La sete punitiva genera mostri. Rieducare i carcerati si può di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 19 settembre 2020 Nel libro “Vendetta pubblica” (Laterza) Marcello Bortolato* ed Edoardo Vigna** smentiscono molte leggende. “Così, a trent’anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo secondo l’uso lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo”. Che cosa ci avrebbero guadagnato, la città e gli amici e la famiglia stessa del giovane ucciso per uno sgarbo, se l’allora violento Lodovico fosse stato buttato per sempre in una galera? E che cosa ci avrebbero perso, al contrario, tutte le persone benedette dal frate manzoniano nella sua nuova vita dedicata a scontare la propria colpa e a risarcire quanto più poteva donando sé stesso agli altri? Certo, non tutti gli assassini dedicano la vita a espiare il proprio delitto e farsi perdonare. A quella domanda sul senso del carcere come castigo inflitto dallo Stato per conto anche delle vittime del reato, però, risponde la stessa Costituzione italiana. Articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quello è l’obiettivo finale. E in quello si riconoscono il magistrato Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, e il giornalista del “Corriere” Edoardo Vigna, autori di un libro il cui titolo dice tutto: Vendetta pubblica, 160 pagine, edizioni Laterza. Dove spiegano che no, quell’articolo 27 “non è una regola ispirata da Papa Francesco, che ancora recentemente ha voluto esplicitamente dichiarare quanto sia importante per le persone che sono in carcere avere una speranza: “Non può esserci una pena senza un orizzonte”, ha detto. No, è proprio la nostra Costituzione ad aver fissato questa norma. E questo principio”. E da lì partono raccontando le condizioni in cui versano oggi le carceri italiane, rovesciando uno dopo l’altro, con i numeri, un po’ tutti gli stereotipi urlati in tanti slogan di facile presa: “Bisogna sbatterli dentro e buttar via la chiave”, “Hanno pure la tivù!”, “Dentro si vive meglio che fuori”, “Alla fine in carcere non ci va nessuno”... Prendiamo quest’ultima leggenda: “Nel giugno del 1991, quando il primo dato del genere è stato pubblicato dal Ministero della Giustizia, dietro le sbarre c’erano 31.053 persone, su una popolazione italiana di 56,7 milioni. Oggi, come abbiamo visto, i detenuti sono quasi il doppio, su 60,3 milioni di abitanti”. Col risultato che le celle sono due volte più affollate. E in una cella di tre metri per tre vengono ammucchiati anche quattro letti e un lavandino. A dispetto perfino del Codice Rocco fascista che nel 1930 “prevedeva per tutti che la pena detentiva andasse espiata in isolamento “notturno”“. Anzi, “gli art. 22 e 23 del Codice penale ancora adesso lo prevedono nell’ottica liberale secondo cui l’uomo deve espiare la pena da solo perché deve meditare su ciò che ha commesso, senza esserne costretto. Solo così può migliorare”. Macché, appiccicati così c’è anzi il “contagio criminale: un ladro in cella con un rapinatore impara a fare rapine, e il rapinatore quando esce può contare su un complice in più”. “Troppi detenuti? Costruiamo più carceri!”, propongono da anni i paladini securitari. Val la pena? Mah... Negli Usa, nonostante siano in galera oltre due milioni di persone, la sola Chicago (più o meno gli abitanti di Roma) registrò nel 2016 ben 762 omicidi: il doppio dei 397 contati allora in Italia. E il Viminale spiega che tra il Ferragosto 2019 e quello 2020 da noi i morti ammazzati son scesi ancora: 278. A farla corta, scrivono Bortolato e Vigna, al di là dei dubbi sulle “carceri d’oro” tutte uguali, brutte e alienanti, “più prigioni edifichi, più tendi a riempirle. Più grande è il secchio, più acqua ci metterai per soddisfare la sete punitiva di una parte dell’opinione pubblica”. Senza la certezza di risultati apprezzabili. Anzi. Insomma, la strada per non far esplodere i penitenziari come nei giorni del terrore della pandemia (tredici morti nelle rivolte) o non essere costretti a nuove amnistie, tipo quella varata nel 2010 dal governo Berlusconi, è una sola: puntare ancor più, come dice la Costituzione, sul recupero dei detenuti. Più scuole, più docenti, più corsi professionali. Più opportunità da offrire a chi vuole imparare un mestiere seguendo esempi virtuosi come i laboratori “di sartoria, pasticceria, profumeria, informatica”. Più aperture verso quanti mostrino di aver capito gli errori fatti. “Li metti fuori coi permessi premio e ciao, non tornano più”, attaccano i bellicosi custodi della pubblica vendetta “in cui si ha la soddisfazione di vedere che, se uno ha fatto del male, soffre fino all’ultimo giorno della condanna”. È vero, può capitare, replicano Bortolato e Vigna. Nell’1,08% dei casi la fiducia vien tradita, ma le statistiche dicono che “nel 98,92% va tutto bene”. Solo che quel dato del 98,92% non finisce sui giornali. Non è buono per far politica. E quello è il punto: vale la pena di riporre fiducia perfino in chi ha commesso crimini spaventosi? “All’entrata dell’ex carcere ottocentesco di Pianosa”, ricorda il libro, “vi è la scritta: “Qui entra l’uomo, il reato resta fuori”, motto ripreso dalle Apac (le carceri brasiliane senza guardie né armi, dove sono i detenuti ad avere le chiavi e dalle quali nessuno vuole scappare), “Aqui entra o homem, o delito fica lá fora”. Parole che ricordano un pensiero dello scrittore tedesco Hermann Hesse: “Nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo”“. Una tesi fatta propria dallo scienziato Umberto Veronesi per chiedere l’abolizione dell’ergastolo: “È insensato”, era il succo del suo discorso, “tenere in carcere una persona fino alla fine dei suoi giorni: anche l’assassino più crudele dopo vent’anni è cerebralmente differente dall’uomo che ha commesso quel delitto”. Forse pochi, per quanto trattati con giustizia, si avvieranno sulla strada del grande frate manzoniano. La possibilità di provarci però, dati alla mano, vale la pena di dargliela… *Marcello Bortolato, magistrato dal 1990, presiede il Tribunale di sorveglianza di Firenze dal 2017 **Edoardo Vigna, giornalista del “Corriere della Sera”, è caporedattore nella redazione del magazine “7” Il 4bis e l’evoluzione del “doppio binario” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 settembre 2020 “Regime ostativo ai benefici penitenziari”: il libro dell’avvocata Veronica Manca. L’ergastolo ostativo nega in radice il concetto di risocializzazione che dovrebbe giustificare, almeno come possibilità, la pena anche nella sua massima estensione. Il 2019 è stato però l’anno nel quale si è messo in discussione, grazie anche alle pronunce della Cedu e della Corte costituzionale, la questione di un “doppio binario” che caratterizza il nostro sistema giudiziario non solo nella fase processuale ma anche in quella dell’esecuzione della pena. Attenzione, il doppio binario rimane, ma il 4 bis che ne costituisce il perno ha smesso di sbarrare l’accesso ai benefici (per ora solo il permesso premio) anche per i condannati che non vogliono collaborare con la giustizia. Una norma, il 4 bis, che nasce come una eccezione ma che con il passar del tempo si è ampliata e come una calamita ha attirato a sé tutti quei reati che diventano - a seconda le emozioni del momento - delle vere e proprie emergenze. Anche quando le emergenze, di fatto, non ci sono. In questi ultimi due anni, come detto, ci sono state novità importanti. Ma, come sosteneva lo storico Tucidide, bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro. È appena uscito un libro che non solo analizza il passato, ma fa capire molto bene il presente dando gli strumenti necessari per monitorare un’esecuzione della pena legale, il più possibile conforme ai principi costituzionali e compatibile con la dignità umana della persona condannata. Il libro, della casa editrice Giuffrè Francis Lefebvre, si intitola “Regime ostativo ai benefici penitenziari” ed è scritto dalla giovane avvocata Veronica Manca. Lei è membro dell’osservatorio carcere della Camera Penale di Trento, componente dell’osservatorio Europa delle camere penali e, non è un caso, fa parte del direttivo dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. Il libro ripercorre l’evoluzione del “doppio binario” e le prassi applicative. Potrebbe far pensare che sia un libro rivolto soltanto agli avvocati, magistrati, giuristi in generale. In realtà è scritto in maniera chiara e scorrevole, a tratti avvincente soprattutto nel capitolo relativo alla genesi del 4 bis: parte dalla legge Gozzini, passa per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio e non manca di ricordare la prima introduzione voluta da Falcone che - alla faccia di chi strumentalmente utilizza il suo nome - inizialmente non precludeva in maniera assoluta i benefici a chi non collaborava. Interessante il riferimento ai tempi dell’Ucciardone di Palermo quando i mafiosi mangiavano “aragoste e champagne” e commissionavano gli omicidi. Un capitolo, quello della genesi del 4 bis, utilissimo sia per contestualizzare e sia per paragonare lo spirito emergenziale di allora (scoppiavano le bombe) con quello di oggi. Non a caso l’autrice arriva a parlare anche della cosiddetta Spazzacorrotti, una legge emergenziale (si allarga il 4 bis anche nei confronti di chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione) quando l’emergenza non c’è. Il libro dell’avvocata Manca pone l’obiettivo di fornire, quindi, tutti gli strumenti necessari per un approccio sistematico all’applicazione dell’articolo 4 bis e di tutte quelle ricadute pratiche. Un 4 bis, come viene ben spiegato nel libro, che adatta la struttura dell’ordinamento penitenziario al principio del trattamento esecutivo differenziato dei reclusi sulla base del titolo di reato per il quale sono stati condannati. Nel libro, infatti, vengono affrontati tutti i reati che fanno parte del 4 bis e non manca l’approfondimento dei reati sessuali. Quelli che creano maggiore indignazione, forse più della mafia stessa. Non a caso, secondo il “codice d’onore” dietro le sbarre, ad esempio i “pedofili” non hanno diritto di esistenza. Un tema - come si legge nell’introduzione del capitolo - “complesso e articolato, sia dal punto di vista scientifico, per la difficile ricerca di una categoria unitaria di tipi d’autore, detti “sex offender”; sia giuridico, a causa del susseguirsi di leggi, spesso stratificate, e anche contraddittorie”. Sono crimini sessuali che rientrano alla “terza fascia” del 4 bis. Leggendo il libro, uno apprende che l’ordinamento penitenziario prevede per chi si è macchiato di questi gravi e indicibili crimini sessuali, un loro recupero attraverso programmi terapeutici e utili anche per dare elementi di valutazione al magistrato di sorveglianza per la concessione o meno dei benefici penitenziari. Tutto ciò che l’avvocata Manca ha descritto e narrato come se fosse un romanzo dell’esecuzione penale, ha fatto emergere quanto sia complesso e stratificato il 4 bis, creando così un ordinamento penitenziario che assomiglia a un sistema multilivello. La riforma dell’ordinamento penitenziario doveva essere epocale, ma oltre ad essere stata approvata a metà, rischia di subire una involuzione nonostante l’orientamento della giurisprudenza trans- nazionale. Il rischio di un “sovranismo giudiziario” è di nuovo alle porte. Per questo vale la pena di leggere il libro di Veronica Manca, dove mette di nuovo al centro la dignità della persona che deve comunque rappresentare - come dice l’autrice stessa - “il nucleo essenziale della legalità della pena”. La delicatezza della rieducazione di Annamaria Alborghetti* Ristretti Orizzonti, 19 settembre 2020 Un paio di giorni fa i giornali riportavano la notizia del permesso premio concesso a un detenuto di Padova, il sig. Giuseppe Montanti, condannato all’ergastolo per l’omicidio del dr. Livatino. Notizia ripresa anche dal TG, con tanto di immagini di repertorio. Da circa 6 anni assisto il sig. Montanti, ho presentato nel suo interesse numerose istanze e sento il dovere di dire alcune cose. A parte l’inesattezza della notizia riportata in quanto il sig. Montanti non ha usufruito del permesso grazie alla sentenza 253/19 della Corte Costituzionale ma a seguito dell’accertamento, da parte del Tribunale di Sorveglianza, su mia istanza, della collaborazione impossibile, istituto che da oltre dieci anni consente di superare il divieto totale di accesso alle misure alternative per coloro che hanno subito condanne per reati di mafia, ciò che mi ha colpito è la messa a nudo del percorso carcerario del sig. Montanti nei suoi 20 anni di detenzione. Francamente ritengo che il trattamento, finalizzato alla rieducazione del condannato, sia uno strumento molto delicato, da maneggiare con cura. E’ una strada irta di ostacoli, spesso in salita e dissestata. E’ fatta di momenti dolorosi, di cadute e risalite. Dietro c’è la fatica di educatori, psicologi, insegnanti e volontari. E c’è la fatica del detenuto che è accompagnato da tutte queste figure ma che alla fine è solo con sé stesso e con la condanna che gli pesa addosso. E c’è anche la fatica del difensore che nelle scelte difensive deve tenere conto di tutto ciò, perché se non ne tiene conto magari avrà fatto una bellissima istanza, giuridicamente perfetta, ma non avrà fatto l’interesse del proprio assistito. Per questo penso che del percorso trattamentale di un detenuto si debba parlare con delicatezza, con il rispetto dovuto a lui e a tutti gli altri soggetti coinvolti. Non so come quel provvedimento sia giunto alla stampa, io non l’avrei mai reso di pubblico dominio, perché ritengo che il diritto alla riservatezza sia un bene prezioso che non viene meno con la perdita della libertà ma che va sempre tutelato, per il rispetto di tutti, vittime comprese. *Avvocato I pm, sempre chiacchieroni, zitti solo sulla giustizia ingiusta di Iuri Maria Prado Il Riformista, 19 settembre 2020 Intervengono su tutto, ma mai che trovino il tempo per un accenno ai malati e ai morti in carcere, ai bambini che crescono in cella. Perché? Nel Paese in cui i magistrati, come si dice, parlano solo con le sentenze, il problema non c’è. Nel Paese in cui parlano dappertutto e su tutto, come succede qui da noi, il problema c’è ed è grande come una casa. Qual è? È questo: che nella serrata militanza pubblica della magistratura non c’è mai posto non si dice per una denuncia, ma neppure per una perplessità sui tanti casi di evidentissima ingiustizia di origine giudiziaria. In un ordinamento rispettoso i magistrati farebbero il gran piacere di stare zitti e non interverrebbero su qualunque argomento spiegando ai politici come devono legiferare (cioè scrivendo le leggi che piacciono alle procure), ai giornalisti cosa scrivere (cioè che i magistrati sono bravi e i politici mascalzoni) e ai cittadini come vivere per essere considerati perbene (cioè facendo gli spioni e tenendo in tasca il santino della star togata). Ma siccome quell’ordinamento rispettoso non è il nostro, e appunto qui da noi i magistrati rivendicano ed esercitano a piene mani il diritto di illustrarci quanto è ingiusta la società che essi eroicamente si impegnano a migliorare, allora è legittimo domandarsi perché non trovino il tempo per un accenno ai malati e ai morti di carcere, per una parola sui bambini che crescono dietro le sbarre, per un dubbio davanti alla giustizia che sbatte in galera una donna perché non rinuncia a pensar male del Tav e a frequentare gente che la pensa allo stesso modo (non è uno scherzo, ne ha scritto ieri Piero Sansonetti, e le motivazioni che portano e tengono in prigione Dana Lauriola, manifestante anti-Tav, sono esattamente quelle: non può andare ai domiciliari perché continua a comportarsi “dando prova della sua incrollabile fede negli ideali politici” che l’hanno indotta a delinquere e perché risiede in un posto dove potrebbe incontrare altri “soggetti coinvolti in tale ideologia”). Evidentemente non c’è un magistrato al quale tutta questa bella roba dispiaccia almeno un pochetto, visto che non c’è caso che nei loro editoriali (rarissimi, d’accordo), nelle loro interviste (pochissime, per carità) o nelle loro esibizioni televisive (anche più rare, lo sappiamo), questi signori ritengano di far sapere che tra le tante cose che non vanno un granché bene in questo caro Paese può esserci forse, magari, per ipotesi, almeno qualche volta, la giustizia che tratta ingiustamente le persone. Ma figurarsi. Eppure ce lo ricordiamo il manipolo di giustizieri che convoca le televisioni per far mostra della propria coscienza in ribellione (usarono esattamente quella parola: “coscienza”) davanti al decreto che limitava la pratica della galera preventiva, cioè lo strumento per estorcere confessioni. Ma quando si tratta dell’ingiustizia commessa in nome della giustizia quella loro coscienza è impassibile. “Il processo alla magistratura non s’ha da fare, né domani né mai” di Piero Sansonetti Il Riformista, 19 settembre 2020 Come anticipato a luglio, la sezione disciplinare ha cestinato 127 dei 133 testi chiamati dalla difesa. Obiettivo chiaro: usare l’ex leader dell’Anm come capro espiatorio per insabbiare le nomine pilotate. Il Procuratore generale della Cassazione ha chiesto al Csm di rifiutare 127 dei 133 testimoni chiesti da Luca Palamara a sua difesa. La Cassazione ha accettato l’ordine. Quindi il processo all’ex capo dell’Anm si svolgerà più o meno come si svolgevano i processi politici in Russia negli anni Trenta: nessun tentativo di accertare la verità e sentenza di condanna. Palamara sarà condannato a essere espulso da quella magistratura la cui struttura di potere lui ha ampiamente contribuito a costruire. La procura generale ha avvertito il Csm con le solenni parole di don Rodrigo. “Questo processo non s’ha da fare, né domani né mai”. Rodrigo ce l’aveva con Renzo, la Procura ce l’ha con tutti i cittadini italiani. Non devono sapere. Anzi, devono sapere che nessuno ha il diritto di processare la magistratura: neanche la magistratura. Ora c’è una sola possibilità per sventare questo colpo di mano: che il Parlamento finalmente prenda coscienza del proprio ruolo e nomini una commissione di inchiesta che ascolti i 127 testimoni imbavagliati dal Csm. Lo farà? Certo che no. Il Parlamento è terrorizzato dalla magistratura. Interverrà Mattarella? Non credo. Di sicuro, se ci fosse ancora Cossiga, lui avrebbe fatto circondare il Csm dai carabinieri per ristabilire la legalità. Che nostalgia di Cossiga... Al Consiglio superiore della magistratura i testi della difesa non sono graditi. Come previsto dal Riformista già lo scorso 15 luglio, è stata integralmente cestinata la lista dei 133 testimoni di Luca Palamara. Il collegio della sezione disciplinare, che sta processando l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, li ha ritenuti irrilevanti e non attinenti agli episodi oggetto delle contestazioni. Palamara, si ricorderà, è accusato di aver tramato per screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ed il suo aggiunto Paolo Ielo, e di aver cercato di influenzare le nomine di alcuni uffici giudiziari, incontrando a maggio del 2019 in un albergo i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm. Il magistrato romano, sospeso dalle funzioni e dallo stipendio da oltre un anno, aveva chiamato a testimoniare ministri, ex presidenti della Corte costituzionale, procuratori, politici, ed anche i due più stretti collaboratori di Sergio Mattarella: il magistrato Stefano Erbani, consigliere per gli affari giuridici, e l’ex deputato del Pd Francesco Saverio Garofoli, consigliere per le questioni istituzionali. Nelle intenzioni di Palamara costoro avrebbero dovuto raccontare il modo in cui le correnti della magistratura si spartiscono a Palazzo dei Marescialli le nomine e gli incarichi. Una prassi risalente nel tempo che “giustificherebbe”, quindi, l’incontro in questione. Testimonianze scomode che il Csm ha preferito non sentire. Troppo alto il rischio che gli italiani venissero a conoscenza del fatto che l’Organo di autogoverno della magistratura, presieduto dal Capo dello Stato, sia in balia di associazioni di carattere privato. Molto meglio continuare a credere che gli incarichi vengano dati ai migliori. Ammessi, dunque, su richiesta della Procura generale della Cassazione, solo i finanzieri del Gico della guardia di finanza che hanno svolto le indagini a carico di Palamara su delega della Procura di Perugia. Il primo a testimoniare sarà il generale Gerardo Mastrodomenico, ufficiale molto stimato all’epoca proprio dal procuratore Pignatone. Gli accordi fra politici e magistrati ci sarebbero stati, a detta di Palamara, anche per la scelta del vice presidente del Csm. L’ultimo caso, in ordine di tempo, riguarderebbe l’attuale numero due di Palazzo dei Marescialli, David Ermini (Pd).Palamara, esponente di punta della corrente centrista della magistratura e ras indiscusso delle nomine al Csm, nel 2018 aveva rotto lo storico patto con la sinistra giudiziaria per allearsi con le toghe di destra di Magistratura indipendente, di cui Ferri era il leader ombra. Ermini venne preferito all’avvocato milanese Alessio Lanzi di Forza Italia dopo una cena a casa di Giuseppe Fanfani, ex consigliere laico del Csm e vicino a Maria Elena Boschi. La sinistra giudiziaria, invece, aveva fatto accordi con i grillini, e quindi con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, e avrebbe voluto come vice di Mattarella il professore pentastellato Alberto Maria Benedetti. L’alleanza fra la sinistra giudiziaria e Bonafede si è intensificata nell’ultimo periodo. Sarà una coincidenza ma attualmente i dirigenti di via Arenula, ad iniziare dal capo di gabinetto e per finire al capo del Dap, sono tutti esponenti dei gruppi progressisti della magistratura. E sono di Magistratura democratica anche il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Palamara, ha molto insistito, allora, sull’esistenza da anni degli accordi fra le correnti della magistratura e la politica. Per supportare tale assunto, ha citato anche un’intervista al Foglio del 2016, mai smentita, dell’ex consigliere del Csm Giorgio Morosini, toga di Md. “La politica entra (al Csm) da tutte le parti. Sponsorizzazioni da politici, liberi professionisti, imprenditori: mi tocca assistere alla scelta di candidati che per competenze e curriculum non meriterebbero quel posto”, disse Morosini, confermando quindi anni prima la tesi di Guizzi. Ma oltre alla discussione sui testi, ieri è stato affrontato anche il tema dell’ammissibilità delle intercettazioni effettuate nei confronti di Palamara con il trojan, relative all’incontro di maggio, su cui si basa il procedimento disciplinare. L’utilizzo del trojan da parte della guardia di finanza, ha affermato Guizzi, era dettato “dalla necessità di monitorare le discussioni sulle future nomine di uffici direttivi tra Palamara e Ferri”. Perché la finanza sentisse questa “necessità”, in una indagine per corruzione a carico di Palamara, resta un mistero. Processo solo a Palamara o ai traffici sulle nomine? Il Csm rinvia la decisione di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 19 settembre 2020 Il collegio si riserva sulla lunga lista testi dell’ex leader Anm. Momenti di grande tensione ieri mattina a Palazzo dei Marescialli nel processo disciplinare a carico di Luca Palamara. L’udienza era dedicata all’ammissione delle prove documentali e per testi. Questo procedimento, come noto, si basa quasi esclusivamente sul contenuto delle intercettazioni effettuate con il trojan da parte del Gico nell’ambito dell’indagine della Procura di Perugia per corruzione a carico dell’ex presidente dell’Anm. Punto nodale è la conversazione fra Palamara, i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e cinque consiglieri del Csm avvenuta la sera del 9 maggio del 2019 all’hotel Champagne di Roma, e avente a oggetto le nomine di importanti uffici giudiziari. Fra le accuse a Palamara, quella di avere “condizionato” le scelte dell’organo di autogoverno della magistratura. Il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, difensore del pm romano, ha articolato il proprio intervento contestando l’utilizzabilità delle risultanze di tale attività intercettiva. Fra i motivi in punto di diritto, la mancata indicazione del luogo di svolgimento dell’attività criminosa, prevista per i reati contro la Pa, la mancata indicazione, nel decreto autorizzativo del gip di Perugia, della programmazione delle registrazioni da effettuare, l’insussistenza delle ragioni di urgenza e l’utilizzazione di impianti esterni a quelli della Procura. Guizzi ha poi definito illecite le captazioni effettuate quando erano presenti con Palamara dei parlamentari. Non si sarebbe trattato di incontri “occasionali” ma programmati per tempo, e per i quali era necessaria l’autorizzazione del Parlamento. La Procura generale della Cassazione si è opposta. Il collegio, invece, si è riservato di decidere sull’utilizzabilità delle intercettazioni. Nel frattempo è stata disposta la loro trascrizione. Al riguardo, poi, lunedì prossimo il Tribunale di Perugia dovrà pronunciarsi sia in relazione alle modalità di utilizzo del trojan, sia per l’avvenuta intercettazione di parlamentari senza autorizzazione della Camera. Se tali intercettazioni dovessero venire dichiarate inutilizzabili, tale inutilizzabilità, ha spiegato Guizzi, sarebbe ‘ erga omnes’, quindi non solo per Ferri e Palamara ma anche per i cinque ex togati del Csm sotto procedimento disciplinare. Sul fronte dei testimoni la difesa di Palamara aveva chiesto che fossero ammessi in 133. Si trattava di politici, alti magistrati, capi di correnti della magistratura. Lo scopo era quello di dimostrare che l’interlocuzione fra politici e magistrati in tema di nomine dei vertici degli uffici è sempre esistita. Le nomine sono atti “politici” ha ricordato Guizzi e dovrebbero essere “sottratte” al giudice amministrativo. Di diverso avviso il collegio (presieduto dal laico indicato dal M5S Fulvio Gigliotti) secondo il quale le contestazioni riguardano solo cosa accadde durante l’incontro di maggio, col tentativo di Palamara di screditare l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’aggiunto Paolo Ielo. Il collegio ha ammesso solo i finanzieri del Gico che effettuarono gli ascolti, “riservandosi” di valutare l’ammissione di altri testimoni. Un segno, forse, della presenza di vedute non del tutto convergenti all’interno della sezione disciplinare. Dallo scioglimento della riserva discenderà anche il carattere del procedimento disciplinare a Palamara: mero accertamento delle responsabilità legate alla cena dell’hotel Champagne o valutazione commisurata sulle prassi generalmente adottate in quella e in precedenti consiliature del Csm? La sentenza è prevista per il 16 ottobre, ma prima si dovrà capire lungo quale percorso il collegio intenda arrivarci. Sempre la sezione disciplinare ha assolto due giorni fa, per “scarsa rilevanza del fatto”, Doris Lo Moro, magistrata fuori ruolo in servizio presso il ministero della Giustizia ed ex senatrice pd. Lo Moro aveva partecipato “sistematicamente e con continuità” all’attività del partito, “in particolare come componente dell’Assemblea nazionale”. La violenza familiare è violenza di genere di Maria Giovanna Ruo* Il Dubbio, 19 settembre 2020 Come negare che la violenza intrafamiliare è di genere che ha come vittime per lo più le donne? Non hanno valore le statistiche dei femminicidi che sono solo la punta di un orrido iceberg sommerso che affonda le sue radici in una sottocultura di svalutazione della donna come persona e della sua dignità? Sono un operaio del diritto, che lavora nel “cantiere” della tutela delle persone, delle relazioni familiari e dei minorenni con le “mani sporche di malta” quotidianamente. Incontrando e avendo incontrato centinaia forse migliaia di realtà familiari. Prendo la parola timidamente e con rispetto per le opinioni altrui, portando la prospettiva non solo mia, ma della mia associazione che della tutela e promozione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili anche nelle relazioni familiari ha fatto la sua cifra e la sua ragion d’essere. Come negare che la violenza intrafamiliare è di genere che ha come vittime per lo più le donne? Non hanno valore le statistiche dei femminicidi che sono solo la punta di un orrido iceberg sommerso che affonda le sue radici in una sottocultura di svalutazione della donna come persona e della sua dignità? Altrimenti il fenomeno della ricorrenza statistica dei femminicidi non è spiegabile. E ho - abbiamo - potuto constatare che la violenza di genere è agita sul piano fisico, psicologico, economico dallo stesso soggetto, casomai in tempi diversi e come la violenza economica (pure richiamata dalla Convenzione di Istanbul) sia sottovalutata. La violenza è multiforme, e il soggetto violento la agisce molto spesso su tutti i piani. Se impedito da provvedimenti restrittivi su piano fisico e psicologico, non è raro che si trasformi in violento economico, lesinando risorse al nucleo madre- figli. La violenza non è certo da confondersi con il conflitto: vi sono segni distintivi delle due realtà. D’altra parte, il fatto che molte, troppe donne siano vittime di violenza non vuol dire che ciò ne esaurisce il fenomeno della violenza domestica: esistono anche uomini che subiscono violenza, minoranza meritevole di tutela. E vi sono altri soggetti vulnerabili come anziani e persone con bisogni speciali vittime di violenza. Quando la vittima assomma in sé varie vulnerabilità (ad es. donna disabile, persona anziana disabile) si tratta di violenze che stentano ad emergere perché non vi sono evidenziatori sociali, come è la scuola per i minorenni. La violenza si consuma nelle mura domestiche quotidianamente, con violazione quotidiana della dignità della vittima: non è da confondersi con il conflitto, vi sono segni distintivi. Della situazione anche di questi soggetti vulnerabili si dovrebbe parlare di più e chiedersi come attivare strumenti di tutela adeguata. Certo che anche nelle situazioni “classiche” di violenza di genere gli strumenti di contrasto sono deboli, se si considera che la vittima deve affrontare vari giudizi, davanti diversi giudici, con spese insopportabili e tempi dilatati: procedimento penale, procedimento minorile a iniziativa del pm se c’è segnalazione; separazione personale o procedimento per affidamento figli con procedimento di alimenti per sé, a seconda che sia coniugata o meno. Procedimento per il risarcimento del danno per non contare l’eventuale richiesta di ordini di protezione in sede civile. Frazionamento delle competenze e differenza di riti non consente la concentrazione delle tutele. Quanti giudici per ottenere giustizia? Spero che queste situazioni in sede di Commissione emergano, perché si tratta proprio di quelle “anomalie” del sistema da eliminare perché confliggono di per sé con la tutela dei soggetti vulnerabili. Non sono uno psicologo ma in tanti mi hanno spiegato che i bambini testimoni di violenza subiscono un vulnus alla salute psico- fisica non inferiore a quella dei bambini vittime di violenza diretta: ma come “operaio del diritto” so per certo che agire violenza davanti a un bambino nei confronti dell’altro genitore, del nonno, del fratello, viola diritti fondamentali della persona di età minore: quello al miglior sviluppo psico- fisico, quello all’educazione, che ha contenuti precisi ai sensi dell’art. 29 della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo che impone il rispetto dell’altro genitore. Insegna una modalità dialogica distorta e perversa tra generi che è destinata spesso a riproporsi: una specie di “bomba atomica” della violenza, come l’atomo che si scinde e provoca il mostruoso “fungo di morte”. Violenza genera violenza e la perpetua. Sull’altro versante, debbo dire che ho visto nella mia vita professionale crescere le situazioni di rifiuto da parte del figlio minore, dell’altro genitore. La “Sindrome di rifiuto o rigetto” esiste, si alimenta del disprezzo e della paura che il genitore convivente (“riottoso o riluttante” lo definisce la Corte di Strasburgo) ha dell’altro, crea un’alleanza perversa tra il primo e il minorenne. Tale situazione è lesiva dei diritti di quest’ultimo, oltre che del genitore rifiutato: alla costruzione corretta della propria identità, che si deve “nutrire” dell’apporto paritetico di entrambi i genitori suo piano affettivo, educativo, culturale, salvo casi eccezionali in cui il comportamento di uno di questi sia pregiudizievole per il sano sviluppo psico- fisico del minorenne che coincide con il suo best interest. Alimentare questo rifiuto e rigetto dell’altro, da parte del genitore convivente, vuol dire quantomeno accondiscendere a una mutilazione identitaria ed affettiva del proprio figlio, farlo crescere nella convinzione che i “rapporti scomodi” siano eliminabili: e ciascuno di noi sa che nella vita invece i rapporti scomodi vanno gestiti. Insomma assecondare il rifiuto dell’altro genitore da parte del figlio minorenne vuol dire agire quantomeno in modo contrario al suo stesso interesse. Il fenomeno non riguarda solo l’Italia ma tutti i Paesi del Consiglio d’Europa: schedando circa 350 sentenze della Corte di Strasburgo in materia di famiglia per il portale ceduincammino.it, i casi di rifiuto o rigetto sono circa 40. Una percentuale decisamente significativa. Ed è vero che, essendo per lo più le madri i genitori conviventi, sono loro che statisticamente assecondano tale fenomeno contrario all’interesse dei propri figli, talvolta ritrovandovi l’eco delle proprie istanze esistenziali. Da questo punto di vista spero che la Commissione consideri le molte condanne di Strasburgo all’Italia, richiamata a fornirsi di uno “strumentario giuridico adeguato”. Infine è vero che i figli vengono collocati quasi sempre presso le madri, ma forse bisogna chiedersi se ancora nel nostro Paese non siano loro a prendersene cura in modo prevalente durante la convivenza genitoriale. Certo sarebbe davvero necessaria una maggiore attenzione al caso concreto, perché vi è quasi una “presunzione” che sia sempre così e i padri accudenti debbono dimostrare al giudice di esserlo, mentre non così le madri, considerate ex se capaci della miglior tutela. In realtà nel nostro Paese i padri sono sempre più spesso - al pari o quasi delle madri - amorevolmente partecipi di cura e accudimento della prole anche lattante mentre ancora prevalgono in certa giurisprudenza schemi culturali obsoleti, anche talvolta per l’abnorme carico di lavoro che impedisce la dovuta attenzione al caso concreto. Certo la complessa fenomenologia dell’universo familiare nella società contemporanea esige una riconsiderazione complessiva, sia dal punto di vista sostanziale, sia da quello ordinamentale e processuale, ritrovando la chiave di volta del sistema nella tutela rafforzata dei soggetti vulnerabili. Tante le riforme non più differibili, e da costruire con animo “laico”. *Presidente nazionale di Cammino-Camera Nazionale Avvocati per la Famiglia e i Minorenni Valsusa. Qui dove imperversa il vecchio codice Rocco di Giorgio Cremaschi Il Riformista, 19 settembre 2020 Niente misure alternative, niente domiciliari se non abiuri e lasci la tua casa e il tuo paese. Una volta era una Valle dei Piemonte, ora è Turchia. Risponde ad Erdogan. Di italiano sono rimaste solo tre cose: il Codice Rocco, le leggi speciali antiterrorismo e il ricordo del ministro Scelba. La Valle Susa non è in Italia, o almeno non è nell’Italia ancora qua e là tutelata dalla Costituzione. La valle piemontese, sempre più devastata dai pluridecennali lavori del TAV Torino-Lione, è una provincia della Turchia di Erdogan. Il territorio della valle è soggetto ad un sempre più esteso regime di occupazione militare, che ha coinvolto persino gli alpini reduci dall’Afghanistan. La popolazione della valle è stata soggetta alle misure dei decreti sicurezza di Minniti e Salvini prima ancora che questi venissero varati, con fogli di via, domicili coatti, ritiri della patente, divieti di tutti i tipi. Un regime poliziesco capillare e violento che appena può colpisce e ferisce. La magistratura torinese contro il popolo NOTAV ha rispolverato tutti gli arnesi delle legislazioni speciali degli ultimi decenni e li ha uniti a quelli del codice penale fascista Rocco. Dilaga così una mostruosità di condanne, con una marea di anni di carcere per una moltitudine di attivisti e semplici manifestanti. Solo il reato ufficiale di terrorismo, nonostante il continuo insistervi della stampa e della classe politica torinese, è stato evitato. E non perché la procura di Torino si fosse fatta degli scrupoli dall’adoperarlo, ma perché la Corte di Cassazione l’ha fermata: terrorismo no, dai, non esageriamo. Tutte le condanne giudiziarie contro i NOTAV sono condanne politiche per perseguitati politici. Del resto è scritto nelle stesse sentenze: il condannato non usufruisce di attenuanti, sconti di pena, condizioni migliori perché è un attivista NOTAV. Con questa motivazione Dana Lauriola, militante da sempre del movimento, è stata tradotta in carcere. A lei non sono stati concessi quegli arresti domiciliari che spesso vengono ottenuti da pregiudicati di ogni tipo, specie se potenti o ex potenti. Dana è stata carcerata perché il suo domicilio è a Bussoleno, noto centro sovversivo della Valle. E soprattutto perché non ha dato segni di ravvedimento, non ha abiurato e non si è dissociata dalla lotta NOTAV. Queste le motivazioni ufficiali del rifiuto dei domiciliari dei giudici di Torino, che potrebbero essere usate pari pari dai loro colleghi di Ankara. Del resto la procura torinese ha preteso e imposto restrizioni della libertà personale proprio a Eddi Marcucci, che era andata volontaria coi curdi per combattere l’ISIS e i suoi protettori turchi; tutto si tiene. Dana dovrà scontare due anni di carcere per lo stesso reato per il quale a gennaio era stata imprigionata Nicoletta Dosio, settantatré anni e posta ai domiciliari solo dopo il dilagare del Covid nelle carceri. È bene ricordare quale è il reato per questa pena così dura: blocco stradale. Nel marzo 2012 trecento militanti NOTAV invasero per mezz’ora il casello di Avigliana dell’autostrada che percorre la valle, senza fermare il traffico, ma facendo passare gratis le auto. Danno accertato 700 euro, per il quale a dodici persone sono stati comminati complessivamente 18 anni di carcere. Un anno per ogni 37 euro di danno, Quanto dovrebbero scontare i politici e gli imprenditori ladri con questo metro di misura? Ma si sa, questo metro vale solo lì e per quelle persone lì. Dana poi ha avuto la pena più alta perché aveva il megafono, quindi è stata considerata a capo dell’iniziativa. Vengono in mente gli stupidi poliziotti del film Tempi Moderni, che arrestano Charlot che ha in mano una bandiera raccolta per caso: prendetelo è lui il capo! Dana e Nicoletta sono recluse per blocco stradale, come non avveniva in Italia dai tempi di Scelba, e Stefano Milanesi è agli arresti domiciliare per una resistenza a pubblico ufficiale nel 2015. Anche lui gode di un trattamento speciale di altri tempi, ma è un ex di Prima Linea e questo permette ai giornali di fare dei bei titoli che accostano terrorismo e lotta NOTAV. Intanto la politica, sempre cosi attenta alle istituzioni europee, ignora che la Corte dei Conti UE ha giudicato il TAV Torino-Lione un’opera troppo costosa, sostanzialmente inutile e dannosa per l’ambiente. Così come esperti indipendenti di ogni dove da tempo certificano. Ma oramai quest’opera non è più una scelta economica, ma un principio politico sul quale si gioca la faccia di tutta la classe di governo, compresa quella parte dichiaratasi contraria, ma che poi sostiene chi manda avanti i lavori. Il TAV si fa solo per ragioni politiche ed il popolo della Valle Susa. subisce un regime poliziesco e giudiziario di pura persecuzione politica. Le ragioni e i principi dello stato di diritto sono scomparsi in Valle Susa, provincia di Erdogan. E ricordiamoci sempre che i soprusi e le aggressioni contro la democrazia hanno sempre la maledetta caratteristica di diffondersi, se non vengono fermati in tempo. Calabria. La battaglia del gen. Mariggiò contro la pena infinita di Gioacchino Criaco Il Riformista, 19 settembre 2020 Ci sono condanne che valgono per sempre e che ricadono sui fi gli. Il commissario di Calabria Verde ha osato sfidare queste leggi: chi ha sbagliato e ha pagato, può ancora lavorare. Apriti cielo! Chi sbaglia paga, è un detto antico, diffuso nel mondo, in Italia, per moltissimi, gli si dovrebbe aggiungere “per sempre”, e in Calabria, tranquillamente, si potrebbe riformulare: paga chi sbaglia, e pagano i suoi figli, i parenti, gli amici. Chiunque sfiori un cattivo è cattivo. La violazione penale diventa un marchio genetico, il per sempre diventa l’eternità. E anche se dopo aver violato la Legge, si sia pagato il corrispettivo, anche dopo avere scontato la pena del reato. Si dovrebbe stare in un canto, fare i bravi, e lasciarsi morire di fame, perché se non si troverà un privato di buona volontà, non potrà essere lo Stato a soccorrere. La pena totalizzante, il ravvedimento impossibile. E anche se la Costituzione dice altro, anche se l’umanità dovrebbe dire altro, o la pietà, il cuore, l’intelligenza. L’etica, quel pauroso sentimento dei giusti che impera, toglie ogni speranza. In Calabria accade che sia un generale dei carabinieri, ex, a battersi per il diritto alla sopravvivenza dei cattivi, ex anche loro. Il generale Aloisio Mariggiò, commissario straordinario di Calabria Verde, ente regionale che si occupa di forestazione e cura del territorio, lotta contro una crociata moralista che vorrebbe fuori dal lavoro i dipendenti che hanno violato la Legge, pur se hanno scontato la pena, cambiato vita, e tentano di rifarsene una fondata sul lavoro, il rispetto delle regole. Un generale da solo, che affronta le campagne mediatiche, le tendenze populistiche, le mancanze politiche, le deficienze sociali, le perdite di umanità. Difende i suoi operai. E non è facile, perché amministra un ente che negli anni ha dimostrato pecche e vergogne, che si è trasformato in carrozzone assistenziale, improduttivo. Scandalo dopo scandalo, eppure, fonte unica di speranza per migliaia di dipendenti: per i più, che non hanno mai violato la Legge, e per quelli che hanno sbagliato, anche in modo terribile e hanno aggrappato le loro vite a questo lavoro. Insieme, i giusti e gli ex cattivi, smarriti, lasciati senza progetti e senza guida, infi lati nella retorica della legalità, dell’onestà. È un generale, oggi, che deve difendere i suoi operai dagli sbagli di un sistema che vuol far cadere sui dipendenti gli errori di un’intera classe dirigente. In un Sud che è questo, in una Calabria che è fatta di una maggioranza di giusti, ma che dentro ha tante persone che hanno sbagliato. E a quelli che hanno pagato, che vogliono rientrare con gli altri, camminare insieme, un’orda moralista vieta, o vorrebbe vietare, ogni appiglio, ogni ancora. Per i campioni del bene le espiazioni, i riscatti, sono favole. Ai cattivi ex e per sempre, bisogna interdire, negare, licenziare. Devono stare fuori dai buoni spesa, fuori dai redditi di cittadinanza, fuori dal lavoro. Fuori da tutto, chiusi nel recinto delle loro colpe. Ed è strano che a difendere chi ha sbagliato, e non vorrebbe farlo più, ci sia un ex Generale che ha trascorso tutta la propria vita a fermare i cattivi. O, forse, è più strano che non ci siano i corpi sociali a fermare le febbri etiche, le derive morali, l’esigenza di creare mostri per sentirsi migliori di come davvero si sia. Campania. Carcere, tema desaparecido in campagna elettorale di Giuliano Granato* Il Riformista, 19 settembre 2020 Tra i temi “desaparecidos” di questa strana campagna elettorale c’è sicuramente il carcere. Per cui ringrazio “Il Riformista” per aver tenuto vivo un dibattito che altrimenti sarebbe rimasto solo in qualche chiacchierata a margine delle elezioni. Se dobbiamo prender per buona l’affermazione di Dostoevskij secondo cui “il grado di civilizzazione di una società si può misurare entrando nelle sue prigioni”, allora dovremmo dichiarare bancarotta. Il carcere è un grande fallimento, perché incapace strutturalmente di “rieducare” e di rendere l’intera società più “sicura”. Anzi, il carcere è una fabbrica di criminalità. A dircelo è la cruda realtà dei dati. Il 78% di chi esce ci fa rientro. Se fosse un’azienda l’avremmo già chiusa o l’avremmo rivoluzionata. E invece lasciamo che il sistema carcerario rimanga quello che è. E, anzi, peggioriamo di anno in anno. Eppure possibilità diverse ci sarebbero. Basterebbe avere la volontà di vederle e, soprattutto, non avere il pallino di dover individuare sempre il capro espiatorio, le cloache nelle quali gettare chi sbaglia. Esiste già oggi la possibilità di far scontare ai detenuti pene alternative. Su circa 53.000 detenuti in tutto il paese ben 2.000 stanno scontando pene inferiori ai 12 mesi. Esiste l’affido, esistono i servizi sociali. Le statistiche dimostrano che si tratta di soluzioni che funzionano meglio della gattabuia: solo il 10% dei detenuti che usufruiscono di pene alternative torna a delinquere. Peccato che una Regione come la Campania non abbia occhi per queste realtà. Figurarsi poi se mette mano alla borsa. Eppure, ci sarebbe anche convenienza economica. Perché se oggi un detenuto in cella costa circa 100/150 euro al giorno, le pene alternative costerebbero circa un terzo. È qui che la pulsione punitiva appare in tutta la sua stupidità. L’ente Regione avrebbe compiti importanti da portare avanti in tema di carcere. Sua la prerogativa inerente la sanità, anche negli istituti di pena. Esso è spesso il primo problema che i detenuti sottopongono ai parenti, ai Garanti dei Diritti dei Detenuti, nella speranza che non siano solo gli psicofarmaci a entrare tra le mura delle carceri, ma anche medici, attrezzature, medicine. È drammatico sapere che il 21% dei detenuti debba rinunciare alle cure e che il 35% si imbottisca di psicofarmaci. E per costruire le prospettive future di chi uscirà da quelle celle? A oggi, i progetti di formazione professionale sono troppo limitati. Eppure anche qui c’è la dimostrazione che lo sviluppo di competenze e capacità facilita la costruzione di vite future in cui il carcere rimanga un ricordo del passato e non più l’orizzonte “inevitabile” da cui farsi avvinghiare. Infine, una riflessione. Il tema della sicurezza si è imposto nel linguaggio della politica, nei nomi stessi delle leggi. Ma è più sicura una società in cui chi delinque e viene sbattuto in carcere torna a commettere reati non appena rimesso in libertà oppure una in cui chi riprende possesso della propria vita la mantiene lontana dai penitenziari? La risposta è ovvia per tutti. Peccato che una miope politica regionale preferisca consegnarci la prima, senza far nulla per avvicinare la seconda. *Candidato alla Presidenza della Regione Campania per “Potere al Popolo” Campania. I reclusi non votano: facciamo capire che è un loro diritto di Francesca Sabella Il Riformista, 19 settembre 2020 Alle politiche del 2018 solo cento detenuti su mille hanno chiesto di esprimere la preferenza. Il Garante regionale Ciambriello: ecco che cosa succede quando le persone vengono emarginate Per il provveditore Fullone la soluzione è rafforzare i corsi di educazione civica dietro le sbarre. Quando un uomo entra in carcere perde la sua libertà, ma non il diritto di voto. Almeno non automaticamente. Eppure, alle elezioni politiche del 2018, su mille reclusi nelle carceri campane aventi questo diritto circa cento chiesero di poter esprimere la propria preferenza. E mai come ora le prigioni regionali avrebbero bisogno di corsi di educazione civica e di qualcuno che ricordi ai detenuti l’importanza dell’esercizio del diritto di voto. L’Italia, infatti, fa parte di quei Paesi che non negano in modo assoluto la possibilità di votare ai detenuti (come invece succede in Bulgaria e nel Regno Unito), ma nella maggior parte dei casi tale diritto si considera soltanto sospeso e questo avviene solo per alcune categorie di reclusi: per chi è condannato all’ergastolo e per chi deve scontare una pena superiore a cinque anni. Tutti gli altri, quindi, possono votare? La risposta è sì. L’altra domanda è: lo fanno? No, o meglio, non lo fa quasi nessun detenuto. Alle elezioni europee del 2019 l’affluenza è stata quasi pari allo zero. Hanno chiesto di poter votare due detenuti del carcere di Aversa, uno del carcere di Salerno, sette in quello di Secondigliano. Più o meno i numeri sono gli stessi in tutte le carceri, a eccezione di Benevento, Arienzo e Vallo della Lucania dove non è stata fatta neanche una richiesta. Nel 2016, invece, in Campania parteciparono alle elezioni amministrative solo nove detenuti. Ma per un recluso qual è l’iter da seguire per poter votare? “Il detenuto che desidera esprimere il suo voto - spiega Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti - deve fare una istanza, considerata valida fi no a tre giorni dalle elezioni, al sindaco del suo Comune che, una volta appurato che il richiedente ha diritto al voto, spedisce al carcere il certificato elettorale”. A quel punto viene instituito un “seggio speciale” all’interno del carcere. “C’è una commissione - precisa Ciambriello - che si reca all’interno del penitenziario e raccoglie il voto del detenuto. La procedura funziona benissimo e non mi risultano che ci siano problemi. Chi vuole votare, può farlo tranquillamente”. Ma se l’iter burocratico funziona, perché i detenuti non votano? Come per tutte le questioni la ragione non è mai solo una, soprattutto se parliamo della popolazione detenuta che forma un mondo, purtroppo, distante anni luce dalla popolazione libera. “Il disinteresse dei detenuti rifl ette quello della società che vive al di là delle sbarre - spiega Antonio Fullone, dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria campana - Negli anni abbiamo visto una disaffezione crescente nei confronti della politica e un disinteresse verso il voto da parte di chi vive fuori e dentro le prigioni”. Si potrebbe pensare che il disinteresse verso ciò che succede al di fuori delle celle sia spesso dovuto a un defi cit di informazione, ma Fullone non sembra essere convinto di questa ipotesi. “I detenuti hanno accesso ai canali di informazione e sanno cosa succede all’esterno - dice il provveditore - quindi non credo che il problema sia la mancata ricezione di notizie”. Per il dirigente i motivi sono principalmente due: la mancanza di una cultura civica e il fatto che il loro sguardo sia rivolto verso ciò che accade all’interno, perdendo di vista l’esterno. “Senza voler generalizzare o etichettare - precisa Fullone - tanti detenuti sono dentro perché hanno una scarsa dimestichezza con diritti e doveri civici, ci sono corsi di educazione civica ma andrebbero irrobustiti e diffusi maggiormente perché ciò che manca è una cultura e una tradizione civica. Il disinteresse verso la politica è il risultato di questa condizione, unito al fatto che le priorità in carcere diventano altre, per questo bisogna stimolare la loro attenzione verso questi temi, perché vuol dire rispettare il compito del carcere che è quello di rieducare e reinserire, non di emarginare”. Per Samuele Ciambriello, invece, si tratta anche di una mancata opera di sensibilizzazione. “Nessuno si occupa di spiegare l’importanza del voto ai detenuti - fa sapere Ciambriello - Anche la politica si disinteressa completamente di loro, facendoli sentire ancor di più ai margini della società. E questo, chiaramente, porta i detenuti a sentirsi estranei a quei processi che riguardano la comunità”. Campania. “Ai politici le prigioni non interessano, perciò i carcerati disertano le urne” di Francesca Sabella Il Riformista, 19 settembre 2020 Ziccardi: pochi parlamentari visitano i penitenziari sebbene possano farlo liberamente. Polidoro: chi si trova in cella non è informato e la burocrazia rende tutto più farraginoso. Le sbarre di ferro delle celle separano i detenuti da quello che c’è fuori. Dovrebbero avere una funzione rieducativa con l’obiettivo di reinserirli nella società. Ma fanno molto altro, cioè li separano dai loro diritti e li inducono a credere di non averne più, perché l’arrendevolezza di fronte all’indifferenza di quasi tutti è più forte della consapevolezza di essere uomini e, come tali, titolari di una posizione giuridica all’interno di una comunità. La percentuale dei detenuti che esprime il proprio voto è bassissima. Indice del fatto che ai reclusi non interessano le sorti della società libera nella quale un giorno dovranno tornare. Società che nel frattempo si è dimenticata di loro. La società sì, ma anche e soprattutto la politica. “I detenuti non sono incentivati a votare innanzitutto perché nessuno si occupa di loro - spiega Annamaria Ziccardi, presidente della Onlus Carcere Possibile. I parlamentari, unici autorizzati ad entrare in carcere liberamente, visitano molto di rado quelle strutture, tranne chi ha una storia nei radicali”. I politici girano la faccia dall’altra parte davanti a carceri sovraffollate che cadono a pezzi, suicidi che aumentano di anno in anno, mancanza di agenti penitenziari e di psicologi che dovrebbero seguire i reclusi ritenuti a rischio e un’idea sempre più punitiva e meno rieducativa della pena. “La mancata riforma penitenziaria, le misure carce rocent r iche attuate, sicuramente non correggono la disaffezione dei detenuti verso il voto - dice Zaccardi - Nessuno ha interesse ad andare a fare, con le dovute autorizzazioni, campagna elettorale in carcere perché i detenuti sono considerati di scarso interesse politico”. Assenza della politica e dell’amministrazione, ma anche mancanza di cultura alla base della scarsa attenzione dei detenuti al voto. “Non parlerei di decisione di non votare, ma di mancanza di informazione su tale possibilità - spiega Riccardo Polidoro, responsabile dell’osservatorio carcere dell’unione delle camere penali italiane - La maggior parte dei detenuti non sa di poter esercitare tale diritto sia per ragioni culturali, quindi non lo fa per ignoranza, sia perché l’amministrazione penitenziaria e gli stessi politici non hanno alcun interesse al loro voto. L’amministrazione perché deve impegnarsi affinché il voto sia espresso, i politici perché una campagna elettorale che abbia per oggetto anche il voto nelle carceri sarebbe purtroppo impopolare”. Non solo, secondo Polidoro l’iter per fare richiesta di votare non è poi cosi semplice. “Le criticità sono molte - spiega - Innanzitutto il meccanismo è troppo burocratizzato e ha tempi lunghi, per tale ragione non sempre si riesce a consentire al detenuto di votare. Ma quella più grave è la disinformazione generale che coinvolge tutto il sistema”. E non solo. “I problemi per il detenuto che vuole votare sono molteplici - sottolinea Polidoro - Innanzitutto sono organizzativi per la struttura che lo ospita. Non ha poi un vero referente politico per i suoi innumerevoli diritti quotidianamente non rispettati e, pertanto, l’espressione del voto non è facile”. Come rimediare? “Deve cambiare l’approccio culturale all’esecuzione della pena - conclude Polidoro - Lo Stato deve favorire il voto nelle carceri e la politica esprimere le proprie idee anche dentro le carceri, dove si deve consentire ai candidati di chiedere il voto in base a un programma che veda in prima linea il rispetto dei principi costituzionali”. Monza. Nomina del Garante per i diritti dei detenuti, pubblicato il bando monzaindiretta.it, 19 settembre 2020 “Dare fiducia è la parola chiave da cui partire per promuovere, nei fatti, il reinserimento sociale dei detenuti. Il Garante è lo strumento per avvicinare l’universo del carcere alla realtà che c’è fuori, per far parlare i due mondi”. Con queste parole il Sindaco di Monza Dario Allevi presenta il bando per il “Garante per i diritti delle persone private della libertà personale” pubblicato oggi. Chi è il Garante. Il Garante, istituito da una delibera del Consiglio Comunale approvata all’unanimità il 21 febbraio 2019, si occuperà dei diritti di chi è stato privato della libertà personale, oltre che della sensibilizzazione sul tema dei diritti umani di chi è detenuto. Ha il delicato compito di segnalare il mancato rispetto delle garanzie, anche costituzionali, a tutela di chi ha commesso reati e sta scontando una pena o è in attesa di giudizio. Chi può presentare domanda. Il Sindaco nomina il Garante “fra persone di indiscusso prestigio e notoria fama nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani ovvero delle attività sociali”. Non può presentare la propria candidatura chi si trova in una delle situazioni di ineleggibilità previste per la carica di Consigliere Comunale, chi ricopre il ruolo di amministratore o legale rappresentante in associazioni che operano nel campo dei problemi penitenziari, chi esercita la professione di avvocato o funzioni pubbliche nei settori della giustizia e della sicurezza e/o chi riveste cariche pubbliche elettive. Il Garante resta in carica per la durata del mandato del Sindaco e può essere rinnovato una sola volta. Il ruolo non dà diritto ad alcun compenso. Come partecipare. Il modulo per presentare la propria candidatura può essere scaricato dal sito del Comune (comune.monza.it). La domanda - completa del proprio curriculum vitae, dell’elenco delle cariche ricoperte all’interno di istituzioni elettive ed in enti, associazioni, aziende, società pubbliche e private e della copia della carta d’identità - deve essere inviata via pec all’indirizzo monza@pec.comune.monza.it o consegnata a mano al Protocollo generale (piazza Trento e Trieste, secondo piano) indicando sulla busta “Candidatura Garante per i diritti delle persone private della libertà personale”. Le domande vanno presentate entro le ore 12 di lunedì 19 ottobre. Frosinone. Sportelli per i detenuti, lunedì la presentazione nelle Case circondariali rosinonetoday.it, 19 settembre 2020 Il Garante Anastasìa: “Una presenza importante, soprattutto in un momento come questo, in cui l’emergenza Covid ha reso meno frequenti i contatti con familiari, associazioni e legali di fiducia”. A marzo, a tal proposito, non erano mancate accese proteste. Stefano Anastasìa, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, si recherà lunedì 21 settembre presso le case circondariali di Frosinone e Cassino per illustrare un progetto teso all’integrazione e al rafforzamento della tutela dei reclusi: la rete degli sportelli per i diritti dei detenuti. Si tratta di un’iniziativa attivata dallo stesso Garante, istituito nell’ormai lontano 2003 con apposita legge regionale, in sinergia con università e associazioni qualificate. Anastasìa, dopo aver già presentato il progetto in vari istituti penitenziari (Viterbo, Rieti, Rebibbia femminile, Civitavecchia, Regina Coeli e Rebibbia maschile), farà altrettanto nelle carceri della provincia di Frosinone. “È un servizio - spiega il Garante - che abbiamo voluto promuovere per garantire una continuità di comunicazione tra l’ufficio del Garante e i detenuti, mettendo in rete esperienze e professionalità qualificate già sperimentate, come quelle dell’università Roma Tre che assicurerà la presenza in loco ogni due settimane di suoi volontari, studenti universitari assistiti da tutor esperti. Si tratta di una presenza particolarmente importante, soprattutto in un momento come questo, in cui l’emergenza Covid ha reso meno frequenti per i detenuti i contatti con i propri familiari, le associazioni e con gli stessi legali di fiducia”. A marzo, infatti, si registrarono proteste anche nei carceri di Frosinone e Cassino. Il progetto prevede l’attivazione di una rete di sportelli per l’informazione e l’orientamento delle persone detenute sui loro diritti, con particolare riferimento alle tematiche di competenza del Garante, quali le condizioni di vita di vita in carcere, l’assistenza sanitaria, l’istruzione scolastica e universitaria, la formazione professionale, l’orientamento e l’inserimento lavorativo, l’accesso ai benefici e alle misure alternative alla detenzione e il sostegno al reinserimento sociale a fine pena. Ascoli Piceno. Detenuti ai fornelli: parte il nuovo progetto di Massimiliano Mariotti Il Resto del Carlino, 19 settembre 2020 Con la Fondazione Carisap, la Caritas e la Aquilone i corsi di cucina nel carcere di Marino del Tronto. Cuochi si nasce o si diventa. Presentato alla Bottega del terzo settore il percorso formativo per la cucina con forno promosso dalla Caritas con la cooperativa Ama Aquilone e realizzato grazie al fondamentale contributo della Fondazione Carisap, che sarà rivolto ai detenuti del carcere di Marino del Tronto. “Quello che abbiamo pensato di realizzare nel carcere rappresenta un impegno a lavorare in questo luogo di affettività - ha esordito don Alessio Cavezzi, cappellano della Casa circondariale. Grazie a questo progetto i detenuti potranno riuscire ad arricchire i piatti in maniera fantasiosa utilizzando gli ingredienti a disposizione. Crediamo fermamente che il cibo possa veicolare un sentimento di premura, oltre che costituire un fabbisogno primario della nostra quotidianità. Nel riuscire in questo abbiamo incontrato una grande disponibilità nella fondazione Carisap che ci ha permesso di dotarci di un forno professionale e di rimettere a nuovo gli ambienti della cucina dell’istituto. Potremo contare anche su una impastatrice, un trita verdure multifunzionale e una lavastoviglie. Il corso vedrà la partecipazione di 12 detenuti per un totale di 72 ore che si svilupperanno in lezioni teoriche e pratiche. Chiaramente il tutto si volgerà in totale sicurezza per quanto riguarda gli ambienti di lavoro. Questa iniziativa riuscirà a stimolare lo spirito di collaborazione tra i detenuti e con i formatori”. “Con don Alessio - ha detto la direttrice Eleonora Consoli -, avevamo pensato a questo tipo di progetto. Grazie alla Caritas siamo riusciti a metter giù l’idea poi la fondazione, da sempre molto sensibile al sociale, ci ha dato la forza economica per realizzarlo”. Infine il saluto di Davide Angelo Galeati, presidente della fondazione: “Credo che la fondazione debba sempre abbracciare queste iniziative sociali di importante valore. Siamo onorati di aver permesso di realizzare un’iniziativa del genere e ben vengano altri futuri”. Bari. Giustizia senza una casa. Avvocati contro il governo: “Serve un commissario” di Giuseppe Di Bisceglie Corriere del Mezzogiorno, 19 settembre 2020 Il presidente dell’Ordine attacca Bonafede e rilancia. “La gestione dell’edilizia giudiziaria a Bari sia affidata ad un commissario giudiziario”. È la richiesta del presidente dell’ordine degli avvocati di Bari Giovanni Stefanì, che vuole interpretare il pensiero di tutti quei penalisti che da oltre due anni sono costretti a dover distribuire la propria attività nelle sette sedi provvisorie, sparse un po per tutta la provincia. La necessità di una Cittadella della Giustizia è apparsa ancor più evidente quando, il 23 maggio del 2018, su disposizione della stessa Procura di Bari, fu disposto lo sgombero del Palazzo di Giustizia di via Nazariantz per rischio crolli. Il seguito è storia: per mesi le udienze si sono celebrate, quando si è potuto, all’interno di tende. Poi il passaggio in altri edifici. Ma oggi, con l’emergenza coronavirus, le esigenze sono cambiate. Per questo, al presidente Stefanì non sono piaciute le dichiarazioni del ministro Bonafede, in visita nei giorni scorsi a Foggia, in cui ricordava proprio l’emergenza del maggio 2018. “C’è tanto da fare. C’è un progetto di cittadella giudiziaria anche a Bari su cui stiamo portando avanti il percorso che abbiamo già pensato” ha ammesso il Guardasigilli. E ha poi aggiunto: “Speriamo di poter accelerare ulteriormente i tempi. I miracoli non si possono fare. Sappiamo che a Bari c’è il problema del cosiddetto `spezzatino´, lo chiamano così perché ci sono tanti edifici che ospitano gli uffici giudiziari. I cittadini sappiano che per il ministero della Giustizia ci sono situazioni di trincea, in cui riteniamo che la legalità, l’affermazione della legalità sia uno dei punti di partenza per il rilancio di una terra meravigliosa come questa”. Parole che hanno scatenato la furia del presidente degli avvocati baresi Stefanì. “Leggere che il ministro nutra la speranza di poter accelerare ulteriormente i tempi aggiungendo che i miracoli non si possono fare ci fa cadere le braccia” ha protestato il presidente dell ordine degli avvocati. “Ma quale ulteriore accelerazione? L’ultimo atto ufficiale del Ministero, la firma del protocollo per la sua realizzazione, risale al luglio 2019 mentre l’ultima riunione allo scorso gennaio, quando i funzionari del Ministero garantirono tempi di record per le procedure riguardanti la nuova Cittadella della Giustizia. Da allora più nessuna notizia”, ha stigmatizzato. Intanto ci sono ancora due importanti problemi da risolvere: la ricerca di uno spazio pubblico che possa ospitare le affollate udienze del processo Banca Popolare di Bari e il ritardo dei lavori di ristrutturazione della sede del tribunale di Piazza De Nicola. Eboli (Sa). Il teatro fatto dai detenuti: parte la settima edizione di “Destini Incrociati” stiletv.it, 19 settembre 2020 Esperienze di vita. Il viaggio verso Roma a metà novembre di Scena Teatro e l’Icatt di Eboli, accompagnati dal format “Teatro casalingo” nato durante l’emergenza sanitaria da covid 19, per la settima edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini Incrociati”. La produzione video a distanza, voluta dal Direttore artistico Antonello De Rosa e dal Direttore organizzativo Pasquale Petrosino con protagonisti i ragazzi dell’istituto carcerario diretto da Concetta Felaco, sarà protagonista della rassegna che si terrà presso il Dams dell’Università di Roma Tre. “Destini Incrociati” è promossa dal Coordinamento nazionale teatro in Carcere in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ed il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. “Un connubio molto interessante - commenta Antonello De Rosa - perché grazie all’Icatt, Scena Teatro porta l’esperienza e la solidarietà del teatro all’interno dell’istituto e tutto ciò fa si che gli ospiti possano esternare i propri sentimenti. La rassegna è una motivazione in più per i detenuti ad impegnarsi per una passione”. Entusiasta di tale connubio anche il direttore dell’Icatt di Eboli. “Si è avuta la capacità, grazie al contributo di Scena Teatro - afferma Concetta Felaco - di reinventarsi e seguire questo percorso riproposto con un collegamento a distanza. Un banco di prova per tutti ed i partecipanti hanno dimostrato tante diverse abilità. L’obiettivo della rassegna è di valorizzare le esperienze attive teatrali all’interno degli istituti penitenziari, e sarà realizzato a metà novembre. Per noi è motivo di orgoglio e pregio visto che abbiamo potuto offrire, attraverso il lavoro di Antonello De Rosa e Teatro casalingo, alla nostra utenza la prosecuzione del laboratorio teatrale”. La mafia immaginaria di Andrea Minuz Il Foglio, 19 settembre 2020 Da “In nome della legge” a Montalbano, così cinema e tv hanno trasformato il racconto di Cosa nostra. Nell’Italia del dopo Covid le repliche di Montalbano hanno assunto un sapore ancora più sinistro. L’ennesimo ciclo di vecchie puntate era partito a fine marzo, in pieno lockdown, per “far fronte all’emergenza del Coronavirus” (così recitava il comunicato Rai), ma in quel momento tutta la tv era un flusso indistinto di “programmi registrati prima del dpcm sul Coronavirus” e Montalbano era solo uno dei tanti. Poi l’emergenza è rientrata, le scuole hanno riaperto, la televisione è ripartita, hanno rimesso in lockdown quelli del “Grande Fratello”, ma le repliche sono rimaste. Lunedì scorso, davanti a una puntata del 2016, il déjà-vu che evoca ormai ogni puntata di Montalbano ci parlava anche di qualcos’altro. Ecco che quella Sicilia arcaica, muta, immobile diventava la metafora perfetta di questo periodo sospeso, raggelato, intrappolato in una temporalità ciclica, tra un’emergenza alle spalle, l’incubo dei nuovi contagi e un vaccino che c’è ma non c’è ancora. Una metafora limpida, cristallina, perfetta. D’altronde, in un’ideale sala d’attesa del purgatorio italiano, nel brutto televisore a diciotto pollici sulla parete scrostata, sopra il display eliminacode (rotto), trasmetterebbero in loop una replica di Montalbano. L’idea della Sicilia come metafora dell’Italia, cara a Sciascia, è alla base dell’ultimo libro di Emiliano Morreale, critico cinematografico, firma di Repubblica, studioso e docente universitario, che si lancia nell’impresa un po’ folle di sistematizzare, analizzare e interpretare tutto o quasi il cinema di mafia, con l’appendice non trascurabile di fiction, serie tv, media, da “La Piovra” a “Montalbano” e oltre. Si intitola, “La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema, 1949-2019” (Donzelli, 344 pagine, in copertina il faccione di Alberto Sordi in “Mafioso”, di Alberto Lattuada), ma non è un elenco di film e sceneggiati, né una specie di “Mereghetti” o “Morandini” con la coppola e la lupara. Morreale prova a mettere insieme le traiettorie del cinema italiano, le vicende di mafia e l’uso scenografico della Sicilia intrecciandoli intorno a tre motivi di fondo, vale a dire: 1) l’idea che “quando si trova in difficoltà davanti alle grandi contraddizioni politiche e sociali, il cinema italiano sceglie non di rado di evadere in quella metafora dell’Italia che è la Sicilia”; 2) il fatto che la mafia “è una delle merci più vendibili del mondo, più della Dolce vita, più della cucina” e 3) la consapevolezza che “nessun film o prodotto televisivo ha mai scosso il mondo di Cosa nostra”. Anzi. Da Lucky Luciano che morì d’infarto a Napoli poco prima di incontrare il produttore americano che progettava un film su di lui, a Giovanni Brusca, arrestato mentre guardava il film di Giuseppe Ferrara su Falcone, a Michele Catalano, esponente del clan Lo Piccolo, acciuffato con la tv accesa sul “Capo dei capi”, la fiction Mediaset su Riina, Cosa nostra ha sempre avuto un debole per il cinema. Anche troppo. Lo notava già Michele Greco parlando nell’aula bunker al maxiprocesso di Palermo, in un passaggio ormai celeberrimo: “Io le posso dire una cosa, signor presidente: che la rovina dell’umanità sono certi film, film di violenza, film di pornografia. Perché se Totuccio Contorno avesse visto ‘Mosè’ e non ‘Il Padrino’, non avrebbe calunniato l’avvocato Chiaracane… invece Totuccio Contorno, purtroppo, ha visto “Il Padrino”. Quello di Salvatore Contorno, detto “Totuccio”, uomo fidato di Stefano Bondate, era insomma un problema di gusti cinematografici: si fosse lasciato ispirare da Charlton Heston, “Mosé” in Technicolor e Cinemascope nei “Dieci Comandamenti” di De Mille, anziché da Marlon Brando e dai picciotti di Coppola, non staremmo qui neanche a celebrare il processo. Michele Greco non potrà nulla neanche contro l’inarrestabile vocazione cinematografica del figlio, Giuseppe Greco, che nel 1981 prova a cavalcare l’ultima ondata della commedia sexy all’italiana producendo, coi soldi del padre, “Crema, cioccolata e pa…prikà”, con Renzo Montagnani, Barbara Bouchet e un cameo di Franco e Ciccio: un disastro al botteghino e uno dei rari casi di investimento finanziario sbagliato della mafia. Lo arrestano dopo aver trovato le magliette promozionali del film a casa di un latitante e scoperto che la macchina usata sul set era una Mercedes gentilmente messa a disposizione da Nino Salvo. Ma Giuseppe Greco con Cosa nostra non aveva in realtà nulla a che fare. Assolto in Cassazione, esce indenne dal processo e nel 1992 cambia nome per poter proseguire indisturbato la sua attività artistica. A firma di Giorgio Castellani (il cognome della madre) usciranno, “Vite Perdute”, una specie di sequel di “Meri per sempre”, altro disastro al botteghino, e “I Grimaldi”, ritratto epico-elegiaco del padre Michele, un “grande affresco, pieno di dramma, di passione, di sentimento”. Qui siamo all’apoteosi. L’attore scelto per interpretare “Il Papa” (Adriano Chiaramida, la cui somiglianza con Michele Greco, come ricorda Morreale, è impressionante) viene doppiato da Peppino Rinaldi, la voce italiana di Don Vito Corleone nel “Padrino” di Coppola. Il cortocircuito è completo. “Sublimazione di una mafia arcaica e contadina”, il film di Giuseppe Greco scompare ben presto dalle sale ed è oggi quasi invisibile (ne conserva una copia positiva la Cineteca Nazionale), ma la carriera ricca di flop di questo sfortunato Ed Wood della mafia resta uno tra i capitoli più bizzarri e commoventi della storia cinematografica di Cosa nostra. Sempre al maxiprocesso di Palermo spunteranno fuori anche i primi legami tra boss e set cinematografici. Scrive infatti Morreale che il cinema di denuncia non solo non scuote, ma al contrario “può essere una fonte di affari”. La storia del cinema italiano “è piena di racconti sulle autorizzazioni più o meno indirette delle mafie locali alle troupe venute da Roma. Nel 2011 le intercettazioni hanno documentato l’interesse della famiglia di Porta Nuova per la fiction “Squadra antimafia”, tramite il nipote del capomandamento Calogero Lo Presti che faceva da service per la produzione” (c’è tutto in “Enzo, domani a Palermo!”, il film di Ciprì e Maresco del 1999, sgangherata storia di Enzo Castagna, organizzatore cinematografico siciliano che collaborò con De Sica, Pasolini, Tornare, e finì condannato per una rapina di mafia). Pare insomma che la rete di relazioni tra il cinema e la mafia non sia meno complessa dell’imprendibile groviglio mafia-politica. Siamo di fronte a una materia incandescente, insidiosa, smisurata. Occuparsi dei film di mafia significa finire a scrivere “un bel mammozzone”, come mi diceva qualche tempo fa Morreale mentre stava finendo il libro. Perché “La mafia immaginaria” non è solo una storia dei professionisti del “mafia-movie” (termine in uso nel mondo anglosassone, dove ci si è prodigati in studi e ricerche importanti sul fenomeno), ma un lavoro che si interroga sugli usi tattici, strategici, simbolici del “film di Mafia”. Sul “senso culturale” di questa copiosa produzione e su come, quanto e perché il cinema ha contribuito alla costruzione del nostro immaginario sulla mafia e i mafiosi. Il cinema italiano (Morreale lo precisa subito) non ha quasi mai raccontato davvero la mafia. Si è casomai inventato “un mafiaworld parallelo, che ha influenzato la percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica, e perfino i modo in cui i mafiosi si sono visti”. Così, “anziché chiederci quanto il cinema sia stato attendibile nel raccontare Cosa nostra” (pochissimo) si va “alla ricerca delle regole di funzionamento di un genere, raccontando la sua formazione e il suo senso culturale”. Si parte quindi con Pietro Germi. Il 1949 del titolo è l’anno di “In nome della legge”, un western alla John Ford ambientato in Sicilia con un finale apologetico che all’epoca notano in pochi, ma che col tempo ha trasformato “In nome della Legge” nel nostro “The Birth of a Nation”, con gli uomini d’onore di una volta al posto del “last minute rescue” del Ku Klux Klan di Griffith. Poi, per tutti gli anni Cinquanta, “in concomitanza con un sostanziale silenzio dell’opinione pubblica e dei mezzi di informazione principali, la mafia è assente dagli schermi”. Il passaggio decisivo si gioca tra il 1962 e il 1963, con “Salvatore Giuliano” di Rosi, “Mafioso” di Lattuada, “Un uomo da bruciare” di Valentino Orsini e Paolo e Vittorio Taviani. A dicembre del ‘63 viene istituita la Commissione parlamentare antimafia, e nel giro di pochi mesi escono (per Einaudi), “Il giorno della civetta” di Sciascia e “Mafia e politica” di Michele Pantalone, il saggio che fornisce alla borghesia degli anni Sessanta, specie a quella del continente, “il più efficace schema interpretativo del fenomeno”. In quel momento, la lettura che ne dà il cinema italiano è in gran parte quella di “un fenomeno feudale legato al mancato sviluppo economico”. Una lettura che naturalmente è centrale anche nel “Gattopardo”, ma che nel decennio successivo si innesterà sulle forme del cinema politico, esplorando zone d’ombra, misteri, complicità dello Stato in un arco che arriverà fino al “Divo” di Sorrentino e al bacio tra Riina e Andreotti, una scena che nel film sembra più uno spot Mibact contro l’omofobia che un pezzo di denuncia civile. Si può parlare dei film di mafia come un genere? Sì e no. Di fronte alla mafia, il cinema italiano ha più che alto squadernato tutti gli schemi narrativi e i generi a disposizione, con una certa prevalenza del cinema civile, certo, ma anche con varie anomalie ed eccentricità inclassificabili: il musical di Roberta Torre, “Tano da morire”, i lavori di Ciprì e Maresco, o una formidabile trilogia hardcore con Selen, “Concetta Licata”, che sfiancata da quasi quattro orge di orge in prigione diventerò collaboratrice di giustizia e simbolo immacolato dell’antimafia. Siamo d’altronde nel 1994, a ridosso delle stragi di Capaci e via d’Amelio che, si capisce, cambiano tutto. Da lì in poi le immagini della cronaca, le invenzioni del cinema e della fiction, le fiaccolate, i lenzuoli, le marce contro “tutte le mafie”, i vini della legalità fatti con l’uva dei terreni confiscati alla mafia, diventano un unico gigantesco “mammozzone”. La vedova Schifani in lacrime che chiede ai mafiosi di inginocchiarsi ai funerali per i morti di Capaci è l’icona di un sistema di immagini dove c’è dentro ormai tutto. Si arriva così al diluvio di fiction sulla mafia di questi anni, ai biopic a forma di santino su giudici, inquirenti, giornalisti, si arriva a Pif e alla “necessità di costruire una memoria pedagogica dell’antimafia” (è il 2013, sul palco della Leopolda Pif si lancia in un’arringa contro la mafia letta su un iPad con la cover rossa, come l’agenda di Borsellino: nasce “l’antimafia pop”). Oggi però la mafia è “vintage”, un “sottoinsieme di modernariato filmico e televisivo d’epoca”. Come ricorda Morreale, “non lo si è notato spesso, ma negli ultimi vent’anni nessun film su Cosa Nostra è ambientato al presente”. Tranne uno: il folle, apocalittico e nichilista, “La mafia non è più quella di una volta”, di Maresco. E’ “una versione molto per i poveri della ‘Società dello spettacolo’ di Guy Debord”, dice Maresco intervistato da Morreale, perché “della mafia oggi non si parla più se non nelle fiction” e “tutto è allo stesso livello: mafia, antimafia, cerimonie istituzionali”. Se parli con i giovani sottoproletari, dice Maresco, ti rispondono, “mi piacerebbe fare il killer, ma se non posso anche il carabiniere va bene”. Oppure c’è l’insopprimibile fascino del pittoresco, la Sicilia turistica dei romanzi di Camilleri dove la mafia, “è un ingrediente tra gli altri, ma non quello decisivo”. Con Montalbano si torna infondo alla Sicilia dei primi delitti di mafia, al mondo feudale, alle foto di Natale Gaggioli, reporter palermitano che dedicò la sua vita a documentare i morti ammazzati di Cosa nostra. Come ricorda Morreale, “Gaggioli si portava sempre dietro una pala di ficodindia, la pianta simbolo di una Sicilia circondata dal mare, inondata dal sole, conosciuta nel mondo per la sua conca d’oro o la cima innevata dell’Etna”. Quando Gaggioli arrivava sul luogo del delitto, dava un’occhiata alla luce, faceva due calcoli, piazzava il suo ficodindia vicino al cadavere, quindi scattava. La spiegazione era semplice: “Se non le facessi così, le mie fotografie oltre lo Stretto non le comprerebbe nessuno”. Periferie, quel dolore da curare di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 19 settembre 2020 La ferocia dei nostri giorni non è un virus che colpisce in modo oscuro e casuale ma una conseguenza. Il tasso di disoccupazione di Artena è il 17,3%, quello di Paliano il 20,3%: quasi il doppio di Roma. L’istituto Morano di Parco Verde, a Caivano, si batte contro uno dei livelli di dispersione scolastica più alti della Campania e, dunque, d’Italia. Ad Ardea la crisi s’è fatta business e anche i buoni spesa del Covid-19 sono finiti sul mercato nero. Ad Alatri da un paio d’anni la fame ha riportato in auge i furti di galline. Dati ed episodi che direbbero molto: e, tuttavia, sono rari da trovare nelle narrazioni dei nuovi orrori che salgono dalle pieghe del Paese. Il discorso pubblico tiene ormai in gran sospetto quasi ogni lettura sociale o economica della ferocia quotidiana. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie della scorsa legislatura ha messo nero su bianco che per riscattarci da questa ferocia dovremmo investire un miliardo l’anno per dieci anni su istruzione, infrastrutture, bonifica dei quartieri più disagiati. Ma, ancora oggi, avanzare l’ipotesi che i cosiddetti mostri della cronaca nera celino qualcosa di più complesso dietro il loro ghigno caricaturale, può costare l’accusa di garantismo peloso quando non, addirittura, di buonismo, l’addebito più infamante dei nostri tempi cupi. Frantumate le ideologie novecentesche, sembrano rotti anche gli occhiali che esse portavano in dote per decifrare gli avvenimenti. Dunque, la Cattiveria 4.0 assume un connotato puramente escatologico e pare attaccarsi agli umani come un virus, in modo oscuro e casuale, sfigurandoli in stereotipi negativi. Per dirla con un nome eterno: l’inspiegabile (e inspiegato) Franti del libro Cuore, prima della memorabile rilettura di Umberto Eco. Ma è davvero così? Forse no, a guardar meglio. Esiste una consonanza, più forte del machismo da social o del maschilismo da sceneggiata napoletana, che lega posti come Artena e Caivano, Ardea e Alatri, solo volendo indugiare sugli ultimi luoghi di una geografia che ci appare spaventosa e incomprensibile. Scuole mai finite, redditi non giustificabili, una famiglia forse non povera di mezzi ma sprovvista di valori, i fratelli ora più detestati dai social, Marco e Gabriele Bianchi, sembrano avere più d’una prossimità fisiognomica con i picchiatori di Alatri che, il 25 marzo 2017, ammazzarono Emanuele Morganti, un innocente ventenne, davanti a decine di persone dopo una serata in discoteca, proprio come Willy Monteiro Duarte (anche qui, una lite da nulla, la cocaina a infiammare teste vuote, e il vuoto di piazze e strade dove è più facile spacciare che aprirsi una bottega). Quel suono così simile è il grido di dolore delle nostre periferie. Attenzione: non solo geografiche, in quanto lontane da un centro, ma economiche, culturali; e persino esistenziali (come ricordò Jorge Mario Bergoglio ancora cardinale, spronando la Chiesa a entrarvi per cercare i nuovi ultimi, gli scarti della società). Il regista Daniele Vicari, che ha dedicato al delitto di Alatri uno spiazzante libro uscito per Einaudi, “Emanuele nella battaglia”, coglie con molta efficacia l’elemento della serialità di questi eventi, resi irreali nella loro narrazione banalizzata, grazie alle parole che gli consegna la sorella di Emanuele, Melissa: “A me, Danie’, non mi sono mai piaciute le serie tipo Romanzo Criminale e Gomorra, so’ tutti fichi, tutti forti, tutti vincenti pure se so’ assassini e schiattano tutti, mah…”. La realtà è noiosa, o faticosa da capire, meglio trasfigurarla in un eterno copione tv. Pare che il papà della compagna di Gabriele Bianchi, un politico locale di Forza Italia, si sia rimproverato di non aver scoraggiato abbastanza la figlia, incinta di un samurai da fumetto che neanche a piangere azzeccava un congiuntivo. Ora, se è evidente che la confidenza con la grammatica non preserva dal cortocircuito della mente (gli assassini del Circeo venivano da ottime scuole del quartiere Trieste di Roma) è difficile non ritrovare quella nota comune negli orrori ricorrenti del Parco Verde di Caivano, oggi sfondo del dramma di Maria Paola Gaglione, ammazzata in scooter dal fratello perché innamorata di un ragazzo trans, e ieri, appena pochi anni fa, della morte atroce di due bambini abusati. Parco Verde è un esperimento andato storto (come Scampia a Napoli, Corviale a Roma o lo Zen di Palermo): un falansterio di periferia occupato anche urbanisticamente dall’illegalità. E nelle periferie, o nella vecchia provincia diventata adesso periferia della periferia, si combatte da anni una guerra civile a bassa intensità: dentro le trincee degli alloggi popolari, dei mezzi pubblici, ma anche delle discoteche o dei parcheggi. Per un parcheggio, ad Ardea, periferia problematica della città metropolitana di Roma, la campionessa di basket paralimpico Beatrice Ion è stata insultata sanguinosamente da un razzista che ha spedito in ospedale suo padre, accorso per proteggerla. L’infamia più recente, in una serie che pare infinita, è il pestaggio di un settantenne veneto, unico a intervenire in strada per difendere una ragazza. Certo, il vuoto peggiore è il vuoto di senso. Dopo la morte di Willy, uno degli ultimi grandi vecchi della Repubblica, Emanuele Macaluso, si è chiesto quale sia “la vita sociale in tanti comuni, e non solo nel Mezzogiorno”, svaniti i partiti come centri di aggregazione e in affanno anche la Chiesa, nonostante il monito di Francesco. Non tutto si risolve con l’intervento pubblico. Ma la legislatura nata dalle elezioni del 2018 non è partita bene, dissolvendo in coriandoli i due miliardi del Bando Periferie voluto da Renzi e Gentiloni e cancellando la Commissione parlamentare d’inchiesta. Nel programma di resurrezione del dopo Covid-19 la scuola avrà un posto di primo piano, ci dicono tutti. Antonio Polito su queste colonne ne ha rammentato l’importanza come antidoto al nichilismo. Più soldi sulle scuole (soprattutto nei quartieri del disagio) e più prestigio per i docenti non riscatteranno ormai Gabriele Bianchi, colpevole o innocente che venga giudicato. Ma aiuteranno suo figlio a distinguere tra un videogioco da combattimento e una rissa letale, tra la maschera grottesca di Genny Savastano e la maschera di dolore di un uomo in carne e ossa. Covid. Nel decreto salta lo “scudo penale” per il personale scolastico di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 19 settembre 2020 Nel “Dl semplificazioni” la norma non c’è. I presidi: “Scarsa attenzione dalla politica”. Il movimento “Priorità alla scuola”: “Nelle scuole iniziano a essere sottoposti ai genitori “patti di corresponsabilità”. Nella conversione in legge del decreto “semplificazioni” la proposta di attenuazione della responsabilità penale di presidi, docenti e personale Ata in caso di contagio da Covid 19 in una scuola non è stata accolta. La questione è emersa quando il decreto è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale di lunedì 14 settembre. Il testo sullo “scudo penale” che non è stato accolto prevedeva che il personale scolastico avrebbe dovuto risponde “verso terzi dei danni limitatamente ai casi in cui la produzione del danno” fosse dovuta “a dolo o colpa grave”. In pratica, la responsabilità di un mancato rispetto delle norme stabilite dal comitato tecnico scientifico e applicate dai protocolli sottoscritti per la scuola sarebbe attribuita a una delle figure della “comunità educante” solo in caso di un contagio avvenuto nell’istituto. Questo problema è stato posto già dagli imprenditori in questi mesi e dopo la “riapertura” del 4 maggio. Il 15 maggio l’Inail ha precisato che “dal riconoscimento del contagio come infortunio sul lavoro non deriva automaticamente una responsabilità del datore di lavoro. Non si possono confondere i criteri applicati per il riconoscimento di un indennizzo a un lavoratore infortunato con quelli totalmente diversi che valgono in sede penale e civile, dove l’eventuale responsabilità del datore di lavoro deve essere rigorosamente accertata attraverso la prova del dolo o della colpa”. Come è stato chiarito dai giuristi questo non significa evitare l’azione penale per la verifica delle responsabilità. Una nota del Miur del 20 agosto, a chiarimento del protocollo sulla sicurezza del 6 agosto, ha seguito questa impostazione ma non sembra avere rassicurato i presidi: “Siamo estremamente delusi dal mantenimento di un regime punitivo retrogrado che, ben lungi dal garantire ai cittadini una vera tutela, si limita a cercare un capro espiatorio - ha detto Antonello Giannelli dell’associazione nazionale dei presidi - Continueremo la nostra battaglia di civiltà giuridica per affermare il principio della responsabilità sostenibile”. I presidi hanno sollevato un altro problema che riguarda l’obbligatorietà dei certificati medici, annullata l’anno scorso, che gli studenti dovrebbero esibire al rientro di un’assenza per malattia superiore ai tre giorni. Alberto Villani, presidente Società italiana di pediatria e membro del comitato tecnico scientifico, ha osservato che, nel caso dei bambini in particolare, l’esigenza di questo certificato potrebbe imporre un’assenza di oltre una settimana. I tempi per ottenere il tampone, unico strumento ad oggi capace di attestare un contagio da Covid, sono infatti lunghi. Da qui l’esigenza di diffondere i “test rapidi”. In queste incertezze si può generare un meccanismo nefasto di scaricabarile fuori e dentro le scuole. Senza contare la trasformazione dello stesso personale scolastico in controllori dei comportamenti sui quali possono scaricarsi anche le tensioni con i presidi. In queste condizioni una semplice febbre, o altre malattie stagionali, tanto negli studenti quanto nei lavoratori, possono fare scattare il panico. Problemi che “possono trasformarsi in odissee burocratiche e interpretative che svuoteranno rapidamente gli edifici scolastici. E per forza di cose, si finisce sui “patti di corresponsabilità” che cominciano a essere consegnati dalle scuole per le firme dei genitori. Norme, pareri, linee guida, ambiguità hanno prodotto disparità e aberrazioni locali in materia di comportamenti da tenere a scuola e di certificati da presentare. In queste condizioni, la parola d’ordine della “responsabilità” diventa solo una declinazione di una minaccia in stile burocratese, per ricadere nel vuoto” ha commentato su Facebook il movimento “Priorità alla scuola” che ha indetto una manifestazione a piazza del popolo a Roma il 26 settembre per chiedere una svolta sull’istruzione, la fine del precariato, regola certe per la vita scolastica e investimenti. Alla manifestazione hanno aderito i sindacati Flc Cgil, Cisl e Uil scuola, Gilda, Snals, Cobas e gli studenti dell’Uds. La girandola dei numeri sul precariato continua tra il ministero dell’Istruzione e i sindacati. Il primo ieri ha sostenuto che i posti precari sono 130 mila e, ad oggi, sono già state fatte oltre 110 mila assegnazioni. Per la Gilda la realtà è diversa: “Non siamo neanche a metà del guado. Il numero di stabilizzazioni è dimezzato”. Migranti. Nuovo patto Ue: a rischio i ricollocamenti chiesti da Roma di Francesca Basso Corriere della Sera, 19 settembre 2020 Emergono i dettagli del piano Von der Leyen. Invece di una solidarietà piena tra i Paesi Ue, la riforma prevede solo un sostegno economico a chi è in prima linea come l’Italia. L’annuncio della presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è stato ad effetto: “Aboliremo il regolamento di Dublino - ha detto due giorni fa nel suo discorso sullo stato dell’Unione. Lo rimpiazzeremo con un nuovo sistema europeo di governance delle migrazioni. Avrà strutture comuni per l’asilo e per i rimpatri”, insieme a “un forte meccanismo di solidarietà”. Ora per l’Italia si tratta di vedere in che modo. E, a quanto pare dalle consultazioni tra capitali, i ricollocamenti obbligatori che Roma chiede da tempo non sarebbero previsti. I dettagli sul “Nuovo patto Ue per la migrazione e l’asilo” si sapranno il 23 settembre, quando sarà presentato. Il regolamento di Dublino, sottoscritto anche dall’Italia dall’allora governo Berlusconi, stabilisce i criteri di determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo e prevede la responsabilità unica dello Stato di primo ingresso. Da quel poco che trapela, però, sembra che i tempi non siano ancora maturi per una solidarietà piena tra gli Stati Ue ed è probabile che la nuova riforma preveda solo un sostegno economico e di gestione agli Stati in prima linea. La permanenza - In sostanza non ci sarebbe il ricollocamento obbligatorio del richiedente asilo con gestione della domanda da parte del Paese di destinazione (come invece è accaduto con i profughi salvati in mare ricollocati dopo l’accordo di Malta dello scorso anno): il richiedente asilo resterebbe nel Paese di primo ingresso ma il costo della sua gestione e l’eventuale rimpatrio in caso di mancato accoglimento della domanda verrebbe pagato da un altro Paese Ue non disposto però a prenderlo sul proprio territorio. Ci sarà anche il tentativo di migliorare le procedure per la richiesta di asilo, che spesso sono farraginose e lunghe. I migranti economici - Tuttavia uno dei problemi dell’Italia è che la maggior parte degli sbarchi illegali sulle nostre coste e dei salvataggi in mare (von der Leyen ha detto che “salvare vite in mare non è opzionale”) è rappresentato da migranti economici che non hanno diritto di asilo. La riforma della Commissione Ue è molto ampia e va a toccare tutti gli aspetti della questione migratoria. Quando un migrante sbarca andrà subito identificato per stabilire se potenzialmente può fare domanda di asilo oppure se è un migrante economico. La riforma prevede un meccanismo di rimpatri europei per i migranti economici entrati illegalmente con accordi vincolanti con i Paesi terzi: in sintesi, niente intesa e aiuti economici senza accordo sui rimpatri. I corridoi umanitari - Una parte della riforma riguarderà anche l’immigrazione legale, la cui regolamentazione va migliorata attraverso corridoi umanitari, flussi, chiamate dirette, permessi per studenti. La presidente von der Leyen ha spiegato che è necessaria una politica europea comune sulla migrazione perché con il fenomeno migratorio l’Unione dovrà imparare a convivere. Per questo è necessario creare un sistema di rimpatri veloci e un meccanismo di solidarietà obbligatorio, con un insieme di soluzioni da attuare a seconda delle situazioni e dell’intensità dei flussi migratori. La trattativa - Il 23 settembre sarà presentata la cornice della riforma, cui seguiranno 5 regolamenti normativi (i dettagli saranno fondamentali). La proposta dovrà poi essere negoziata dal Consiglio e la trattativa sarà lunga e complessa perché andrà trovato un punto d’incontro sulla solidarietà obbligatoria. A giugno sette Paesi (il gruppo di Visegrád più Slovenia, Estonia e Lettonia) avevano scritto a Bruxelles per ribadire il loro no ai ricollocamenti obbligatori. E Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro sono stanche di essere lasciate sole. La Germania sostiene il mutuo sostegno (così come la Francia) e vorrebbe chiudere un accordo sotto la sua presidenza. Sarebbe un successo politico rilevante per la cancelliera Angela Merkel, che è al termine del suo mandato e che è già riuscita a far accettare ai Paesi Ue il debito in comune del Recovery Fund. Ma la partita sui migranti sembra ancora più difficile di quella economica. Libano. Le prigioni nella morsa del Covid, divampa la rivolta di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 settembre 2020 Oltre duecento contagi nell’istituto di Roumieh. Il più grande istituto penitenziario del Libano, la prigione di Roumieh situata nei pressi della capitale Beirut, si trova in questo momento nella morsa del Covid- 19. Il “paese dei cedri” ha visto un picco dei contagi all’indomani della devastante esplosione che il 4 agosto ha scosso il porto di Beirut. Da allora le strutture sanitarie sono state messe a durissima prova e a farne le spese sono le fasce più deboli della popolazioni come i detenuti. Ieri si è appreso della denuncia lanciata dal presidente dell’Ordine dei Medici libanese, Sharaf Abu Sharaf, il quale ha comunicato che sarebbero più di 200 le persone positive al coronavirus all’interno del carcere. Il medico però non ha specificato quanti di questi siano prigionieri o guardie carcerarie. In realtà le condizioni in cui vivono i più di 3mila “ospiti” della prigione di Roumieh sono note. Sovraffollamento e condizione igienico sanitarie preoccupanti sono da sempre il problema maggiore. Nonostante le autorità del penitenziario affermino che la situazione sia sotto controllo, nei giorni scorsi era già scoppiata una rivolta nel famigerato Braccio b. Una sollevazione nata proprio in seguito alle notizie che parlavano di un aggravamento del numero delle infezioni. I comunicati ufficiali riportano che le persone positive ai test sono state portate in un’ala del carcere adibita alla quarantena ma le testimonianze che arrivano dal mondo carcerario di Roumieh non lasciano spazio a particolari speranze. I detenuti che riescono ad avere accesso a computer e social network pubblicano post e anche video nei quali descrivono una situazione di solitudine e di rischio concreto di morire in carcere. “Qui non c’è distanziamento né protezioni”, fanno sapere le voci di protesta che arrivano da dentro la prigione. Nonostante ciò Abù Sharaf ha scaricato le responsabilità sui detenuti accusandoli di mancanza di cooperazione e scarso rispetto delle norme sanitarie. Ma le voci di liberare chi è incarcerato per reati minori, in modo da diminuire il sovraffollamento, si moltiplicano. Lo stesso Sharaf ha chiesto al governo di adottare misure urgenti. Prima fra tutte il miglioramento della qualità del cibo e la separazione dei detenuti malati dagli altri. Per il momento il ministero della Salute ha annunciato di star lavorando con i responsabili dell’Interno e della Difesa per allestire due ospedali da destinare ai prigionieri nella valle della Bekaa e un altro a Beirut. Ciò che sta succedendo a Roumieh è probabilmente l’inevitabile sviluppo di una situazione che già ad aprile scorso sembrava sul punto di esplodere. In quel periodo i casi erano appena 582 (ora sono 26.083 e 259 decessi) ma le autorità negavano l’effettiva presenza del virus nei penitenziari. Solamente le denunce delle organizzazioni per i diritti umani gridavano al pericolo imminente per i detenuti e il personale. Ciò fu chiaro quando molti internati organizzarono una serie di proteste alcune delle quali sfociarono in vere e proprie rivolte man mano che cresceva la paura dell’epidemia. Mozambico. Esercito sotto accusa per torture ed esecuzioni sommarie di Stefano Mauro Il Manifesto, 19 settembre 2020 Popolazioni civili vittime della guerra sporca al jihadismo. Fa discutere il video choc di una donna incinta brutalmente uccisa in strada. Una donna incinta nuda in strada, uomini in uniforme che la interrogano e poi la uccidono. Il video, pubblicato sui social lunedì scorso, mostra quello che sembra essere un gruppo di militari del Mozambico che urlano contro la donna e la picchiano ripetutamente con dei bastoni, prima di giustiziarla sul ciglio della strada. Amnesty International chiede al governo di Maputo l’apertura di un’inchiesta indipendente e imparziale, sia riguardo “a questa brutale esecuzione” sia per le “torture e violenze subite dalla popolazione da parte dei militari nella regione di Cabo Delgado”. Per Deprose Muchena, direttore di Amnesty International per l’Africa meridionale, il caso “è stato verificato per la sua autenticità ed è coerente con i recenti risultati di violazioni dei diritti umani e crimini commessi dalle forze armate mozambicane (…). I video e le foto che abbiamo analizzato attestano gravi violazioni dei diritti umani e violenze scioccanti nel nord del paese, lontano dagli occhi del mondo - ha aggiunto Muchena all’agenzia Afp - i soldati che commettono atrocità indossano le uniformi delle Forze di difesa (Fadm) e della Polizia di intervento rapido (Pir) del Mozambico”. Secondo le organizzazioni umanitarie presenti nel paese i combattimenti tra il gruppo jihadista Ansar al-sunna al-shabaab - affiliato allo Stato islamico come Provincia dell’Africa Centrale dello Stato islamico (Iscap) - e le Forze di difesa nazionale hanno avuto “un’ulteriore recrudescenza in agosto” con la conquista da parte dei miliziani jihadisti del porto di Mocimboa da Praia, vicino a un sito per lo sviluppo di progetti di gas naturale. Lo scorso 24 aprile il governo del Mozambico ha ammesso per la prima volta la presenza di gruppi jihadisti, anche se gli attacchi nella regione settentrionale di Cabo Delgado sono cominciati già nell’ottobre del 2017, causando in questi anni la morte di 1500 civili e oltre 250 mila profughi, secondo le Nazioni unite. Chiamati dalla popolazione “al Shabaab”, i miliziani jihadisti in questi anni hanno bruciato centinaia di villaggi, ucciso indiscriminatamente numerosi civili, arruolato forzatamente e indottrinato i più giovani. Il governo ha promesso un’indagine, ma il ministro dell’Interno, Amade Miquidade ha già detto che gli assassini “erano jihadisti travestiti con uniformi identiche a quella dei militari”, nel tentativo di confondere l’opinione pubblica nazionale e internazionale. Dopo l’escalation di agosto, anche Human Rights Watch ha accusato le autorità di “violenze indiscriminate nei confronti della popolazione civile, con decapitazioni, torture e altri maltrattamenti che hanno seminato sfiducia verso il governo centrale”.Secondo Zenaida Machado, ricercatrice di Hrw, il governo “ignora volutamente le violenze dei suoi militari e accusa di falsa propaganda chi le denuncia, ottenendo un’ascesa del terrorismo jihadista in tutto il paese”. Cina. Propaganda Xinjiang: “Qui va tutto bene” di Serena Console Il Manifesto, 19 settembre 2020 Sistemi di sorveglianza e detenzioni illegali, repressione, lavoro forzato, pulizia etnica? In un libro bianco Pechino nega ogni accusa e difende le sue politiche nella regione autonoma: solo progresso. Tra lavoro, diritti e rieducazioni “vocazionali” nella regione autonoma cinese “Il lavoro è un’attività umana essenziale. Crea una vita migliore e consente lo sviluppo umano e il progresso della civiltà”. Inizia così la prefazione del libro bianco Occupazione e diritti dei lavoratori nello Xinjiang, rilasciato giovedì dal Consiglio di Stato cinese per difendere le politiche adottate nella regione autonoma, dove le minoranze musulmane sono vittime di una campagna di repressione e detenzione. Il tono rimanda un po’ l triste motto Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi, ndr) posto all’ingresso di diversi lager nazisti durante la seconda guerra mondiale. Con la pubblicazione del libro bianco pregno di toni propagandistici, il governo di Pechino sembra voler rassicurare la comunità internazionale e allontanare le accuse mosse dalle Nazioni unite e da diversi Paesi occidentali. Più voci, infatti, hanno denunciato la campagna contro le minoranze nella regione dello Xinjiang, raccontando lo sviluppo di un sistema di sorveglianza e detenzione arbitraria: in poco tempo il governo cinese si è impegnato a costruire prigioni a cielo aperto, dove i carcerati intonano l’inno nazionale, imparano la lingua cinese, promettono fedeltà al Partito comunista; inoltre, sono costretti ai lavori forzati, non possono osservare i precetti della religione islamica e le donne sono vittime di sterilizzazione forzata. I dati inclusi nella relazione però elogiano il programma, ponendo l’accento su come le politiche formative e occupazionali abbiano determinato significativi cambiamenti economici e sociali per i residenti nella regione. Secondo il corposo documento, circa 1,3 milioni di lavoratori, di cui 415.400 provenienti dal sud dello Xinjiang, sono stati coinvolti in “corsi di formazione orientati all’occupazione” ogni anno, tra il 2014 e il 2019. Non c’è spazio per l’ammissione della violazione dei diritti umani nei confronti di uiguri, kazaki e uzbeki, perché il Partito comunista vuole mostrare i successi conseguiti dai lavoratori grazie a uno specifico programma di formazione, in cui è previsto l’insegnamento del cinese parlato e scritto, oltre a conoscenze giuridiche e know-how da impegnare nel settore primario, secondario e terziario; inoltre, i progetti educativi, secondo quanto riportato nel libro bianco, avrebbero aumentato e migliorato anche la scolarizzazione nella regione. Pechino sembra indirettamente confermare i numeri denunciati dalle organizzazioni internazionali sul sistema avviato nel 2014 con lo scopo di combattere il radicalismo islamico. Proprio nel corpus legislativo si trova la risposta: una legge emanata a ottobre 2018 dal Comitato permanente dell’Assemblea del popolo di Urumqi, capitale dello Xinjiang, autorizza “le autorità sopra il livello di contea a istituire organizzazioni di educazione e trasformazione attraverso dipartimenti di supervisione, come centri di addestramento professionale, per persone influenzate dall’estremismo”. Ma i Centri di educazione, definiti da Pechino “vocazionali” per legittimare il processo di sinizzazione imposto nella regione, si presentano come un’arma per frenare lo spirito indipendentista e colpire un movimento da anni ostile al potere centrale e alla penetrazione degli han, la maggioranza dei cinesi. Il Partito comunista, da quando Xi Jinping è diventato presidente, vuole eliminare ogni moto che possa compromettere la stabilità sociale e politica nel Paese. Nascondendosi dietro l’obiettivo di costruire “una società moderatamente prospera”, secondo cui entro la fine dell’anno cinque milioni e mezzo di cinesi usciranno dalla soglia di povertà, il governo centrale ha avviato nello Xinjiang una politica di rinnovamento, attraverso numerosi progetti infrastrutturali in cui sono coinvolti migliaia di cinesi di etnia han. Un altro dato rilevante che emerge dal libro bianco è la delocalizzazione dei lavoratori dello Xinjiang in altre province cinesi, impiegati principalmente nelle fabbriche tessili anche di marchi internazionali. Il documento dimostra come dal 2018 al 2019 155mila persone provenienti da famiglie povere dello Xinjiang meridionale e 135mila cittadini delle prefetture di Kashgar e Hotan abbiano trovato lavoro altrove, lasciandosi alle spalle una condizione di estrema indigenza. Da tempo, però, si sospetta che in molte aziende tessili cinesi, che confezionano prodotti anche per brand stranieri, ci sia la manodopera dei “rieducati” dello Xinjiang. Avviando una battaglia più ampia contro Pechino, forte della violazione dei diritti umani in diverse realtà cinesi, gli Stati uniti hanno introdotto recentemente delle restrizioni sulle importazioni di prodotti “Made in Xinjiang”. Il divieto include indumenti, cotone, componenti di computer e prodotti per capelli prodotti in aziende che hanno connessioni con i campi nella regione nordoccidentale. La Cina nega le accuse di lavoro forzato, ritenute frutto della fantasia dei Paesi occidentale, e promuove attraverso il libro bianco l’idea di aver costruito un contesto di maggiore sicurezza, benessere e lavoro nella regione e nel Paese.