro Orlando (tomi che rappresentano la vera manna informativa per i cronisti da Mani pulite in poi) la riforma Bonafede alla fine ha messo il “contagocce” solo alla produzione di carte, appunto. Carte che sarà più difficile avere in sala stampa perché se ne produrrà meno, molto meno, e soprattutto perché sarà molto posticipato anche il momento di acquisizione da parte dei difensori stessi, autorizzati ad ascoltare le captazioni ma non ad estrarne copia - di fatto - sino alla fine dell’indagine preliminare. “Il senso della riforma, sotto questo aspetto - dice il procuratore di Brescia, Francesco Prete - è di rendere digitale, cioè tracciabile, ogni accesso ai file informatici”. Se la scelta del legislatore è stata quella di (soc)chiudere alla fonte il rubinetto delle informazioni disponibili - e perciò appetibili per la stampa - lo strumento utilizzato è solo il cosiddetto “archivio riservato” delle intercettazioni, di cui è custode il procuratore della Repubblica. Di fatto il giornalista non vi può accedere (ed era ovviamente così anche prima) ma non è detto che in qualche modo non riesca ad attingervi. Siccome la riforma sul punto è chiara, e cioè le intercettazioni dichiarate non pertinenti non devono uscire da quella stanza e devono essere distrutte, il problema è che cosa accadrebbe al bravo cronista capace di aggirare lucchetti e digitalizzazione tracciata. Perché se si qualificasse la pubblicazione di questi file come pubblicazione di intercettazioni illegali, scatterebbero i rigori della legge 281/2006: “Chiunque consapevolmente detiene gli atti, i supporti o i documenti di cui sia stata disposta la distruzione” rischia fino a quattro anni, ma soprattutto rischia di sottostare alla scure della “riparazione pecuniaria” (“cinquanta centesimi per ogni copia stampata, ovvero da 50.000 a 1.000.000 di euro secondo l’entità del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico”). Ma per fortuna di cronisti, direttori ed editori, chiamabili in solido tra loro, pare che non sia così: il giornalista che mai riuscisse a violare lo scrigno riservato delle intercettazioni soggiacerebbe (almeno fino a prova contraria) alla sanzione blanda e collaudata dell’articolo 684 del codice penale: arresto fino a trenta giorni o ammenda da euro 51 a euro 258. Intercettazioni, da oggi più poteri ai pm. Anche sull’uso del trojan di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 settembre 2020 In vigore la riforma. Tutele per la privacy, ma restano ombre. Entra oggi in vigore la nuova disciplina degli ascolti. Al pm spetterà il ruolo di primo piano: sarà lui, infatti, a decidere cosa è rilevante per le indagini e cosa non lo è. Le intercettazioni irrilevanti saranno coperte dal segreto e non potranno mai essere pubblicate. Quelle rilevanti, invece, verranno inserite nel fascicolo, saranno pubbliche e quindi potranno essere diffuse. Il pm dovrà poi vigilare affinché nella trascrizione delle intercettazioni non siano riportate espressioni “sensibili”. La norma vale anche per le intercettazioni rilevanti, che dovranno essere “depurate” dai dati sensibili e coperti dalla disciplina sulla privacy. Sarà consentito, poi, l’uso dei risultati delle intercettazioni in procedimenti penali diversi rispetto a quello nel quale l’intercettazione è stata autorizzata. Riguardo l’esecuzione delle intercettazioni, la trasmissione dei verbali, la comunicazione ai difensori (che avranno facoltà di esaminare gli atti e di ascoltare le registrazioni) e il procedimento incidentale finalizzato alla cernita ed alla selezione del materiale probatorio nell’ambito di una apposita udienza, la norma riprende il testo attualmente vigente. Lo stralcio potrà riguardare, oltre alle registrazioni di cui è vietata l’utilizzazione, anche quelle che riguardano dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza. Vengono ripristinate le disposizioni relative alla possibilità che alle operazioni di stralcio partecipi il pm ed il difensore; quest’ultimo potrà estrarre copia delle trascrizioni integrali delle registrazioni disposte dal giudice e potrà far eseguire copia. Come in passato, il gip disporrà la trascrizione integrale delle registrazioni, o la stampa delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche, da acquisire poi con le forme della perizia tecnica. I verbali e le registrazioni, e ogni altro atto ad esse relativo, saranno conservati integralmente nell’apposito “archivio digitale” delle intercettazioni gestito e tenuto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore della Repubblica dell’ufficio che ha richiesto ed eseguito le intercettazioni. Tutti gli atti custoditi sono coperti dal segreto, con l’eccezione soltanto dei verbali e delle registrazioni delle comunicazioni e conversazioni acquisite al fascicolo delle indagini, o comunque utilizzati nel corso delle indagini preliminari. I difensori potranno procedere con gli ascolti successivamente al deposito per la difesa di verbali e registrazioni. Tale deposito potrà avvenire in tre casi: dopo la conclusione delle operazioni di intercettazione, con l’avviso di conclusione delle indagini, nel caso di giudizio immediato. Gli ascolti avverranno in una sala dedicata. Le attività di intercettazione ambientale mediante utilizzo dei trojan, già consentite per i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, saranno estese anche ai delitti degli incaricati di pubblico servizio. Viene consentita l’utilizzabilità delle intercettazioni effettuate per mezzo del captatore anche per la prova dei reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, a condizione che si tratti di reati contro la pubblica amministrazione puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 5 anni o di delitti attribuiti alla competenza della Procura distrettuale. Essendo la riforma a costo zero sono state sollevate perplessità da parte di alcuni procuratori. In particolare per le dotazioni tecnologiche che dovranno supportare le attività. Piccola nota per i giornalisti: niente carcere per chi viola il divieto di pubblicazione delle intercettazioni. Con il saldo dichiarazioni infedeli non punibili di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione feriale - Sentenza 31 agosto 2020 n. 24589. Anche il reato di dichiarazione infedele non è punibile se l’integrale pagamento del dovuto avviene precedentemente alla prima udienza utile dopo l’entrata in vigore delle novità sul Dlgs 74/2000. A fornire questo principio è la Corte di cassazione, sezione feriale penale, con la sentenza 24589. La vicenda trae origine dalla contestazione a un contribuente del reato di dichiarazione infedele per omessa indicazione di alcune vincite al casinò. Nei giudizi di merito, l’imputato veniva condannato ma la pronuncia veniva impugnata in Cassazione lamentando, tra i diversi motivi, l’errore commesso dal giudice di appello di non aver considerato il pagamento effettuato in sede di adesione quale causa di non punibilità del reato. I giudici di legittimità confermando la decisione della Corte territoriale hanno preliminarmente ricordato che con la riforma del sistema sanzionatorio penale tributario (Dlgs 158/2015) è stata introdotta la possibilità di estinguere alcuni reati previo pagamento integrale del debito. Più precisamente, per i reati di omesso versamento e di indebita compensazione di crediti non spettanti, se il pagamento di tributo, interessi e sanzioni avviene prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, anche attraverso speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento, il reato non è punibile. Per i delitti di dichiarazione infedele e di omessa dichiarazione, invece, la non punibilità scatta solo se il pagamento (necessario sempre prima della apertura del dibattimento di primo grado) avviene a seguito di ravvedimento operoso prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di controllo nei propri confronti. Tuttavia, la sentenza ha richiamato sul punto l’orientamento secondo il quale la norma di favore è applicabile retroattivamente ai procedimenti in corso. In proposito, infatti, in più occasioni, è stato affermato dai giudici di legittimità che i contribuenti che avevano procedimenti in corso al 22 ottobre 2015 (data di entrata in vigore delle modifiche al regime penale tributario) per omesso versamento e indebite compensazioni, potevano avvalersi della causa di non punibilità solo se tale pagamento fosse avvenuto per intero entro la prima udienza utile rispetto all’entrata in vigore della norma (tra le ultime sentenza 8521/2019). Nel caso particolare, poiché pare dal testo della sentenza che l’integrale pagamento sia avvenuto in seguito all’accertamento con adesione ma in data successiva alla prima udienza utile, è stato corretto escludere la causa di non punibilità. La decisione è interessante poiché sembra confermare l’applicazione retroattiva della causa di estinzione del reato anche per la dichiarazione infedele (e non solo per i reati omissivi), sempre a condizione che il pagamento del dovuto avvenga entro la prima udienza utile dopo l’entrata in vigore della norma (22/10/2015). Per analogia, quindi, alla luce di tale orientamento, dovrebbero ritenersi non punibili anche i reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli articoli 2 e 3 del Dlgs 74/2000 (per i quali recentemente è stata introdotta la nuova causa di estinzione), se il contribuente versi integralmente il dovuto entro la prima udienza utile dopo l’entrata in vigore della nuova norma (25 dicembre 2019). Cosenza. Marianna, testimone di giustizia che sogna di tornare in Calabria da donna libera di Michele Presta Corriere della Calabria, 1 settembre 2020 Eccola lì, Marianna, seduta al banco dei testimoni. Evita di incrociare lo sguardo degli assassini dei suoi due fratelli. Il primo è morto perché è finito in brutto giro in cui c’è anche la ‘ndrangheta crotonese, il secondo è stato fatto fuori perché i killer temevano ritorsioni. È una storia su pellicola quella di Marianna, a metà degli anni novanta, quando l’Italia masticava i rudimenti della legislazione antimafia e i testimoni di giustizia erano equiparati ai collaboratori. C’è una differenza, ed è abissale: i primi testimoniano con coraggio, i secondi testimoniano per aver salva la pelle. I redenti si contano sulle punte delle dita di una mano. È così, ma gli investigatori hanno bisogno di entrambi. Marianna appartiene alla categoria dei testimoni di giustizia, anzi dei “testimoni usa e getta” perché finito il processo, scritta la sentenza, sgominata una cosca, per lei e la sua famiglia inizia un calvario di promesse non mantenute e di una vita passata all’ombra di aver fatto la cosa giusta ma che non è adeguatamente riconosciuta. La sua storia è scritta dal giornalista Eugenio Arcidiacono, firma del settimanale Famiglia Cristiana, nel romanzo “Testimone di ingiustizia” edito da San Paolo. Il sottotitolo è ancora più eloquente “La mia vita di fantasma per aver denunciato la ‘ndrangheta”. Marianna F. (il nome è di fantasia come i luoghi e le date riportati nel libro) si mette in contatto con il giornalista dopo che il 25 di dicembre del 2018, Marcello Bruzzese fratello di un pentito ‘ndranghetista, venne ucciso nonostante il regime di protezione. “La questione dei testimoni di giustizia è stato il punto di partenza del libro, anzi dell’inchiesta - spiega Arcidiacono al Corriere della Calabria. Marianna con i suoi familiari ha denunciato gli assassini dei suoi fratelli in Calabria. Lei ha deciso di rompere la spirale di violenza denunciando tutti. Lo ha fatto nonostante in quel momento vivesse a Parigi, facendo l’interprete. Era una donna realizzata che non aveva rapporti con la Calabria”. È in quel momento che inizia un lungo calvario. “Negli anni a cui si riferiscono i fatti - spiega l’autore - i testimoni di giustizia erano equiparati ai collaboratori giustizia. Ha dovuto firmare un modulo in cui si impegnava a dichiarare che non avrebbe fatto più reati e dal momento in cui ha raccontato quello che avevano fatto ai suoi fratelli è stata costretta a trasferirsi in un paese sperduto di montagna e a perdere ogni diritto. Ha perso il lavoro, innanzitutto, le hanno dato una identità finta che non serviva a niente, ha perso l’assistenza sanitaria. I genitori anziani per qualsiasi motivo di natura medica dovevano andare in ospedale e dare delle generalità false e aspettare che qualcuno li curasse. I loro nomi e cognomi non esistevano più da nessuna parte”. Tra le pagine del libro si leggono le parole: testimone usa e getta. È così che si sente Marianna F. Le avevano promesso un posto di lavoro come interprete al Ministero dell’Interno ma anche questa promessa è sfumata. “Un lavoro adatto alle sue capacità non l’ha mai ricevuto - aggiunge Arcidiacono -. L’hanno assunta al Ministero dell’Interno e si è ritrovata a fare fotocopie. Una sentenza le ha riconosciuto un danno biologico causato sul posto di lavoro procurato dallo Stato”. Mobbing, in poche parole e dunque la decisione di lasciare il programma di protezione. “Decide di lasciare per trovare un lavoro, anche se l’esponeva al rischio di essere individuata da chi in tribunale gli ha detto che l’avrebbe trovata. Con questa minaccia fortissima è uscita dal programma di protezione, ottenendo un risarcimento che le è servito per comprare la casa - dice Eugenio Arcidiacono. Ha partecipato a dei concorsi ma lo stress psicologico e la paura di essere trovata erano più forti di lei. Trovare un lavoro seguendo la strada normale non era semplice, giustificare anni di vuoto da esperienze lavorative hanno fatto desistere ogni datore di lavoro”. Negli anni 90 Marianna è una donna che vive pienamente la sua vita. La laurea e il lavoro da interprete nella capitale francese la soddisfano di tutti i sacrifici fatti. La morte violenta piomba nella sua vita e decide di affrontarla con senso civico e alto rispetto delle istituzioni. “Ha vissuto l’epoca delle guerre di mafia condotte da Falcone e Borsellino - ci spiega l’autore. Si è appassionata molto a quel tipo di racconto che veniva fatto in Italia e si domandava come mai in Calabria non ci fosse lo stesso sentimento che invece si avvertiva in Sicilia. Lei ha fatto la sua parte, non avrebbe mai potuto vivere con il pensiero che gli assassini dei suoi fratelli si sarebbero potuti trovare ancora oggi in giro. L’educazione è stata fondamentale, ma non dobbiamo essere generalisti, è ovvio che vivere in un ambiente imbevuto di una certa mentalità non l’avrebbe aiutata. È per questo che dedichiamo il libro ai bambini calabresi perché, non siano costretti a lasciare la propria terra. Il sogno di Marianna è di ritornare in Calabria. Ha partecipato a degli incontri a scuola sotto falso nome e senza farsi riconoscere o ai campus di Libera al nord, ma non in Calabria. Nella sua terra vorrebbe ritornare da donna libera, usare la casa che ha ancora e dove ha vissuto con i suoi genitori e dove c’è ancora la tesi di laurea. Vive a testa alta, non è complice di nessuno Marianna. “Non ha nessun rimpianto se non quello di essersi fidata troppo di quello che le avevano detto - prosegue Eugenio Arcidiacono -. Solo dopo tanto tempo ha deciso di contattare persone che vivevano come lei. I calabresi non fanno gruppo come i siciliani, e sul lavoro probabilmente se avesse fatto la voce grossa non si sarebbe ritrovata nella condizione in cui è adesso. Certo nel tempo sono cambiate molte cose. L’impulso dato dal procuratore Nicola Gratteri alla modifica della legge sui testimoni di giustizia e altri accorgimenti legislativi, adesso, non metterebbero nessuno nelle condizioni in cui si trova lei. Il problema è che queste leggi non sono retroattive ed aver abbandonato il programma di protezione non aiuta Marianna”. Scrive a politici, ministri, altri funzionari di Stato ma la risposta è sempre negativa. “I testimoni dovrebbero essere più preziosi dei pentiti, perché se continuassero a vivere nella propria terra sarebbero la dimostrazione vivente che un altro mondo è possibile. Solo così si dimostra che lo Stato è più forte della ‘ndrangheta”. Eugenio Arcidiacono è per metà calabrese. Vive e lavora stabilmente a Milano ma aver prestato il proprio lavoro per raccontare questa storia ha smosso in lui un sentimento forte. “Per me è stato un riappropriarmi delle mie radici. Come tutti i mezzi calabresi, fin da bambino le estati le trascorro in Calabria. Ogni volta me ne vado con la sensazione di aver passato un periodo in una terra meravigliosa con gente ospitale, un mare straordinario e altre cose incantevoli - conclude. Però non posso dimenticare le brutture e le storture. Le case iniziate e mai terminate, gli episodi di sopraffazione e le prepotenze. Il romanzo lo abbiamo scritto in due. Non abbiamo fatto una intervista. Nel racconto che è tutto vero ci sono sia le sue che le mie esperienze. Tutto è mescolato. Parlare con Marianna mi ha permesso di dare un contributo alla terra che amo tantissimo. Saremo felici se questo libro venisse letto nelle scuole e diventasse un testo di speranza per dimostrare che non bisogna sempre chinare la testa, ma avere fiducia nello Stato, anche quando le circostanze ci suggeriscono il contrario. Marianna è una donna libera dentro anche se vive come un fantasma. Può camminare a testa alta e dire di aver fatto la scelta giusta. Quanti calabresi ci sono che chinano la testa?”. Trani (Bat). “Senza sbarre”, il progetto di don Riccardo Agresti e don Vincenzo Giannelli italiapost.it, 1 settembre 2020 Quando la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo?nel gennaio 2013 ha condannato l’Italia per la drammatica situazione del sovraffollamento carcerario, la mancanza di lavoro ha cominciato a farsi ricordare nei dibattiti pubblici: giornalisti, rappresentanti politici e della società civile hanno iniziato a proclamare l’importanza del lavoro in carcere, riferendosi ad esso come una panacea, anche contro le recidive. Trasmesse sui media, sequenze di lavoro in cucina o in pasticceria e interviste a detenuti impiegati nei call center allestiti all’interno di alcune carceri, sono diventati il ??nuovo volto della realtà carceraria. Quello della detenzione come pena rieducativa e riabilitativa nei confronti della società è un argomento inoppugnabile e insindacabile, al netto di ogni demagogia, dal vantaggio economico del lavoro in carcere per ogni detenuto, alla riduzione delle recidive accertata e così di una migliore gestione delle carceri. Proprio in quest’ottica di rieducazione ed inserimento nella società si colloca il Progetto Diocesano “Senza Sbarre”, Opera di Don Riccardo Agresti e Don Vincenzo Giannelli, il quale mira a promuovere una messa in atto di una misura alternativa al carcere per i detenuti; per chi è sottoposto a provvedimento di custodia attenuata; per chi ha patteggiato la sua pena scegliendo i lavori sociali; per ex detenuti e per tutti coloro che sono sottoposti ogni forma di custodia prevista dalla legge. Il progetto si sviluppa partendo dall’esperienza di questi due sacerdoti che hanno sempre svolto la propria missione fianco a fianco con i detenuti nelle carceri, aiutandoli a ritrovare la propria spiritualità, a comprendere ed accettare i propri errori, e guidandoli in una seconda primavera della loro vita, fatta di redenzione e cambiamento. Occasioni che sono offerte principalmente dall’avere una attività che riesce a farli sentire utili ed appagati, è il caso di un lavoro ovviamente. Anche l’area geografica in cui Don Riccardo e Don Vincenzo praticano la loro pastorale dà un contributo determinante a questo tipo di attività. Se da un lato la provincia di Bat (Barletta - Andria e Trani) è una realtà piegata da decenni di macro e micro criminalità, dall’altro si tratta di comunità che hanno sviluppato gli anticorpi per questo protocollo delinquenziale e che - al contrario - si dimostrano solidali e pronte ad aiutare chi prova a dare un contributo attivo al proprio territorio. In virtù di questo senso di comunità vigente in queste realtà, i due sacerdoti hanno invitato i propri fedeli a creare “ponti tra il carcere e il mondo” per i detenuti, contribuendo a rieducarli e riaccoglierli tra di loro nuovamente. Ma in cosa consiste di fatto il Progetto Diocesano “Senza Sbarre”? Si tratta di un ambizioso piano di costruzione di una impresa multiservizi, incentrata soprattutto nella lavorazione della terra e nella creazione dell’olio “Senza Sbarre”, a totale cura dei detenuti, a partire da una masseria fortificata in contrada san Vittore, circondata da circa 10 ettari di campagna. Il progetto è aperto a tutti coloro che possono usufruirne - sempre secondo i limiti imposti dalla legge - sia facenti capo alla Casa Circondariale di Trani, che dell’intera Puglia e anche Italia, a seconda del fabbisogno dell’azienda agricola. Il Progetto Senza Sbarre, nasce come una potenziale seconda opportunità per chi si trova a dover subire le criticità di un sistema da tempo in difficoltà, quale anello di congiunzione tra tutti gli aspetti del “Dentro” e del “Fuori” e che caratterizzano la problematica. La partecipazione a un’attività produttiva come quella agricola utile alla società è di particolare importanza per i detenuti. In primo luogo, il lavoro manuale produttivo porta i prigionieri a capire che le ricchezze della società non cadono dal cielo; si può così far crescere l’interesse per il lavoro, l’abitudine al lavoro, la convinzione che “i frutti del proprio lavoro si raccolgono dalla costanza e dall’impegno”, che elimina le concezioni dannose del disprezzo per il lavoro manuale e corregge la tendenza a voler trarre il massimo profitto dal minimo sforzo, idea radicata nelle menti criminali. Allo stesso tempo, il lavoro manuale promuove la consapevolezza della responsabilità di ogni persona nei confronti della società e il senso della disciplina. Secondo, un lavoro manuale adattato facilita il loro sviluppo fisico e li mantiene in buona salute; rimanendo rinchiusi in cella tutto il giorno senza alcuna attività prolifica che li tiene impegnati, rischiano di essere psicologicamente oppressi, meditabondi, nervosamente depressi, magari anche solo con l’idea di fuggire, suicidarsi, o infrangere di nuovo la legge. Terzo, il lavoro manuale offre ai detenuti l’opportunità di padroneggiare una o più tecniche professionali che consentiranno loro di trovare lavoro alla fine della pena. Eviteranno così di ricadere nelle loro cattive abitudini e di recidivare perché non sono stati veramente rieducati o non sanno come rimettersi in carreggiata nella vita. Napoli. Nuovo carcere a Nola: siamo sicuri che ce ne sia bisogno? di Cesare Burdese* Il Riformista, 1 settembre 2020 L’iniziativa è stata avviata nel 2014. Secondo alcuni esperti, però, per migliorare la vita in cella occorrono risposte di tipo diverso. Ho letto con interesse l’intervista a Luca Zevi sul progetto per la realizzazione del carcere di Nola. Dalle sue parole sembrano esserci le premesse per dare corso a una nuova stagione progettuale in grado di fornire edifici carcerari rispondenti alle esigenze della gestione penitenziaria più avanzata e alle istanze costituzionali in materia di esecuzione penale, oltre che ai bisogni materiali e psicologici di detenuti e personale, attraverso soluzioni architettoniche di avanguardia. Così, purtroppo, non è. Le condizioni avverse a tale corso sono rappresentate dalla mancanza di veri strumenti culturali in grado di affrontare coerentemente il tema della progettazione carceraria, cui si affiancano l’insensibilità politica e della cultura architettonica al tema e la burocrazia. La vicenda progettuale del carcere di Nola è emblematica in tal senso. Il progetto è quello del bando ministeriale per la costruzione del nuovo istituto penitenziario del 2017, elaborato dagli uffici tecnici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Nelle intenzioni il nuovo istituto doveva essere il primo in Italia scaturito da quanto pensato e stabilito dai tecnici del tavolo numero uno degli Stati generali dell’esecuzione penale nel 2015. Il tavolo era coordinato dall’architetto Luca Zevi composto da altri architetti, tra i quali il sottoscritto, operatori penitenziari e della giustizia chiamati dall’allora guardasigilli Andrea Orlando a individuare interventi architettonici negli istituti esistenti e a elaborare nuove configurazioni degli spazi della pena in linea con le istanze internazionali più progredite in materia di trattamento penitenziario. Quel progetto ministeriale palesò fin da subito una netta discontinuità rispetto alle indicazioni del tavolo numero uno, caratterizzandosi negativamente in termini di localizzazione, capienza e soluzioni architettoniche. Gli stessi elementi di negatività furono rilevati e stigmatizzati in occasione del dibattito che si tenne il 22 marzo 2017 presso l’università di Roma Tre sul tema “Spazio della pena e architettura carceraria, il caso Nola dopo gli Stati generali dell’esecuzione penale”, alla presenza, tra gli altri, dell’allora sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri. Lo stesso sottosegretario, in quella sede, prese atto e ammise che, nel caso del progetto del carcere di Nola, era venuto a mancare il rispetto delle linee guida e degli indirizzi fondamentali previsti per quel tipo di struttura. In quella circostanza lo stesso rappresentante dell’Ordine degli architetti di Roma evidenziò giustamente anche l’errata scelta dell’amministrazione penitenziaria, la quale, invece di bandire un concorso di idee progettuali, preferì ricorrere a una gara più sbrigativa, sostanzialmente basata su un’offerta tecnica ed economica al ribasso. Nonostante tutto, oggi come allora, quel progetto continua da qualcuno a essere decantato pur contraddicendo i contenuti del lavoro portato avanti dall’apposito tavolo ministeriale. L’attuale ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sembrerebbe aver sconfessato quel progetto esprimendo l’intenzione di annullarne la realizzazione. L’iter procedurale per la costruzione di quell’opera, in carico al Provveditorato regionale delle opere pubbliche della Campania, avviato nel 2014, però, non risulterebbe al momento interrotto. Lo stato di sovraffollamento cronico delle nostre carceri, tutt’ora presente e ulteriormente aggravato dall’emergenza-Covid, la cui soluzione sarebbe riconducibile alla realizzazione pressoché immediata di almeno 10mila posti letto (singoli), richiederebbe ben altre risposte e tempistiche, ma anche apporti culturali. Alle vicende descritte potremmo attribuire, senza tema di smentita, l’espressione “miseria delle nostre carceri”, che, con riferimento allo stato materiale delle infrastrutture penitenziarie del nostro Paese, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano proferì nel 2013, a seguito della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani. *Architetto esperto di edilizia penitenziaria Palermo. Delegazione Pd fa visita al carcere Pagliarelli. “Il governo sarà aggiornato” di Roberto Puglisi livesicilia.it, 1 settembre 2020 Carcere, qualcosa si muove? Si legge in una lunga nota: “Dopo il caso dei tre suicidi in poco meno di un mese, avvenuti al carcere Lo Russo-Pagliarelli di Palermo, questa mattina il segretario regionale del Partito Democratico e deputato regionale, Anthony Barbagallo con il deputato nazionale e responsabile dell’area “Sicurezza” della segreteria nazionale, Carmelo Miceli, hanno compiuto un accesso ispettivo nella casa circondariale del capoluogo siciliano. Presente anche Elisa Carbone, sindaco di Sommatino e componente della segreteria regionale del Pd. “I parlamentari hanno incontrato la direttrice dell’Istituto, Francesca Vazzana, con la quale si sono intrattenuti raccogliendo alcune indicazioni in particolare per quanto riguarda la carenza di personale sanitario, della polizia penitenziaria e l’assenza di supporto psicologico per il personale della “‘penitenziaria’”. “Tutela dei detenuti” - “Siamo molto preoccupati - ha detto Barbagallo, al termine della visita - non soltanto dalla vicinanza ma anche dal numero dei suicidi avvenuti al Pagliarelli. Come Partito Democratico riteniamo che vada assistita e garantita la necessaria tutela ai detenuti. Bisogna inoltre garantire migliori piani terapeutici, incrementare il numero degli educatori, evitare il sovraffollamento e proporre misure alternative alla detenzione che possano alleviare, in alcuni casi, le misure che non sono più confacenti con la natura del reato e la durata della pena”. “Torneremo a breve” - “Questo è solo il primo step - aggiunge il deputato nazionale, Carmelo Miceli - di un percorso che ci vedrà costantemente tenere aggiornato il governo. Abbiamo sentito il sottosegretario Giorgis, prima e dopo l’atto ispettivo. E insieme a lui abbiamo immaginato di tornare a breve - conclude - per ascoltare le istanze dei detenuti, del personale e del direttore che vivono l’istituto tutti i giorni”. La situazione è talmente seria che, nonostante le numerose promesse mai mantenute in passato da esponenti politici bipartisan, registriamo con una circospetta soddisfazione la visita dei parlamentari che comunque rimane un fatto rilevante. Un’estate difficile - Il problema era stato imposto dalla cronaca di una estate difficile, per i detenuti e per il personale della polizia penitenziaria, sfociata in gesti terribili. Il professore Giovanni Fiandaca, garante dei diritti dei detenuti in Sicilia, era già intervenuto con una sua riflessione pubblicata dal nostro giornale. Il carcere, mondo sommerso, di colpe, sofferenze e silenzi, è la polvere sotto il tappeto, la parte brutta che non vogliamo vedere. Per questo non sa offrire speranza e imprigiona tutti. Per questo è più che mai necessario non ‘buttare la chiavè come si legge talvolta. Ma inserirla nella toppa e fare entrare aria fresca. Lecce. “L’infermeria del carcere? Un inferno”, il grido d’allarme dell’Osapp di Francesco Valerini leccenews24.it, 1 settembre 2020 Per il vice segretario regionale Osapp Puglia sono gravissime le disfunzioni nel reparto infermeria di Borgo San Nicola: “Si aspetta la tragedia?”. Un vero e proprio “Inferno”, così vien descritto dal sindacato Osapp il primo piano del reparto infermeria del carcere di Lecce, dove la gestione dei detenuti affetti da problemi psichiatrici è affidata, salvo somministrazione di cure farmaceutiche, agli agenti della polizia penitenziaria che si sostituiscono al personale sanitario. Il più rappresentativo sindacato di categoria chiede l’intervento di tutte le figure professionali e istituzionali per portare nelle sedi opportune le problematiche in cui versa il personale addetto alla sicurezza del complesso detentivo. “Il compito Istituzionale del poliziotto è quello della sicurezza - dichiara Ruggiero Damato, vicesegretario regionale Osapp Puglia - e non quello sanitario, vogliamo essere chiari e decisi; di fatto tali persone detenute affette da problemi psichiatrici non dovrebbero essere rinchiuse e gestite all’interno di un carcere per l’espletazione della pena e scaricati letteralmente ai poliziotti che non hanno né le competenze né i mezzi per la loro gestione”. A Borgo San Nicola, a quanto dichiara in una nota l’Osapp, la gestione di tali detenuti psichiatrici è data al poliziotto assegnato al turno di servizio che si deve sostituire a “infermieri e psicologi” soprattutto nei turni pomeridiani e serali quando manca il personale medico. “Le insistenti richieste di ogni genere, i continui gesti autolesivi e le prevaricazioni fra detenuti rendono la qualità del servizio dell’agente penitenziario a dir poco logorante per il fisico e per la mente” conclude Ruggiero Damato. Ascoli Piceno. Si amplia l’orto sociale all’interno del carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 1 settembre 2020 Non solo alberi di olivo e piante aromatiche, nell’orto sociale del carcere di Ascoli Piceno dalla prossima stagione potranno iniziarsi a raccogliere anche cavolfiori, broccoli, verze, cavoli cappucci, finocchi e insalata. Le piantine sono state messe a dimora qualche giorno fa nel corso di un incontro in cui la vice presidente della Regione Marche Anna Casini e la direttrice del carcere Eleonora Consoli hanno presentato la nuova versione dell’orto, ampliato dall’Assam (Agenzia regionale per i servizi agricoli), irrigato grazie alla collaborazione del Consorzio Idrico Piceno. L’attività all’interno della Casa circondariale di Marino del Tronto non è finalizzata alla commercializzazione: i prodotti saranno coltivati e consumati dagli stessi detenuti affidatari dell’orto sociale che potranno così sperimentare la gestione in autonomia di un impegno responsabilizzante e produttivo. Il progetto Orto sociale in carcere, realizzato grazie a un protocollo siglato insieme all’Amministrazione penitenziaria Emilia Romagna-Marche, è in corso anche ad Ancona Barcaglione e in futuro sarà esteso anche negli istituti penitenziari di Ancona Montacuto e a Pesaro. Per completare il ciclo coltivazione-consumo, gli organizzatori stanno studiando l’allestimento di un corso sull’utilizzo in cucina dei prodotti provenienti dall’orto. La mafia spiegata ai piccoli, Borsellino e Falcone come Iron Man di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 1 settembre 2020 “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”, edito da Feltrinelli. Pietro Grasso, collega e amico dei magistrati assassinati, ne ripercorre l’impegno. L’introduzione è di Pif. La mafia uccide solo d’estate, ha raccontato nel suo film Pif. Ma l’antimafia può essere raccontata d’estate ai ragazzi prima di tornare a scuola, come fa Pietro Grasso catturando l’attenzione con un nuovo libro dedicato ai giovani. Proponendo loro parole ed emozioni, impegno e successi del giudice caduto in via D’Amelio. Un testo, Paolo Borsellino parla ai ragazzi, ricco di aneddoti anche su Giovanni Falcone. Una storia sui due eroi uccisi dalla mafia nel 1992. Gli amici più cari di Grasso che ha guidato la procura di Palermo e quella nazionale. A loro è dedicato quest’affresco offerto con linguaggio semplice dall’ex presidente del Senato completando alcune risposte che Borsellino non ebbe il tempo di scrivere per un questionario degli studenti di Padova. Geniale l’esordio affidato alla prefazione di Pif, l’estroverso regista-scrittore sempre pronto a deridere la mafia con battute capaci di denunciare la pochezza di goffi padrini. Certo che, oltre quello contro il Covid, ci voglia un vaccino anche contro la mafia. Ma, mentre nei laboratori di tutto il mondo si cerca il primo, quello anti-mafia esiste già, ci informa Pif. Da cosa sia venuto fuori il coronavirus è ancora dubbio. Forse un pipistrello. Si sa invece da cosa è stata prodotta la malapianta della mafia. “Dall’uomo”. E, dice Pif, “essendo stata creata dall’uomo, può essere distrutta”. Ma a una sola condizione: “Bisogna avere voglia di distruggerla”. Usando il vaccino disponibile: “Per esempio, basta leggere e mettere in pratica le parole scritte in questo libro”. Forse anche per agganciare i lettori più giovani, Pif usa una delle sue spassose metafore esaltando il salutare impegno di tanti servitori dello Stato e di semplici cittadini dediti al proprio lavoro, nel rispetto delle regole civili. Li definisce e si autodefinisce scassaminchia. Così Pif, parafrasando Bertolt Brecht (“un mio collega scrittore tedesco”), rimodula la massima: “Beati i popoli che non hanno bisogno di scassaminchia!”. Nell’ultimo giorno della sua vita, all’alba del 19 luglio, Borsellino scrisse le prime tre risposte alle 9 domande inviate dai ragazzi del liceo Cornaro di Padova. Da quelle è ripartito Grasso, raccontando anche la sua stessa vita, compresi i tormenti legati agli avvertimenti contro la moglie, Maria Fedele, seguita per strada da brutti ceffi, oggetto di lettere anonime con minaccia di sfregiarle il volto, una macchina tranciata in 4 quarti. Pronta sempre a incoraggiarlo: “Il tuo dovere è andare avanti, quel che ne seguirà lo affronteremo insieme”. Riecheggiano le stesse angosce di Francesca Morvillo, uccisa con il marito a Capaci, e della signora Agnese, felice nella foto del matrimonio con il suo Paolo e con i figli, Manfredi, Lucia e Fiammetta, che a Grasso hanno concesso tante istantanee di famiglia. Efficaci come i disegni che nel testo illustrano gerarchia, fiancheggiatori, strutture dell’organizzazione, dalla “cupola” provinciale a quella regionale. Un racconto elementare. Con Grasso che parla ai giovani citando i tanti film sui supereroi visti, nonno premuroso, con il nipotino. Parla di superpoteri ma spiega che “quei giudici non avevano armature mirabolanti tipo Iron Man”. Perché magistrati come Falcone, Borsellino o Rocco Chinnici “l’unica cosa che avevano d’acciaio era la volontà di giustizia e la capacità di impegnarsi ogni giorno per raggiungere i propri obiettivi”. Quindi: “Seguitene l’esempio, e farete la scelta giusta”. Chi prende in giro il Terzo settore? Le ipocrisie e i falsi alleati di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 1 settembre 2020 Il capitale sociale del Paese durante la crisi ha fatto la differenza, ma ha falsi alleati e molte criticità sono irrisolte. La Riforma non è del tutto attuata e manca una politica specifica sulla “social economy” su cui l’Europa ha messo attenzione. A parole sono tutti d’accordo. Il capitale sociale italiano è la polizza assicurativa del Paese e il volontariato la spina dorsale della cittadinanza. Il Bene però ha due nemici: il conformismo e l’ipocrisia. E, dunque, troppi falsi alleati. Nel momento in cui Buone Notizie, dopo la pausa estiva, riprende il suo percorso, vorremmo rivolgere al governo e alla maggioranza che lo sostiene una semplice domanda. “Il futuro del Terzo Settore è tra le vostre priorità o lo state soltanto prendendo in giro con false promesse e pacche sulle spalle?”. Chiediamo scusa per la brutalità del quesito ma spesso la sintesi estrema è indispensabile alla chiarezza. Riassumiamo quello che è successo in questi mesi. La pandemia ha aperto una ferita profonda nella società, rivelato i limiti dell’assistenza pubblica e privata, mostrato la fragilità fisica e sociale delle persone più anziane, allargato l’area della povertà materiale ed educativa. Lo sforzo delle istituzioni è stato rilevante, l’insieme degli aiuti predisposti dal governo ingente - e speriamo efficace - ha interessato anche le tante associazioni del privato sociale. Ma senza l’aiuto del Terzo Settore e del volontariato le sofferenze umane sarebbero state superiori, le solitudini personali maggiormente dolorose, il costo economico ancora più devastante. L’autunno è alle porte. La preoccupazione, per la diffusione del virus e per le sue pesanti ricadute economiche, cresce ogni giorno che passa. L’universo delle organizzazioni di volontariato è impegnato su più fronti. Molte associazioni affrontano una crisi di donazioni, indebolite dalla recessione e dalla comprensibile convergenza dei finanziamenti su ospedali e ricerca, eppure non riducono il livello del loro servizio. Si fanno in quattro. Il welfare non è solo sanità. È fatto anche di altre cure, sostegni, vicinanze, affetti. Un insieme di gesti solidali che finora ha contributo a garantire un accettabile livello di coesione. Un cuscino sociale, chiamiamolo così, a disposizione della parte più debole del Paese, degli invisibili, dei dimenticati. Se la coesione terrà, se riusciremo a lasciarci alle spalle questo terribile 2020, lo si dovrà anche all’esercito del bene. Una parte del Paese che non chiede soldi pubblici, bonus, sussidi. Certo ha avuto qualche risorsa aggiuntiva, oltre il cinque per mille, ma di soli cento milioni. Per i monopattini se ne sono spesi 120 in incentivi. Ma non importa. Il Terzo Settore si sostiene soprattutto con la generosità degli italiani che non ha eguali al mondo. Le associazioni chiedono altro: considerazione della loro centralità, regole certe, attenzione programmatica. La legge sul Terzo Settore, varata dal governo Renzi, una buona legge, è in gran parte inattuata. Non è ancora stato emanato il decreto sul Registro unico (Runts) senza il quale gli statuti già approvati restano sospesi. Non è stata ancora inviata la richiesta di autorizzazione alla Commissione europea per le disposizioni fiscali previste dal Codice del Terzo Settore. La ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, non ha mai conferito ai suoi vice la delega necessaria, salvo quella, limitata all’impresa sociale, al grillino Stanislao Di Piazza. La legge che istituisce la lotteria filantropica, da tempo approvata, attende un decreto attuativo. Se fosse già operativa avremmo convogliato donazioni private (non soldi pubblici) a favore del bene comune e delle necessità di chi ha più bisogno. Questa disattenzione, al limite della sciatteria, mette in luce una quantità di pregiudizi nei confronti del privato sociale che, ahinoi, i Cinque Stelle sono riusciti a trasferire anche al Pd. Ovvero: l’idea di fondo che sia il terreno sul quale si esercita una carità pelosa di famiglie abbienti e imprese desiderose di farsi perdonare chissà quale inadempienza se non delitto. Un’attività che il principio di sussidiarietà sottrae colpevolmente all’invadenza della politica e che, nel magico mondo ideale dei grillini, dovrebbe essere esercitata in esclusiva dallo Stato. Unico titolare del bene comune. Un pregiudizio non guidato da interessi di parte (come quelli che contrastarono a suo tempo l’istituzione delle Onlus con il progetto di Stefano Zamagni), piuttosto una diffidenza alimentata da scarse conoscenze e superficialità. Nei confronti della vasta e benemerita presenza cattolica si consuma poi un radicato sospetto, in fondo autoritario, del tutto simile a quello ben più visibile nei confronti della scuola privata. Stupisce l’accondiscendenza degli altri partner di governo, nonostante il Pd abbia dato la delega al Terzo Settore a una persona capace come Stefano Lepri. Ma non c’è solo questo. C’è dell’altro e riguarda l’intera economia e, soprattutto, la nostra capacità nell’impiegare le risorse europee. Mentre noi non abbiamo alcuna vera delega sull’argomento, nella Commissione von der Leyen, c’è un commissario con una delega speciale all’economia sociale, il lussemburghese Nicolas Schmit. L’Action plan for social economy è parte costitutiva e qualificante della politica dell’esecutivo di Bruxelles. La distribuzione dei fondi di coesione, nel bilancio europeo 2021-27, sarà determinata dall’impegno dei Paesi membri in questa direzione. La credibilità degli investimenti che l’Italia proporrà, all’interno di Next Generation Eu, sarà legata alla capacità di promuovere interventi a favore della sostenibilità ambientale e sociale. Dimenticarsi delle tante associazioni di volontariato, che già lavorano su questo fronte, non è solo miope ma persino suicida. Migranti. Quel respingimento era illegale: visto per 5 eritrei dopo 10 anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2020 Dopo più di dieci anni e dopo una tortuosa traversata fatta di prigionia e abusi, sono arrivati domenica scorsa all’aeroporto di Fiumicino i cinque cittadini eritrei a cui il Tribunale di Roma ha riconosciuto il diritto a fare ingresso sul territorio per poter accedere alla domanda di protezione internazionale. Questo è accaduto, però, dopo che l’Italia li aveva soccorsi con una nave della Marina militare nel mar Mediterraneo e illegalmente respinti in Libia nel 2009. Assistiti dagli avvocati Cristina Laura Cecchini e Salvatore Fachile dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e sostenuti dalla documentazione fornita da Amnesty International Italia, hanno presentato ricorso al Tribunale civile di Roma che, il 28 novembre 2019, con la sentenza 22.917, ha dichiarato illegittimo il respingimento, ordinato il rilascio di un visto d’ingresso per permettere di accedere alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e ha condannato le autorità italiane al risarcimento del danno. La sentenza ha affermato che al fine di rendere effettivo il diritto di asilo è necessario “espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione dei principi costituzionali e della Carta dei diritti dell’Unione europea”. Ripercorriamo tutta la vicenda. Il 27 giugno 2009, 89 persone (di cui 75 eritrei, 9 donne e 3 bambini) dopo essere fuggiti dal proprio Paese di origine, sono partite dalle coste libiche a bordo di un’imbarcazione con l’obiettivo di arrivare in Italia e vedere finalmente riconosciuto il proprio diritto alla protezione internazionale. I richiedenti asilo narrano che erano circa le quattro del mattino quando hanno salpato con un gommone scortati solo per qualche miglio lontano dalla costa libica dai trafficanti che avevano organizzato la loro partenza dietro il pagamento di un corrispettivo. Sull’imbarcazione sono state caricate dai trafficanti solo poche taniche di acqua e di benzina in uno spazio che era estremamente limitato. A causa di numerose avarie del motore, il viaggio si è prolungato. Dopo 4 giorni in mare, il 30 giugno 2009, ormai a poche miglia da Lampedusa il motore si è definitivamente rotto. Alcune persone, per mezzo dei cellulari a loro disposizione, hanno provato a contattare amici o parenti già in Europa sperando che qualcuno potesse attivare un intervento. Stavano per morire tutti. Solo nel tardo pomeriggio, quando ormai quasi ogni speranza era scomparsa, giunge l’imbarcazione della Marina Militare italiana e li hanno soccorsi. Tutti estremamente felici sicuri che sarebbero finalmente stati condotti sul territorio italiano dove avrebbero potuto finalmente chiedere protezione. Purtroppo non è stato così. Non si sono diretti verso l’Italia, ma li hanno riportati in Libia. Alcuni hanno protestato, ma secondo le testimonianze la marina italiana avrebbe reagito con violenza. Fatto sta che sono stati tutti respinti dall’autorità italiana senza alcuna formalità (nessun provvedimento è mai stato loro consegnato) e in maniera collettiva senza avere avuto accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. Come detto, a bordo della motovedetta italiana sono stati invece ricondotti in Libia dove, giunti sul territorio, dopo essere stati brutalmente e indiscriminatamente picchiati venivano detenuti per lunghi mesi nelle prigioni di Zuwarah, Misurata e Towisha. Dopo molti mesi di prigionia nel corso dei quali i richiedenti asilo raccontano di essere stati detenuti dalle autorità libiche in condizioni inumane e degradanti e sottoposti altresì a numerose violenze e torture, lentamente, uno ad uno venivano rilasciati. Alcuni di loro nonostante i respingimenti che le autorità italiane continuavano a porre in essere, hanno ritentato la traversata del Canale di Sicilia in alcuni casi perdendo la vita. Alcuni sono morti tra il 2010 e il 2011 a seguito di naufragio. Altri sono riusciti a raggiungere le coste italiane nuovamente negli anni successivi e dopo essere giunti in vari Paesi Europei quali la Germania e la Svizzera hanno inoltrato la domanda di protezione internazionale ottenendo successivamente il riconoscimento. Sono 16 gli Eritrei che hanno deciso di non correre nuovamente i rischi di un viaggio in mare e di tentare di raggiungere l’Europa via terra. Per questa ragione dopo aver attraversato l’Egitto e il deserto del Sinai sono giunti in Israele dove, però, il loro viaggio è terminato. Amnesty International attraverso le sue sedi dislocate in vari Paesi (Italia, Svizzera, Olanda, Regno Unito, Israele) è riuscita a rintracciare alcuni dei respinti i quali si sono riconosciuti nei video che hanno documentato quei drammatici momenti. Amnesty International, grazie ad un team composto anche da psicologi ed antropologi e a seguito di numerosi colloqui e interviste, ha provato ad intercettare ed interpretare le esigenze e le richieste di questi migranti. Nasce quindi da una volontà di aiuto, l’idea di una causa dinanzi al Tribunale Civile di Roma per coloro che sono stati vittime di questa prassi illegittima perpetrata dalle forze militari italiane per oltre due anni. L’azione, in favore di 14 dei 16 eritrei, è stata patrocinata dagli avvocati Cristina Laura Cecchini e Salvatore Fachile di Asgi, mentre Amnesty International ha fornito sostegno, attraverso documenti e ricerche necessari per istruire la causa. Nella causa intentata il 25 giugno 2014, i ricorrenti hanno chiesto l’affermazione del loro diritto a fare ingresso in Italia per accedere alla protezione internazionale e il risarcimento dei danni subiti a seguito del respingimento illegale. Il 28 novembre 2019, con la sentenza 22917, la prima sezione del Tribunale civile di Roma ha dato ragione ai ricorrenti, ordinando il rilascio di un visto di ingresso per poter accedere alla procedura di asilo e condannando il governo al risarcimento dei danni materiali. “Siamo felici di essere qui. Abbiamo ripreso ad avere fiducia nella giustizia ora speriamo di avere la protezione di cui abbiamo bisogno”, ha dichiarato uno dei cinque cittadini eritrei atterrati domenica scorsa a Fiumicino. Dopo il periodo di quarantena previsto dalle norme vigenti, i cinque cittadini eritrei potranno finalmente avviare la procedura per chiedere all’Italia il riconoscimento della protezione internazionale ed ottenere, finalmente, tutti i diritti che ne conseguono. Nei prossimi mesi dovranno giungere in Italia anche altre tre dei respinti, oggi sostenuti dall’organizzazione non governativa Assaf, che sono ancora bloccati in Israele in ragione del fatto che hanno costruito una famiglia. È stata infatti avanzata la richiesta per permettere l’ingresso anche di moglie e figli a seguito viste le condizioni in cui si trovano sul territorio israeliano e i rischi connessi. Si è in attesa delle determinazioni dell’autorità consolare. La sentenza ha aperto indubbiamente uno scenario estremamente interessante creando problemi con la logica dei respingimenti e soprattutto con la gestione della rotta mediterranea attuata attraverso la collaborazione italiana con le autorità libiche. Storie di persone coraggiose, recluse senza acqua né cibo e in lotta per i loro diritti di Adriano Sofri Il Foglio, 1 settembre 2020 L’avvocata turca Ebru Timtik, 42 anni, è morta giovedì dopo uno sciopero della fame condotto in prigionia per ben 238 giorni, quando era ridotta a pesare 30 chili. Timtik era stata arrestata nel 2018 e condannata a 13 anni e 6 mesi. Era accusata di aver servito da corriere con i detenuti, di cui aveva la difesa, di un’organizzazione clandestina marxista-leninista, il Dhkp-c, Fronte di Liberazione del Popolo Rivoluzionario, autore di attentati omicidi ed esplosioni suicide rivendicate fra gli anni Novanta e il 2015. Timtik, e con lei altri 17 avvocati, facevano parte di un gruppo di legali che assicurano la difesa di imputati di delitti politici. Timtik aveva rappresentato la famiglia di Berkin Elvan, l’adolescente ucciso da un lacrimogeno durante le manifestazioni di Gezi Park nel giugno del 2013, le famiglie dei 301 minatori morti nella miniera di carbone di Soma nel 2014, e Engin Çeber, il ventinovenne attivista per i diritti umani morto per le torture mentre era in custodia della polizia, nel 2008. Lo sciopero della fame di Timtik e del suo collega Aytaç Ünsal, 32 anni, arrivato a 209 giorni e a sua volta in condizioni estreme, denuncia l’illegalità mostruosa dei procedimenti seguiti nei loro confronti. Dopo che la corte competente a giudicarli aveva ordinato il loro rilascio per l’insussistenza delle prove a carico, il Consiglio giudiziario, ormai sottoposto agli ordini del governo, aveva insediato da un giorno all’altro nuovi giudici che avevano annullato l’ordinanza di rilascio. Al processo, l’intera accusa si fondava su una unica fonte, un detenuto, restata anonima se non per le iniziali, I.Ö. La Federazione degli ordini degli avvocati europei ha pubblicato la petizione che, per il tramite di un suo legale, l’accusatore segreto in questione aveva indirizzato alla Corte suprema d’appello: vi dichiarava che la sua testimonianza non doveva essere considerata a causa dei suoi problemi mentali, comprese le allucinazioni. La petizione includeva i referti medici a sostegno. Negli ultimi giorni, la Cassazione turca aveva respinto una richiesta di liberazione di Timtik corredata dalla documentazione medica, sostenendo che non fosse in pericolo di vita e che potesse comunque essere seguita da detenuta. Digiuni così spaventosamente prolungati sono diventati una triste abitudine delle galere turche e una fonte di ispirazione per l’infamia degli scettici. I digiuni di Gandhi duravano pochi giorni, e i più lunghi toccarono i 21 giorni. Timtik e i suoi prendono solo acqua zuccherata e tisane, alla fine solo acqua per iniezione. Come si può digiunare tanto a lungo? Si può, e alla fine si muore. Erano morti di fame altri tre quest’anno, musicisti popolari fatti passare per terroristi: i componenti della band folk Grup Yorum che rivendicavano il diritto a suonare e cantare la loro musica, Helin Bölek, 28 anni, la cantante, dopo 288 giorni di sciopero della fame, il loro compagno e attivista Mustafa Koçak, 28 anni anche lui, che digiunava da 296 giorni, e il bassista, Ibrahim Gökçek, dopo 323 giorni, 40 anni e 40 chili. L’intera professione della difesa è violentata nel regime corrente della Turchia di Erdogan e nella sua pratica. Carcerazioni e condanne servono a intimidire gli avvocati, a farli rinunciare o vacillare nella difesa dei casi politici. La situazione delle carceri è orribile. Il paragone più stretto riguarda l’Iran. In Iran, come in Turchia, le misure di riduzione del numero dei detenuti per il Covid-19 sono state consistenti, ma hanno escluso a priori i detenuti politici. Pen International e Amnesty hanno appena raccolto l’appello per la famosa avvocata iraniana per i diritti umani, e in particolare per le donne, Nasrin Sotoudeh, 57 anni, Premio Sakharov del Parlamento europeo. Sotoudeh ha cominciato l’11 agosto il suo nuovo sciopero della fame nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, dov’è detenuta in isolamento. Nell’appello di suo marito viene descritta in condizioni allarmanti, aggravate dall’incuria dei carcerieri per il contagio del Covid che infesta l’Iran. Sotoudeh era stata già imprigionata tra il 2011 e il 2014, per “propaganda contro lo stato” e “collusione contro la sicurezza nazionale”. È stata arrestata di nuovo nel giugno 2018, accusata di essere “comparsa davanti alla Corte senza lo hijab islamico” e di “promuovere la prostituzione, l’immoralità e l’indecenza”. È stata condannata in più processi a un totale di 38 anni e 6 mesi, e 148 frustate. Una sorella di Ebru Timtik, Barkin, è anche lei detenuta nel carcere di massima sicurezza turco di Silivri. Non le è stato permesso di partecipare al funerale, c’era “il pericolo del contagio”. La figlia ventenne di Nasrin Sotoudeh, Mehraveh Khandan, è stata arrestata il 20 agosto, nove giorni dopo l’inizio del digiuno di sua madre. Accusata di “insulto e aggressione” durante un colloquio in carcere, è stata poi rilasciata su cauzione. Destini di persone coraggiose e delle loro coraggiose care. Turchia. Le toghe scrivono ad Erdogan: “Basta torture, è ora di ripristinare i diritti” di Simona Musco Il Dubbio, 1 settembre 2020 Non solo gli avvocati: anche la magistratura in Turchia è vittima della repressione di Recep Tayyip Erdogan. Un fenomeno in costante aumento, sin dal mancato golpe del 2016, denunciato ieri con un duro documento dalla Piattaforma per l’indipendenza dei giudici in Turchia, nel quale viene ribadita la pressione indebita subita dalle toghe, con una richiesta esplicita al governo turco di fermare le violenze arbitrarie e ripristinare il rispetto dei principi dello Stato di diritto. Un documento inviato non solo al governo di Erdogan, ma anche al Consiglio d’Europa e alle istituzioni dell’Unione europea, invitato, invece, a monitorare la situazione e a richiedere il rispetto degli standard europei di giustizia. Nel documento viene ripercorso il periodo successivo al tentativo fallito di colpo di Stato, che ha provocato un vero e proprio terremoto seguito da una campagna senza precedenti per distruggere lo Stato di diritto, l’azione dell’avvocatura libera e l’indipendenza della magistratura. Nelle ore successive al colpo di stato, migliaia di giudici e pubblici ministeri sono stati arrestati con dubbie accuse di legami con organizzazioni terroristiche, sulla base di un elenco di nomi evidentemente stilato molto prima del colpo di Stato. Giudici e pubblici ministeri sono stati detenuti in carceri comuni, in celle sovraffollate o in isolamento, in condizioni che violano i più elementari diritti umani, per poi essere definitivamente licenziati senza un processo equo e contraddittorio e vedersi congelare i beni. Non solo, a quei magistrati è stato vietato di superare i confini del paese, mentre l’associazione che li rappresentava autonomamente (Yarsav) è stata sciolta amministrativamente. Oltre l’arresto e l’azzeramento della vita professionale, le toghe sono state anche vittime di brutali aggressioni e maltrattamenti in prigione. I casi riportati dai magistrati firmatari dell’appello sono tanti, come quello del giudice Mehmet Tosun, rimasto in carcere in condizioni gravi nonostante una malattia autoimmune e maltrattato fino a portarlo alla morte, avvenuta il 6 marzo 2017, a soli 29 anni; o quello del giudice Sultani Temel, in carcere dal 16 gennaio 2017 (ad eccezione del periodo dal 5 ottobre 2017 al 6 giugno 2018), in parte anche assieme alla figlia di cinque anni, afflitto da una depressione maggiore, senza per ciò poter avere accesso a cure mediche adeguate. O, ancora, il caso del giudice Hüsamettin Ugur, in isolamento dal luglio 2016. Secondo sua figlia, Ugur sarebbe stato picchiato da quattro guardie in una stanza senza telecamere, il 17 febbraio scorso. “Quando lo hanno lasciato da solo dopo che è crollato a terra, hanno detto: “Solo il tuo cadavere se ne andrà qui”, ha scritto in un Tweet la donna, rivelando inoltre che le guardie hanno successivamente falsificato un rapporto medico nel quale veniva falsamente certificato che era stato il giudice ad attaccarle, in modo che non potesse sporgere denuncia. Sui trattamenti inumani perpetrati in carcere in Turchia si è espressa anche l’Europa, con il report stilato ad agosto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del Consiglio d’Europa, nel quale vengono riportati esempi dettagliati di tortura e maltrattamenti, nonché un sistema inaffidabile di controlli medici. Il rapporto rimarrà riservato fino a quando le autorità dello Stato interessato non ne chiedano la pubblicazione, cosa che la Turchia, ovviamente, non ha fatto. Nel rapporto, spiega la magistratura turca, “viene chiarito che i risultati (non pubblicati) della visita di agosto/settembre 2016 hanno mostrato un numero elevato di accuse di maltrattamenti fisici alle forze dell’ordine da parte di persone detenute finite in cella con l’accusa di terrorismo, reati connessi al tentativo di colpo di stato militare del 15 luglio 2016”. Dati che danno dunque ragione alle denunce avanzate dalla Piattaforma per l’indipendenza della magistratura in Turchia e che confermano “che tortura o maltrattamenti sono stati usati per ottenere (false) confessioni o informazioni - si legge nella nota della Piattaforma. Nessun processo penale basato su tali elementi di prova può essere considerato un processo equo”. Giudici e magistrati - così come tutti gli altri dissidenti finiti ingiustamente in cella senza un processo equo per aver rivendicato diritti fondamentali - sono, dunque, tuttora a rischio. L’appello alle autorità turche è quindi di fermare e porre rimedio all’arresto arbitrario, alla detenzione e al perseguimento illecito di giudici e pubblici ministeri e di cancellare licenziamenti e confische ingiusti, garantendo il rispetto delle regole penitenziarie europee, con conseguenze penali per coloro che le violano. Ma anche di prevenire, indagare e punire l’uso della tortura e dei maltrattamenti (inclusa la reclusione prolungata per anni) da parte di funzionari statali. Dal canto suo, la Commissione europea e il Consiglio d’Europa vengono sollecitati a convincere le autorità turche a rispettare i principi di diritto e monitorare gli sviluppi riguardanti il sistema giudiziario turco. Nigeria. Black lives matter? Solo se conviene: il caso Sharif di Guido Salvini* Il Dubbio, 1 settembre 2020 La condanna a morte del cantante nigeriano quasi ignorata dai grandi media. L’afroamericano George Floyd è morto sotto gli stivali di un poliziotto bianco, soffocato, metaforicamente dal razzismo e tutti, in Italia e in ogni parte del mondo, abbiamo espresso la nostra indignazione per quella violenza che non è né casuale né isolata. Ma un altro “nero” rischia di essere tra poco soffocato, questa volta con una corda al collo, per via legale e nel silenzio di tutti. Parlo del cantante ventiduenne Yahaya Aminu Sharif, condannato a morte per impiccagione da una Corte islamica del Nord della Nigeria dopo un processo a porte chiuse. La sua colpa sarebbe quella di avere “offeso” in una canzone il Profeta. Yahaya appartiene ad una delle confraternite sufi, spesso accusate di eresia perché sono la tendenza più mistica, pacifica e tollerante dell’Islam. Prima del processo e per chiedere la sua condanna una folla di islamici radicali aveva incendiato la casa di Yahaya. In Italia pochissimi giornali ne hanno parlato. La condanna di Yahaya è stata emessa nel quadro di una progressiva espansione del radicalismo islamico in Nigeria, di cui le bande di Boko Haram sono solo una delle espressioni. In un numero sempre maggiori di aree di questo grande stato africano è in atto una violenza sistematica e quasi genocidiaria in danno della popolazione cristiana e di alcune minoranze. Negli ultimi vent’anni quasi 100.000 cristiani sono stati uccisi in attacchi terroristici islamici contro villaggi, molti erano anziani, donne che sono state stuprate e mutilate mentre le ragazze sono state spesso rapite. In dodici tra gli Stati di cui si compone la Nigeria federale è ormai in vigore la Sharia, e i cristiani che vi abitano hanno pochissimo spazio vitale. La legge islamica prevede la pena di morte per l’apostasia e la blasfemia, il taglio delle mani anche per reati minori, divieti di ogni genere dal campo della scuola, a quello della cultura a quello della musica. Vi sono conversioni forzate all’Islam e ovviamente la sottomissione delle donne. Non sono cristiano e quindi leggo queste notizie senza pregiudizi di parte. Probabilmente i cristiani nigeriani sono la popolazione più perseguitata nel mondo dal razzismo religioso. Certo all’interno di questi pogrom africani ci sono anche ragioni sociali ed economiche ma senza il fanatismo religioso non avrebbero assolutamente raggiunto tale violenza. Ci sono tragedie che non interessano perché, secondo una percezione corrente, è “sbagliato” il luogo ove avvengono e sono “sbagliati” le vittime e i colpevoli. In Italia i progressisti, soprattutto quelli colti e radical chic, di queste cose non si interessano. Sono da sempre filoislamici, forse per un inconscio senso di rivincita, perché gli islamici sono riusciti a colpire gli odiati Usa meglio di loro. La destra pensa soprattutto ai suoi affari. E in generale, purtroppo, ci si impegna per una causa solo se è vendibile, se ha un fatturato politico, se dà qualche vantaggio, altrimenti non importa, sarebbe solo una inutile chiacchera sui diritti umani. Per Yahaya nessuna protesta nessuna campagna sui giornali, nessuna manifestazione, come nessuna per l’avvocato turco Ebru Timtik, una donna di 42 anni morta in un carcere di Istanbul il 28 agosto dopo 238 giorni di sciopero della fame. Denunciare quanto avviene in Nigeria comporta una presa di coscienza e una capacità di elaborazione un po’ più complesse rispetto a scegliere quale avversario, come è successo a Milano, una statua collocata, secondo alcuni ingiustamente, in un giardino. L’Italia che ha tanti rapporti economici con la Nigeria, soprattutto nel campo dell’energia, anche non sempre limpidi, potrebbe, mentre si attende il processo di appello, fare molto, esigere dal suo partner commerciale il rispetto dei diritti dell’uomo e chiedere la liberazione dell’artista. Ma probabilmente non si farà nulla. Black lives matter? Solo se conviene. *Magistrato Egitto. Zaki e quelle lettere mai consegnate di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 1 settembre 2020 Nascoste allo studente decine di missive di famigliari e amici e mai inviate le sue. Non solo la tortura e la privazione della libertà per scelte invise al regime, a Patrick Zaki, lo studente dell’Alma Mater detenuto in Egitto, è stata anche bloccata la posta in uscita e in entrata: le tante lettere ricevute da famiglia e amici non gli sono mai state recapitate, stesso destino per le tante che ha inviato lui dal carcere per provare a tranquillizzare i suoi affetti. Lo denunciano gli amici. Privato della libertà, del diritto ad un giusto processo e, si scopre ora, anche tagliato fuori da qualsiasi rapporto epistolare con familiari e amici. A Patrick Zaki, lo studente egiziano iscritto al master Gemma dell’Università di Bologna, il regime di Al Sisi ha nascosto decine di lettere che in più di 200 giorni di prigionia familiari e amici gli avevano inviato. Allo stesso tempo, almeno una ventina di lettere che il 28enne ha scritto dal carcere di Tora, nel quale solo sabato ha potuto incontrare per un breve colloquio i genitori dopo cinque mesi che gli veniva negato qualsiasi incontro, non sono mai state recapitate alla famiglia. La denuncia arriva dalla rete di attivisti e amici che dal 6 febbraio animano la campagna social Patrick Libero. “Per diversi mesi - scrivono - l’amministrazione penitenziaria aveva vietato tutte le visite come misura di sicurezza per evitare la diffusione di Covid-19, senza fornire un’alternativa, come previsto dalla legge, di comunicazione tra i detenuti e i loro parenti per telefono”. Ora si scopre che Patrick e la sua famiglia “sono stati addirittura privati delle semplici lettere che avrebbero potuto dare a loro qualche sostegno durante questo lungo e doloroso periodo. Non conosciamo il motivo per cui privare qualcuno, la cui libertà è già limitata e che non comunica con i suoi cari da mesi, di messaggi che contengono solo sostegno, amore e qualche notizia di calcio sulle sue squadre preferite”. Zaki è stato arrestato, interrogato e torturato il 7 febbraio scorso, dopo essere stato prelevato all’aeroporto del Cairo, rientrato per una breve visita ai familiari, con l’accusa di istigazione al terrorismo e incitamento alla protesta per alcuni post su Facebook che i suoi avvocati sostengono siano falsi. Accuse fumose che sono state sufficienti a tenerlo in carcere fino ad oggi. Da allora la sua detenzione preventiva è stata sempre rinnovata senza che lui possa essersi difeso davanti a un giudice. La madre che sabato lo ha incontrato in carcere dopo mesi di silenzio, ha detto di averlo trovato affaticato e dimagrito ma in salute e preoccupato per il suo corso di studi che spera di poter riprendere al più presto a Bologna. Stasera alla Festa dell’Unità al Parco Nord dalle 21 ci sarà il dibattito “Bologna per Patrick Zaki”, organizzato con Amnesty International, per chiedere ancora a gran voce la sua liberazione. Stati Uniti. Le nostre armi sono altre. Nonostante tutto di Alessandro Portelli Il Manifesto, 1 settembre 2020 In un Paese armato fino ai denti una sequenza di aggressioni armate da parte di polizia e destra era destinata a scontrarsi prima o poi con una risposta uguale. Per quanto continuiamo a prendere le distanze da un’ideologia di non-violenza unilaterale, però, Black Lives Matter non è la stessa cosa delle milizie di destra e dei poliziotti assassini. Altro che “opposti estremismi”. L’ultima notizia da Portland è, ovviamente, una pessima notizia. In primo luogo, perché c’è una vita distrutta. Non sappiamo ancora il nome della vittima, ma sappiamo che era in strada con altre centinaia di estremisti di destra armati inneggianti a Trump. Non sappiamo ancora chi l’ha ucciso, la polizia è cauta, ma tutte le fonti danno per scontato che sia uno dei manifestanti che da mesi a Portland sono in strada per rivendicare giustizia e uguaglianza. Se così fosse, sarebbe un omicidio commesso anche in nostro nome, e questa non è una buona notizia. In tre mesi di proteste a Portland, la “violenza” era consistita (e cito il New York Times) in “finestre rotte, accensione di incendi, lancio di petardi alle forze dell’ordine”. Poi, l’estrema destra - da sempre presente e organizzata a Portland - è scesa in campo spalleggiata dalla polizia e dai federali, e sono cominciati gli spari: “Due settimane fa, dicono le autorità, un manifestante di destra ha sparato due fucilate dalla macchina, ma non sembra che sia stato colpito nessuno. La settimana dopo, gruppi opposti si sono scontrati nelle strade e un video mostra un dimostrante di destra che brandisce un fucile”. Come sempre, l’estrema destra ha Dio e la Patria dalla sua parte. L’uomo ucciso a Portland apparteneva a un gruppo di destra chiamato Patriot Prayer, “che sostiene il Cristianesimo e lo stato minimo”. In pochi giorni dopo che Kyle Rittenhouse ha ammazzato due persone a Kenosha, “un’organizzazione cristiana ha raccolto più di $250.000” per la sua difesa. Domenica scorsa, Trump ha messo un “like” a un tweet che diceva: “Kyle Rittenhouse è un buon esempio delle ragioni per cui ho deciso di votare per Trump”. Nel frattempo, Biden si limita a dire che “condanno la violenza da qualunque parte provenga, sia di sinistra che di destra”, come se fossero la stessa cosa, avessero la stessa misura, le stesse origini. E come se, prima di entrambe, non ci fosse una quotidiana violenza della polizia che Biden non sembra decidersi a condannare apertamente. C’è uno scarto terribile fra la chiarezza criminale con cui Trump mobilita i suoi e la genericità ragionevole con cui Biden sembra cercare di rivolgersi a un “centro” sempre più fantasmatico. Rischiamo di pagarla tutti. Sull’omicidio di Portland, potremmo dire quello che disse Malcolm X dopo l’uccisione di Kennedy: “Chickens coming home to roost”, a fine giornata tutti i polli tornano a casa. Comprensibile, ma sbaglieremmo, come sbagliava lui. Non c’è dubbio che, in un paese armato fino ai denti come gli Stati Uniti, una sequenza di aggressioni armate da parte della polizia e della destra era destinata a scontrarsi prima o poi con una risposta dello stesso tipo. Il problema però è che, in primo luogo, per quanto continuiamo a prendere le distanze da un’ideologia di non-violenza unilaterale, tuttavia Black Lives Matter non è la stessa cosa delle milizie di destra e dei poliziotti assassini, e non c’è semplificazione mediatico-politica sugli “opposti estremismi” che possa cambiare questo fatto. In secondo luogo, perché sono generazioni ormai che, anche in Italia, abbiamo capito che non è con i fucili che vinceremo: gli altri ne avranno sempre più di noi. Le nostre armi, nonostante tutto, sono altre. Arabia Saudita. Centinaia di migranti africani nell’inferno dei centri di detenzione nena-news.it, 1 settembre 2020 La denuncia del giornale britannico Sunday Telegraph: centinaia, forse migliaia, di migranti provenienti dal Corno d’Africa rinchiusi da mesi in diversi centri di detenzione, picchiati e ridotti alla fame. Human Rights Watch: “Condizioni disumane senza alcun rispetto per la dignità delle persone”. Centinaia, forse migliaia, di migranti africani sono da mesi rinchiusi in diversi centri di detenzione in Arabia Saudita, costretti a vivere e dormire a terra, ridotti alla fame e picchiati. A denunciarlo è il quotidiano britannico Sunday Telegraph che ha pubblicato, domenica scorsa, le fotografie scattate e inviate dagli stessi migranti. Si tratterebbe di centri nelle regioni sud della petromonarchia (uno si troverebbe ad Al Shumaisi, vicino Mecca, e uno a Jazan, al confine con lo Yemen) e i migranti detenuti sarebbero per lo più etiopi, donne e uomini. Immagini crude, terribili: decine di persone a terra, ridotte a pelle e ossa, in stanze senza finestre e sdraiati uno sull’altro. Tra le foto ricevute, ma non pubblicate dal quotidiano, anche quella di un giovane africano impiccato, suicidatosi per le impossibili condizioni di vita in cui era costretto da mesi. Un adolescente, si legge nell’articolo, di 16 anni detenuto dallo scorso aprile, secondo quanto dichiarato dai suoi amici. Altre immagini mostrano i segni dei pestaggi e delle torture sulle schiene di alcuni migranti: “Qui è l’inferno - dice uno di loro al quotidiano tramite un cellulare fatto entrare di nascosto in uno dei centri - Ci trattano come animali, ci picchiano ogni giorno. Se non c’è possibilità di fuga, mi ucciderò. Altri lo hanno fatto”. All’inizio di agosto una denuncia simile era giunta dal Guardian: nel centro di Al Shuamisi, capace di detenere fino a 32mila prigionieri, migliaia di migranti senza documenti attendono la deportazione in condizioni disumane, costretti a bere acqua dal wc e a dormire su letti di ferro senza materassi. Immediate le reazioni delle organizzazioni per i diritti umani: “Le foto che giungono dai centri di detenzione del sud dell’Arabia Saudita mostrano come le autorità sottomettano migranti dal Corno d’Africa a condizioni squallide e degradanti, senza alcuna attenzione per la loro sicurezza e la loro dignità”, è il commento di Adam Coogle, vice direttore di Human Rights Watch per il Medio Oriente. Che accusa: un paese ricco come l’Arabia Saudita “non ha scuse per tenere i migranti in queste deplorevoli condizioni”. Ricco, ma mai ospitale con i lavoratori migranti, in arrivo soprattutto dal Corno d’Africa attraverso lo Yemen in guerra. Eppure rappresentano il 20% della popolazione totale del paese. Circa 6,6 milioni di persone impiegate per lo più nel settore edilizio e delle costruzioni o nelle abitazioni private come colf, sottopagati e senza diritti come avviene nel resto del Golfo e del Medio Oriente, noto per il ricorso al sistema della Kafala, dello sponsor: il migrante che arriva nel paese è sponsorizzato da un cittadino che ne diventa di fatto il proprietario, confiscando passaporti e impedendo di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Una forma di semi-schiavitù da anni denunciata da organizzazioni internazionali per i diritti umani. Nel caso saudita, negli ultimi anni - da quando il principe ereditario Mohammed bin Salman ha preso le redini della petromonarchia, stringendo in un angolo re Salman - sono state realizzate una serie di riforme volte a incrementare la forza lavoro locale a scapito di quella migrante. Politiche che si sono tradotte nella deportazione forzata di decine di migliaia di lavoratori stranieri: tra gli altri migliaia gli etiopi cacciati tra il 2019 e il 2020, gli ultimi 2.870 ad aprile, oltre 27mila bengalesi lo scorso anno e altri 5.500 quest’anno. Molti dei migranti “pronti” per la deportazione, dopo essere stati arrestati nelle varie città saudite dove lavoravano, sono stati posti in centri di detenzione come quelli denunciati dal Sunday Telegraph, con “un pezzo di pane al giorno e riso la sera, quasi senza acqua e con i bagni allagati”, come riporta un altro giovane migrante. Chiusi in migliaia per mesi dietro le sbarre dopo essere stati accusati di essere i vettori del Covid-19, di portare l’epidemia nel ricco paese del Golfo. Processo ai fantasmi di Charlie Hebdo: “La Francia dimentica” di Anais Ginori La Repubblica, 1 settembre 2020 Morti gli attentatori domani nell’aula bunker di Parigi solo le seconde file. Le vittime: “Senza mandanti non sarà giustizia. Fantasmi aleggiano nella grande aula della Corte d’Assise di Parigi. Il processo per gli attentati di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher comincia domani nel tribunale disegnato da Renzo Piano nel quartiere Batignolles, per l’occasione diventato bunker sotto alta sorveglianza. Nel maxi processo che durerà fino a metà novembre oltre duecento persone si sono costituite parte civile, più di centocinquanta testimoni sono chiamati a ricostruire quelle ore tra il 7 e il 9 gennaio in cui i terroristi colpirono un’intera redazione, agenti e poliziotti, clienti ebrei di un supermercato. Le udienze per tentare di ricostruire la follia integralista che ha portato alla morte 17 persone - tra cui i famosi vignettisti Wolinski, Cabu, Charb e Tignous - saranno filmate, circostanza eccezionale per la giustizia francese che non autorizza neppure le fotografie. La prima volta che delle telecamere sono entrate in un’aula è stato negli anni Ottanta, quando si trattava di giudicare il nazista Klaus Barbie. Questa volta, sul banco degli imputati, ci saranno solo personaggi di seconda e terza fila, accusati di aver fornito armi, noleggiato macchine, partecipato alla logistica degli attentati islamici. I fratelli Kouachi entrati nel giornale al grido di “Allah Akbar” sono morti nella tipografia nella quale si erano rifugiati. Non ci sarà neanche l’altro terrorista, Amedy Coulibaly, che ha ucciso una poliziotta, i quattro clienti dell’Hyper Cacher e ha voluto andarsene da “martire” durante l’irruzione delle teste di cuoio. Altri protagonisti come i fratelli Belloucine, famosi nella galassia della jihad francese, o la moglie di Coulibaly, Hayat Boumedienne, sono fuggiti in Siria. Morti o nascosti chissà dove. Fantasmi pure loro. “Non posso nascondere la mia rabbia per queste pesanti assenze” si sfoga l’avvocata Samia Maktouf che considera il ruolo di Boumedienne centrale nella ricerca della verità. La lunga indagine che ha portato alle oltre trecento pagine dell’ordinanza di rinvio a giudizio non è riuscita a definire il nesso tra l’azione dei Kouachi e quella di Coulibaly, con rivendicazioni contraddittorie. I primi hanno intestato la strage di Charlie Hebdo ad Al Qaeda nello Yemen. Il secondo ha lasciato un video in cui inneggia allo Stato islamico. “Il collegamento è Boumedienne e la sua amicizia con una delle mogli dei Kouachi” spiega Maktouf. “Le donne sono motori di questa storia” prosegue l’avvocata che lamenta il fatto che la Francia non abbia fatto arrestare Boumedienne quando era stata localizzata due anni fa in un campo di prigionia dei curdi. Tra i quattordici imputati, l’unico per cui i pm sono riusciti a ottenere l’accusa di “complicità in atti terroristi”, con il rischio di ergastolo, è il ventinovenne franco-turco Ali Riza Polat. Considerato il braccio destro di Coulibaly sarà difeso dall’avvocata del terrorista Carlos. Gli altri imputati sono tutti a giudizio per “associazione a delinquere terrorista” con un massimo di venti anni di carcere. I pm non hanno trovato un’eventuale regia nella strage dei Kouachi, nonostante uno dei fratelli fosse stato in Yemen. Anche il predicatore sospettato di averli indottrinati, Farid Benyettou, non è tra gli imputati. “Sarà un processo frustrante perché i fratelli Kouachi sono morti e l’inchiesta non ha permesso di risalire ai mandanti” commenta Riss, direttore di Charlie Hebdo. Il giornalista e scrittore Philippe Lançon, gravemente ferito al volto, dice: “Non mi aspetto né verità, né giustizia. C’è poco da capire. Erano ragazzi finiti in un’impasse esistenziale e poco intelligenti”. Resta poco dello slancio che, subito dopo gli attentati, portò alla grande manifestazione con lo slogan “Je suis Charlie”. E oggi la Francia è forse ancor più tormentata da temi come laicità e integralismo, libertà d’espressione, antisemitismo. “Gli islamisti hanno vinto?” si è domandato Le Point in copertina. La saggista Caroline Fourest pensa sia così. “Qualcuno oserebbe oggi pubblicare le vignette di Maometto che hanno scatenato l’attacco a Charlie Hebdo? Onestamente penso nessuno”. L’avvocato Patrick Klugman difende alcuni degli ostaggi dell’Hyper Cacher. Racconta che i suoi clienti si sentono vittime due volte: per il trauma subito e per essere stati dimenticati in un paese in cui gli atti e le violenze antisemite aumentano. “Questo processo sarà imperfetto ma spero diventi un modo di sviluppare una forma di immunità collettiva”. Ancora fantasmi da scacciare. La crisi bielorussa, l’Europa e i limiti di Putin di Bernard Guetta* La Repubblica, 1 settembre 2020 L’Ue si renderà utile ai manifestanti di Minsk e alla libertà continuando a proporsi come mediatrice. È un ideale che non conosce frontiere. È quell’ideale ad aver fatto cadere la Cortina di ferro nel 1989. È quell’ideale ad aver fatto insorgere gli iraniani per sei mesi, nel 2009. È ancora quell’ideale ad aver animato le Primavere arabe del 2011, la loro forza e il loro insuccesso momentaneo ricordano da vicino la primavera in Europa del 1848. È sempre quello stesso ideale, infine, ad aver fatto insorgere Hong Kong prima di infondere nei bielorussi il coraggio di sfidare il loro dittatore. Quello stesso ideale di libertà lascia presagire - non ci sono più dubbi - il risveglio di una Russia che da troppo tempo si sente stanca di un ritorno al passato. E dunque, no! Non dobbiamo permettere a nessuno - non a un solo Xi, non a un solo ideologo delle nuove destre, non a un solo Putin o Orbán - di mettere in discussione l’universalità degli ideali di democrazia e legalità, diventati valori fondanti dell’Unione europea. Dobbiamo continuare a difenderli, invece, sempre e ovunque, perché tutto il genere umano li condivide e perché quei valori sono la nostra forza. La rivoluzione bielorussa, tuttavia, ci insegna anche altro. Ci fa capire che il regime russo ha raggiunto i suoi limiti. Putin ha annesso la Crimea, ma ha perso l’Ucraina. Nella zona orientale di quel Paese ha portato la guerra, ma adesso sarà obbligato a scegliere se ritirarsi o prenderne in carico la ricostruzione. In Ucraina Putin ha condotto la Russia in un vicolo cieco, proprio mentre in Libia la situazione non è certo più semplice e mentre in Medio Oriente il regime iraniano, suo unico alleato, va perdendo terreno in Iraq e in Libano e sprofonda in una crisi economica che ne aumenta di continuo l’impopolarità. In quella povera potenza che è la Russia, il potere del regime russo di arrecare danni è considerevole, ma soltanto le sue armi sono moderne. Le infrastrutture, infatti, sono fatiscenti; il livello di vita è basso e le entrate derivanti dal commercio del petrolio sono in caduta libera. Di conseguenza, in Russia si va espandendo il malcontento sociale. La popolarità del suo presidente non fa che recedere, e la concomitanza delle proteste a Chabarovsk e a Minsk preoccupa Putin che, prima ancora che scoppiassero, aveva già in mente di governare esclusivamente nell’ombra e di lasciare in prima linea soltanto dei prestanomi. Quel regime, insomma, si sta indebolendo proprio ora che la fermezza dei bielorussi lo costringe a scegliere tra varie opzioni ugualmente rischiose. Una è intervenire con l’esercito a Minsk, creandovi la stessa russofobia presente a Kiev. Un’altra è continuare a inviare truppe ausiliarie civili e di polizia che non saranno sufficienti, però, a salvare il regime al potere. Un’altra ancora è sostituire Alexander Lukashenko, ipotesi che, per quanto negoziata con il Cremlino, potrebbe far venire ai russi qualche altra idea. Per Vladimir Putin, la prossima mossa è così difficile che non stupisce, purtroppo, che si sia voluto attentare alla vita di Alexej Navalnyj, l’unico avversario in grado di incarnare la possibilità di un passaggio di poteri dai tempi dell’assassinio di Boris Nemtsov cinque anni fa. Gli amici di Putin si accaniscono a fargli terra bruciata intorno. Premesso ciò, la preoccupazione del regime - e terzo insegnamento della rivoluzione bielorussa - è che l’Unione europea deve continuare tanto quanto i bielorussi a prestare grande attenzione per evitare che quel Paese diventi la posta in gioco di una sfida di potere. L’Unione si renderà utile ai bielorussi e alla libertà continuando a proporsi come mediatrice. L’Ue riuscirà ad avere un ruolo concreto in questa crisi se esigerà, senza sosta, la liberazione dei prigionieri politici, se promuoverà un movimento d’opinione nei 27 Stati che la compongono, se eserciterà pressioni su Lukashenko affinché torni alla ragione, se chiederà di essere ricevuta immediatamente dal presidente russo per invitarlo a essere realista, prendendo a testimoni il mondo intero e il suo Paese. A Putin è indispensabile dire: “Vuole contare qualcosa? Vuole che la Russia abbia peso nel mondo? Ebbene, allora difenda il diritto e l’armonia in Bielorussia e, così facendo, difenderà gli interessi della Russia, la sua immagine, la sua autorità e il suo ruolo di potenza responsabile, invece di minarli di continuo”. *Traduzione di Anna Bissanti