Il governo vuole carceri più belle… e spera che tutti ci restino dentro di Giulia Merlo Il Domani, 18 settembre 2020 Nella bozza dei progetti del Ministero della Giustizia da finanziare con i fondi europei ci sono 600 milioni per costruire e ristrutturare gli edifici, ma poco o niente per il reinserimento sociale dei detenuti. Edilizia carceraria, soprattutto. Poi lavori socialmente utili, quindi gratuiti. Infine qualche spicciolo per le misure di reinserimento sociale, ma solo per i minorenni. Nulla, invece, è previsto per gli adulti: solo il finanziamento per lavori di manutenzione all’interno delle carceri stesse. Se la bozza delle proposte del governo italiano per i fondi del Recovery fund fosse confermata, queste sono le priorità del ministero della Giustizia per la gestione delle carceri. Le cifre per l’edilizia sono significative: 300 milioni di euro per “riqualificare il patrimonio immobiliare penitenziario”, con interventi che aumentino la recettività delle carceri esistenti e la realizzazione di nuove trutture e altri 300 milioni per “migliorare la performance strutturale” degli edifici, ovvero interventi di prevenzione antisismica. Lavoro gratis - Per i “lavori di pubblica utilità” vengono chiesti 45 milioni di euro in cinque anni. I detenuti lavorano come volontari fuori dal carcere e l’unica spesa da sostenere è quella di una assicurazione in caso di incidenti, oltre al pasto. In genere, si tratta di attività gestite in accordo coi comuni, che si fanno carico dei costi. I detenuti si occupano, in genere, di pulizia delle strade, verde pubblico e di decoro urbano: il tutto sempre sorvegliati dalla polizia penitenziaria. A oggi, però, si parla di numeri ridotti: i dati del ministero sono aggiornati al 2014 e in quell’anno e registrano poco più di 5mila detenuti, su un totale di 63mila. Invece, il ministero sembra preferire il lavoro dei detenuti interno al carcere. La bozza prevede la richiesta di 540 milioni di euro in cinque anni per “consentire l’impegno del maggior numero possibile di manodopera detenuta nelle attività lavorative ecosostenibili per la manutenzione del fabbricato e degli ambienti”. Tradotto, i detenuti lavorerebbero alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per fare raccolta differenziata, pulizia e tinteggiatura delle proprie celle e degli spazi comuni il lavoro verrebbe retribuito secondo un tabellario che ricalca il minimo previsto dai contratti nazionali del settore. In sostanza, la manutenzione ordinaria delle carceri verrebbe appaltata ai detenuti stessi, che sono anche i lavoratori più economici sul mercato. Nessuna spesa sarebbe ipotizzata per il reinserimento sociale dei detenuti, con percorsi di formazione che permettano di avere una possibilità di impiego una volta scontata la pena. Ciò dovrebbe essere previsto solo per i “minorenni e giovani adulti in carico ai servizi minorili”, per i quali il ministero chiederebbe 3 milioni di euro per “promuovere i valori della legalità” con “l’offerta di opportunità formative e lavorative nei campi dell’economia verde e digitale” e di altri 2,5 milioni per la “tutela del diritto allo studio”. Almeno per i ragazzi, dunque, si immaginerebbe la possibilità di una vera e propria rieducazione, in vista di una vita futura fuori dalle mura degli istituti penali per i minorenni. Anche se con risorse irrisorie rispetto alle altre voci. Il documento è ancora ufficioso e il ministero di via Arenula non ha voluto commentarlo, eppure - al netto delle cifre - le voci indicate riflettono le direttrici gestionali che hanno guidato fino a oggi le scelte del guardasigilli, Alfonso Bonafede. Le carceri italiane sono sovraffollate: i detenuti sono 61.230, a fronte di 50.931 posti disponibili. In media, lo stato confina 120 persone dove potrebbero trovare spazio 100. La situazione è più grave in alcune carceri a Regina Coeli a Roma ci sono 1.061 detenuti in 616 posti (più di 170 persone ogni 100 posti), a Brescia 366 per 189 posti (194 persone ogni 100 posti). Per risolvere il problema, che ha mostrato le sue drammatiche proporzioni durante l’emergenza sanitaria, nel 2019 il ministero ha approvato il “piano carceri”, che prevede la costruzione di nuovi penitenziari e la riconversione delle caserme dismesse, per cui erano stati stanziati 30 milioni di euro. Le misure alternative - Ferma la necessità di intervenire sulle strutture carcerarie fatiscenti, nemmeno una parte dei fondi europei è prevista per il potenziamento delle misure alternative al carcere come chiave per ridurre il sovraffollamento e favorire la vita dopo il carcere. Eppure il sistema coinvolge circa 60mila persone - tante quanti i detenuti - ed è tarato sul grado di pericolosità sociale e sulla gravità del reato, valutato dal magistrato di sorveglianza: dagli arresti domiciliari con o senza la possibilità di lavoro; all’affidamento in prova ai servizi sociali, con l’obbligo di colloqui e l’individuazione di percorsi formativi. “L’esecuzione penale esterna al carcere favorisce il reinserimento sociale, che è più facile se il detenuto ha mantenuto un piede nella società invece che venirne completamente tagliato fuori”, dice Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio sulle carceri dell’associazione Antigone. I dati lo dimostrano: secondo l’amministrazione penitenziaria, nel 2017 il 68 per cento di chi ha scontato la pena in carcere è tornato a commettere reati, contro i119 di chi ha avuto accesso alle misure alternative. Il sistema, però, sconta la mancanza di fondi per personale che segue i detenuti. Una carenza che rischia di non venire colmata nemmeno con l’occasione del Recovery fund. Per il ministero sembra più facile costruire un carcere da zero che investire sulla funzione rieducativa della pena. Battisti, il giudice Salvini e la Costituzione che va rispettata sempre di Valter Vecellio Il Dubbio, 18 settembre 2020 Chissà: qualche saltapicchio ora dirà che si è sodali di un terrorista la cui chiave di cella merita solo di essere gettata via. Accusa che, si sommerà ad altre: quando poteva accadere d’essere di volta in volta rubricati come “sfascia-famiglie”, “assassini abortisti”, “vigliacchi nemici dello Stato”; “fascisti” nei giorni pari, “brigatisti rossi” in quelli dispari, e la domenica complici della mafia; anche questa finirà archiviata nella cartellina “Thompson”: dal nome dell’impareggiabile personaggio raccontato da Flaubert, paradigma dell’umana imbecillità. La contumelia e l’offesa non impedirà di sottoscrivere parola per parola, punteggiatura e spaziature comprese, l’intervento di Guido Salvini (Battisti, il carcere e la storia del terrorismo sconfitto, Il Dubbio 17 settembre). Qualche saltapicchio sciorinerà la logora litania che Battisti è un triste figuro, un assassino di cui non ci si deve dar pena, perché è giusto, anzi doveroso, che soffra e patisca, come lui ha fatto soffrire: giusti patimenti a parzialissimo risarcimento del riso e delle beffe in cui si è esibito per anni. Si verrà descritti come appartenenti al “giro” delle terrazze: frequentatori di luoghi modaioli tipo Capalbio o Portofino, simili a quei radical- chic ben descritti da Tom Wolfe: una coppa di champagne millesimato in mano, Leonard Bernstein minori, a procombere di lotta di classe e rivoluzione col cachemire. Pazienza. Il caso Battisti, dunque: non c’è molto altro da aggiungere a quanto scrive Salvini: “Indifendibile… il suo tentativo di dipingersi, per sottrarsi all’estradizione dal Brasile, come un innocente condannato dopo processi ingiusti e un perseguitato politico era risibile e poteva al più soddisfare gli intellettuali poco informati che lo avevano protetto”. Come sia, si pone una questione che non si può eludere con il sospiro: “È il solito Salvini…”, e uno scuoter di testa: “I familiari delle vittime hanno avuto finalmente piena giustizia. Tutti i componenti dei PAC sono stati condannati e nessun responsabile di quegli omicidi è oggi più latitante. Soprattutto quello in cui Battisti credeva e propagandava con le armi è stato sconfitto, questo è il messaggio che viene dal vento della Storia. È giusto che Battisti debba espiare, anche senza sconti, la pena che per tanti anni ha evitato. Ma forse sarebbe meglio trattarlo come un detenuto qualsiasi, anche per non parlarne più. Forse è meglio per tutti”. Ecco il punto. Quelle di Salvini sono affermazioni “normali”, di puro buon senso; ma anche coi tempi che corrono, coraggiose, audaci; che per di più le faccia un magistrato in servizio effettivo, acquista il sapore della sorpresa gradita (ma non certo nell’ambiente dove Salvini opera e vive: impennate di questo tipo, richiedono spalle larghe, e si rischia l’isolamento). In sostanza si viene esortati a ragionare sulla Costituzione: legge suprema che tutte le altre sovrasta. La Costituzione magari non è adeguata, va aggiornata, non risponde alle attuali esigenze; ma fino a quando non viene modificata, va applicata, e non ipocritamente aggirata, fingendo che quanto prescrive non ci sia. Tanto più che i Padri Costituenti hanno avuto cura di redigerla in italiano cristallino, limpido; che non si presta ad equivoci o interpretazioni di basso conio. Ci sono due articoli che in questo caso fanno da stella polare. Il primo, l’articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il secondo articolo riguarda la salute, il 32: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Dunque: umanità delle pene da una parte, con intento rieducativo; tutela della salute dall’altro, e massimamente quando si tratta di persona che, privata della libertà, automaticamente vede lo Stato e le sue articolazioni responsabili della sua salute e incolumità fisica e/ o psichica. Sono le regole basilari di uno Stato di diritto. Occorre davvero ripeterlo che uno Stato di diritto che voglia essere tale, deve valere per tutti, Caino compreso, anzi, soprattutto per i Caini; e che solo se le “regole” si applicano per Caino anche Abele ha la ragionevole speranza di poter dormire qualche sonno tranquillo? È questo che Salvini ci rammemora, con il suo intervento; è augurabile che la sua voce, all’interno della magistratura non resti isolata, e altri suoi colleghi nutrano e vivifichino la riflessione con le loro. C’è poi un’altra questione, sfiorata: quella del 41bis: concepito perché detenuti particolarmente pericolosi e affiliati a cosche delinquenziali organizzate non possano comunicare con l’esterno e continuare a programmare azioni criminose. Intento lodevole, anche se lo strumento è discutibile. Magistrati con il sorriso sulle labbra, ma che non hanno alcuna intenzione di scherzare, dicono che il 41bis non viene applicato per indurre il detenuto a “collaborare”; ma se “collabora” il 41bis viene revocato. Questa pratica - tecnicamente parlando - è una forma di tortura. Già diciotto anni fa Maurizio Turco e Sergio D’Elia realizzarono “Tortura democratica. Inchiesta su la comunità del 41bis reale” (Marsilio editore). Un’inchiesta che sicuramente va aggiornata, ma rimane una base preziosa per avviare una riflessione e un dibattito che - un vero peccato - finora sono stati molto ristretti e semi clandestini. Riforma del Csm nel limbo, ddl penale ai preliminari: Parlamento avvitato sulla giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 18 settembre 2020 È un po’ come per i Tribunali: il film riparte, ma col rallentatore inserito. La giustizia sacrificata al tempo del Covid rischia di trovare un corrispettivo in Parlamento: diversi dei provvedimenti messi a punto dal governo, e in particolare dal ministro Alfonso Bonafede, scontano l’ingolfamento delle Camere dovuto all’emergenza, ma anche le tensioni nell’alleanza giallorossa. Non sorprende, certo, che il fenomeno appaia con chiarezza in prossimità del voto di domenica. Il ddl sul Csm per esempio: varato in Consiglio dei ministri su iniziativa del guardasigilli a inizio agosto, non solo non ha compiuto un passo in Parlamento, ma pare imprigionato nel limbo: il dipartimento Rapporti col Parlamento non ha ancora stabilito se assegnarlo alla Camera o al Senato. Nel primo caso si troverebbe una pista d’atterraggio più agevole: la commissione Giustizia di Montecitorio è presieduta da un sergente di ferro del M5S, Mario Perantoni. Il quale ha appena concordato nell’ufficio di presidenza il sospirato calcio d’inizio per un testo che giace a Montecitorio da assai più tempo: la riforma del processo penale. Giovedì prossimo si partirà con le audizioni “istituzionali”, quelle su cui sono tutti d’accordo: il Cnf, l’Anm, la Procura nazionale Antimafia, il presidente della Cassazione, l’Unione Camere penali. D’altra parte la sfilata dei big di avvocatura e magistratura crea anche allarme. Soprattutto con Ucpi e Cnf, affioreranno in tutta la loro evidenza le tensioni legate alla prescrizione, che il ddl penale pretenderebbe di aggiustare col lodo Conte bis. Di fatto, si aprirà il vaso di pandora, e ripartirà l’offensiva di Matteo Renzi, solo in apparenza dissolta nell’accantonamento del lodo Annibali. Ddl Csm, tema troppo caldo - Proprio i rischi sul processo penale suggeriscono prudenza sulla riforma del Csm. Che pure due giorni fa Bonafede ha rilanciato, in particolare per la parte che punta a “impedire il rientro in magistratura delle toghe entrate in politica: una scelta che compromette l’immagine di terzietà”. Quel capitolo del ddl trova tutti d’accordo. Ma il centrodestra è pronto a sparare i fuochi d’artificio per introdurre il “sorteggio temperato” nell’elezione dei togati a Palazzo dei Marescialli. E certo, mettersi a discutere di materie simili nel pieno del processo disciplinare a Palamara sarebbe un harakiri. Ma neppure sarebbe una passeggiata di salute, per la maggioranza, l’assegnazione del ddl su Csm e ordinamento giudiziario al dirimpettaio di Perantoni, il presidente della commissione Giustizia Andrea Ostellari. Il quale si distingue dal collega pentastellato per un connotato non irrilevante: è un leghista, intransigente, e renderebbe la vita difficile alla maggioranza. Il rebus toghe onorarie - A Palazzo Madama si proverà ad accelerare sull’altra riforma del processo, quella relativa al civile: sul dossier però le perplessità del mondo forense sono forti quanto quelle sulla prescrizione. Oltretutto i senatori hanno tra le mani ancora un’altra delicatissima partita: la riforma della magistratura onoraria. Un dossier in apparenza di seconda fascia catapultato in cima all’agenda delle priorità, soprattutto per impegno di spesa previsto, dalla sentenza della Corte Ue dello scorso 16 luglio. I giudici di Lussemburgo hanno aperto il varco al diritto, per i giudici di pace, a tutele analoghe a quelle dei magistrati ordinari: le ferie innanzitutto. A via Arenula sono perfettamente consapevoli che su quel versante si dovranno ottenere coperture consistenti, a meno di voler andare deliberatamente a sbattere contro la procedura d’infrazione. Le spine legate alle toghe onorarie contribuiscono a spiegare la difficoltà su un altro ddl, messo da Bonafede sul tavolo del Parlamento da più di un anno: è il testo sulle spese di giustizia, che estende la platea di chi può ottenere il patrocinio a spese dello Stato e assicura agli avvocati una procedura più agevole per ottenere la liquidazione degli onorari. Vincola anche il giudice a rispettare, nel definire il compenso, le soglie previste dal decreto sui parametri forensi. Un provvedimento a cui l’avvocatura tiene molto, e che non a caso è stato messo a punto dal guardasigilli d’intesa col Cnf. Il Covid aveva costretto la commissione Giustizia della Camera a relegare la legge nel girone dei “sacrificati”. “Ma adesso ci si rende conto che dopo quel minimo di sostegno offerto ai professionisti, e in particolare alla classe forense, con i bonus da 600 e 1.000 euro, si deve ritornare a interventi più strutturali”, spiega al Dubbio il relatore del ddl, Carmelo Miceli del Pd, “certamente si tratta di un testo in grado di offrire risposte serie”. Il punto è che prima di chiuderlo in freezer, la commissione aveva ipotizzato alcuni interventi estensivi, sia rispetto al contenuto della legge sia per il suo costo. Enrico Costa, che da poco ha lasciato Forza Italia per Azione di Carlo Calenda, ha messo a punto per esempio un emendamento che istituirebbe il principio della soccombenza dello Stato nei confronti del cittadino processato e assolto. Un’ipotesi di grande significato sul piano delle garanzie e che la maggioranza non respinge in toto: ma servirebbero appunto ulteriori coperture. Da una parte le audizioni sul ddl penale di giovedì prossimo costituiscono il segnale che il Parlamento dovrà prima o poi accettare i rischi della sfida. Concluse quelle più autorevoli, andranno concordate le audizioni dei soggetti non istituzionali, e lì il clima finirà per arroventarsi. D’altra parte, su tutte le materie legate alla giustizia, e in particolare all’attività degli avvocati, bisognose spesso di forti impegni economici, sarà il governo nel suo insieme a doversi decidere. E a chiarire una volta per tutte se i professionisti e la giustizia meritano di essere inseriti tra le priorità, anche nell’uso del Recovery fund. O se invece ci si vuole ancora una volta crogiolare nell’illusione che il sistema dei diritti possa provvedere miracolosamente a sé stesso. Recovery Fund, Salvi: “Non enfatizzare il rischio mafia, no ad allarmi ingiustificati” di Liana Milella La Repubblica, 18 settembre 2020 Linee guida alle procure su Covid, colpa medica, insolvenza, intercettazioni, carceri sul nuovo sito della procura generale. In tempi di trionfo della comunicazione via web, anche il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ne utilizza le potenzialità per comunicare con tutti gli uffici di procura italiani. Lancia il nuovo sito - procuracassazione.it - e detta le linee guida sulle emergenze del momento, dal Covid, alla colpa medica, all’insolvenza, ma anche le nuove regole sulle intercettazioni appena entrate in vigore, nonché su una questione sempre caldissima come gli arresti in carcere. Come spiega lo stesso Salvi, “poiché non siamo superiori gerarchici”, le indicazioni non rappresentano un diktat, né tantomeno un obbligo, ma “sono uno stimolo alle indagini seguendo criteri che garantiscano l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge”. Ma è sul Recovery fund e sul rischio che i finanziamenti finiscano in mano alla mafia che il Pg Salvi si pronuncia in modo molto netto quando dice: “Il rischio di un cattivo uso c’è sempre, perché maggiori sono i fondi, maggiori sono anche gli appetiti. Ma attenzione al pericolo dell’effetto boomerang degli allarmi, evitando il circolo vizioso che blocca l’arrivo stesso dei finanziamenti e il loro successivo utilizzo”. Un’osservazione, quella di Salvi, in evidente polemica con chi, quando si parla di denaro in arrivo, solleva subito il pericolo mafioso, col rischio che tutto si blocchi a discapito della nostra economia. Covid, insolvenza e colpa medica - Il nuovo sito della procura generale, realizzato in collaborazione con la Direzione informatica del ministero della Giustizia, contiene ovviamente tutte le notizie sull’attività dell’ufficio di Salvi, per esempio il capitolo delle azioni disciplinari, archiviazioni comprese, nei confronti dei magistrati che, in questo momento, sono guardate con estremo interesse dal tutta la magistratura per via del caso Palamara. Ma sono le “linee guida” a rivestire il maggiore interesse soprattutto perché toccano fatti del momento. Come il Covid, che ha cambiato la vita di tutti noi italiani. Ecco, allora, che Salvi affronta il nodo della “colpa medica” perché “di volta in volta il procuratore della Repubblica, al momento di decidere se esercitare oppure no l’azione penale, dovrà tener conto delle modifiche nel tempo dei profili della pandemia per l’esigibilità della condotta”. Il provvedimento non riguarda singoli casi, ma dà indicazioni comuni. Perché, secondo Salvi, “le indagini vanno fatte con equilibrio, anche di fronte al grande sforzo, direi eroico, che la sanità ha fatto nella fase di emergenza”. Del pari, un discorso identico riguarda l’insolvenza. Anche in questo caso la Procura generale ha individuato delle griglie di riferimento che tengono conto del Covid e dei suoi effetti sull’economia italiana e sulla vita delle imprese. Nessun diktat - A chi gli chiede se le “linee guida” siano un obbligo per i colleghi Salvi risponde così: “La nostra non è una funzione di coordinamento delle indagini, abbiamo un ruolo di impulso e uniformità e questo è importante per la fiducia dei cittadini che si trovano di fronte scelte operate nell’ambito di criteri che mirano all’uguaglianza”. Le norme anticorruzione? Una babele senza costrutto di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 18 settembre 2020 Riflessioni sul fenomeno corruttivo sorgono spontanee alla luce dei numerosi - e purtroppo continui - scandali, in particolare per quanto concerne gli episodi di corruzione in cui sono coinvolti attori di spicco del mondo giudiziario. Dal cosiddetto sistema Siracusa, passando per il caso Palamara fino alla recentissima condanna dell’ex giudice del Consiglio di Stato Nicola Russo, si assiste a un trend che - nonostante le recenti modifiche apportate del legislatore - appare non destinato a diminuire, se non a fronte di una riforma organica. La portata del problema, difatti, lungi dal poter essere ridotto a fenomeno di “singole toghe sporche”, assume in realtà un carattere sistemico. Come noto, la corruzione è un reato cosiddetto “funzionale proprio”, in cui l’elemento necessario per la tipicità del fatto è che l’atto oggetto del mercimonio rientri nelle competenze dell’ufficio al quale appartiene il pubblico ufficiale - o l’incaricato di pubblico servizio - corrotto. Numerose sono le diverse fattispecie previste dal codice penale agli artt. 318 e ss., che spaziano dalla corruzione per l’esercizio della funzione alla corruzione finalizzata alla commissione di atti contrari ai doveri d’ufficio. Alla luce dei recenti fatti, sale agli onori di cronaca la “corruzione in atti giudiziari” ex art. 319ter, che copre i fatti compiuti per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo. Basti pensare alle prime pagine dei principali quotidiani nazionali che in questi giorni si sono occupati della vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna dell’ormai ex giudice del Consiglio di Stato Nicola Russo. I magistrati di piazzale Clodio, andando ben oltre le richieste della Procura, hanno condannato l’ex togato a 11 anni di reclusione, a seguito delle dichiarazioni rese dall’avvocato Pietro Amara. Quest’ultimo, dopo il proprio arresto avvenuto nel 2019, ha, difatti, iniziato a collaborare con le Procure di Roma e Siracusa, portando luce su uno scandalo di dimensioni decisamente maggiori, in cui sono coinvolte toghe di altissimo livello e prestigio. A tali rivelazioni si aggiungano altri scandali inerenti il mondo giudiziario, che negli scorsi mesi sono stati assoluti protagonisti del dibattito pubblico. Il legislatore italiano, a partire dalla legge Severino (la 190 del 2012), ha dimostrato di voler trovare un antidoto al virus della corruzione ma, parimenti, ha sempre peccato nell’adozione di provvedimenti organici tout court. Solo con la recente legge 3/ 2019 è stata introdotta, almeno, la procedibilità d’ufficio per le ipotesi di corruzione tra privati, andando a colmare proprio una delle lacune che erano state lasciate senza risposta. Ciò a dimostrazione delle difficoltà che il legislatore nostrano incontra nel predisporre testi completi, esaustivi ed organici. Ma proprio la sopra menzionata legge, cosiddetta Spazza-corrotti, oltre a introdurre modifiche relative all’ordinamento penitenziario, rendendo impossibile l’accesso ai benefici - in termini di misure alternative alla detenzione - per coloro che si sono macchiati di atti corruttivi, ha anche modificato l’istituto della prescrizione statuendo - inspiegabilmente - che il suo decorso rimanga sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado fino alla data di esecutività della sentenza. Una riforma al centro di un vivace, se non violento, dibattito. Da un quadro simile emerge la necessità di un intervento ponderato da parte del legislatore. La schizofrenia alla quale abbiamo assistito - sintomo dell’evidente fretta nel voler, soprattutto in questi giorni, assecondare l’opinione popolare - risulta palese, tenendo conto del fatto che ogni provvedimento adottato è suscettibile di numerosissime critiche e censure, persino da parte della Corte costituzionale. *Avvocato, Direttore Ispeg Non ha rinnegato i No-Tav: deve andare in prigione di Angela Stella Il Riformista, 18 settembre 2020 L’attivista è stata portata nel carcere delle Vallette, deve scontare due anni per una protesta del 2012. Negate le misure alternative perché non si sarebbe allontanata né dal movimento né dal territorio. L’altra notte la polizia ha fatto irruzione nella casa di Dana Lauriola, l’ha arrestata e l’ha portata nel carcere di Torino. Lei è una signora di 38 anni, leader del movimento No-Tav. Non ha commesso reati violenti o una rapina in banca. Ha solo partecipato ad una pacificissima manifestazione contro la Tav, qualche anno fa, che consisteva nell’aprire i caselli dell’autostrada e permettere agli automobilisti di uscire senza pagare. La manifestazione è durata una mezz’oretta. Un gruppo di manifestanti è stato identificato e denunciato. Tra loro, oltre a Dana, c’era anche Nicoletta Dosio, 73 anni. Dana è stata condannata a 2 anni di prigione, Nicoletta solo un anno. A tutte e due è stata negata la condizionale e a Dana anche le misure alternative al carcere, che pure lei aveva chiesto. Perché gliel’hanno negate? Perché non ha dato segni di ravvedimento. I giudici chiedevano l’abiura. Come penso si faccia in Iran, non so se anche in Turchia. Forse no. L’arresto di Dana Lauriola è indubbiamente un atto politico. In Italia provvedimenti del genere si prendevano con una certa frequenza tra il 1922 e il 1945. Poi ci fu il 25 aprile. Nel mondo politico scarse reazioni. Non frega quasi niente a nessuno. Le uniche reazioni indignate sono quelle di alcuni 5 Stelle, per esempio il senatore Alberto Airola si è rivolto a Mattarella perché intervenga. Giusto. Però Airola non se l’è sentita di muovere un passo garantista e basta. Ha chiesto insieme alla liberazione di Dana l’arresto di Roberto Formigoni. Non c’è nessuno in giro che sia capace di esprimere idee e compiere azioni puramente garantiste o libertarie. L’idea è che una giustizia giusta sia quella che protegge i tuoi amici e incarcera i tuoi nemici. Chiaro che così vince sempre la parte peggiore della magistratura. Ieri notte in Valsusa è stata arrestata la portavoce del movimento No Tav e attivista del centro sociale Askatasuna Dana Lauriola: la 38enne è stata immediatamente trasferita nel carcere torinese delle Vallette. Gli agenti della Digos si sono presentati all’alba nella sua casa di Bussoleno dove da due giorni gli attivisti del movimento avevano dato vita ad un presidio permanente contro la decisione del Tribunale di Torino di respingere la richiesta di misure alternative. Attimi di tensione si sono registrati tra i manifestanti contrari alla linea ad alta velocità Torino - Lione e le forze dell’ordine in tenuta antisommossa giunte nei pressi dell’abitazione della Lauriola. La donna deve scontare una condanna in via definitiva a due anni per una protesta a cui ha partecipato il 3 marzo 2012. Quel giorno di otto anni fa circa 300 persone, con lo slogan “Oggi paga Monti”, occuparono l’area del casello autostradale di Avigliana della Torino-Bardonecchia facendo passare gli automobilisti senza pagare il pedaggio. Dodici furono le condanne per un totale di diciotto anni di reclusione per reati di violenza privata, danneggiamento aggravato e interruzione di pubblico servizio. La donna, venuta a sapere che a breve sarebbe stata privata della sua libertà personale, si era detta “serena” e aveva aggiunto: “Andrò in carcere, ma la notizia non giunge inaspettata. Ho semmai la fortuna di poter salutare famiglia e amici prima che vengano a prendermi”. E quasi con amara ironia aveva concluso: “Credo che in prigione mi prenderanno in giro, sono l’unica in Italia ad andarci per un mezzo blocco stradale”. Secondo il Tribunale di Torino, qualsiasi misura alternativa alla pena detentiva è da rifiutare in quanto Dana Lauriola non si sarebbe allontanata né dal movimento No Tav né dal territorio in cui viene portata avanti la contestazione contro la realizzazione del progetto di alta velocità ferroviaria. Non sono ovviamente mancate le polemiche: “Qui si colpisce un movimento e si colpiscono le idee, non è quello che hai fatto, ma quello che pensi”, ha commentato Alberto Perino, volto storico del movimento. Il movimento, dal sito notav.info, ha lanciato un duro comunicato contro l’arresto della Lauriola in cui, tra l’altro, leggiamo: “Questa mattinata (ieri, ndr) ha sancito che la Val Susa è fuori dallo Stato di Diritto, è un territorio occupato come diciamo da anni, dove le forze dell’ordine possono fare il buono e il cattivo tempo al servizio dei potenti senza che nessuno dagli scranni istituzionali faccia domande”. Siamo dinanzi - aggiungono - ad una “vergognosa prepotenza contro una donna, una compagna e contro un intero territorio”. Dal mondo politico ad insorgere contro l’arresto sono intervenuti diversi esponenti del Movimento Cinque Stelle, da sempre contrario alla Tav. Il senatore Alberto Airola ha fatto “appello a Mattarella presidente del Csm: presidente - ha scritto su Facebook - basta con questa magistratura controllata dalla politica. Servono altre prove o i recenti fatti di cronaca non bastano? Lei è un uomo intelligente e capirà ma sarà anche un uomo probo per agire? So che mi capisce, so che conosce benissimo il problema, la prego di non girare la testa altrove”. La consigliera regionale Francesca Frediani si è detta “senza parole. Solo un grande senso di impotenza. Questa cosa riguarda la democrazia nel nostro Paese”. Qualche mese fa aveva fatto notizia, invece, la vicenda dell’altra attivista No Tav Nicoletta Dosio: la 73enne era stata condannata per violenza privata e interruzione di pubblico servizio sempre per i fatti del 2012 ma aveva sempre dichiarato di non voler chiedere misure alternative come i domiciliari e di essere pronta ad andare in carcere: “Il carcere - aveva detto non è uno luogo di riscatto ma di pena però più forte del timore del carcere è la rabbia per l’ingiustizia. Questa è una resistenza, perché sappiamo di essere dalla parte della ragione”. Il sacrifico di Willy, il destino dei carnefici don Domenico Ricca vocetempo.it, 18 settembre 2020 Dopo i fatti di Colleferro, Willy Monteiro Duarte, uno splendido ragazzo di vent’anni ucciso da cosiddetti “balordi”, e di Matera dove due minorenni inglesi vengono stuprate da un branco, si sono letti molti commenti. Credo sia necessario superare ogni aggettivazione, perché in quei cosiddetti “balordi”, magari ci stiamo anche noi, perché a quasi tutti noi piacciono i vincenti, i bulli, gli spacconi, gli sboroni. Come si è scritto in questi giorni ci piacciono nella politica, in tv, al cinema, nel paese e nel quartiere, piacciono gli imbecilli che sbraitano, urlano, si atteggiano, comandano, rompono a tutti, noi li ammiriamo pur proclamando, a parole, la nostra diversità. Noi li votiamo, li eleggiamo, li vezzeggiamo, in una parola li alleviamo. Forse per una narrazione più vera di questi fatti occorre uno sguardo più approfondito al contesto, o come si suole chiamare al brodo di cultura in cui sono immersi. È un brodo di cultura della violenza, dell’istigazione all’odio contro lo straniero, del femminicidio basato sulla presunzione che “tu sei mia”, delle parole gridate, urlate, con accanimento, verso chi non la pensa come noi snaturando così il significato più vero di ogni parola pronunciata per stabilire una buona relazione. Tuttavia chi, come lo scrivente, svolge il suo ministero pastorale in carcere, sa molto bene che anche di questi “balordi” Dio ha compassione e misericordia, offre loro una sponda di salvezza. Li ha segnati con un marchio, indelebile, non per farne uno stigma ma perché gli altri si prendano cura di loro, perché Dio ha detto “nessuno tocchi Caino”. E quindi con razionalità e passione farà di tutto, perché, una volta in carcere, condannati, anche per loro non si butti via la chiave. Al là di tutte legittime esecrazioni del momento, mi pare appropriato quanto Massimo Recalcati, scrive in apertura del suo ultimo saggio “Il gesto di Caino”: “Il racconto bilico - quello di Caino - appare implacabile e disincantato: la violenza del crimine viene al mondo solo attraverso l’uomo e segna indelebilmente il rapporto con il fratello. L’innocenza della natura appare scossa da un vortice imprevisto; non si tratta solo di un impulso irrazionale, né tantomeno di una regressione dell’umano alla dimensione primitiva dell’animale, mostra che nella violenza si manifesta il carattere perverso e narcisistico del desiderio umano; la sua spinta a distruggere l’alterità, l’aspirazione alla propria divinizzazione, il desiderio dell’uomo di essere Dio”. Distruggere l’alterità, rendersi opachi ad ogni prospettiva di relazione per superare un conflitto, farsi giustizieri, onnipotenti, come Dio, andare oltre il peccato dei progenitori nel paradiso dell’Eden, con la soppressione del fratello che si mette di traverso alla propria realizzazione (Gen 4,1-14). Il cristiano poi spenderà ogni energia per questo mondo malato. Non è un caso se Papa Francesco ha intitolato le sue udienze estive “guarire il mondo”. Così ha esordito nell’udienza del 5 agosto. “Nelle prossime settimane, vi invito ad affrontare insieme le questioni pressanti che la pandemia ha messo in rilievo, soprattutto le malattie sociali. E lo faremo alla luce del Vangelo, delle virtù teologali e dei principi della dottrina sociale della Chiesa. … È mio desiderio riflettere e lavorare tutti insieme, come seguaci di Gesù che guarisce, per costruire un mondo migliore, pieno di speranza per le future generazioni (cfr. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 183). In quest’ottica credo sia più che mai opportuno guardare avanti, seminare speranza. Il Vescovo di Tivoli e Palestrina mons. Mauro Parmeggiani così si è espresso nell’orazione funebre di Willy: “Perché la morte barbara ed ingiusta di Willy non cada nell’oblio impegniamoci tutti - istituzioni, forze dell’ordine, uomini e donne della politica, della scuola, dello sport e del tempo libero, Chiesa, famiglie e quanti detengono le chiavi di un potere enorme: quello dei media ed in particolare dei media digitali - a comprometterci insieme, al di là di ogni interesse personale e senza volgere lo sguardo altrove fingendo di non vedere - impegniamoci tutti, dicevo - a riallacciare un patto educativo a 360 gradi”. Quel patto educativo che mi sta molto a cuore, su cui più volte abbiamo ragionato anche sulle pagine di questo giornale. Vorrei che ci rimanesse dentro la convinzione, che dopo la notte viene il giorno, che si parlasse di questa vicenda triste, con velata melanconia, sorretta però da una luce che proviene proprio dalle parole di Willy Monteiro “Non ti preoccupare, ci penso io a loro”. Si racconta - lo riporta il quotidiano Avvenire il 7 settembre - che quando gli educatori avevano qualche problemino a gestire il gruppetto degli adolescenti di Azione Cattolica di Paliano, quando al campo-scuola della diocesi di Palestrina in una stanza - succede - si andava su di giri, Willy arrivava puntuale con quell’intercalare da piccolo uomo: “Non ti preoccupare, ci penso io a loro…”, diceva ai “grandi”, ai responsabili. Poteva avere 15-16 anni, ma già era lì, ben formata nella sua coscienza, tutta la voglia di non girare la faccia dall’altra parte. Purtroppo quel “ci penso io” gli è costata la vita. *Cappellano dell’Ipm “Ferrante Aporti” - Torino Palermo. Focolaio al carcere Pagliarelli: l’emergenza Covid è sempre in agguato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2020 Nella giornata di ieri risulta che sia scoppiato un importante contagio tra gli agenti penitenziari che operano nel carcere palermitano del Pagliarelli. Secondo il rapporto giornaliero del Dap, sarebbero 20 gli operatori che sono risultati positivi al Covid-19. Proprio qualche giorno prima che si verificasse il nuovo focolaio, la segreteria regionale della Uil-pa ha chiesto al presidente della regione Sicilia Nello Musumeci di procedere ed effettuare i tamponi su tutto il personale della polizia penitenziaria, proprio perché la curva dei contagi da Covid-19 sta crescendo in tutta la regione. Questo nuovo focolaio ha creato una impennata di agenti contagiati che si attestano - secondo l’ultimo report giornaliero del Dap a un totale di 32 casi. Per quanto riguarda i detenuti, attualmente il numero risulta basso. Sono solo quattro, sempre secondo il rapporto del Dap, i reclusi positivi al Covid. Uno per ogni carcere, relativamente a quello di La Spezia, Massa, Pisa e Venezia. Numeri fortunatamente bassi, del tutto imparagonabili con il periodo emergenziale appena passato. Da ricordare che si erano riscontrati importanti focolai a Saluzzo, Torino, Lodi (poi trasferiti a Milano), Voghera, Piacenza, Bologna e Verona. Lunghi alcuni decorsi della malattia, che hanno raggiunto anche i tre mesi. Per il coronavirus hanno perso la vita in tutto 4 detenuti, 2 agenti di polizia e due medici penitenziari. Ma il caso del Pagliarelli fa capire che da un giorno all’altro il contagio può divampare all’improvviso nei luoghi chiusi come appunto il carcere. Per questo motivo, e non solo, il sovraffollamento non deve risalire di percentuale. È necessario, infatti, che si scenda a breve sotto i 50 mila detenuti per garantire spazio e distanziamento fisico. Ma i dati non sono riassicuranti visto che - finita l’emergenza - i numeri sono ritornati a crescere. D’altronde - altro fattore significativo - bisogna ricordate che le misure alternative al carcere introdotte dal decreto “Cura Italia” sono scadute il 30 giugno. Come ha ricordato Antigone nel suo pre-rapporto, gli articoli 123 e 124 del decreto- legge 17 marzo 2020 n. 18 hanno introdotto da un lato modalità speciali per l’accesso alla detenzione domiciliare, dall’altro l’estensione delle licenze per i detenuti semiliberi. Entrambe le misure erano a termine, valide appunto fino al 30 giugno 2020. L’obiettivo era quello di far fronte nell’immediato all’emergenza sanitaria in corso, contribuendo alla deflazione della popolazione detenuta. Ma se prima aveva colti tutti impreparati, oggi sappiamo che è di vitale importanza diminuire la popolazione carceraria prima che scoppi un’altra emergenza. L’improvviso focolaio scoppiato nel penitenziario palermitano, dovrebbe essere un monito per ricordare alle Istituzioni che da una parte c’è la pulsione (emozionale) populista che chiede il carcere come unica pena, dall’altra c’è la Politica che dovrebbe agire a favore della popolazione italiana anche al costo di fare scelte impopolari. Rimini. L’emergenza nelle carceri durante il lockdown solo sfiorata grazie alla prevenzione riminitoday.it, 18 settembre 2020 L’assessore Lisi: “Grazie agli interventi di prevenzione messi in atto dal personale penitenziario si è riusciti in quei giorni bollenti a mantenere la situazione controllata, prima che i malumori degenerassero”. L’assessore Gloria Lisi, vicesindaco con delega alla protezione sociale del Comune di Rimini, interviene sull’emergenza nelle carceri dei mesi scorsi, ripercorrendo quei giorni e le strategie messe in campo dal Comune. “Sembra passato un secolo ma in realtà solo pochi mesi. Forse non tanti ricordano come, tra marzo e aprile, in pieno lockdown da pandemia, le carceri italiane furono al centro di violenze e devastazioni. Una situazione drammatica, effetto della pandemia, che ha toccato in maniera pesante l’Emilia Romagna ma che ha solo sfiorato il penitenziario riminese - afferma Lisi. Grazie agli interventi di prevenzione messi in atto dalla dirigenza e dal personale penitenziario si è riusciti in quei giorni bollenti a mantenere la situazione sotto controllo, prima che i malumori degenerassero. Erano i tempi in cui, per prevenire la pandemia, erano state sospese le visite e i contatti con i famigliari, un detonatore che ha portato con se altri rancori e malumori, esplodendo tutto in una volta. Continua Lisi: “Anche a Rimini dunque abbiamo vissuto, fuori dai riflettori, momenti critici. Tra questi ricordo, in particolare, una telefonata di aggiornamento sulla situazione dei “Casetti” con Aurelia Panzeca, comandante della Polizia penitenziaria di Rimini. Intorno a noi, anche in carceri della nostra Regione, la situazione stava degenerando, era un grido di allarme, di collaborazione umana oltre che istituzionale a cui non era possibile rispondere con la sola via burocratica. Tra le altre cose, serviva nel minor tempo possibile materiale di protezione (i cosiddetti Dpi, dispositivi di protezione individuale) per permettere agli agenti e al personale di poter intervenire in sicurezza e secondo i parametri di tutela sanitaria. Non c’era tempo, non si poteva aspettare passaggi burocratici, serviva intervenire subito, cosa che abbiamo fatto. Anche grazie all’arrivo di questi dispositivi di sicurezza, gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti ad intervenire in attività di prevenzione che hanno scongiurato il peggio, permettendo al carcere di Rimini di uscire da quei momenti tragici (saranno più di dieci, si ricorderà, le vittime delle rivolte in tutta Italia, la maggior parte per overdose da psicofarmaci, rubati durante i saccheggi delle infermerie dei carceri) senza particolari incidenti e, soprattutto, senza vittime o devastazioni. Fu un momento più privato che pubblico, e fortunatamente, perché significava che si era agito bene e in tempo. Uno dei momenti più critici e difficili del mio mandato istituzionale, che ho avuto la fortuna di poter condividere con funzionari ministeriali che, prima che ottimi professionisti, si sono rivelati persone di rara umanità”. Gorizia. Nel carcere i detenuti diventano sarti: “Ecco le mascherine, ora siamo utili” di Luigi Murciano Il Piccolo, 18 settembre 2020 Sono 44 i carcerati, fra cui diversi stranieri, in una struttura che ha creato il laboratorio nell’ex cappella. Il progetto “Enjoy” dello Ial Fvg ha 40 ore di corso. Il sogno è di produrle per tutti i penitenziari regionali. “Nutre la mente solo ciò che la rallegra”. M., possente detenuto della casa circondariale di via Barzellini, cita Sant’Agostino per esprimere ciò che ha dentro: la soddisfazione sua e di altri due compagni di carcere per avere portato a compimento (e a tempo di record) un progetto cui tenevano molto: apprendisti sarti per un mese, hanno realizzato un centinaio di mascherine anti-Covid a beneficio di tutta la popolazione dell’istituto: degli altri “ristretti” (attualmente i carcerati sono in tutto 44), ma anche degli agenti di polizia penitenziaria, del personale infermieristico, degli assistenti sociali, dei magistrati. E rispettive famiglie. Sicuramente M. immagina quello strano senso di disagio che aggredisce anche il visitatore occasionale quando sente il pesante portone automatico richiudersi alle sue spalle. La consegna dei documenti e di tutti gli oggetti. Il sentirsi spaesati. Ma con le sue parole M. si dimostra il migliore degli anfitrioni. E riesce a farci dimenticare che il luogo in cui ci troviamo priva della libertà. Il progetto cui M. ha lavorato assieme a due detenuti di origine africana si è concretizzato nel logo “Enjoy”, ovvero “gioisci”: 40 ore per mettersi alla prova, sentirsi utili, lavorare in un contesto di squadra. E uscire dalla dura routine della reclusione. “I primi giorni riuscivamo a produrre una mascherina al giorno - racconta dall’alto dei suoi quasi 2 metri il detenuto. L’ultimo giorno ne abbiamo realizzate 45. Ora ci piacerebbe produrne per tutte le strutture penitenziarie della regione, renderle autosufficienti”. “Mai avrei pensato di cucire in vita mia. È bello sentirsi utili”, fa eco S., il compagno di corso. Un altro M., straniero, annuisce: “Ho imparato qualcosa di nuovo e lo abbiamo regalato agli altri”. Anche per il carcere di Gorizia si è trattato di un momento, nel suo piccolo, quasi storico. “Una vera e propria ripartenza”, sintetizza Alberto Quagliotto, direttore della casa circondariale. Dietro le sbarre goriziane in passato non sempre era stato possibile dare continuità a progetti di laboratorio a beneficio dei trattenuti. Una lacuna, un sacrificio che ora sono un ricordo. I lavori di adeguamento - conclusisi poco prima del lockdown - hanno restituito un “Barzellini” diverso, finalmente pronto ad ospitare anche attività educative. “Potrà sembrare assurdo, ma gli effetti dell’isolamento causato dal Covid si sono sentiti anche qui - commenta Quagliotto -. Ci tenevamo a presentare il nuovo volto del carcere goriziano dopo la ristrutturazione. Abbiamo restituito alcuni spazi che prima risultavano angusti ed inadatti”. In un’ala totalmente rinnovata, la cappella - fatto salvo uno spazio che rimane dedicato al culto - è stata adibita ad amplissima sala polifunzionale. È qui che prenderanno forma i sogni dei detenuti. Sartoria, cucina, legatoria, forse anche teatro e ballo. E nei prossimi giorni persino un concerto rock. “Il percorso che ha portato alla realizzazione delle mascherine rappresenta la prima sperimentazione di attività laboratoriali che proseguiranno nei prossimi mesi presso il carcere di Gorizia, in diverse aree formative - assicura Quagliotto: finalmente abbiamo i locali per prevedere altri percorsi. Non mi piace chiamarli di rieducazione, ma di rinascita”. Il corso di orientamento alle piccole lavorazioni di sartoria è stato organizzato da Ial Fvg in collaborazione con la Casa Circondariale e finanziato dalla Regione nell’ambito del Fondo Sociale Europeo Por 2014-20. È il primo nel suo genere in Friuli Venezia Giulia. Nell’arco di 40 ore di formazione, i partecipanti coinvolti sono stati accompagnati dalla docente Virginia di Lazzaro attraverso tutti i passaggi di produzione di una mascherina artigianale, dalla progettazione iniziale, al taglio della stoffa, alla cucitura a macchina, fino alla creazione del logo personalizzato. “Enjoy” è il loro invito a cogliere la gioia dell’attimo nonostante le avversità. Oltre a Quagliotto, alla significativa cerimonia di ieri mattina hanno preso parte fra gli altri il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Trieste Giovanni Maria Pavarin, il magistrato di Sorveglianza di Udine Lionella Manazzone, l’esperta del Tribunale di Sorveglianza Tiziana Da Dalt, il funzionario giuridico-pedagogico Margherita Venturoli, la responsabile del Servizio inclusione e professioni area sociale della Regione Luigina Leonarduzzi ed Erika Coianiz per Ial. “Attraverso l’esplorazione di diverse pratiche di mestiere - spiegano queste ultime - quali quella della produzione di manufatti artigianali, i detenuti vengono accompagnati alla scoperta di nuove forme di “saper fare”, in un contesto di sperimentazione che li incoraggi a mettere in gioco talento, creatività, affidabilità e spirito di gruppo, permettendo di acquisire competenze tecniche e trasversali utili al percorso rieducativo. Le richieste sono tante, soprattutto nella formazione professionale. Perché una volta fuori di qui c’è una vita da colorare nuovamente”. Per ora i colori dei sogni dei detenuti goriziani sono impressi sulle loro mascherine nuove di zecca. “Quella di color militare è per le guardie, gliele ho promesse”, fa sapere uno di loro. Tutti ridono, di gusto. E quasi dimentichi di trovarti dietro delle sbarre. Fermo. Progetto “Ora d’aria”, con Ferracuti riprendono le attività culturali in carcere ilmascalzone.it, 18 settembre 2020 Era da marzo che i detenuti del carcere di Fermo non assistevano a iniziative culturali all’interno del loro istituto, a causa del confinamento (lockdown). Sono tornati in contatto con il mondo esterno martedì scorso, 15 settembre, grazie al progetto “Ora d’aria”, organizzato dall’associazione Nie Wiem in collaborazione con il Garante dei Diritti della Persona e con il sostegno del Comune di Ancona. Per l’occasione Angelo Ferracuti, uno dei maggiori narratori italiani viventi, è andato a trovarli per presentare l’opera poetica di Luigi Di Ruscio, grande “irregolare” del Novecento, Introdotto dal presidente di Nie Wiem, prof. Valerio Cuccaroni, e accompagnato dal Garante, avv. Andrea Nobili, Ferracuti ha alternato la lettura di poesie al racconto della vita di Di Ruscio, scoperto da giovanissimo, come poeta, da Salvatore Quasimodo, ma costretto comunque a emigrare a Oslo, in Norvegia, per questioni lavorative, a causa della sua umile condizione sociale. Ultimo sempre attento alla condizione degli ultimi, Di Ruscio ha vissuto una doppia esistenza: di giorno operaio in una fabbrica di chiodi, a Oslo, con moglie e quattro figli a carico, di notte poeta e narratore. L’esperienza di vita di Di Ruscio ha catturato l’attenzione dei detenuti che hanno partecipato all’incontro, identificandosi con quel poeta che, nel libro del 1953, all’origine della sua fama, intitolato Non possiamo abituarci a morire, inizia una delle sue più celebri poesie con il verso lapidario “Sono senza lavoro da anni”, fotografando così una condizione comune a molti cittadini che finiscono dietro le sbarre, proprio per reati compiuti anche a causa della mancanza di lavoro. Se oggi Di Ruscio è ancora letto e amato, in particolare dai giovani poeti, è proprio grazie all’opera di scavo e valorizzazione compiuta da Ferracuti, che insieme al critico Andrea Cortellessa ha raccolto per Feltrinelli i romanzi di Di Ruscio e ha scritto la sceneggiatura del film documentario La neve nera di Oslo, fra le altre iniziative. Al termine dell’incontro i detenuti hanno chiesto a Ferracuti di tornare per presentare il suo ultimo romanzo, La metà del cielo, e per ascoltare le loro storie di carcerati. L’idea è stata accolta con favore dal Garante, dal presidente di Nie Wiem e dalla direttrice del carcere, dott.ssa Daniela Valentini, che fornirà ai detenuti alcune copie del romanzo per prepararsi all’incontro. “Mille ore in carcere”, con Anna Maria Corradini la consulenza filosofica entra negli istituti di Antonella Barone gnewsonline.it, 18 settembre 2020 Qualche anno fa Anna Maria Corradini, consulente filosofica nonché “donna adulta, appagata professionalmente e umana-mente”, per riprendere la descrizione che ne dà Angela Venezia* nella prefazione di “Mille ore in carcere” (Diogene Multimedia, 2020) - pensò di verificare se la sua disciplina avrebbe potuto essere utilizzata anche nel mondo carcerario. Da allora ha incontrato detenuti e operatori di cinque regioni (Veneto, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Umbria e Toscana) e firmato, in veste di presidente dell’associazione Eutopia, protocolli di consulenza gratuita con i relativi Provveditorati dell’Amministrazione Penitenziaria. In “Mille ore in carcere” Anna Maria Corradini racconta come la consulenza filosofica abbia aiutato a cambiare il modo di pensare di alcune persone “ristrette” ma anche l’idea che lei stessa aveva del carcere, al punto che, superata la sperimentazione, ritiene siano maturi i tempi per progetti più stabili e strutturati. Nel libro scrive che “prima di entrarvi” pensava che “in carcere fosse racchiuso il “male”. Per gran parte della società, il carcere continua a essere un contenitore del male. Come si può, secondo lei, cambiare questa idea comune? “Ho scritto il libro anche per far conoscere e capire un mondo come quello carcerario, complesso, con criticità ma anche opportunità, popolato non solo da detenuti ma da donne e uomini della polizia penitenziaria, educatori e altro personale che svolge un lavoro importante benché poco conosciuto”. La domanda che in questi anni le è stata fatta più spesso è “chi è consulente filosofico?”… “Infatti, ma lo ripeto volentieri. Un consulente filosofico è uno “specialista del pensiero”, cerca cioè di capire quali sono le riflessioni che condizionano i comportamenti di una persona, compresi quelli che l’hanno condotta in carcere. L’obiettivo è di portare colui che riceve la consulenza a fare scelte eticamente consapevoli. Un approccio che dai non esperti può essere facilmente confuso con quello dello psicologo: in realtà è molto diverso, perché lo psicologo valuta il funzionamento dei processi psichici, individua e tratta le loro eventuali anomalie. La consulenza filosofica, invece, lavora sul pensiero attraverso la domanda costante, l’ascolto e la sospensione del giudizio. In carcere questa differenza è accentuata, perché gli psicologi appartengono all’equipe di osservazione e trattamento, la loro relazione è importante per ottenere benefici e questo porta a i detenuti a voler sembrare “migliori”. Nel rapporto con il consulente filosofico questo non può accadere, perché siamo vissuti come figure fuori dal sistema. A inizio consulenza io dico chiaramente di condannare comunque la condotta che ha portato la persona in carcere perché è stata già giudicata da un tribunale. Io non parlo del reato ma della persona, senza voler con questo sminuire il lavoro degli psicologi che spesso si limitano alla diagnosi, e in contesti penitenziari raramente hanno l’opportunità di curare”. Nel libro lei scrive che “il dolore non è un’emozione negativa (…), ma un principio-valore, necessario per risvegliare una consapevolezza dell’agire”. Secondo la sua esperienza tutte le privazioni che porta il carcere sono utili? “Il dolore a cui mi riferisco è il dolore dell’esistenza, è la sofferenza, non il dolore provocato dalle privazioni dovute alle conseguenze del reato. Il carcere assolve alla sua funzione se offre la possibilità di studiare, lavorare, frequentare attività culturali. Una delle risorse della detenzione è l’abbondanza di tempo che, però, deve essere tempo per riflettere, anche se molti detenuti non sono abituati a farlo. Altrimenti è tempo sprecato”. Lei ha tenuto incontri di gruppo anche con personale amministrativo e di Polizia Penitenziaria. Che tipo di riscontro ha avuto? “All’inizio c’è stato un po’ di timore, superato proprio quando i partecipanti hanno compreso che la consulenza filosofica non ha niente a che vedere con colloqui con uno psicologo. Soprattutto per il personale di Polizia Penitenziaria andare dallo psicologo significa mostrare una fragilità che non può permettersi. Sia chiaro, la fragilità è anche bellezza, è una qualità che contiene sensibilità che va protetta. Ma un agente non può sembrare debole in un contesto in cui è esposto a provocazioni di ogni tipo e nel contempo deve essere professionale e disponibile ad ascoltare le tante richieste che gli vengono poste dai detenuti, soprattutto nelle sezioni a custodia aperta”. Con il personale in quali casi la consulenza filosofica si è rivelata più utile? “In alcuni casi di suicidi di colleghi perché, in questi casi, da affrontare non è stato solo il dolore per la perdita di una persona vicina, spesso amica, ma anche il senso di colpa che in genere compare. Ci si rimprovera di non aver capito il malessere della persona, si ritiene di essere stati egoisti e non in grado di intervenire in tempo”. Cosa ricorda con maggiore emozione di queste prime mille ore in carcere? “Un giovane detenuto che mi ha detto: ‘La porterò sempre con mè. Ho pensato che questo dà un senso al mio lavoro perché vuol dire che resta nel tempo. Il bene è un moltiplicatore del bene così come il male lo è del male”. *Angela Venezia è dirigente - direttore Ufficio III detenuti e trattamento - Provveditorato Regionale Toscana e Umbria “Chi sbaglia paga”, di Sergio Abis. Il carcere alternativo della comunità La Collina recensione di Silvia Gusmano L’Osservatore Romano, 18 settembre 2020 “Subito mi ha colpito la bellezza dei luoghi, vicini ai centri abitati eppure lontani, immersi nel verde e nel silenzio di campi lavorati. Ed è proprio qui, in un posto dove la natura splende, che ho visto e toccato con mano il lavoro di don Ettore, un sacerdote che accompagna i ragazzi suoi ospiti verso la comprensione delle regole”. Così scrive Gherardo Colombo aprendo “Chi sbaglia paga” (Milano, Chiare Lettere 2020, pagine 220, euro 16,90) in cui Sergio Abis racconta con attenzione e partecipazione l’attività della comunità La Collina. Fondata in Sardegna, nella campagna attorno a Cagliari da don Ettore Cannavera nel 1994, ospita detenuti a cui il magistrato di sorveglianza ha concesso una misura alternativa al carcere. In questa prigione priva di sbarre ma ricca di ulivi, la vita è soprattutto esempio, rigore e ascolto, educazione e legalità, rispetto, bellezza e cultura. “Nella comunità di Serdiana - scrive ancora Colombo - c’è la vita insieme, c’è il lavoro ma, soprattutto, si vedono e sono tangibili i risultati di quel lavoro. Ed è tutto il contrario di ciò che succede in carcere”. Le premesse da fare sono molte. La prima è che il carcere alternativo non significa libertà: che si viva in una comunità, ai domiciliari, in affidamento ai servizi sociali in un luogo protetto, si deve comunque scontare la pena, dovendo seguire le prescrizioni del magistrato di sorveglianza che impone tempi e modi per l’espiazione. Se dunque il carcere alternativo è un carcere a tutti gli effetti, si tratta però di un modello completamente diverso dalla prigione classica non solo nei modi ma, soprattutto e prima ancora, nelle finalità, che sostanzialmente si riducono a voler rieducare davvero. Nei fatti, non a (vuote) parole. Il punto di partenza per la rivoluzione ideata da don Cannavera è un dato: 7 detenuti su 10 usciti dal carcere delinquono di nuovo. “Ci volevano duecentomila anni e l’appellativo di sapiens - scrive il sacerdote - per inventare una cosa così stupida? Per immaginare un’istituzione che anziché cercare di rieducare i colpevoli di reati e riconciliarli con la società, li immette in un sistema che, nella migliore delle ipotesi, li lascia come sono, ma in realtà li peggiora, ributtandoli a spasso pronti a delinquere?”. Al contrario di altre sofferenze (perché “in prigione si soffre, anche se non tutti allo stesso modo”), quella inflitta dal carcere può apparire meritata come una dura lezione. I numeri, però, sconfessano questa lettura: “Se fosse una lezione - scrive Sergio Abis, che la prigione l’ha vissuta in prima persona - ci dovrebbe essere il relativo imparare, mentre l’ossessivo balletto del continuo ritorno in carcere, il dramma della recidiva dimostra il fallimento della scuola, della lezione e degli insegnanti”. Alla prova dei fatti il carcere risulta in sostanza una forma di assistenzialismo foraggiato (seppur malamente) dallo Stato. “Il recluso non ha impegni lavorativi, non ha orari, può alzarsi quando gli pare e dormire quanto vuole. Non ha obblighi richiesti da un disciplinare rieducativo, salvo la partecipazione ad attività spesso inutili, percepite come mero passatempo. Si dedica all’ascolto di pessime trasmissioni televisive, gioca a calcio le poche volte che sia consentito, si impegna nel body building, in interminabili partite a carte. Di frequente si gioca d’azzardo, si litiga e si dà inizio a risse, ferimenti e faide infinite (…). In galera si fa la fame, se non si hanno i soldi per la spesa; ci si cambia poco, e non si hanno i soldi per i vestiti e il detergente per lavarli; si prendono le botte, ci si ammala e si viene curati con approssimazione; si vive in celle affollate litigando con il vicino di branda se non ama particolarmente la doccia e puzza di selvatico”. Ovviamente tutto questo vale per coloro che non hanno mezzi propri, privi di una famiglia o di una rete che possa fornire tutto ciò di cui in carcere si ha bisogno. È un’altra delle facce dolorose del sistema penitenziario, quella dell’enorme disparità di condizioni tra i detenuti. “Non tutti soffrono la fame, vengono mal curati e prendono le botte. Ci sono detenuti e detenuti, ci sono i forti e i deboli, e questi, i poveri cristi, stanno ovviamente peggio. E sono la maggioranza”. Confermando la marginalizzazione dei detenuti, l’ambiente carcerario si traduce insomma nella spinta a osservare regole che sono l’esatto opposto di un sereno e proficuo vivere comune, deresponsabilizzando il singolo al massimo grado. Nella comunità di don Cannavera è l’esatto contrario. A La Collina si va a letto presto perché la sveglia è alle 6.30. La prima lezione impartita agli ospiti è che per mangiare bisogna lavorare, non vivacchiare sulla branda dinnanzi alla televisione (in comunità ce n’è una sola per tutti, ed è concessa per pochi minuti al giorno nella sala comune). I ragazzi che seguono il percorso rieducativo devono praticare un mestiere, percepire uno stipendio e imparare a gestire il loro denaro (una quota mensile dello stipendio, infatti, copre i consumi e le spese del vitto). La parola d’ordine, insomma, è responsabilizzazione, ottenuta attraverso l’educazione alla gestione del lavoro, del tempo e del denaro. Quel che si cerca di fare è qualcosa di estremamente radicale. Si tratta, infatti, di ricostruire personalità abituate all’assenza delle regole comunemente accettate dalla collettività. “I ragazzi incarcerati per i reati commessi, anche gravissimi, non sono cattivi. Non esistono i cattivi - scrive Abis - esistono le circostanze che rendono possibile diventarlo: la mancanza di educazione o peggio un’educazione alla devianza (…). In galera c’è finito il disagio delle periferie, delle famiglie problematiche, dei genitori che trasmettono ai figli i propri problemi. Ci sono i figli di madri prostitute e drogate; di padri violenti e alcolisti; di spacciatori; di carcerati condannati a pene talmente lunghe che non avranno mai la possibilità di incidere sull’educazione dei figli, se non in negativo con la propria assenza. Ragazzi abituati alle regole della strada: come potrebbero essere diversi da ciò che sono?”. Davanti a questa situazione, la risposta - secondo don Cannavera e la sua comunità - non può essere la costrizione: “Bisogna persuaderli, invece, dimostrando nei fatti e con l’esempio - prosegue Abis - che una vita come quella di tutti può essere sì, difficile e faticosa, ma mai come la disgrazia di un’esistenza passata in galera, la morte vivente”. Proprio perché l’esempio è tutto, don Cannavera si è “inventato” la figura dell’operatore di condivisione, l’educatore posto a cardine dell’attività di risocializzazione prevista nei percorsi di recupero della sua comunità. Perché non si tratta tanto e solo di impartire istruzioni, suggerire, imporre ed eventualmente sanzionare, quanto piuttosto di comportarsi per primi secondo il disciplinare previsto: mostrare come si fa. È questo il compito dell’operatore di condivisione: condividere con l’ospite il percorso di recupero. Insegnando, dunque, con l’esempio concreto. Così, seguendo un modello di vita mai conosciuto prima, il detenuto impara man mano a sentirsi persona circondata da altre persone che insieme a lui cooperano per il suo recupero, in modo da permettergli di rientrare davvero nella società civile. “È - nota ancora Gherardo Colombo - l’unica cosa che conta: la relazione con l’altro e il rispetto delle regole. Si osservano le regole quando si capisce che esiste anche l’altro, in un circolo virtuoso”. Nel libro il progetto di don Cannavera viene presentato attraverso le numerosissime lettere che il sacerdote ha ricevuto negli anni dai detenuti. Parole a volte sgangherate in una prosa in cui tanto dicono le omissioni, le grafie, le palesi falsità, la materialità stessa del supporto utilizzato - buste, francobolli, fogli strappati da quaderni o agende, o locandine utilizzate sul retro. “Tutto è racconto - scrive Abis - tutto è narrazione del proprio stato, del rapporto con la costrizione e della costrizione stessa, della galera, se solo si è capaci di leggerlo. Di ascoltare”. I mittenti non chiedono pietà, quel che chiedono è il riconoscimento della loro dignità, il minimo sindacale per venir considerati esseri umani e cioè: cibo, abiti, il necessario per l’igiene personale, sigarette e, soprattutto, la possibilità di essere ascoltati, di poter comunicare. “Prima ancora che disumano, perché lo è, oggi il carcere è fondamentalmente stupido. Non serve a niente - scrive don Cannavera - e costa un enorme ammontare di denaro: davvero non si può far di meglio?”. Forse si può. Rimpatri, diritto d’asilo e quote obbligatorie. Bruxelles gela Roma sulla riforma di Dublino di Francesco Grignetti La Stampa, 18 settembre 2020 Non è già più il momento dell’entusiasmo sulla tanto attesa riforma del Regolamento di Dublino. Le bozze della riforma, come elaborate dalla Commissione europea, appena hanno preso a circolare ai piani alti del governo italiano hanno fatto calare il gelo. Già, perché se a parole si annuncia una rivoluzione, nei fatti non cambia granché. Il meccanismo escogitato a Bruxelles prevede infatti che il migrante da rimpatriare sarebbe comunque lasciato nel Paese di primo ingresso fintanto che il rimpatrio non scatta. Ovvero nei Paesi con lunghe coste affacciate sul Mediterraneo. E se anche il rimpatrio sarà definito “europeo”, o perché gestito dalla Commissione stessa attraverso l’agenzia comunitaria Frontex o perché gestito dai singoli Paesi europei per quote, alla fine il risultato sarebbe che il migrante non arriverà mai fisicamente nel Centro o nel Nord Europa. Il Mediterraneo, dal versante orientale alla Libia, è un nervo scoperto dell’Unione, e ieri, in preparazione del Consiglio europeo della prossima settimana, ne hanno parlato al telefono il premier Giuseppe Conte e la Cancelliera tedesca Angela Merkel. Roma insomma, tiene alta la guardia, a partire da Dublino. Per questo, scoperto l’inghippo, gli sherpa diplomatici sono stati sguinzagliati per chiarire ai partner che l’Italia non arretra su un principio di fondo: dato che tutti i Paesi della Ue hanno recepito le Convenzioni internazionali sul soccorso in mare, questi soccorsi devono essere considerati essi stessi “europei”. Di qui, ne discenderebbe la conseguenza pratica che ad ogni sbarco i migranti vadano automaticamente redistribuiti nei diversi Paesi per quote prefissate e li, nel Paese dove sono ricollocati, vada esaminata un’eventuale richiesta di asilo. Se accettata, otterrebbero un permesso di soggiorno e di lavoro valido per l’intera Ue. Se rifiutata, scatterebbe il rimpatrio. Resta da vedere a spese e cura di chi: si consideri che in media ogni rimpatrio costa circa 1.400 euro. E questo un meccanismo, detto pure Patto di Malta, su cui gli italiani (ma anche i greci, gli spagnoli, i maltesi) fanno molto affidamento. Visto da Bruxelles, però, il nuovo testo normativo appare lontano. E se la Commissione europea presenterà il 23 settembre la sua proposta, nelle capitali del Centro e Nord Europa di re distribuzione automatica e obbligatoria non se ne vuole sapere. Perciò dal governo italiano filtra che il 23 inizia un percorso, e che la trattativa sarà costruttiva, ma lunga e dura. I Paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria), con un basso numero di richiedenti asilo, sono infatti contrari all’introduzione di questo tipo di meccanismo di solidarietà. Ma è un ragionamento che vale praticamente per tutti i Paesi non in prima linea. Va ricordato che non serve l’unanimità per riformare il sistema comune di asilo, ma data la delicatezza del dossier si vogliono evitare colpi di maggioranza. E alla fine, per colpa della pandemia, anche la presidenza tedesca non riuscirà a produrre risultati. Migranti. Trenta immigrati reclusi in un autobus per una settimana di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2020 La denuncia al prefetto di Udine di Actionaid, Asgi, Intersos e altre Associazioni. Reclusi per una settimana intera dentro un autobus, senza servizi igienici e sotto il costante controllo delle forze dell’ordine che impedivano loro di allontanarsi dal veicolo. Questa è stata la sorte di 30 cittadini stranieri appena giunti in Italia, giustificata dal fatto che ci sarebbe stata l’assenza di posti in accoglienza e l’impossibilità di reperirli. A denunciarlo, tramite una lettera inviata il 14 settembre 2020 al Prefetto di Udine e al Capo del Dipartimento della Protezione Civile, sono le associazioni Action Aid, Asgi, Intersos e numerose sigle del territorio. Hanno ricordato alle istituzioni che con il “Decreto Cura Italia”, in vigore dal 17 marzo 2020, i Prefetti hanno acquisito poteri straordinari al fine di assicurare la possibilità di ospitare persone in isolamento fiduciario nel caso in cui queste non potessero farlo presso il proprio domicilio. Nel testo, infatti, è per di più specificato che il Prefetto può requisire “strutture alberghiere, ovvero di altri immobili aventi analoghe caratteristiche di idoneità, per ospitarvi le persone in sorveglianza sanitaria e isolamento fiduciario o in permanenza domiciliare, laddove tali misure non possano essere attuate presso il domicilio della persona”. Le associazioni ritengono che tenere segregati i migranti dentro l’autobus sia lesiva della dignità umana e non rispetti gli standard minimi di accoglienza previsti dalla nostra Costituzione e dal diritto internazionale, comunitario e italiano, e che possano essere configurate come trattamento inumano e degradante vietato dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti umani. Le associazioni chiedono, inoltre, che venga garantito “l’accesso all’informativa in materia di protezione internazionale e l’orientamento legale ai cittadini stranieri, come avviene ad esempio nella vicina città di Trieste all’interno delle strutture per l’isolamento fiduciario dei cittadini stranieri che giungono in Italia dalla rotta balcanica”. Infine, le associazioni firmatarie auspicano che le autorità competenti non intendano ricorrere alla soluzione di ospitare su unità navali, per il periodo della quarantena, i migranti che giungono in Friuli Venezia Giulia in modo autonomo attraverso le frontiere terrestri, come indicato nell’Avviso pubblicato il 10 settembre dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Una soluzione, si legge sempre nella lettera, “discriminatoria e lesiva dei diritti delle persone interessate, oltre che più costosa e meno efficiente dal punto di vista della predisposizione delle misure di prevenzione sanitaria. Inoltre, non risulta esservi alcuna necessità di ricorrere alle c. d. “navi quarantena”, posto che sul territorio della Regione Friuli Venezia Giulia vi è un sufficiente numero di strutture che potrebbero essere utilizzate a tale scopo, come peraltro rappresentato da alcuni dei Prefetti del Friuli Venezia Giulia alla ministra dell’Interno nel corso della sua recente visita a Trieste”. Come detto, il prefetto ha giustificato tale azione perché sarebbero assenti i posti di accoglienza. Ma le associazioni hanno ricordato che il Viminale, ad agosto, ha redatto un dossier che rileva una diminuzione del 17% delle persone ospitate in accoglienza (al 31 luglio 2020 rispetto allo stesso giorno del 2019). L’assenza di trasparenza e la scarsa accountability del sistema non consentono quindi di confutare o confermare le affermazioni del Prefetto di Udine sullo stato dei centri di sua competenza. “Non possiamo quindi - scrivono le associazioni - che tornare a chiedere che, sia per le condizioni di accoglienza, sia per le comunità ospitanti, nonché per una migliore gestione in periodo di pandemia, il ripristino al più presto un sistema efficace di micro-accoglienza diffusa a titolarità pubblica”. Migranti. Visita del Garante nazionale a bordo della nave-quarantena “Rhapsody” Ristretti Orizzonti, 18 settembre 2020 Ieri mattina Mauro Palma, presidente del Garante nazionale delle persone private della libertà, e Daniela de Robert, componente del Collegio, dopo un incontro in Prefettura a Palermo, si sono recati insieme al Capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno, Prefetto Michele Di Bari, a bordo della nave “Rhapsody”, dove sono attualmente in quarantena 868 persone migranti, tutte nei giorni precedenti appoggiate all’hotspot di Lampedusa. Di queste, 54 sono risultate positive asintomatiche e alloggiate nelle cabine di un apposito ponte dell’imbarcazione separato dagli altri ponti. Altre 814 persone sono invece in quarantena precauzionale di 14 giorni. La nave ha una complessiva capienza di oltre 2000 passeggeri e consente così il dovuto distanziamento. La visita è stata resa possibile dalla cooperazione, oltre che del Ministro dell’interno, della Capitaneria di porto che ha accompagnato con una ‘pilotina’ la delegazione fino a sottobordo a un miglio e mezzo dal porto, e dell’Usmaf che ha provveduto alla fornitura degli adeguati dispositivi, alla sanificazione dei componenti della delegazione in entrata e in uscita. La Croce Rossa - che ha in carico la tutela sanitaria, nonché l’attivazione di mediazione culturale e di informazione, inclusa quella inerente la protezione internazionale delle persone ospitate - ha eseguito il tampone rapido alla delegazione. A bordo della nave non sono presenti Forze di polizia, ma unicamente personale della Croce Rossa italiana e della Compagnia di navigazione. Le persone sono alloggiate in cabine a due letti (con uso singolo) o a quattro letti (con uso doppio o anche triplo nel caso di nuclei familiari). Le persone sono invitate a limitare le proprie uscite dalla cabina a quelle inerenti alla necessaria socialità, pur in un ambiente così peculiare, e in condizioni di mantenimento di necessarie distanze. I pasti sono serviti in cabina. L’assistenza medica è assicurata a bordo, salvo rari casi di ospedalizzazione per i quali è previsto il trasbordo in elicottero. La delegazione ha visitato cabine e ambienti comuni di uno dei ponti dedicati alla quarantena precauzionale -modulo che si ripete uguale negli altri ponti-, intrattenendosi con alcuni migranti ospitati; ha visitato l’accesso alla zona riservata alle persone risultate positive, assistendo alle operazioni di sanificazione del personale che aveva finito il turno di lavoro in tale area. Inoltre, ha avuto colloqui personali, con l’aiuto dei mediatori culturali, con alcune persone di diverse aree geografiche di provenienza. La complessiva sensazione di dignità della sistemazione riscontrata e di professionalità degli operatori rende per le persone migranti l’attuale situazione non comparabile con precedenti sistemazioni provvisore in hotspot superaffollati e conferma la valutazione di assoluta accettabilità di tale soluzione che il Garante nazionale ha già avuto modo di esprimere in altre occasioni. Ovviamente, tale valutazione va considerata nel contesto dell’eccezionalità e va sempre configurata l’effettiva possibilità che sarà successivamente offerta ai migranti di accedere, qualora ne siano accertati i requisiti, a tutte le modalità protettive e di aiuto all’inserimento che il nostro ordinamento prevede. Il Garante nazionale esprime il proprio ringraziamento e apprezzamento alla Ministra Luciana Lamorgese, al Capo Dipartimento Michele Di Bari e allo staff per gli sforzi compiuti per agevolare la visita. Il Parlamento europeo: “Stato di diritto, in Polonia situazione deteriorata” Il Sole 24 Ore, 18 settembre 2020 Sul fronte dello stato di diritto la situazione in Polonia si è seriamente deteriorata. Lo ha sottolineato ieri il Parlamento europeo, accentuando le pressioni sullo sfondo di un procedimento Ue che sí potrebbe concludere per Varsavia conta perdita di diritti di voto. Dal momento in cui è salito al potere, nel 2015, il partito nazionalista Diritto e giustizia ha introdotto una serie di riforme giudiziarie a scapito dell’indipendenza dei tribunali, posti - secondo l’opposizione - sotto controllo diretto del governo. Nel 2017 la Commissione europea ha aperto un’inchiesta che finora non ha condotto a sanzioni. La risoluzione adottata ieri dall’Europarlamento “esprime profonda preoccupazione per il fatto che il problema dello stato di diritto in Polonia non solo non sia stato affrontato, ma si sia seriamente aggravato”. L’auspicio dell’opposizione in Polonia e di alcuni politici europei sarebbe vincolare il rispetto dello stato di diritto alla distribuzione dei fondi europei: in realtà Varsavia sarà uno dei maggiori beneficiari del prossimo budget. Ieri alcuni deputati hanno chiesto di ampliare la procedura Ue includendo i chiari rischi di violazioni sul fronte della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Così la Turchia di Erdogan criminalizza gli avvocati di Barbara Spinelli Il Dubbio, 18 settembre 2020 La sentenza contro i colleghi di Ebru Timkit conferma le anomalie del sistema giudiziario di Ankara. Il funzionamento del sistema giudiziario turco è talmente al di fuori delle regole procedurali pur ancora esistenti, che diventa difficile perfino riportare semplici notizie di cronaca giudiziaria. In particolare quando gli avvocati sono imputati, come nel caso del processo cosiddetto “Chd2”, nei confronti dell’associazione degli avvocati progressisti, tra cui il presidente Selçuk Kozagaçli, ancora in carcere dal 2017 insieme ad altri 5 colleghi della stessa associazione, la defunta Ebru Timtik e l’altro collega che con lei era in sciopero della fame, Aytac Unsal, il quale, liberato, ha interrotto lo sciopero della fame e che ieri, per la prima volta dalla sua liberazione, ha dedicato due ore al ricevimento delle visite, inondato di affetto e di fiori da colleghi e conoscenti. Già la liberazione di Aytac Unsal era stata alquanto anomala: il provvedimento con il quale veniva disposta la sua temporanea scarcerazione infatti utilizzava un termine tecnico che faceva riferimento all’esecuzione della pena, eppure in quel giorno nessuna sentenza definitiva da parte della Corte di Cassazione era stata depositata in cancelleria, pubblicata o notificata né agli imputati né ai loro difensori. Dunque il 3 settembre 2020 Aytac Unsal è stato liberato in esecuzione di una sentenza che è stata depositata, pubblicata e notificata ai difensori a distanza di oltre una settimana. Ma questa non è certo l’unica peculiarità che caratterizza la decisione. La sentenza della Corte di Cassazione infatti sembra aver risentito delle raccomandazioni rivolte dal Presidente Spano nel corso della sua visita, in quanto, per la prima volta, accoglie la censura mossa dalla difesa degli imputati, secondo la quale per alcuni di loro (Naciye Demir, Özgür Yilmaz, Sükriye Erden) sarebbe stato violato il principio del ne bis in idem, essendo stati portati a giudizio con le stesse imputazioni per le quali già sono a giudizio nel processo “Chd1”, iniziato nel 2013 e ancora pendente. Per Barkin Timtik, la sorella di Ebru ancora detenuta, è stata disposta la cassazione con rinvio, in quanto anche Barkin, sulla base delle stesse prove, nel processo “Chd1” era stata accusata di appartenenza all’organizzazione terroristica ed invece nel processo “Chd2” di esserne una dirigente. Il fatto strano è che la Corte non si è limitata come avrebbe dovuto a cassare con rinvio, ma, stranamente e per la prima volta in questo genere di processi, è entrata nel merito quasi suggerendo alla Corte di Appello che la sua posizione dovrebbe essere stralciata e che andrebbe giudicata solo come appartenente all’organizzazione nell’ambito del processo ancora pendente. Analogamente la Corte si è pronunciata nei confronti di Selçuk Kozagaçli, che al contrario di Barkin era stato dapprima accusato di essere dirigente dell’organizzazione e poi mero appartenente. Anche la posizione di Ezgi Cakir è stata rivista da partecipazione all’organizzazione terroristica a favoreggiamento della stessa. Per tutti gli altri imputati invece la condanna è stata confermata. Tra di loro, anche per Didem Baydar Ünsal, la moglie di Aytac, che dunque nei prossimi giorni rischia di essere ricondotta in carcere e di non potersi più prendere cura del marito durante la sua delicata convalescenza, per scontare la pena, 3 anni e 9 mesi. Nel frattempo, proseguono le operazioni antiterrorismo e continuano gli arresti di avvocati ad Ankara ed in 7 altre province. È chiaro oramai che si tratta di eliminazioni mirate, per assicurarsi da parte del dittatore il controllo totale dell’avvocatura in vista delle prossime elezioni delle rappresentanze forensi. Va detto che non si tratta di semplici arresti, ma di arresti illegali ed eseguiti con metodi disumani e degradanti. Illegali perché non avvengono previo avviso del Presidente dell’Ordine degli Avvocati ed in presenza sua e di un pubblico ministero, come vorrebbe la legge, e disumani perché gli avvocati non vengono prelevati nei propri uffici ma nella propria casa, prima dell’alba, mediante violente incursioni di poliziotti armati. Poi sono stati ammassati per oltre due ore in autobus di polizia, in piena violazione delle norme anticovid. Tra le avvocate arrestate c’erano anche una donna incinta e una donna che è stata trattenuta insieme alla sua bambina di 20 giorni. Vengono in mente le parole del Presidente degli Avvocati contemporanei, Selçuk Kozagaçli, nel corso della sua arringa difensiva proprio al processo “Chd2”: “Questi poliiziotti che qui in aula mostrano le loro armi non le stanno puntando contro di me ma contro di Lei, signor Giudice! Io non mi fido di Lei (non di certo di Lei personalmente) e non ho alcuna fiducia nel sistema, eppure non ho paura. Rimarrò in carcere tanto a lungo quanto sarà necessario. Il mio pensiero va ai giovani avvocati, e anche se solo l’1% di loro si comporterà come gli ho insegnato, allora potrò essere orgoglioso di quello che ho fatto… Sono più preoccupato per Lei, per la sua situazione. Non dimenticheremo quello che state facendo, nessuno di noi lo farà”. Libia, l’annuncio di Serraj: “Mi dimetto entro ottobre” di Francesco Semprini La Stampa, 18 settembre 2020 Il premier conferma le indiscrezioni in un messaggio alla tv e auspica un nuovo governo entro un mese. Ma ci sono molti punti oscuri. Il capo del Consiglio presidenziale con sede a Tripoli e premier del Governo di accordo nazionale (Gna) della Libia, Fayez al Serraj, ha annunciato oggi in un video-messaggio rivolto alla nazione l’intenzione di dimettersi entro la fine di ottobre. “Condivido il desiderio sincero di cedere le mie responsabilità al prossimo esecutivo non più tardi della fine di ottobre”, ha dichiarato Serraj. “Spero - ha proseguito il leader dell’esecutivo riconosciuto dalla comunità internazionale - che la commissione per il dialogo finisca il suo lavoro e scelga un consiglio presidenziale e primo ministro”. Il premier conferma così le indiscrezioni diffuse dalla stampa, sebbene fonti di Tripoli avessero smentito a La Stampa “dimissioni tout court” da parte del premier, pur confermando una certa stanchezza dopo quattro anni e mezzo alla guida dell’esecutivo. Persone vicine a Serraj sostengono che voglia lasciare l’incarico per andare a Londra, dove si trova la sua famiglia: “Il premier è sicuramente provato dalla guerra civile e dai successivi scontri di potere che ci sono stati negli ultimi tempi, come quello con il vice Ahmed Maetig che potrebbe essere la figura di transizione selezionata per il nuovo corso politico”. Questo sul piano personale. Dal punto di vista politico la mossa è stata interpretata come una tattica volta ad ammorbidire le posizioni dei sostenitori regionali di Khalifa Haftar, tra cui l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, e facilitare i colloqui per unire la nazione nordafricana lacerata dal conflitto e da una perdurante interruzione della produzione di greggio. Rimangono però dei punti oscuri, visto che il premier ha annunciato la consegna del potere “alla fine di ottobre, in modo da consentire alla commissione per il dialogo di poter lavorare”. Tale dialogo, ha aggiunto Sarraj, deve terminare con la formazione di un nuovo consiglio di presidenza alla fine del prossimo mese. “Chiedo alla commissione di svolgere il proprio ruolo e di formare il potere esecutivo per garantire la transizione pacifica del potere”, ha detto Sarraj, spiegando poi di voler restare al suo posto per il disbrigo degli affari correnti fino alla consegna del potere al nuovo premier. Il punto è che come ha spiegato il presidente dell’Alto consiglio di Stato (altro ramo legislativo con sede a Tripoli assieme al Parlamento di Tobruk) Khaled al-Mishri a Bouznika, in Marocco e a Ginevra in Svizzera si sono tenute “discussioni informali” i cui risultati “non sono vincolanti”. Al-Mashri ha sottolineato come l’obiettivo primario sia di “porre fine a questa fase di transizione completando il percorso istituzionale attraverso il referendum sulla costituzione e le elezioni parlamentari e presidenziali”. E quindi con la formazione di un nuovo governo. E sottolinea che la sola strada per raggiungerlo sarà “un dialogo che metta fine alla divisione politica, unifichi le istituzioni ed elimini ogni interferenza e minaccia all’integrità dello Stato”. Altrimenti occorre percorrere la strada indicata dal presidente di Tobruk, Aguila Saleh, divenuto nuovo interlocutore di riferimento della Cirenaica (dopo l’indebolimento di Haftar) e dall’Egitto, di emendare gli accordi costitutivi di Skhirat e formare un nuovo Consiglio presidenziale di tre membri, uno per ogni regione (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) e con sede a Sirte, previa approvazione dell’Alto consiglio di Stato e del Parlamento di Tobruk e recepimento in una risoluzione dell’Onu. Percorso osteggiato da diverse parti. Nell’uno o nell’altro caso si tratta di iter che richiedono tempi lunghi, per di più tenendo conto dei disaccordi che dividono gli attori del dialogo intralibico. Appare pertanto molto ottimistica l’ipotesi di raggiungere il traguardo del nuovo esecutivo entro un mese e mezzo come indicato da Serraj. E per di più che ciò venga fatto esclusivamente dalla commissione di dialogo visto che in quella sede, sino a questo momento, non si è toccato nel merito l’ipotesi di un nuovo governo. Ecco allora che il giallo permane: perché Serraj si è lanciato in un annuncio a scadenza con toni così perentori? Una delle ipotesi è che voglia allentare le tensioni che gravano su di lui per poi valutare come muoversi in prossimità della scadenza. Ammesso che si arrivi alla formazione di un nuovo governo (attraverso scorciatoie che sembrano poco probabili) potrebbe lasciare dando spazio a un nuovo premier. Se ciò non avvenisse potrebbe poi ripensarci e rimanere per il bene nazionale, adducendo la mancata formazione del nuovo esecutivo posta da lui stesso come condizione fondamentale alla sua partenza. Oppure potrebbe lasciare comunque, ma a questo punto i meccanismi che regolano il consiglio presidenziale prevedrebbero un semplice passaggio di testimone con Ahmed Maeitg in quanto vicepresidente vicario. In quel caso tuttavia sarebbe inesatto parlare di nuovo governo, perché si tratterebbe dello stesso esecutivo di prima con un nuovo leader, il che farebbe risultare la sua scelta una contraddizione in termini rispetto all’annuncio fatto ieri. Processo in Libia per i pescatori, sequestrati dalle milizie di Haftar di Francesca Paci e Francesco Semprini La Stampa, 18 settembre 2020 Le autorità di Tobruk: “I pescherecci svolgevano la loro attività in un tratto di mare libico”. È ancora giallo sugli equipaggi dei pescherecci italiani fermati in Libia orientale: l’unica cosa che appare chiara è la prova di forza del generale Haftar, l’escluso dal congelamento della guerra imposto da Mosca, Ankara e Washington, nei confronti di Roma. “Appariranno presto davanti a un tribunale che dovrà giudicare il reato da loro commesso” dice a La Stampa il presidente della commissione Affari esteri del parlamento di Tobruk, Yusuf Al-Agouri. La spiegazione è quella fornita alle autorità italiane: “I pescherecci sono stati fermati mentre svolgevano attività nella zona economica esclusiva della Libia”. Sulla carta quindi il caso è trattato secondo le vie ordinarie della Giustizia libica, ma la vicenda resta fumosa. Non è la prima volta che i libici trattengono dei pescherecci italiani, ma in genere si risolve tutto in poche ore, al massimo un paio di giorni. Da oltre due settimane invece, i dieci pescatori italiani partiti da Mazara del Vallo sono “in stato di fermo” insieme a dieci colleghi di altre nazionalità. Due di loro si trovano a bordo delle imbarcazioni e otto in una villa nei pressi di Al-Marj, la roccaforte di Haftar. Altro elemento chiave è la presunta richiesta di liberazione dei quattro calciatori libici detenuti in Italia perché condannati in appello nel 2015 con l’accusa di traffico di esseri umani e immigrazione clandestina. Per loro, fa sapere l’ambasciata libica a Roma, è stato esaminato il ricorso in Cassazione perché secondo l’attuale avvocato difensore gli imputati non sarebbero stati seguiti ed assistiti in modo continuativo dai predecessori. Come mai, allora, è stata avanzata la richiesta di scarcerazione prima della revisione del caso in terzo grado? Si dice che tale richiesta sarebbe giunta dalla Cirenaica dove esiste un governo parallelo guidato dal 2014 dal primo ministro “orientale” Abdullah al Thani, il quale, tra l’altro, qualche giorno fa, ha presentato le sue dimissioni in seguito a una serie di proteste popolari. È la parte di Libia con perno su Bengasi su cui di fatto regna Haftar, la stessa che fa trapelare la notizia non confermata di una partita di stupefacenti trovata a bordo dei pescherecci durante i controlli. Un pretesto, si teme, sollevato da chi avrebbe interesse a utilizzare gli italiani come leva politica prima ancora che per lo “scambio dei prigionieri”. Il fermo è avvenuto nel giorno della quarta visita in dieci mesi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio in Libia, recatosi a Tripoli, a Qubba, dal presidente del parlamento di Tobruk Aguila Saleh, ma non da Haftar. Una scelta tarata sulla perdita di peso militare e politico del generale, spiegano fonti tripoline. Una scelta impugnata però adesso dall’uomo forte della Cirenaica che da un lato vuole mostrarsi ancora potente con Roma e dall’altro parla al suo popolo in ebollizione, giacché i calciatori libici detenuti in Italia appartengono a importanti clan locali. Nella difficoltà di percorrere i canali diretti (giacché c’è un governo parallelo oltre a quello di Fayez al Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale) Di Maio sta battendo le strade di Russia ed Emirati, sponsor principali di Haftar. “Sarà convocato presto un vertice di governo su questo tema” avverte il titolare della Farnesina incalzato, tra gli altri, dal deputato di Leu Erasmo Palazzotto, che parla di “un inaccettabile ricatto da parte dei libici”. A dare manforte al ministro degli esteri c’è il collega della Giustizia, Alfonso Bonafede, originario di Mazara: “Di Maio si sta occupando personalmente della questione e confido nella veloce soluzione del caso ma per me è importante far sentire la mia vicinanza ai pescatori, miei concittadini”. Venezuela. L’accusa dell’Onu: Maduro responsabile di crimini contro l’umanità di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 18 settembre 2020 Nel rapporto degli investigatori delle Nazioni Unite si afferma che le forze di sicurezza e i gruppi loro alleati hanno commesso “violazioni sistematiche dei diritti umani, compresi omicidi e torture”. L’Onu accusa Nicolás Maduro di crimini contro l’umanità e chiede che venga processato dalla Corte internazionale dell’Aja. Con un comunicato che esprime la sintesi di un duro e dettagliato rapporto steso da un gruppo di investigatori al termine di una lunga indagine nel Paese sudamericano, le Nazioni Unite affermano che le forze di sicurezza e i gruppi loro alleati hanno commesso “violazioni sistematiche dei diritti umani, compresi omicidi e torture che equivalgono a crimini contro l’umanità”. Lo scrive Reuters che assieme alla Bbc riporta ampi brani del rapporto che inchioda il presidente del Venezuela e i suoi ministri della Difesa e dell’Interno, Néstor Reverol e Vladimiro Padrino López, a pesanti responsabilità. La maggioranza delle esecuzioni illegali da parte di agenti statali”, sottolinea il dossier, “non sono state oggetto di indagine e sottoposte a giudizio in Venezuela, un paese dove lo Stato di Diritto e le istituzioni democratiche hanno fallito”. La missione degli investigatori dell’Onu ritiene che la Corte Penale Internazionale, assieme ad altre istituzioni giuridiche nazionali, che avviarono uno studio preliminare in Venezuela nel 2018, dovrebbero processare i personaggi coinvolti. Gli esperti sono pronti a consegnare i dati che contengono i nomi degli ufficiali identificati dalle vittime. “Il gruppo”, spiega ancora il rapporto, “ha raggiunto motivi ragionevoli per credere che le autorità venezuelane e le forze di sicurezza abbiano pianificato e portato a termine violazioni dei diritti umani sin dal 2014”. Tra queste gli assassinii e l’uso sistematico della tortura che, rileva la presidente del gruppo di investigatori Onu, Marta Valinas, “sono crimini contro l’umanità”. Maduro e il suo governo non hanno risposto alla diffusione del rapporto. Ma è probabile che lo faranno nelle prossime ore. Un’accusa così pesante, sollevata da un organismo internazionale che il presidente stesso aveva invitato in Venezuela per dimostrare che tutto andava bene e che le accuse dell’opposizione e degli espatriati erano solo calunnie, non può lasciarlo indifferente. Soprattutto ora che ha assunto un atteggiamento molto più disponibile ad un negoziato che porti a una pacificazione, ha rilasciato duecento prigionieri politici, ha ottenuto la partecipazione alle elezioni legislative fissate a dicembre di Henrique Capriles, esponente di spicco del dissenso, già due volte candidato alle presidenziali, sconfitto per un pugno di voti prima da Hugo Chávez e poi dallo stesso Maduro. Il nuovo rapporto segue quello altrettanto critico, ma con diverse sfumature, realizzato dall’Alta Commissaria per i Diritti Umani dell’Onu Michelle Bachelet. L’ambasciatore venezuelano presso le Nazioni Unite Jorge Valero si è mostrato sorpreso dalle conclusioni della missione. “Avevamo ripreso i rapporti con la Bachelet e avviato un programma di visite nelle carceri”, ha ricordato. “La relazione nuoce al dialogo in corso e va a sommarsi alle pesanti sanzioni imposte dal presidente Trump che stanno provocando sofferenza e morte al popolo venezuelano”.