I soldi del Recovery Fund per costruire nuove carceri. Addio alle misure alternative di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2020 Nel lungo elenco del governo la richiesta di soldi per la costruzione di nuove carceri e nessuna richiesta di risorse per attuare una politica basata sulle misure alternative, salute e rieducazione. Di nuovo soldi per la costruzione di nuove carceri e lavoro gratuito, nessuna richiesta di risorse per attuare una politica basata sulle misure alternative, salute e rieducazione. Nel lungo elenco dei progetti stilato dal governo italiano per chiedere i fondi europei del Recovery Fund, ci sono anche quattro voci riguardanti il sistema penitenziario. La prima è sotto il nome “Architetture per la rieducazione”. Con una richiesta di 300 milioni di euro, viene così motivata: “Riqualificazione del patrimonio immobiliare penitenziario mediante interventi di miglioramento della performance funzionale, in termini di aumento della capacità ricettiva dei complessi penitenziari, di lotta al sovraffollamento e di realizzazione di nuove strutture edilizie, sempre più vicine alle ordinarie strutture urbane, finalizzate all’obiettivo della rieducazione e del reinserimento sociale”. L’altra voce riguarda i cosiddetti “lavori di pubblica utilità”, ovvero quelli non pagati e dove i detenuti decidono di lavorare a titolo volontario. Il governo, in questo caso, chiede 45 milioni. Eppure Il lavoro vero, quello con formazione, stipendio e orari può migliorare le condizioni delle galere, ma anche in questo caso non sembrerebbe una questione prioritaria. Al 31 dicembre 2019, prima della pandemia, su 60.769 detenuti lavoravano in 18.070, cioè il 29,7 per cento. Ma se poi si va a fondo, di questi che lavorano, solo 2.381, cioè il 4 per cento del totale, sono assunti da imprese e cooperative. Gli altri 15.689 svolgono attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori. La terza voce riguarda la prevenzione antisismica. Con una richiesta di 300 milioni, viene così motivata: “Riqualificazione del patrimonio immobiliare penitenziario mediante interventi di miglioramento della performance strutturale, in termini di mantenimento della capacità ricettiva dei complessi penitenziari, anche in situazioni critiche per la sicurezza e l’ordine pubblico (ad es. eventi sismici rilevanti)”. La quarta e ultima voce è presentata con il titolo “Remote Surveillance Development”. La richiesta è di 60 milioni e viene spiegato che la risorsa serve per la “riqualificazione del patrimonio immobiliare penitenziario mediante interventi di miglioramento della performance funzionale, in termini di sicurezza gestionale penitenziaria interna e perimetrale. Riqualificazione professionale del personale tecnico e amministrativo interno e di Polizia Penitenziaria, prevedendone un consistente impiego nella manutenzione impiantistica delle tecnologie informatiche nella sicurezza”. La spesa maggiore per i penitenziari riguarda nuovamente il discorso edilizio. Eppure nel 2019, il ministro della Giustizia ha già dato il via al cosiddetto piano carceri che consisteva nella realizzazione di nuovi penitenziari e riconvertendo in parte caserme dismesse e immobili di proprietà dello Stato. Il costo? Venti milioni derivanti dalla legge di Bilancio del 2019 e una quota di 10 milioni derivanti dal Fondo per l’attuazione della riforma dell’ordinamento penitenziario. Chiaramente insufficienti, ma che ora potrebbe trovare linfa vitale dal fondo economico messo a disposizione dall’Unione Europea. La stessa Europa che però, attraverso il suo Consiglio, ha recentemente indicato la via delle misure alternative per ridurre il sovraffollamento. Battisti, il carcere e la storia del terrorismo sconfitto di Guido Salvini* Il Dubbio, 17 settembre 2020 Non posso essere sospettato di simpatie o di indulgenza nei confronti di Cesare Battisti. Ho scritto in molti articoli che Battisti era un personaggio indifendibile e che il suo tentativo di dipingersi, per sottrarsi all’estradizione dal Brasile, come un innocente condannato dopo processi ingiusti e un perseguitato politico era risibile e poteva al più soddisfare gli intellettuali poco informati che lo avevano protetto. Del resto di quella mancata estradizione in Italia alla fine perfino l’ex Presidente del Brasile Lula ha parlato come di un errore. Tanto è vero che, una volta giunto in Italia Battisti ha confessato tutti gli omicidi e i ferimenti per i quali era stato condannato dalla Corte d’Assise di Milano. I Proletari Armati per il Comunismo, di cui Battisti fu uno degli “ideologhi” e fondatori è stato, nella sua breve vita alla fine degli anni 70, uno dei gruppi più sciagurati nel panorama della lotta armata in Italia, un’accozzaglia di persone che per la loro insensata ferocia erano tenuti a distanza persino dalle Brigate Rosse e dai gruppi affini. Aggiungo che ricordo bene la storia e i processi dei Pac. Mio padre all’inizio degli anni 80 presiedeva la Corte d’Assise che pronunciò una delle sentenze per l’omicidio dell’orefice Torreggiani. Si viveva in un clima di paura. I Pac erano infatti specializzati più che nell’individuare, come le Brigate Rosse, obiettivi politici, nel porre a segno le loro vendette personali. Sparavano a commercianti che avevano reagito durante rapine, alle guardie delle carceri dove qualcuno dei loro militanti era stato detenuto, ai medici interni delle carceri che avevano fatto il loro mestiere. Li chiamavano i terroristi “giustizialisti”. Roba da serial killer. Scrivendo di questo caso non ho comunque dimenticato di esprimere le mie critiche allo spot pubblicitario organizzato dal Ministro dell’Interno in aeroporto al momento dell’arrivo di Battisti nel gennaio 2019 dalla Bolivia. Premesso tutto questo, le recenti decisioni in merito alla carcerazione di Battisti possono suscitare più di una perplessità e potrebbero suggerire soluzioni diverse. Il Ministero, respingendo le richieste dei difensori, ha confermato la classificazione di Battisti come detenuto destinato ad un carcere di Alta sicurezza e lo ha trasferito al carcere di Rossano in Calabria, molto lontano e che pone certamente difficoltà per effettuare i normali colloqui e altre limitazioni Certamente il Ministero e l’amministrazione penitenziaria possono applicare i regolamenti e classificazioni formali. Ma la lotta armata in Italia si è esaurita da più di 20 anni con la disgregazione di tutte le organizzazioni terroristiche, i crimini che Battisti ha commesso sono avvenuti 40 anni fa e il mondo in cui sono maturati è scomparso. Battisti non avrebbe più nessuno cui rivolgersi. Infatti nel carcere di Rossano, dove è stato trasferito, ci sono quasi solo terroristi islamici. La detenzione nel circuito di massima sicurezza è prevista per scongiurare il mantenimento dei contatti con l’esterno e la programmazione di nuove azioni criminose e anche per evitare il proselitismo nelle carceri ordinari, quello in cui i Pac si erano un tempo specializzati. Ma questo pericolo, almeno in relazione alla lotta armata, oggi per fortuna non esiste più. Una situazione ben diversa da quella dei mafiosi e degli appartenenti ad altri gruppi della criminalità organizzata che, anche se in carcere, mantengono ancora il controllo del loro territorio e sono in grado di impartire ordini a chi è rimasto fuori. È questo che giustifica il regime carcerario di cui all’art. 41 bis ed altre misure di massima sicurezza, ma di certo non riguarda Battisti. I familiari delle vittime hanno avuto finalmente piena giustizia. Tutti i componenti dei Pac sono stati condannati e nessun responsabile di quegli omicidi è oggi più latitante. Soprattutto quello in cui Battisti credeva e propagandava con le armi è stato sconfitto, questo è il messaggio che viene dal vento della Storia. È giusto che Battisti debba espiare, anche senza sconti, la pena che per tanti anni ha evitato. Ma forse sarebbe meglio trattarlo come un detenuto qualsiasi, anche per non parlarne più. Forse è meglio per tutti. *Magistrato Corte Costituzionale, un presidente “breve” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 17 settembre 2020 Elezione contesa. Mario Rosario Morelli alla guida solo per tre mesi. I giudici si dividono, necessari due scrutini. E lui annuncia già il suo successore. “Il mio successore al 99,9% sarà Giancarlo Coraggio”. Non si ricorda un altro presidente della Corte costituzionale che, presentandosi nella tradizionale conferenza stampa che segue l’elezione, si sia preoccupato di annunciare già l’esito della prossima votazione. Se Mario Rosario Morelli, che ieri è diventato il 43esimo presidente della Corte, ha pensato di farlo è perché la sua è stata un’elezione particolare. La Corte ha recuperato la regola non scritta del criterio cronologico, in base al quale viene scelto come presidente il giudice più anziano di nomina. Negli ultimi anni questa regola è stata seguita solo quando dalla sua applicazione non è derivata una presidenza troppo breve. Invece Morelli terminerà il suo novennato e scadrà da giudice costituzionale il prossimo 11 dicembre, restando in carica come presidente meno di tre mesi. Per trovare una presidenza tanto breve bisogna andare indietro fino all’elezione nel 2008 di Giovanni Maria Flick, mentre negli anni Novanta le presidenze brevi erano frequenti. Ieri il collegio dei giudici delle leggi si è diviso. A differenza delle ultime tre volte, quando i presidenti Grossi (2016), Lattanzi (2018) e Cartabia (2019) erano stati eletti all’unanimità dei presenti. È stato anche necessario ripetere la votazione, visto che nel primo scrutinio non si era raggiunta la maggioranza assoluta. Al secondo scrutinio Morelli ha ricevuto 9 voti, 5 sono andati a Giancarlo Coraggio e uno a Giuliano Amato. I due “sfidanti” sono stati nominati vice presidenti come primo atto del neo presidente. Amato ha ancora una finestra aperta per la presidenza, visto che Coraggio, successore preannunciato, scadrà dal mandato di giudice all’inizio del 2022 e l’ex presidente del Consiglio nel settembre di quell’anno. A Coraggio si è rivolto in conferenza stampa Morelli: “Abbiamo rappresentato le due opzioni di fondo, rimanendo amici”, ha detto. E da profondo conoscitore della Corte costituzionale che frequenta, ha detto ieri, “da cinquant’anni”, ha sottolineato il valore del criterio della successione temporale. “Quando non è stato seguito ha lasciato sempre qualche strascico”, ha spiegato, citando l’elezione di Saja. Un presidente che negli anni Ottanta scavalcò il candidato più anziano e provocò addirittura a una controversia disciplinare interna. Morelli già c’era, avendo cominciato come assistente di studio del giudice Gionfrida nel 1973 (è stato poi assistente anche di Paladin). “La collegialità è la risposta agli inconvenienti che possono esserci per la brevità del mandato”, ha detto ieri il neo presidente in conferenza stampa. Spiegando che proseguirà nel solco dell’apertura della Corte all’esterno, come già Lattanzi e poi Cartabia. Proprio l’elezione della prima presidente donna nove mesi fa, che “scavalcò” gli allora vicepresidenti Carosi e Morelli, ha tenuto aperte le aspettative, sia pure per un incarico breve, di Morelli (Carosi nel frattempo ha cessato il mandato). Morelli, romano, 79 anni, è stato per trent’anni giudice della Corte di Cassazione ed è stato eletto dalla suprema Corte alla Consulta nel novembre del 2011, pochi giorni dopo l’elezione in parlamento per lo stesso incarico di giudice di Sergio Mattarella. A una domanda sul prossimo referendum costituzionale, Morelli ha parlato del taglio dei parlamentari come “una riforma che incide sulla Costituzione in maniera relativa e va completata”. Aggiungendo, naturalmente, che “come presidente della Corte Costituzionale non mi posso esporre per il sì o per il no, c’è un mezzo vuoto e un mezzo pieno per ogni parte, vediamo come andrà”. Covid, tutele per tutti tranne che per l’avvocato. L’Aiga: “Ora il legittimo impedimento” di Errico Novi Il Dubbio, 17 settembre 2020 L’Aiga, Associazione italiana giovani avvocati, con una nota in cui chiede di definire in una norma “la specifica ipotesi di legittimo impedimento per l’avvocato collegato all’emergenza sanitari. Ora c’è pure il congedo parentale da Covid. C’è per i dipendenti pubblici. Ma non esiste nulla di simile per gli autonomi. Neppure per chi, come l’avvocato, svolge l’insostituibile funzione di tutelare i diritti. A farlo notare è l’Aiga, Associazione italiana giovani avvocati, con una nota in cui chiede di definire in una norma “la specifica ipotesi di legittimo impedimento per l’avvocato collegato all’emergenza sanitaria”. Non solo il ceto forense è - come l’intero settore autonomo e il mondo ordinistico in particolare - colpito della crisi. Paradossalmente non è neppure tutelato in quei casi in cui l’esercizio della professione è impedito proprio da cause connesse all’epidemia. L’Aiga parte dalla novità contenuta nel cosiddetto decreto Covid: “Con la pubblicazione del Dl 111 dell’ 8 settembre è stata introdotta”, ricordano i giovani avvocati, “la particolare misura di sostegno ai pubblici dipendenti del congedo parentale straordinario retribuito al 50% (fermo il versamento dei contributi figurativi ai fini pensionistici) e dello smart working in caso di positività di figli studenti e minori di anni 14 costretti in quarantena che, pertanto, necessiterebbero della presenza dei genitori. Evidentemente, ancora una volta, il governo sembra essersi dimenticato”, si legge nella nota, “di tutti quei lavoratori autonomi, quali gli avvocati e soprattutto i giovani, che, oltre a rischiare ulteriori perdite economiche a causa di una forzata inattività, avrebbero ulteriori difficoltà a svolgere il proprio ruolo difensivo per l’impossibilità di presenziare alle udienze, non trattandosi di fattispecie espressamente rientrante nel legittimo impedimento”. Il presidente dell’Aiga Antonio De Angelis definisce “inaccettabile il perdurare dell’assenza di una specifica norma che regolamenti il legittimo impedimento degli avvocati per l’attuale emergenza sanitaria”. La conseguenza di tale lacuna è che “la concessione di rinvii di udienza per comprovate ragioni sanitarie rientri, nonostante la permanenza dei contagi, nella mera discrezionalità del singolo magistrato”. A fronte anche della “difficoltà di nomina, nel caso di specie, di un sostituto processuale”. È la coordinatrice “Area Centro” della giunta Aiga, Mariarita Mirone, ad auspicare che l’eventuale norma preveda anche la “calendarizzazione preferenziale di rinvii di udienza in tempi brevi (eventualmente pure riservando il sabato per le udienze di rinvio) in modo da consentire il giusto bilanciamento fra la tutela della salute e l’accesso alla giustizia dei cittadini, senza continuare a mortificare la classe forense sia nel proprio ruolo professionale sia in quello umano di genitori”. Perché appunto l’avvocato si trova spesso a dover scegliere tra il venir meno o alla cura dei familiari o alla propria attività professionale. Mente emerge un nuovo motivo di rammarico per l’avvocatura, arriva un segnale positivo almeno rispetto alla funzionalità degli uffici giudiziari, da cui dipende anche il ritmo di definizione dei processi. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha reso noto di aver firmato, due giorni fa, il decreto di rideterminazione delle piante organiche dei magistrati, ampliate, in particolare negli uffici di merito, con le “600 unità” previste “dalla legge di Bilancio per il 2019”. Il guardasigilli ricorda che si tratta del “più consistente aumento della dotazione organica realizzato negli ultimi vent’anni”. Delle 600 unità, spiega via Arenula, 70 sono già state assegnate alla Cassazione col decreto dell’aprile 2019. Delle altre, ne verranno specificamente assegnate 422, mentre le rimanenti 108 “verranno utilizzate per formare una task force flessibile, un contingente di magistrati da assegnare ai vari uffici giudiziari per affrontare situazioni straordinarie o contingenze specifiche (calamità naturali, eventi improvvisi)”. Nel dettaglio, oltre ai 245 rinforzi per Tribunali e Procure e ai 129 per le Corti d’Appello, si segnalano anche i due magistrati in più per la Dna, i 25 per gli uffici minorili e i 21 per la sorveglianza, settori che “per la prima volta beneficiano di un incremento così consistente”. Il punto ora è capire se la funzionalità complessiva degli uffici, a partire dall’attività del personale amministrativo, saprà evitare che i rinforzi restino siano comunque disarmati dinanzi all’arretrato moltiplicatosi negli ultimi mesi. La magistratura? Chiacchiere e distintivo di Piero Sansonetti Il Riformista, 17 settembre 2020 Il partito dei Pm ha demolito l’intera istituzione che ormai è travolta da beghe, giochi di potere, ricatti. Non solo non ha la forza di autoriformarsi ma rifiuta persino di mettersi in discussione. Il Csm ha scelto la via venezuelana: Palamara non sarà processato, la stragrande maggioranza dei testimoni che lui ha chiesto siano ascoltati non saranno ascoltati. I giudici dei quali ha chiesto la ricusazione (in quanto complici del presunto delitto) non saranno ricusati. Il processo sarà rapidissimo - anche per dimostrare che la giustizia quando vuole sa essere svelta - la difesa sarà messa a tacere, il collegio giudicante sarà composto da complici del delitto, e tra tre settimane ci sarà la sentenza. La sentenza - questa è una notizia che noi abbiamo avuto in esclusiva - sarà di condanna. E a quel punto il caso Palamara potrà essere considerato chiuso e nessuno più dovrà parlarne. I giornalisti sono stati già avvertiti e chi violerà la consegna la pagherà cara. Ha deciso così il Csm. Non c’è niente di forzato nelle righe che ho scritto. È così. Il Csm ha stabilito che non si svolgerà il processo perché il processo vero farebbe saltare in aria tutto l’impianto della magistratura, metterebbe in discussione quasi tutte le Procure, i procuratori, gli aggiunti, i presidenti dei Tribunali, anche moltissimi giudici, renderebbe evidente la necessità assoluta di separare le carriere, potrebbe persino rendere illegali molte e molte e molte delle sentenze emesse in questi anni da giudici sottoposti al ricatto, o comunque al condizionamento, del partito dei Pm che domina il Csm e che si fonda sullo sperimentato sistema delle correnti. È un rischio troppo grande per le istituzioni. Dalle intercettazioni sul telefono di Palamara, e dai trojan, risulta esattamente questo: che la struttura portante della magistratura è illegale e nominata da un sistema ad incastro di condizionamenti e talvolta di ricatti. Che quasi nessun magistrato di potere è estraneo a questo sistema. E che l’intera magistratura italiana è stata ferita a morte e va riformata e riportata almeno vicina alla legalità, dalla quale oggi è lontanissima. Il Csm ha deciso di ignorare tutto ciò, e di prendere in considerazione solo la riunione all’Hotel Champagne (un paio d’ore in tutto) alla quale parteciparono i deputati Lotti e Ferri e nella quale si discusse della nomina del Procuratore di Roma, punto e basta. Per questa riunione - che peraltro fu intercettata in modo totalmente illegale, perché la Costituzione proibisce l’intercettazione dei parlamentari - si propone (e si accoglie) la condanna di Palamara e poi si chiede di stendere su tutto il resto un velo e di cancellare ogni cosa in un grande silenzio. Come esce da questa vicenda la magistratura italiana? Seppellita. È inutile che ogni volta che parliamo della magistratura ripetiamo che però un gran numero di magistrati rispettano le leggi, son persone per bene, sono professionisti capaci. È vero, certamente, ma la magistratura nel suo insieme è una struttura marcia. “Chiacchiere e distintivo”. E di conseguenza la gran parte delle inchieste giudiziarie e delle sentenze, probabilmente, sono ingiuste e sono determinate dai rapporti di forza tra i Pm e i giudici. È così in tutti i paesi dell’occidente? No, non è così. La malagiustizia è uno dei problemi della modernità, ma in pochissimi paesi democratici esiste una situazione così vasta di illegalità, dovuta allo strapotere che negli ultimi trent’anni la magistratura si è conquistato, schiacciando la politica e soffiando via i cardini essenziali dello stato di diritto. Ogni giorno che passa c’è una controprova. Prendete Gratteri, tanto per parlare di uno che un po’ i nostri lettori conoscono. Ma voi sapete di un altro paese occidentale dove un Procuratore, mentre è in corso l’udienza preliminare nella quale si decide la sorte di circa 400 suoi imputati, se ne va in Tv a fare spettacolo, ride, fa battute e sostiene che se la gente viene assolta è perché i giudici sono corrotti, e se spesso le sue inchieste finiscono in un flop è perché nella magistratura c’è molta invidia? E nessuno gli chiede conto del perché un Pm impegnato in un maxiprocesso trova normale e giusto andare in Tv a fare polemica contro i suoi imputati. E se qualcuno al mondo possa mai credere che quel Pm è un Pm rigoroso e serio che si occupa solo del suo lavoro? Conoscete i nomi di magistrati inglesi, o francesi, o tedeschi o americani che si comportano così, senza peraltro che né la politica, né il Csm si occupino di censurare questi atteggiamenti? Non li conoscete. In verità c’era qualcuno che aveva criticato Gratteri: il suo diretto superiore, il Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Fior di magistrato con gloriosa carriera alle spalle. Il Csm nel giro di una settimana, invece di intervenire su Gratteri intervenne su Lupacchini, lo degradò sul campo e lo spedì a mille chilometri dalla sua sede. Voi pensate che ci sarà qualche altro magistrato che leverà la sua vocina, pure flebile, verso lo sceriffo di Catanzaro? E perché - magari uno si chiede - Gratteri è così potente? Perché ha sconfitto la ‘ndrangheta? No, la ‘ndrangheta oggi è infinitamente più forte di quando lui ha iniziato ad operare in Calabria. Ha decuplicato le sue forze. E allora perché? Perché è un Pm che sa fare la parte del Pm moderno: censore, uomo di spettacolo, scrittore, politico. Alla ricerca di reati? No, quelli li trova raramente. Alla ricerca di imputati. Possibilmente illustri. Cosa resta della magistratura? Cenere. Processo a Palamara troppo veloce: rischio annullamento di Errico Novi Il Dubbio, 17 settembre 2020 La corsa per arrivare a sentenza entro il 16 ottobre espone il processo disciplinare all’annullamento. Udienze a raffica e testi esclusi pur di chiudere prima che Davigo (giudice dell’ex leader Anm) lasci la magistratura. Il punto è Davigo. Resta al Csm? Resta consigliere e quindi giudice disciplinare di Palamara anche dopo il 20 ottobre, giorno in cui compirà 70 anni e si congederà dalla magistratura? L’incognita ha indotto Palazzo dei Marescialli a una forsennata accelerazione sul procedimento a carico dell’ex leader Anm: sentenza il 16 ottobre anziché, com’era stato previsto, a dicembre. Pur di non sciogliere ora il nodo sulla permanenza in Consiglio dell’ex pm del Pool, il collegio disciplinare si espone al rischio di un clamoroso flop. Vale a dire di una corsa così sfrenata da lasciare la sentenza sotto la scure dell’impugnazione e addirittura di un annullamento. Il pg Giovanni Salvi ha prefigurato la sanzione più severa, l’espulsione di Palamara dall’ordine giudiziario. Plausibile o meno che sia l’ipotesi, già il modo in cui si pensa di arrivarvi pare claudicante. Alla difesa di Palamara potrebbe bastare un ricorso alle sezioni unite della Suprema corte. E se pure andasse male, difficilmente la Corte europea dei Diritti umani potrebbe ignorare le doglianze all’incolpato. Il ritmo che martedì sera la sezione disciplinare ha deciso di imprimere al calendario è “sorprendente”, per usare un aggettivo di Stefano Giaime Guizzi, il magistrato di Cassazione che difende Palamara nel “processo” al Csm. Con l’ordinanza dell’altro giorno (emessa insieme con quelle di rigetto di varie eccezioni degli incolpati) il collegio ha fissato 11 udienze in 20 giorni lavorativi. Si riprende domani, si va avanti il 23, 28, 29 e 30 settembre, poi tour de force a ottobre fino alla sentenza fissata per il 16. Procedimenti a carico degli altri cinque incolpati (tutti togati che si sono dimessi dall’attuale consiliatura) posticipati a partire dal 23 ottobre. Tutto per lasciare campo libero al solo “disciplinare” di Palamara. Occupata ogni possibile casella del calendario per la quale Guizzi non avesse già preannunciato impedimenti. Gli capitasse da preparare un appunto per il presidente della sua sezione al Palazzaccio (la terza penale), dovrà lavorare di notte. Ma le 11 udienze in 20 giorni potrebbero non bastare: Palamara già a luglio aveva chiesto di sentire 133 testi. “Non vogliamo affatto la Norimberga della magistratura”, spiega Guizzi, “c’è bisogno di un approfondimento probatorio intenso perché solo così si può verificare non solo se vi siano state le interferenze addebitate a Palamara, ma anche quale sia stata la loro eventuale gravità”. La logica del magistrato che difende il pm romano è semplice: “Come per tutti gli organi costituzionali, anche nel caso del Csm la disciplina sul suo funzionamento è piuttosto rarefatta. Ci si deve basare sulle consuetudini. E solo se si ricostruiscono le prassi, non solo della consiliatura in corso ma anche di alcune delle precedenti, si può stabilire se le condotte del dottor Palamara siano state effettivamente devianti. O se si inseriscano invece nel solco di prassi consolidate”. Chiarissimo. Ora, poniamo pure che domani, quando il collegio disciplinare si riunirà di nuovo, la lista testi venga tagliata, Guizzi si chiede “fino a che punto sia legittima una riduzione”. Se, pur di arrivare, costi quel che costi, a sentenza il 16 ottobre, si esagera, è evidente che si lascerebbe alla difesa di Palamara un materiale fantastico per una successiva impugnazione della condanna. Ricorso facile facile alle sezioni unite o, in extrema ratio, alla Cedu. E nei gradi di giudizio superiori, la tesi dell’inderogabile necessità, per la difesa, di un approfondimento dibattimentale più ampio troverebbe probabilmente ascolto. Così, pur di evitare che una presenza di Davigo nel collegio disciplinare anche successiva al suo congedo dalla magistratura offra motivo per eccepire la nullità del giudizio, si rischia di veder impugnata la sentenza per la compressione dei diritti di difesa. Un’astensione dell’ex pm del pool avrebbe risolto tutto. Ma non c’è stata, nonostante Palamara la reclamasse. Già se si fosse certi dell’imminente uscita di Davigo dal Csm, la prospettiva sarebbe meno indecifrabile. Ma di certezze in merito non se ne hanno, se non rispetto alla determinazione del consigliere nel reclamare il proprio diritto a restare in carica (come riferito in altro servizio del giornale, ndr). Certo è paradossale che un enigma legato al più intransigente dei magistrati possa pregiudicare il processo nei confronti del collega che, per gli amanti dei capri espiatori, incarna tutte le possibili deviazioni dell’ordine giudiziario. Valsusa, arrestata nella notte Dana Lauriola, portavoce dei No Tav di Cristina Palazzo La Repubblica, 17 settembre 2020 I giudici le hanno negato le misure alternative. Attimi di tensione con i militanti che presidiavano la casa: “Decisione assurda e ingiusta”. Annunciato, l’arresto della portavoce No Tav è scattato nella notte. Alcuni agenti della Digos si sono presentati a casa sua, a Bussoleno. Dana Lauriola è stata prelevata per essere trasferita in carcere, alle Vallette di Torino Ci sono stati dei momenti di tensione con il gruppo di No Tav che da quando è diventato noto l’ordine di carcerazione presidiavano l’abitazione della militante valsusina. Ma si sono risolti in breve tempo. L’attivista, 38 anni, dovrà scontare una condanna di due anni per i fatti avvenuti nel 2012 quando durante la protesta fu bloccato il casello stradale di Avigliana. La notizia della condanna, per cui sono state rifiutate le pene alternative proposte dalla difesa, è arrivata nei giorni scorsi e da allora fuori dall’abitazione gli attivisti del movimento hanno organizzato un presidio fisso “in attesa che vengano a prenderla”. Da giorni decine di No Tav erano a Bussoleno - davanti alla casa dove Dana vive con i suoi gatti - per protestare contro una decisione considerata “assurda e ingiusta”. Questa notte quando la polizia è arrivata per eseguire l’ordine, è partito l’appello sui social e si sono radunati in 40 circa: “La polizia è arrivata di fronte a casa di Dana, un intero quartiere di Bussoleno è militarizzato, ma si riesce ancora a raggiungere il presidio permanente attraverso le vie adiacenti”. Hanno parlato di “un blitz in pieno stile per portare in carcere una donna, una compagna la cui unica colpa sarebbe quella di aver gridato le motivazioni del nostro No al Tav in un megafono. Ma noi siamo qui al suo fianco, non la lasceremo sola e non faremo passare liscia questa ennesima ingiustizia del forte sul debole”. La presenza al processo del difensore d’ufficio non prova la conoscenza da parte dell’imputato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 16 settembre 2020 n. 26105. La partecipazione del difensore d’ufficio non basta a dimostrare che l’imputato sia a conoscenza del processo. Con la sentenza 26105, la Corte di cassazione, accoglie il ricorso contro la decisione della Corte d’Appello di respingere l’istanza di rescissione del giudicato in relazione ad una sentenza irrevocabile. Ad avviso dei giudici territoriali, infatti, il ricorrente non aveva provato di non essere a conoscenza del processo senza una sua colpa. La Corte di merito aveva valorizzato in particolare due elementi. L’imputato aveva eletto il suo domicilio presso il difensore d’ufficio, circostanza dalla quale derivava il dovere di tenersi informato sugli sviluppi del procedimento a suo carico. In più il legale aveva partecipato regolarmente al dibattito in primo e in secondo grado, senza sollevare eccezioni sulla notifica degli atti e sull’impossibilità a comparire del suo assistito. Ma per la Cassazione non basta. Le sezioni unite, infatti, con un’informazione provvisoria hanno chiarito che la sola elezione del difensore d’ufficio da parte dell’indagato non è sufficiente per dichiarare l’assenza. Il giudice è comunque tenuto a verificare, anche in presenza di altri elementi, l’effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato. Nello specifico la Corte d’appello ha concluso per la conoscenza basandosi sull’elezione di domicilio e sulla partecipazione del legale nei gradi di merito. Per la Suprema corte l’ordinanza impugnata va annullata proprio alla luce del recente principio. Dalla sola partecipazione del difensore non si può dedurre la conoscenza, al contrario pesa l’impossibilità del difensore nel reperire l’assistito per il pagamento della parcella. Niente gratuito patrocinio quando la soglia è superata da proventi illeciti di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2020 No al gratuito patrocinio se l’imputato ha accumulato proventi illeciti tali da precludere l’accesso al beneficio. Lo precisa la Cassazione penale con la sentenza n. 26053/20. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con un soggetto che aveva proposto ricorso contro il provvedimento del Tribunale che non aveva concesso l’ammissione al gratuito patrocinio. L’ordinanza impugnata secondo il ricorrente sarebbe stata illegittima avendo ritenuto sussistente la presunzione di “supero” di cui all’articolo 76 del Dpr 115/02, trascurando tuttavia che la Consulta avesse dichiarato illegittima la norma. I Supremi giudici, tuttavia, non hanno fornito alcuna risposta in merito alla pronuncia della Consulta in quanto il diniego al beneficio era palese perché l’imputato aveva accumulato un cospicuo reddito frutto di 40 anni di attività illecita. E ciò risulta in linea con l’insegnamento della sentenza Traiano secondo cui “ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato il giudice deve tenere presente anche i redditi da attività illecite percepite dall’istante, la cui esistenza può essere provata ricorrendo anche a presunzioni semplici”. False dichiarazioni, concorso nel reato se il visto è infedele di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 17 settembre 2020 Corte di cassazione - Sentenza 26089/20202. L’invio telematico di false dichiarazioni Iva con apposizione di un visto di conformità mendace omettendo qualsivoglia controllo è sintomatico del contributo del commercialista al compimento alle attività illecite del cliente. Pertanto è configurabile una responsabilità a titolo di concorso nel reato. A fornire questa rigorosa interpretazione, ancorché relativa alla fase cautelare, è la Corte di cassazione, con la sentenza 26089 depositata ieri. Nell’ambito di un complesso procedimento penale a carico di diversi indagati per vari reati, tra i quali la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici e l’indebita compensazione di crediti inesistenti, era disposto il sequestro anche nei confronti di un commercialista nella qualità di consulente fiscale di alcune società riconducibili a contribuenti indagati. In sintesi alcune imprese avevano presentato la dichiarazione Iva con dati sugli acquisti non veritieri maturando numerosi crediti, successivamente compensati in modo indebito. Il professionista impugnava la misura cautelare, ma il tribunale del riesame ne confermava la legittimità. Avverso tale decisione era proposto ricorso per cassazione. Secondo la tesi difensiva, il tribunale del riesame avrebbe, tra l’altro, errato nel ritenere sussistente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Infatti nell’anno di svolgimento degli illeciti (2014) era in vigore la precedente versione del delitto in base alla quale occorreva, oltre ai mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e il superamento della soglia di imposta evasa, anche la falsa rappresentazione delle scritture contabili. Nella specie tali falsità erano mancanti. La Suprema corte ha rigettato il ricorso. I giudici di legittimità hanno precisato che la valutazione, stante l’oggetto del giudizio (misura cautelare) riguardava l’eventuale sussistenza del cosiddetto “fumus commissi delicti” e non quindi la provata colpevolezza del ricorrente. Nella specie, il commercialista aveva fornito un apprezzabile contributo al compimento delle attività illecite in quanto lo studio professionale aveva provveduto all’invio telematico delle false dichiarazioni apponendovi il visto di conformità di sicuro mendace. Il professionista incaricato aveva omesso qualsivoglia controllo, non trattenendo peraltro copia della documentazione contabile. Alla luce di tali circostanze, era corretta la decisione del Tribunale del riesame, di ritenere sussistente il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici. Infatti era ragionevolmente ravvisabile una infedele asseverazione dei dati qualificabile come mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione. Inoltre erano stati indicati nelle dichiarazioni Iva elementi passivi fittizi. Infine, gli illeciti si fondavano su una mendace esposizione dei dati economici nei bilanci e nelle scritture contabili delle società interessate. Da qui il superamento dell’eccezione difensiva sull’assenza della falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie, richiesta dalla fattispecie penale prevista al tempo della commissione degli illeciti. La pronuncia è certamente molto rigorosa anche se va considerato che concerne la fase cautelare. In ogni caso deve far riflettere che in presenza di dichiarazioni Iva con dati non veritieri che determinano crediti Iva non spettanti poi successivamente compensati, secondo la Cassazione, è ipotizzabile il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici se vi è un visto di conformità infedele. L’invio telematico delle dichiarazioni da parte del commercialista unitamente all’apposizione dei citati visti di conformità infedeli contribuiscono a ipotizzare il concorso del professionista nel delitto commesso dal cliente. A nulla rileva, peraltro, che il consulente non abbia tratto alcun specifico beneficio dalle asserite evasioni delle imprese. Da evidenziare, in ultimo, che a seguito delle modifiche in vigore dallo scorso 25 dicembre, la dichiarazione fraudolenta è punita con la pena massima fino a otto anni. Bari. Criminalità minorile in aumento. “Scuola e lavoro per battere i clan” di Fulvio Colucci Gazzetta del Mezzogiorno, 17 settembre 2020 “Carcere? Meglio recuperarli”. Da gennaio ben 257 giovani sono finiti nel “circuito penale”. “In gergo li chiamano i carusi, i ragazzi in dialetto siciliano. Nulla a che vedere con i protagonisti delle novelle pirandelliane, i piccoli lavoratori-schiavi immersi nel buio delle zolfatare, a tal punto ciechi da scoprire la luna, uscendo dalle miniere, con trasognata commozione. Il buio e la schiavitù precipitano i minori e i giovani adulti baresi (limite massimo 25 anni d’età), eletti al rango di carusi dai gruppi che si contendono il primato criminale sul territorio, nel tunnel dell’arruolamento, sempre più capillare, tra le fila dei clan. Quel vortice, rapido e spietato come un gorgo, sta inghiottendo tanti, troppi; a testimoniarlo i recenti dati del Dipartimento Giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia. L’ultima analisi statistica, tra gennaio e agosto del 2020, mostra numeri preoccupanti. A Bari, in otto mesi, sono entrati nel cosiddetto “circuito penale”, finendo dentro l’orbita del servizio sociale, 257 tra minori e giovani adulti. Si tratta di un numero rilevante da sommare ai 763 già precedentemente in carico. Il dato complessivo (1020) pone Bari al quinto posto tra le città italiane assillate dall’emergenza (dopo Roma, Bologna, Palermo e Catania). “È opportuno ricordare anche - spiega l’educatore e operatore sociale Raffaele Diomede - la proporzione fra i giovani entrati nel “circuito penale” e quelli rinchiusi nell’istituto penale per minorenni “Fornelli”. Su 1020 ragazzi solo 17 sono dietro le sbarre. La cifra conferma come la pena detentiva stia diventando sempre più residuale. Si è capito che rinchiudere i ragazzi non aiuta ad eliminare i rischi che delinquano ancora, che diventino recidivi. Conosco tanti di loro che hanno iniziato la carriera criminale in carcere ed erano minorenni. Avremmo potuto sottrarre molti di loro a quel destino”. Diomede segnala come i numeri si riferiscano, nel complesso, al distretto che comprende anche la provincia Bat e Foggia. “Ma il dato più alto riguarda ovviamente Bari” aggiunge l’educatore lanciando un allarme: viene così confermata una tendenza; già lo scorso anno, la Direzione investigativa antimafia aveva messo in guardia: sempre più elevato il numero di minorenni ingaggiati dai clan criminali baresi. “La causa ce la spiega la stessa Dia: con l’epidemia di Covid e il lockdown - sottolinea Diomede - gli inquirenti hanno registrato un aumento esponenziale della domanda di consumo di droga. Come far fronte alle richieste? Servivano spacciatori veloci, flessibili, pronti a battere il territorio con uno scooter e capaci di usare alla perfezione il social network Telegram per i contatti non intercettatili con i clan e i consumatori, questi ultimi sempre più pressanti nelle richieste. Chi meglio di giovani adolescenti o poco più? Così l’arruolamento da parte dei gruppi che si garantiscono facilmente manodopera, al netto della possibilità per i ragazzi di far “carriera” nel mondo del crimine. D’altro canto ai minori viene assicurata una vera e propria retribuzione settimanale per questi servizi illeciti resi ai clan. Non solo, in premio ci sono moto e addirittura autovetture per i maggiorenni. I telefonini cambiano continuamente, ogni settimana una nuova scheda per comunicare e sfuggire alle intercettazioni. Perché - si chiede Raffaele Diomede - la strategia della mala sta avendo successo? Perché è tarata sugli infausti tempi del Covid, sulle conseguenze economiche dell’epidemia che ha impoverito ulteriormente famiglie già fragili dal punto di vista sociale e dei redditi. Così i ragazzi si sottraggono a una morsa dalla quale è difficile altrimenti fuggire. E troppo spesso questo accade con un doppio effetto. I giovani pensano di affrancarsi dalle spese della famiglia e la famiglia, i genitori, addirittura chiudono un occhio e non fanno domande se vedono il figlio, improvvisamente, tornare a casa con una maglietta firmata e costosa. È la tempesta perfetta”. Una tempesta che coinvolge anche gli adulti. Perché oltre il drammatico arruolamento di questo “esercito di ragazzini”, c’è un altro fenomeno: l’usura. “Da più parti - prosegue Raffaele Diomede - sono stati lanciati numerosi allarmi: i tentacoli criminali si stanno allungando sempre più sulle attività economiche. Anche in questo caso l’epidemia di Covid gioca un ruolo decisivo. Quante imprese, quanti negozi hanno vissuto e stanno vivendo momenti di enorme sofferenza dal punto di vista economico? Bene, la mala si è riconvertita. Dalla dimensione artigianale di qualche anno fa è passata a una dimensione imprenditoriale, con un salto favorito dall’epidemia e dalla crisi conseguente alla chiusura generalizzata delle attività per la quarantena nazionale. La malavita è diventata imprenditrice “finanziando” gli operatori economici in difficoltà. Certo - aggiunge ancora Raffaele Diomede - poi quei soldi si devono restituire. E se non puoi restituirli, con un tasso di interesse insostenibile, devi assumere qualcuno vicino ai clan, così come richiesto per le vie spicce, oppure addirittura far diventare socio occulto della tua azienda o della tua attività qualche rappresentante del gruppo criminale che ormai ti tiene in ostaggio”. Di fronte a questa miscela esplosiva, Raffaele Diomede, proprio in ragione della sua esperienza, ritiene indispensabile puntare sull’educazione, sulla scuola e sull’inserimento nel mondo del lavoro: “Nei mesi di lockdown è stato vissuto anche un grave scollamento tra società e famiglie in difficoltà, con queste ultime ancor più chiuse nel loro isolamento. Molti ragazzi hanno abbandonato la scuola, gli educatori e gli operatori sociali, lavorando a distanza, non hanno potuto incontrare i ragazzi che vivono le realtà più disagiate”. Diomede si rivolge anche alle istituzioni politiche: “Il Consiglio comunale deve nominare al più presto il difensore civico dell’infanzia e dell’adolescenza, il regolamento c’è già. E bisogna intensificare ancor più il dialogo e i rapporti tra istituzioni, in particolare tra la procura della Repubblica e la procura dei Minori. Sempre più spesso purtroppo osserviamo che i reati commessi dai giovani rientrano nella sfera dei reati degli adulti. Ancor più perché gli adolescenti, agli occhi dei clan, crescono in “valore” criminale alzando l’asticella delle loro azioni delittuose. Poi c’è la questione lavoro. Il Centro Chiccolino sperimenta un percorso che punta a inserire i giovani nel mondo del lavoro, a dar loro un’occupazione. Il Comune di Bari ha aperto lo sportello “Porta futuro” dove la domanda dei giovani in cerca di occupazione si incontra con l’offerta delle imprese sane. Ma queste ultime devono essere più presenti e pronte ad assumere. Ciò sarebbe possibile attraverso un meccanismo di sgravi fiscali. Dobbiamo lavorare tutti in questa direzione: dalle opportunità educative al lavoro. Le imprese incentivate si muovono. E i ragazzi che tornano nei loro quartieri, nelle loro famiglie troppo spesso fragili, se lo fanno avendo un’occupazione più difficilmente potranno essere preda di quel passato che devono lasciarsi alle spalle”. Come il caruso di Pirandello che, uscito dalla miniera di zolfo, trovò la luce della luna a rischiararne il cammino. Napoli. Giovani ex detenuti. “Si deve dare loro una seconda possibilità” di Fulvia Degl’Innocenti Famiglia Cristiana, 17 settembre 2020 Parla il direttore di “Casa Papa Francesco”, la Comunità che accoglie gli adolescenti usciti dal carcere minorile di Nisida. “Se trovano il vuoto, vengono risucchiati dalla criminalità: qui offriamo valori, ma anche opportunità di lavoro concrete. E sono tante le storie a lieto fine”. In un territorio come quello di Napoli non è facile provare a dare ai ragazzi finiti in un carcere minorile una seconda possibilità. Ci vuole tenacia, passione, amore e carità cristiana. Caratteristiche che animano l’opera di don Gennaro Pagano, cappellano del carcere minorile di Nisida e direttore della Cittadella dell’inclusione che si trova a Quarto, nella diocesi di Pozzuoli. È l’insieme di una serie di comunità rivolte ai giovani. Tra di esse Casa Papa Francesco, che accoglie i ragazzi che hanno finito di scontare la loro pena o quelli che terminano la carcerazione proprio in questa struttura. Attualmente gli ospiti sono 9, tutti maschi, e vanno dai 15 ai 21 anni. È stata voluta dalla Fondazione Regina Pacis su input del vescovo Gennaro Pascarella per dare un segno concreto di carità educativa, con la Chiesa in prima linea nel recupero di soggetti così fragili. “Prima seguiamo i ragazzi all’interno del carcere”, spiega don Gennaro Pagano, “e per coloro che hanno dato segni concreti di voler riscattare la propria vita chiediamo l’affido al magistrato. La nostra azione è fondata sul metodo psicoeducativo Integra, cerchiamo cioè di favorire l’integrazione dei ragazzi nel tessuto sociale e lavorativo. In particolare il nostro vescovo ha fatto una scelta unica in Italia: ha affidato ai ragazzi di Nisida la gestione culturale del Museo diocesano e della cattedrale di Pozzuoli”. Si tratta, quest’ultima, di un luogo di grande valore, poiché ingloba un tempio augusteo rimasto integro e rappresenta uno dei maggiori poli di attrazione della zona flegrea. “Oltre a insegnare ai ragazzi dei valori”, continua don Gennaro, “è importante dare loro delle possibilità concrete, perché se attorno a loro trovano il vuoto è facile che vengano di nuovo ingaggiati dalla criminalità”. E ci sono tante storie a lieto fine, ragazzi che riprendono a studiare, che trovano lavoro nella ristorazione, come artigiani e operai. Alcuni si iscrivono anche all’Università. “Il primo ragazzo che abbiamo accolto”, ricorda don Pagano, “era originario di Palermo, dal quartiere Brancacci o dove operava don Pino Puglisi. Poi, dopo essere finito in carcere, era stato trasferito a Nisida. Qui da noi ha fatto un bel percorso e ora si occupa della manutenzione di tutta la Cittadella e si prende carico anche degli altri ragazzi”. Il legame tra la comunità di recupero e il Papa va ben oltre il nome. La comunità era appena nata quando Bergoglio fu eletto al soglio pontificio. Pochi giorni dopo il suo insediamento si rese protagonista di un gesto fortemente simbolico: in visita al carcere minorile di Roma Casal del Marmo lavò i piedi ai detenuti. “Fu il primo di uno dei tanti messaggi del Papa rivolti verso gli ultimi, indicando alla Chiesa di andare nelle periferie esistenziali. Decidemmo così di chiamarci Casa Papa Francesco e per un curioso segno del destino, Meti, uno di quei ragazzi a cui il Papa aveva lavato i piedi, è stato ospite della nostra comunità”. Nel 2018 don Gennaro Pagano ha portato i ragazzi in udienza da papa Francesco, consegnadogli una lettera per spiegare bene il loro impegno: “Dopo un paio di ore da quell’incontro così emozionante, il Papa mi ha telefonato per complimentarsi del nostro coraggio dicendo “è un bene che la Chiesa ci sia in questa realtà marginale”. Per me, per tutti noi, è stata una delle benedizioni più belle”. C’è un collegamento tra l’opera di don Gennaro Pagano e la serie tv Mare fuori: il gruppo degli attori è andato in visita a Nisida per rendersi conto della vita all’interno della struttura penitenziaria. “E quando la fiction sarà trasmessa”, conclude don Gennaro, “la vedremo sicuramente con i ragazzi”. Milano. Antigone: “A San Vittore celle con 7 detenuti chiusi quasi tutto il giorno in 20 mq” milanotoday.it, 17 settembre 2020 A denunciarlo l’associazione Antigone Lombardia dopo che le sue osservatrici si sono recate in visita nella struttura. Celle da sette detenuti in 20 metri quadri, corridoi e reparti inaccessibili. Questa la situazione del carcere di San Vittore all’indomani dell’emergenza coronavirus. A denunciarla l’associazione che si occupa di diritti dei detenuti Antigone Lombardia, dopo che le sue osservatrici hanno visitato la struttura detentiva per monitorarla. Durante l’emergenza Covid, ricorda Antigone, San Vittore è stato “un vero e proprio hub per i detenuti che avevano contratto il virus nel corso della detenzione (co-gestito da Medici senza Frontiere); e teatro di alcune delle rivolte di quei giorni”. L’emergenza ha trasformato il carcere e “le misure precauzionali adottate per ridurre il rischio di contagio tra i ristretti e le presenze crescenti nella struttura milanese (871 uomini, 78 donne, 2 bambini al momento della visita) - evidenzia Antigone - hanno creato una situazione, di fatto che vede la maggior parte dei reparti chiusi per tutta la giornata (chiusura che prevede solamente accesso all’aria); sono aperti al momento della visita solamente i reparti che prevedono particolari esigenze trattamentali e quelli riservati ai detenuti lavoranti”. “A questo - prosegue Antigone - si aggiungono svariate celle e repartini destinati a forme differenti di isolamento: isolamento cautelare ex art. 32 O.P.; prevenzione del rischio suicidario (Car); isolamento sanitario. Quest’ultimo si presenta in molteplici forme: per la quarantena iniziale all’ingresso, per i casi sospetti, per i detenuti positivi ricoverati all’ex centro clinico (nel corso della visita erano presenti 3 detenuti positivi in corso di negativizzazione) e per coloro che hanno rifiutato di sottoporsi al tampone (dislocati nell’ex Conp)”. Palermo. Focolaio di Coronavirus al carcere Pagliarelli, 23 agenti contagiati Gazzetta del Sud, 17 settembre 2020 Focolaio di Coronavirus all’interno di una delle carceri più grandi della Sicilia: il Pagliarelli di Palermo. Nelle ultime ore sono risultati contagiati 23 agenti di polizia penitenziaria. Tutti lavorano nel Nucleo traduzioni del penitenziario del capoluogo siciliano. L’epidemia, però, potrebbe non essere circoscritta a questi 23 casi, perché sono attesi gli esiti dei tamponi eseguiti su un centinaio di colleghi. Anche una guardia penitenziaria in servizio al carcere all’Ucciardone, sempre a Palermo, è risultata positiva al Coronavirus. Lavora in una sezione in cui ci sono circa 90 detenuti ed è entrato in contatto con uno dei 23 colleghi risultati positivi al Nucleo traduzioni che fa base al Pagliarelli. Sempre a Palermo è risultato positivo un avvocato, a due settimane dalla ripresa a pieno regime dell’attività giudiziaria. Il legale ha comunicato la sua positività ed è scattata l’indagine epidemiologica sui contatti che il professionista ha avuto a palazzo di giustizia in tre aule d’udienza, altrettante cancellerie, e una decina di uffici sparsi fra il vecchio e il nuovo palazzo. Padova. Religione in carcere, al via corso per la formazione di imam di Marco Belli gnewsonline.it, 17 settembre 2020 Offrire agli operatori religiosi musulmani operanti nel contesto carcerario un percorso di formazione che permetta loro di agire come ministri di culto all’interno degli istituti e, al tempo stesso, consenta una conoscenza approfondita del contesto penitenziario italiano. È questo l’obiettivo del primo “Corso per Imam e ministri di culto musulmani operanti nel contesto penitenziario”, che si è aperto sabato scorso all’Università degli studi di Padova. Il percorso formativo si inserisce pienamente nel solco del protocollo d’intesa che regola l’accesso delle guide religiose islamiche nelle carceri italiane e favorisce l’assistenza spirituale e gli incontri di preghiera per i detenuti di fede islamica. L’accordo, sottoscritto nel giugno scorso da Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e da Yassine Lafram, presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia, ha rinnovato il precedente siglato nel 2015, a dimostrazione dell’ottima cooperazione che ormai da anni caratterizza i rapporti fra Ministero della Giustizia-Dap e Ucoii, soprattutto con riguardo al tema della prevenzione e del contrasto alla radicalizzazione violenta e al fine di assicurare ai detenuti e agli internati l’istruzione e l’assistenza spirituale, nonché la celebrazione dei riti delle confessioni diverse da quella cattolica. Il corso è stato organizzato dall’Università di Padova, su impulso dell’Ucoii, nell’ambito del progetto Primed (Prevenzione e interazione nello Spazio Trans-Mediterraneo), finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Si svolge in lingua italiana, araba, inglese e francese, ha una durata di 30 ore ed è rivolto a coloro che già svolgono l’attività di imam o di guida religiosa e che accedono o intendano accedere all’intervento nel contesto carcerario. All’inaugurazione del corso è intervenuto, in collegamento streaming, il capo Dap Bernardo Petralia, che ha salutato con soddisfazione l’avvio delle lezioni: “Non c’è informazione senza formazione e questo corso che si apre presso l’Università di Padova nell’ambito del protocollo d’intesa recentemente prorogato tra Dap e Ucoii dimostra la comune intenzione di scongiurare, con le armi di una pacifica e documentata persuasione, i rischi di radicalizzazione che incombono in seno alla promiscuità carceraria”. Dal canto suo, il presidente dell’Ucoii Yassine Lafram ha evidenziato come “la cura delle anime fa parte in modo ineludibile del percorso di reinserimento nella società civile e deve essere esperita nel rispetto della tradizione di appartenenza del detenuto, così come stabilisce la Costituzione della Repubblica”. “L’assistenza spirituale in carcere - ha poi aggiunto Lafram - necessita di una comprensione profonda del sistema in cui si inserisce, quello penitenziario italiano. Questo corso di formazione risponde a questa esigenza specifica e permette di dare maggiori garanzie del servizio che svolgono le guide spirituali islamiche in quel contesto. Questo traguardo non sarebbe stato possibile senza la preziosa collaborazione dell’Università di Padova e la partecipazione e la fiducia del Ministero della Giustizia-Dap”. Roma. Il Garante dei detenuti: “A Rebibbia sportelli per diritto assistenza” romadailynews.it, 17 settembre 2020 Il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasia, si è recato oggi nella terza casa circondariale di Rebibbia a Roma, per presentare gli sportelli per i diritti dei detenuti negli Istituti penitenziari, il progetto di integrazione tra Garante (espressione del Consiglio regionale che lo ha istituito con legge regionale 31/2003), Università e Associazioni qualificate, per il rafforzamento degli strumenti di tutela dei diritti dei detenuti. Assieme al Garante Anastasia, a presentare il progetto ai detenuti è intervenuto Dario Di Cecca, responsabile per il polo di Rebibbia del dipartimento di giurisprudenza di Roma Tre, università che ha sottoscritto il protocollo d’intesa con il Garante, varato lo scorso 16 luglio in Consiglio regionale. La delegazione è stata accolta dalla direttrice della terza casa circondariale di Rebibbia, Annamaria Trapazzo, e dal suo staff, prima di andare nell’area verde a illustrare lo sportello ai detenuti presenti nell’istituto (tossicodipendenti non attivi non sotto terapia). “È un servizio che abbiamo voluto promuovere - ha spiegato Anastasia - per garantire una continuità di comunicazione tra l’ufficio del Garante e i detenuti, mettendo in rete esperienze e professionalità qualificate già sperimentate, come quelle dell’università Roma Tre che assicurerà la presenza in loco ogni due settimane di suoi volontari, studenti universitari assistiti da tutor esperti. Si tratta di una presenza particolarmente importante, soprattutto in un momento come questo, in cui l’emergenza Covid ha reso meno frequenti per i detenuti i contatti con i propri familiari, le associazioni e con gli stessi legali di fiducia”. Nelle scorse settimane il Garante è andato a illustrare il progetto negli istituti penitenziari di Viterbo, Rieti, Rebibbia femminile, Civitavecchia, Regina Coeli. Lunedì 21 settembre sarà la volta di Frosinone e Cassino. Il 23 il Garante andrà a illustrare il progetto nella casa di reclusione di Rebibbia. Il progetto prevede l’attivazione di una rete di sportelli per l’informazione e l’orientamento delle persone detenute sui loro diritti, con particolare riferimento alle tematiche di competenza del Garante, quali le condizioni di vita di vita in carcere, l’assistenza sanitaria, l’istruzione scolastica e universitaria, la formazione professionale, l’orientamento e l’inserimento lavorativo, l’accesso ai benefici e alle misure alternative alla detenzione e il sostegno al reinserimento sociale a fine pena. Gli sportelli svolgeranno un’attività di sostegno ai detenuti che ne faranno richiesta, per la risoluzione delle problematiche individuali, attraverso un’azione di informazione e ausilio nella redazione di istanze a firma propria e comunicheranno al Garante i casi in cui sia necessario interloquire con i responsabili delle amministrazioni pubbliche e/o le autorità competenti nella risoluzione della problematica rappresentata dal detenuto. Reggio Calabria. Confronto con il Garante sui detenuti con problemi psichiatrici avveniredicalabria.it, 17 settembre 2020 Ieri mattina il Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, Agostino Siviglia, si è recato all’istituto penitenziario di Arghillà al fine di assumere le informazioni del caso relative, in particolare, “agli ultimi incresciosi episodi che hanno visto incendiare materassi e suppellettili da parte di una persona ristretta all’interno dello stesso istituto che, per vero, soffre di significative problematiche psichiatriche”. “Proprio per tale motivo - rende noto il Garante - è stato disposto nei giorni scorsi un trattamento sanitario obbligatorio e lo stesso detenuto ha fatto comunque rientro all’istituto di Arghillà. Ho avuto modo di incontrarlo oggi ed è apparso più contenuto e consapevole del gesto compiuto che evidentemente non può non essere esecrato”. “L’occasione - prosegue Siviglia - è stata proficua anche per un confronto con la direzione dell’istituto ed il personale di polizia penitenziaria sulle complesse problematiche che riguardano, in particolare, i detenuti con problemi psichiatrici la cui assegnazione, in base all’ordinamento penitenziario, dovrebbe prevedere la collocazione nelle apposite articolazioni sanitarie previste ex lege. Più volte ho sollevato il drammatico problema dei detenuti che soffrono di disturbi psichiatrici, sollecitando il più efficace intervento da parte dell’Area sanitaria che opera in carcere e, più in generale, da parte del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria nazionale e calabrese oltre che del competente Dipartimento salute della Regione Calabria”. “Tale complessa problematica, è stata oggetto di analisi durante la prima riunione dell’Osservatorio regionale permanente per la sanità penitenziaria, ragion per cui ne sollecito l’urgente convocazione, al fine di realizzare il più efficace intervento sistemico”. “Esprimo infine il mio plauso e l’istituzionale solidarietà al personale di polizia penitenziaria, che opera nel carcere di Arghillà con gravi carenze di unità e di risorse, nonché alla direzione dello stesso istituto e a quanti, personale sanitario, educativo ed amministrativo, sono impegnati quotidianamente all’interno della stessa struttura, ancor più in questo delicato momento storico che, evidentemente, genera ulteriori tensioni tanto fuori quanto dentro le mura di un carcere”. Alessandria. “Fuga di sapori”: un mondo di prelibatezze fuori le sbarre di Rossella Avella interris.it, 17 settembre 2020 L’economia sociale può creare grandi capolavori, uno di questi è “Fuga di sapori”, il negozio gestito da Andrea Ferrari, l’unico sulle mura di cinta di un carcere in tutt’Italia. La situazione delle carceri italiani, si sa, non è sempre delle migliori. Eppure, nonostante le mille difficoltà, il carcere rappresenta pur sempre un luogo di rinascita. Il posto da cui ripartire per tornare ad essere delle persone migliori, indipendentemente dal motivo della pena che si sta scontando. Molti istituti di detenzione, infatti, offrono progetti di reintegrazione sociale che partono proprio dal lavoro per offrire dignità ai detenuti e soprattutto una vera e concreta seconda possibilità. In giro per l’Italia sono tante le realtà belle che si incontrano ed Interris.it le sta raccontando oggi torniamo ad Alessandria dove abbiamo raccontato di Social Wood, la prima Bottega Solidale in un carcere italiano! Il progetto, avviato nell’Istituto Penitenziario “Cantiello e Gaeta” di Alessandria, crea lavoro per detenuti, sostiene diverse realtà sociali del territorio e sviluppa idee a favore del terzo settore promuovendone la sostenibilità. Social Wood non è solo manufatti in legno riciclato, ma è anche Fuga di Sapori il marchio di Social Wood nato per promuovere i prodotti di Economia Carceraria e dare vita a nuove collaborazioni con realtà che producono in diverse carceri italiane e fare emergere quanto di buono viene prodotto. Il laboratorio artigianale coinvolge e impiega i detenuti restituendo loro dignità e autonomia, il tutto nel pieno rispetto dell’ambiente. Il progetto, nato dall’idea di Andrea Ferrari, raccoglie due importanti sfide della società moderna: la rieducazione del detenuto, come sancito dall’art. 27 della Costituzione, e i principi di Economia Circolare. Fuga di sapori con Social Wood vuole essere l’incipit di un progetto più ambizioso e strutturato verso la creazione di un’impresa sociale. Molta attenzione è data alla sostenibilità e al lavoro in rete con altri enti del terzo settore: crediamo infatti che i progetti sociali debbano autosostenersi e sviluppare profonde sinergie tra tutti gli enti che operano con spirito sociale e di solidarietà. Per tali motivazioni tutti i fondi raccolti grazie alle vendite verranno impiegati per acquistare nuovi attrezzi per la falegnameria, la formazione e il lavoro dei detenuti, offrendo loro una concreta possibilità di reinserimento lavorativo a fine pena. Un progetto confezionato per far nascere Fuga di sapori. La bottega è sulle mura di cinta - “Una sera uscendo dal carcere dopo una riunione ci rendemmo conto che proprio sulle mura di cinta c’erano due garage chiusi - racconta Andrea Ferrari, responsabile del progetto. Subito pensammo a come fosse stato bello se quelle due serrande fossero state aperte con la possibilità di metterci due belle vetrine per far vedere i prodotti di Social Wood in modo da avere uno sfogo sulla città e far vedere che dentro vengono fatte delle cose. Perché il problema del lavorare in carcere è che se anche si fanno cose belle fuori non sempre si sa”. Nasce Fuga di Sapori - “Io lanciai l’idea ma quasi per ridere perché non credevo fosse pensabile e invece l educatrice mi diede carta bianca. Bisognava trovare qualcuno che si impegnasse a seguire il progetto. Dopo un anno e mezzo di peripezie varie abbiamo anche avuto il benestare del ministero dei beni culturali e siamo riusciti a ristrutturare questi locali. Oggi abbiamo circa 120 metri quadrati che abbiamo recuperato e abbiamo arredato con i mobili della falegnameria con dei lampadari antichi di legno in travertino e rimessi a nuovo, a tutti i mobili fatti in pellet dai detenuti. Gli stessi che lavorano per Social Wood hanno fatto questa cosa qui. I lavori sono stati fatti dai detenuti, tranne gli impianti elettrici ed idraulici per ovvi motivi”. L’unico negozio in Italia sulle mura di cinta di un carcere - “Oggi c’è un negozio a tutti gli effetti proprio accanto al cancello del carcere, una cosa un po’ strana. L’idea era quella di esporre ciò che fanno i dipendenti di Social Wood ma erano mobili vuoti. Per questo abbiamo pensato di riempirli con i prodotti di alta qualità dei vari realizzati nei vari carceri italiani. Per esempio il progetto dei biscotti “Dolci evasioni” del carcere di Siracusa. Abbiamo allargato anche alle Malefatte di Venezia con le loro borse, i detersivi del carcere di Trento. Con il caffè della cooperativa Lazzarelle di Pozzuoli abbiamo fatto una crema di caffè “La Brigantella” che finanzia anche la “Fondazione Solidal” dell’ospedale di Alessandria sulla ricerca delle malattie più rare. In questo modo cerchiamo di unire il mondo carcerario con quello della ricerca”. Una produzione made in Italy sotto un marchio solidale - “Per noi è molto importante perché avere una produzione di qualità con un ingrediente di economia carceraria. Cerchiamo di mettere quanto di buono fatto dentro e lo produciamo con un marchio solidale”. Cosa significa fare impresa nel sociale in un modo in cui si è sempre più attaccati al denaro? “Significa tornare al vero concetto di impresa perché questo nasce non con una logica di profitto estrema. Io sono di Alessandria e se penso a cosa è stato Borsalino per il territorio vedo una persona che ha fatto del bene per tutti. Fare impresa sociale significa tornare ad un concetto di utilità per chi ne ha più bisogno con possibilità di fare nuovi investimenti. Il tutto senza essere legati solo concetto di arricchimento personale, ma del territorio”. Torino. Rugby oltre le sbarre: dove la palla ovale diventa occasione di riscatto di Manuel Piazza nprugby.it, 17 settembre 2020 “Ci sono cose che solo il rugby riesce ad insegnarti” … Sono parole di Walter Rista, Presidente dell’Associazione Onlus “Ovale oltre le Sbarre”, promotrice al fianco del penitenziario “La Drola” di Torino e del suo direttore Pietro Buffa, del progetto federale “Il Rugby nelle Carceri”, iniziativa che ad oggi porta la palla ovale in 18 istituti penitenziari italiani. Nato quasi per caso nel 2010, il progetto ha permesso l’abbassamento dal 70% al 20% del tasso di recidiva per i detenuti coinvolti, sviluppando un trend positivo che ha sensibilmente abbassato i costi governativi relativi al mantenimento dei carcerati. “È buffo vedere fin dove ci siamo spinti ripensando a come nacque tutto questo”, racconta Walter Rista. “Ero in Argentina con un mio amico tanti anni fa, quando col pullman facemmo un incidente con un altro pullman. Noi scendemmo subito in strada, mentre dall’altro pullman ci accorgemmo che non scendeva nessuno. Solo qualche minuto dopo, quando vedemmo che i passeggeri erano tutti incatenati, ci rendemmo conto che era un pullman di carcerati. Ripensai per settimane alle facce di quei ragazzi … Fu davvero un episodio che mi rimase impresso nella memoria, al punto che mi dissi che quando sarei andato in pensione avrei fatto qualcosa per aiutare i detenuti. Un sogno divenuto reale quando ho conosciuto il direttore de “La Drola” Pietro Buffa, col quale abbiamo tentato l’esperimento di organizzare una partita dimostrativa all’interno del penitenziario. Il giorno dopo, 130 detenuti che ci chiedevano di poter cominciare a giocare a rugby, ci ha convinti che eravamo sulla strada giusta. L’obiettivo dichiarato del progetto? Far capire alle persone che questi ragazzi non sono un voto a perdere, ma esseri umani in cerca di un’occasione per riscattarsi”. Oggi vi parliamo di uno di questi ragazzi, Serghei Vitali, ex detenuto che, dopo 16 anni passati all’interno di diversi istituti penitenziari italiani, in questi giorni ha finalmente riassaporato la gioia di vivere da cittadino libero. 36enne di origini moldave, Serghei era diventato parte integrante del progetto 6 anni fa, proprio a “La Drola”, dove ancora 30enne il rugby gli aveva dato una ragione per continuare a lottare. Oggi, da ormai 7 mesi, fa stabilmente parte della grande famiglia del Rugby Colorno, dove il Presidente di “Sostegno Ovale Onlus” e Consigliere Federale Stefano Cantoni lo ha accolto a braccia aperte. In Biancorosso Serghei ha saputo farsi subito conoscere per il suo sorriso e la sua voglia di aiutare il prossimo, soprattutto nel periodo del lockdown, durante il quale ha lavorato come volontario al servizio della community colornese. Serghei, raccontaci cosa fai qui a Colorno? “Vengo dal carcere di Torino, da La Drola. Da sette mesi mi trovo qui in affidamento al Rugby Colorno. Mesi in cui ho svolto e sto volgendo servizi sociali e operazioni di volontariato. Durante il lockdown, assieme ad altri ragazzi, mi sono messo a disposizione del territorio distribuendo la spesa per conto di Conad nelle case dei cittadini bisognosi. Di sera invece mi alleno e gioco con i Barbari del Po, la seconda squadra del Rugby Colorno che milita nel campionato di serie C.”. Stefano Cantoni introduce il progetto “Rugby oltre le Sbarre”. “Il Rugby Colorno ha una lunga tradizione nel sociale, che pone le sue radici nel 2013, quando fu fondata l’associazione Onlus Sostegno Ovale, progetto legato ai giovani e al rugby integrato. Da dieci anni sono Consigliere Federale con nomina a responsabile dei progetti sociali, tra i quali quello del “Rugby oltre le Sbarre”. Fu proprio nel 2010 che feci visita al penitenziario de La Drola a Torino, quel giorno conobbi Serghei. Il progetto viene sviluppato a livello nazionale con l’obiettivo di far avvicinare persone come Serghei allo sport del rugby, persone che arrivano da paesi diversi, con diverse tradizioni e che parlano lingue diverse. Attraverso il rugby viene data loro l’occasione di riscoprire regole che avevano dimenticato, regole di convivenza. Questi ragazzi hanno riscoperto cosa significhino impegno e sostegno proprio in un ambiente dove non vige il gioco di squadra, dove ognuno pensa alla propria sopravvivenza”. “Posso orgogliosamente affermare che il progetto ha avuto e sta avendo successo, diverse persone come Serghei sono uscite dal carcere e non hanno sbagliato un’altra volta. È vincente l’iniziativa che la Federazione ha sposato e ne andiamo fieri. Serghei ha affrontato entusiasta il percorso e ora punta a farsi una famiglia e ricominciare la sua vita. Averlo qui rappresenta l’esempio di un percorso vincente.” Serghei, parlaci del tuo approccio al mondo del rugby... “Mentre ero in prigione una mattina mi sono affacciato a una bacheca e ho visto uno strano annuncio, ho pensato: “strano che proprio qui si possa giocare a rugby”. È uno sport che mi ha sempre incuriosito e affascinato quindi ho deciso di iscrivermi. Dopo un mese sono stato selezionato anche se, visto che avevo 31 anni, mi era stato detto di essere un pochino vecchio… Ci ho messo solo una partita per convincere l’allenatore, tanto che mi ha confidato che sarei potuto diventare una terza linea perfetta”. Raccontaci de “La Drola”, la prima squadra di rugby di cui hai fatto parte.. “Nata nel 2009, La Drola si compone di soli detenuti che vengono selezionati a livello nazionale. Il rugby mi ha insegnato cosa sia la famiglia, un posto dove non sei mai solo, in allenamento e in cella esattamente come in partita. Giocando ho scoperto tante cose che non conoscevo. Una pacca sulla spalla per molti non vuole dire nulla ma dentro quel posto significa moltissimo. Ho combattuto per anni con i miei compagni per far crescere la squadra. Scendevamo in campo come se fosse l’ultimo giorno disponibile per stare tutti insieme. Il rugby mi ha aiutato a rispettare le regole che ho infranto in passato. Ho capito che i momenti difficili non si superano facilmente, bisogna impegnarsi e sacrificarsi come il rugby insegna. Sono onorato che Colorno mi abbia accolto in questa famiglia … Io qui ho trovato tutto quello di cui avevo bisogno e che non ho mai avuto prima”. Stefano, cosa ti ha colpito di Serghei? “Di Serghei mi ha sempre colpito la sua convinzione, il suo sorriso, il suo rispetto delle persone e delle regole. È sempre puntuale, anzi arriva sempre per primo ad ogni appuntamento. Nel lockdown era stato designato per la raccolta dei prodotti alimentari nel supermercato, diventando una persona di riferimento per tutti i clienti, al punto che ormai chiedevano a lui dove poter trovare certi alimenti. Al centro sportivo l’ho visto anche allenare i giovani, esperienza sicuramente positiva per lui e per i ragazzi e che la dice lunga sulla predisposizione alla famiglia che ha trovato nel rugby”. Serghei, cos’è per te il rugby? “Cos’è il rugby? Per me rugby significa sostegno. Nel mondo di oggi senza sostegno non si va da nessuna parte, senza sostegno diventa difficile affrontare la vita, specialmente in questa situazione.” Stefano, cos’è per te il rugby? “È la passione della vita, ho iniziato con il rugby da giovanissimo e ho giocato fino a 35 anni, ora sono un dirigente. Il rugby mi ha insegnato a soffrire, a non mollare mai e a sacrificarmi. Mi ha insegnato ad essere umile. Tante volte, io che giocavo pilone, in mischia prima di ingaggiare lo scontro diretto con il mio avversario pensavo: “se mollo sono finito, sono finito io e i miei compagni”. Non bisogna mai mollare, in campo come nella vita di tutti i giorni.” Serghei, hai qualcosa da aggiungere? “Oggi provo una grande emozione … Mi hanno appena comunicato che entro ufficialmente a far parte della rosa della prima squadra del Rugby Colorno. Ho iniziato con La Drola, poi sono passato ai Barbari del Po in Serie C e oggi mi alleno con un club di alto livello. Sono partito come un piccolo rugbista ed oggi posso allenarmi ai massimi livelli italiani. È un sogno che si avvera”. “Serghei credo sia il caso lampante della buona riuscita del nostro progetto, che dal 2010 coinvolge ogni anno centinaia di ragazzi abbandonati a se stessi”, conclude Walter Rista. Sono persone come altre, che in passato hanno commesso gravi errori e ora li pagano a caro prezzo. Attraverso il rugby cercano di ricostruirsi una vita, scoprendo valori di cui prima non conoscevano il significato, come la famiglia, il sostegno reciproco e la resilienza. Servono davvero gli attributi per voltare pagina e non lasciarsi spaventare dal passato e Serghei li ha, l’ho capito dal primo giorno che ci ho parlato. Gli faccio un enorme in bocca al lupo per quella che possiamo definire la sua seconda vita, augurandogli di star bene e mettere in pratica quello che il rugby gli ha insegnato”. “Pensieri reclusi. Antologia Covid-19”, il libro scritto da detenuti, operatori e volontari agensir.it, 17 settembre 2020 I detenuti nel carcere di Paliano (Fr) raccontano il lockdown in un libro corale che ha coinvolto anche operatori e volontari. “Pensieri reclusi. Antologia Covid-19” è il titolo di una pubblicazione, frutto di un progetto realizzato durante l’emergenza coronavirus, che ha avuto come protagoniste le persone detenute nella Casa di reclusione di Paliano (Fr). Ad accompagnarle sono state Maria Teresa Caccavale e suor Rita Del Grosso, che in questi mesi si sono passate il testimone come volontarie nel carcere di Paliano. “Con questa antologia letteraria abbiamo cercato di dare voce a tutto il dolore, la paura, la sofferenza di chi è agli ultimi posti della fila, ma anche di chi è sensibile al dolore del mondo e non solo al proprio - spiega al Sir Maria Teresa Caccavale. Siamo partiti dagli elaborati dei detenuti di Paliano, dove da molti anni è presente un Laboratorio di scrittura, coinvolgendo anche detenuti di altre carceri e persone che lavorano o sono volontarie in istituti penitenziari”. “Chi conosce il carcere è consapevole che dire a uomini privati della libertà che non potranno abbracciare, toccare, stringere le mani dei propri cari ha su di loro un effetto devastante”, aggiunge il direttore del Carcere di Paliano, Anna Angeletti, che ha sostenuto il progetto. “Una videochiamata è come vedere la luna e non poterla raggiungere - scrive una detenuta, madre di quattro figli -. Comprendo che tutto ciò sia necessario, ma mi chiedo: fino a quando riuscirò a resistere? Lo stato di detenzione è niente rispetto alla mancanza dei propri figli”. Si può acquistare una copia elettronica del libro, al costo di 5 euro, e contribuire così al progetto. Dal garantismo al giustizialismo tra prima e seconda Repubblica recensione di Francesco D’Errico* Il Dubbio, 17 settembre 2020 L’analisi di Gaetano Insolera nel libro “Declino e caduta del diritto penale liberale”. Quando è cominciato il declino del diritto penale liberale? Da quando, cioè, è iniziata l’inarrestabile transizione da un modello di impostazione garantista a un sistema fondato sull’ideologia giudiziaria? Gaetano Insolera, ordinario di diritto penale e direttore della scuola di specializzazione per le professioni legali “E. Redenti” nell’Università di Bologna e avvocato penalista presso il Foro di Bologna, non ha dubbi: l’inizio della fine, almeno da un punto di vista politico, è da individuare nel passaggio da prima a seconda Repubblica. Tesi illustrata nel suo “Declino e caduta del diritto penale liberale” (Edizioni Ets, pp. 180, 2019, 17 euro). Secondo il professore, infatti, se è vero che nessuno dei partiti di massa fosse erede di culture politiche pienamente garantiste, è altrettanto innegabile che vi fossero in Parlamento e nelle istituzioni “illustri esponenti del liberalismo politico” e giuristi di alto profilo, anche in parte riassorbiti dal sistema dei partiti (soprattutto dalla democrazia cristiana), la cui presenza aveva “un effetto socializzante”, tale da spingere “anche i poco garantisti ad adottare progressivamente almeno un linguaggio garantista”. Questa influenza positiva, tuttavia, inizia ad incrinarsi già dagli anni 70, nel periodo della legislazione d’emergenza, momento in cui prende il via “l’insediamento permanente di un diritto penale differenziato” e si forma il cosiddetto doppio binario, che si estenderà poi negli anni a “settori sempre più vasti di criminalità”. Dalla fine degli anni 80, inoltre, l’antimafia comincia la sua trasmutazione e da “risposta legislativa di contrasto a un fenomeno criminale che aveva assunto dimensioni, audacia e ferocia intollerabili” diviene un “dover essere della politica”. È in quel frangente che si impone, come mai prima, una narrazione fondata sulla “poetica congiunta di Antimafia e Antipolitica”, in cui la questione della lotta alla criminalità organizzata si è trasformata in una “questione morale” da agitare contro il nemico politico di turno: “pronta è l’invettiva delatoria e infamante”, che oggi trova nella rete il suo habitat di riproduzione e di diffusione ideale. Dunque, antimafia come antipolitica ma anche come “un laboratorio di quello che è un più generale spostamento di poteri nelle mani degli uffici di Procura” che “dispongono ormai di un formidabile armamentario per infliggere penalità effettiva” e godono del “costante supporto di informazione ormai drogata dalle ricostruzioni accusatorie”. Infine, antimafia come “una coperta da stendere su ogni fenomeno criminale che desti allarme sociale”, fondato su un 416bis in continua espansione, a causa di un concetto liquido di mafia, sempre meno tassativo e sempre più malleabile, dovuto, ça va sans dire, alla più generale crisi del principio di legalità. Dalla legislazione d’emergenza a Mani Pulite, cresce la centralità del potere giudiziario, a scapito di quello del Parlamento. Durante Tangentopoli, in particolare, scoppia irreparabilmente la crisi dei partiti che, dopo la disfatta giudiziaria, subiscono la venuta della democrazia dei leader, fase caratterizzata in materia penale dall’abuso della decretazione d’urgenza, dalla crisi della riserva legis e dallo scontro tra i poteri, di cui Silvio Berlusconi è il più lampante esempio. A seguire, i governi tecnici, poi la parentesi renziana, connotata da una spinta personalistica simile a quella berlusconiana e ancora, soprattutto, la rapida ascesa penta- stellata, inversamente proporzionale allo stato di salute dello Stato di Diritto. Questo, dunque, il lungo percorso del declino, la cui inarrestabile prosecuzione è rappresentata da quella che il professore chiama discesa nel “maelström” del populismo penale, fase ufficialmente inaugurata dal governo giallo- verde. Da quell’esperienza, sostiene Insolera, “il volto del sistema penale già deturpato da anni di progressivo ossequio a pulsioni illiberali, ne esce sfigurato”. Il libro si conclude all’insediarsi del nuovo esperimento giallo- rosso, con considerazioni fondate su un ragionevole pessimismo a cui il presente da oggi ragione, data la totale assenza di discontinuità in ambito penale rispetto all’esecutivo precedente. Insomma, mala tempora currunt, ma bisogna darsi da fare, ché l’alternativa è aspettare Godot. *Presidente Associazione “Extrema Ratio” I controllori controllati, nessuno è innocente recensione di Simone Pieranni Il Manifesto, 17 settembre 2020 L’ultimo libro del sociologo inglese David Lyon, “La cultura della sorveglianza”, per Luiss University Press. Per chi si occupa di sorveglianza e controllo sociale, David Lyon costituisce una bussola imprescindibile per orientarsi nei meandri di una materia che finisce per sconfinare nell’antropologia, nella sociologia e nella scienza politica. Fin dai tempi di “L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza” o di “La città sorvegliata” (entrambi pubblicati in Italia da Feltrinelli) per arrivare a “Sesto potere: La sorveglianza nella modernità liquida”, scritto insieme a Zygmunt Bauman e pubblicato da Laterza, Lyon ha concentrato il suo sguardo sulla crescita dei dispositivi di controllo, riuscendo a coglierne le evoluzioni. Un altro grande merito di Lyon, professore di sociologia alla Queen’s University in Canada, è quella di modificare il proprio approccio, senza innamorarsi di un’impostazione. Nel primo capitolo di La cultura della sorveglianza (introduzione di Gabriele Balbi e Philip Di Salvo, Luiss University Press, pp. 229, euro 20) Lyon parte da un assunto fondamentale: non siamo più in tempi nei quali Orwell e il suo 1984, di cui si riconoscono i meriti indubbi, possono essere considerati lenti che permettono di leggere la realtà. Non a caso nel titolo c’è la parola “cultura”: l’autore concentra infatti i suoi sforzi analitici nel tentativo di presentarci l’ulteriore balzo della sorveglianza, come un processo che non è più univoco (con le autorità, il potere a controllare il popolo) ma che si amplia di complessità nel momento in cui tutti siamo coinvolti, in quanto creatori di quei dati che diventano fondamentali per le politiche di sorveglianza, fino a diventare gli utenti stessi “controllori”. Insomma, nessuno è più innocente. Nell’introduzione, Balbi e Di Salvo riassumono alla perfezione questo passaggio, quando scrivono che “con una efficace metafora David Lyon parla di ‘sorveglianza generata dagli utenti’, riecheggiando il mito, rimasto più tale che una realtà consolidata, dei ‘contenuti generati dagli utenti’”. In particolare i social media, da luoghi che avrebbero dovuto ribaltare i paradigmi della creatività, dell’informazione e della partecipazione democratica, “si sono piuttosto trasformati in zone di performance di sorveglianza di vario tipo dove gli utenti sono sia sorvegliati che sorveglianti dei loro pari”. La cronaca è piena di eventi, anche delittuosi, partiti da un post su Facebook quando non addirittura da un like “sbagliato”, così come attraverso i social è possibile “sorvegliare” persone di cui si vuole sapere di più o contro le quali si vogliono intraprendere attività di natura anche criminale, come avvenuto in alcuni casi. Da controllati siamo diventati controllori e questo implica notevoli problematiche. Lyon si occupa di Occidente e conferma quanto si va osservando da tempo, ovvero che il capitalismo di sorveglianza ha finito per permeare società anche diverse, creando una “cultura” capace di agganciarsi a sistemi valoriali differenti. Si parla, ad esempio, molto spesso di Cina come distopia in riferimento al suo impianto di sorveglianza, forse proprio nell’ottica di allontanare l’incubo: in realtà ci siamo immersi anche noi, anzi foraggiamo e contribuiamo alla creazione costante della “cultura della sorveglianza”. Quest’ultima, scrive Lyon, “è comparsa perché sempre più le persone usano strumenti di monitoraggio. Molti controllano le vite degli altri usando i social (…). Allo stesso tempo gli ‘altri’ rendono tutto questo possibile concedendo di esporsi alla vista con messaggi e tweet, post e fotografie”. La prospettiva del libro è indagare l’idea che la sorveglianza stia diventando un intero modo di vivere, non più dunque qualcosa di esterno a noi, quanto qualcosa “a cui i cittadini comuni si conformano - volutamente o consapevolmente o meno - che negoziano, a cui oppongono resistenza, a cui prendono parte e, in modi nuovi, cui danno inizio e che desiderano”. Dal controllo dei figli, a quello degli amici, dal modo di comportarsi quando si sa di essere sorvegliati (gli esercizi in aeroporti, stazioni ecc.), è ormai nata una cultura della sorveglianza capace di scatenare nuovi immaginari securitari, da cui nessuno può dirsi completamente esente. La Rai e le “Storie dure”. Mare Fuori, girato a Nisida di Ignazio Senatore Corriere del Mezzogiorno, 17 settembre 2020 Anteprima il 19 per la fiction con tanti giovani e Carolina Crescentini. È stata girata interamente a Napoli la serie tv “Mare Fuori” che andrà in onda in prima serata, in sei puntate su Rai 2, da mercoledì 23 settembre e in anteprima su Rai Play dopodomani. Diretta da Carmine Elia, la fiction è interpretata soprattutto da attrici e attori napoletani (Anna Ammirati, India Santella, Agostino Chiummariello, Carmine Recano, Giacomo Giorgio, Massimiliano Caiazzo), dal casertano Antonio De Matteo e dal salernitano Matteo Paolillo. La nuova produzione racconta la storia dell’Ipm (Istituto di Pena Minorile) di Napoli, a picco sul mare di Nisida, con settanta detenuti, cinquanta maschi e venti femmine, che non hanno compiuto ancora diciott’anni. Alcune storie: Filippo, un ragazzo della Milano bene, con un futuro promettente da musicista, ritenuto responsabile della morte di un amico, condivide la cella con Carmine, un ragazzo di Secondigliano, che ha deciso di non seguire le orme criminali della propria famiglia, di lavorare una nomade di un campo rom, arrestata più volte per furto e truffa, si è ribellata e non è andata in sposa ad un uomo scelto dal padre; Serena, è, invece, una ragazza introversa con un passato da tossicodipendente. A fare da contrasto ai loro toccanti e intensi racconti, l’ambiziosa direttrice, interpretata da Carolina Crescentini, il comandante di polizia penitenziaria, gli educatori, il cuoco, il barbiere, gli agenti penitenziari e le altre figure professionali che entrano ogni giorno in contatto con i giovani detenuti. Non mancheranno naturalmente gli amori, le risse, le partite di calcio, le fughe e chi sogna invano che il giudice conceda loro gli arresti domiciliari. Sceneggiato dallo scrittore napoletano Peppe Fiore, Cristiana Farina, Maurizio Careddu, Luca Montesi e Paolo Piccirillo, il lavoro è nato da un’idea originale di Cristiana Farina, ed è una coproduzione Rai Fiction - Picomedia. “I Cellanti”. Storie libere sotto un sole a scacchi di Angela Rubini espressione24.it, 17 settembre 2020 I Cellanti è il titolo di una trasmissione molto seguita su Radio Vaticana il cui sottotitolo dice con parole semplici e dirette di cosa si tratta: liberi di raccontare storie dal carcere. Davide Dionisi, di orgogliose origini marsicane, e Roberta Barbi ne sono i bravi e competenti giornalisti conduttori. Nel corso della trasmissione del 13 settembre, sono state portate all’attenzione dei radioascoltatori quattro iniziative intraprese all’interno di altrettante case di detenzione italiane: carceri di Sulmona, di S. Vittore, di San Gimignano e di Crotone. Le esperienze e le attività proposte, sebbene diverse nel genere, hanno avuto tutte un denominatore comune, quello di offrire ai detenuti e alle detenute importanti momenti educativi e culturali che, da una parte tendono alla riparazione del danno causato con il reato e dall’altra si pongono come stimolo a riconsiderare un rapporto con la società che, guastato da comportamenti sbagliati, può riguadagnare in altruismo e dignità. Il carcere di Sulmona, in virtù di un protocollo d’intesa stipulato tra la casa circondariale, rappresentata dal Direttore dott. Sergio Romice, e il Comitato Provinciale Unicef dell’Aquila, rappresentato dal Presidente Ilio Leonio, ha ospitato un’attività portata avanti dai detenuti finalizzata a sensibilizzare i detenuti in ordine alla Convenzione si Diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza e ad elaborare, di concerto, progetto comuni nell’ambito dell’Educazione alla convivenza civile. L’apporto degli uomini reclusi è stato fondamentale per la realizzazione delle Pigotte, le bambole di stoffa, simbolo dell’Unicef, la cui adozione consente di fornire ai bambini vulnerabili dei paesi in via di sviluppo interventi mirati alla riduzione della mortalità. L’iniziativa, andata felicemente in porto, è ancor più da lodare se “si considera che questa casa di detenzione è un carcere di massima sicurezza dove sono ospitati persone che hanno compiuto reati gravissimi”, con le parole del Presidente provinciale Unicef, Ilio Leonio che ha tenuto anche a precisare che la parte più propriamente culturale e pedagogica non si è potuta tenere a causa delle restrizioni Covid, rinviando a tempi migliori la trattazione dei temi prescelti: la convivenza civile, la legalità, la solidarietà, la genitorialità consapevole che erano in programma. Le pigotte sono state vestite con gli abiti del corteo storico della Perdonanza Celestiniana e così, dame, cavalieri, giovin signore e soldati hanno preso vita (quasi un purificatore contrappasso) sotto le virili mani degli ospiti della casa che hanno dato prova di grande competenza, gusto e manualità. Inoltre, vista l’eccezionale produzione, tutte le pigotte “celestiniane” sono state adottate - “perché una pigotta non si acquista ma si adotta” dichiara orgogliosamente il Presidente Leonio - dalla Presidenza del Comitato Perdonanza. E, oltre ogni più rosea aspettativa, va riportato che diversi detenuti hanno manifestato l’intenzione di continuare a collaborare attivamente alle attività portate avanti dall’Unicef, impegno che il Presidente si è affrettato a sottoscrivere, dichiarando nuovamente la propria disponibilità. Presso la casa circondariale di S. Vittore a Milano, le detenute hanno dato vita al progetto “La vita sotto il turbante” pensato e realizzato dall’Associazione “Go5 - per mano con le donne Onlus” e il brand Sartoria San Vittore nato dalla Cooperativa Alice che si propone di presentare il lavoro come modalità di riscatto sociale. Le detenute hanno confezionato turbanti per le pazienti oncologiche del Reparto di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Tumori di Milano, utilizzando stoffe naturali e preziose i cui colori vengono da operazioni di tintura effettuate utilizzando sostanze naturali provenienti dal nord Africa e dalla Mauritania. Nel corso dell’intervista Francesca Brunati dell’Associazione Go5 ha spiegato il cuore del progetto: mettere insieme donne che soffrono sebbene per diverse ragioni. Contro ogni legge fisica, due poli negativi si sono attratti e hanno “dato vita a qualcosa di positivo”; l’attività del progetto “getta un ponte oltre le sbarre, consente un dialogo con la città, assume i connotati di integrazione sociale”. Le detenute hanno accolto con entusiasmo la proposta che ha visto impegnate circa 20 donne tra detenute, in regime di semilibertà e malate. La sfilata conclusiva del progetto, nel corso della quale sono stati presentati i turbanti, ha visto la presenza anche di avvocate e giornaliste e naturalmente, ha profuso una positiva carica di autostima, fiducia e serenità nelle detenute giunte al termine delle attività entusiaste ma anche commosse. È stato il Garante Comunale dei detenuti di Crotone, Federico Ferraro, a presentare alla Casa circondariale il progetto Laboratori Esperenziali ideato e programmato dall’Associazione For ever young di Crotone. I laboratori hanno il compito di facilitare la riappropriazione del sé attraverso le tele e i colori; i detenuti entreranno in contatto con le loro emozioni, con i loro vissuti; aspetti che spesso è difficile esprimere con le parole ma che possono essere elaborati attraverso la trasposizione su tela. Il progetto, inserito in una prospettiva di più ampio respiro, si pone a cambiare la visione del detenuto e dell’ambiente carcerario, dando voce e visibilità a persone, certo ree di qualche crimine, ma alle quali va data una possibilità di recupero passando attraverso il ripensamento e la rivalutazione dei comportamenti. In aggiunta, importante è anche l’interazione che si instaura con l’altro, che determina uno stato di benessere collettivo, in forza della conoscenza reciproca delle esperienze, che prosegua anche quando l’attività si sarà conclusa. Il percorso di lavoro si struttura a partire da un circle time e da una preparazione pre-laboratorio per poi approdare alla produzione; la risposta dei detenuti e la funzionalità delle azioni, in una strutturazione dinamica della proposta, saranno i segnali per eventuali aggiustamenti o cambiamenti. L’ultima iniziativa, ma solo in ordine di esposizione, è quella della Casa Circondariale di Gimignano. “La Ripartenza” è il titolo di una mostra che ha ospitato la 22esima edizione in questo 2020 dei lavori artistici dei detenuti e che si riferisce sia alla futura vita di chi, commesso un reato e saldato il suo debito con la giustizia, esce dal carcere sia al liberatorio momento che è seguito al confinamento causa Covid-19. Vittoria Coliandro, referente del Gruppo di Volontariato penitenziario dell’Arci confraternita Misericordia di Siena, ha posto l’accento sulla qualità dei lavori prodotti quest’anno che, a causa della lontananza dei detenuti dalle famiglie, dagli affetti e anche dai volontari, presentano contenuti più profondi con un uso dei tratti grafici e dei colori davvero interessanti, rappresentando l’espressione di sentimenti intimi e autentici; i numerosi visitatori della mostra hanno colto coralmente i messaggi nelle opere. Non sono state presentate solo tele; insieme ad esse sono state realizzati origami e ceramiche che verranno vendute per finanziare future iniziative. La ripartenza mette in evidenza anche l’attuale positiva situazione del carcere dopo essere stato, qualche tempo fa, teatro di una serie di violenze che videro protagonisti gli stessi carcerati. Le iniziative esposte tendono a coniugare arte, nelle sue diverse e diversificate forme, e periodo detentivo. Sembra essere un connubio singolare ma non lo è. Molti sono stati, nel passato remoto e recente, i detenuti che si sono dedicati a scrivere poesie o a dipingere quadri e quindi, non si tratta di una novità. Quel che invece è importante notare è che le proposte e le iniziative che vengono intraprese oggi, rappresentano una azione intenzionale e consapevole e perciò educativa, affinché l’arte possa costituirsi momento creativo non fine a sé stesso ma funzionale alla presa di coscienza del sé, del proprio agire e quindi, alla pratica di riabilitazione. La linea di separazione tra civiltà e barbarie di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 17 settembre 2020 Da vent’anni nel nostro discorso pubblico sulle cose del mondo sono caduti in disuso concetti come “libertà”, “diritti umani”, “eguaglianza”. In una celebre poesia dell’inizio del secolo scorso Kostantin Kavafis immaginava che la decadente civiltà europea aspettasse con ansia l’arrivo di una nuova forza vitale rappresentata dai “barbari”. Ma invano: “…di barbari non ce ne sono più - concludevano i suoi versi - E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione quella gente”. Kavafis in realtà si sbagliava, come sappiamo. Il Novecento infatti sarebbe stato popolato dai barbari come pochi altri periodi della storia europea. E di certo almeno quei barbari in nessun caso avrebbero rappresentato la soluzione di qualcosa. Oggi ancora i barbari sono intorno a noi. Quasi tra noi. Ma noi, mi sembra, noi italiani in particolare ma certo non solo noi ci rifiutiamo di vederli. Magari non ne attendiamo con ansia l’arrivo, questo no, ma ci culliamo nell’idea che non esistano, facciamo come se non esistessero. I barbari odierni si chiamano Putin, Lukaschenko, Erdogan, Xi Jinping, Assad, Khamenei, Kim Jong-un, Al-Sisi. Governano Stati quasi sempre grandi e potenti, e i loro tratti principali sono il cinismo e la spregiudicatezza con cui si muovono sulla scena internazionale all’unico scopo di allargare il proprio potere o di conservarlo a qualsiasi prezzo. All’interno dei propri Paesi arrestano, deportano, torturano, fanno sparire nel nulla, e non ci pensano un istante ad eliminare chiunque si opponga ai loro voleri. Tutti i mezzi sono buoni: dal campo di concentramento, ai gas asfissianti, ai centri di “rieducazione”. Il despota che governa la Russia ha riesumato con largo impiego perfino il medievale strumento del veleno. Il veleno per gli avversari politici: nel secolo ventunesimo, in Europa... Infine, se torna utile per estendere la propria influenza fuori dai confini, c’è sempre la tecnologia e il denaro. E così si manipolano i sondaggi e la comunicazione elettorale con l’hackeraggio, si pagano a peso d’oro i politici stranieri, si compra il loro voto, il loro tradimento degli interessi nazionali, li si trasforma in marionette guidate dall’estero. L’opinione pubblica occidentale è perlopiù disarmata di fronte ad azioni e fenomeni del genere. La reazione sua e dei suoi governi, pure quando c’è (ma ad esempio alla persecuzione di tipo genocidiaria della Cina ai danni del popolo uiguro, essa è praticamente inesistente) è però una reazione parziale, tardiva, piena di distinguo. Alla fine sempre inadeguata. Tanto è vero che quasi mai consegue un risultato apprezzabile e duraturo. Ma perché le cose stanno così? Perché questa sostanziale indifferenza che assomiglia spesso a un vero e proprio ottundimento etico-politico? Perché questa costante sottovalutazione della portata di quanto accade, della sua minaccia per i nostri interessi e i nostri valori? Le ragioni sono molte, ma quella che tutte le riassume, la principale, consiste in una forma di clamorosa miopia storica che produce un altrettanto clamoroso autoinganno. I popoli dell’Occidente si credono ancora il centro del mondo. A dispetto delle idee internazionalistico-democratiche che essi perlopiù professano, in realtà nel loro intimo sembrano credere di essere ancora i padroni indiscussi del processo storico, i soli capaci di pensarne i parametri in modo adeguato, e che nulla e nessuno potrà mai scalzarli da questo ruolo. Faticano a rendersi conto dei drammatici cambiamenti intervenuti nei rapporti di potere planetari, delle nuove dipendenze economiche che sempre più li condizionano. Non sono capaci d’intendere le conseguenze potenzialmente drammatiche che comporta la crisi profonda di alcune dimensioni che furono viceversa fondamentali per la loro affermazione storico-mondiale: per dire solo le prime che vengono alla mente, la fede religiosa fondata sul lascito giudaico-cristiano, l’istituto della famiglia, un sistema d’istruzione orientata all’umanesimo nutrito dalla tradizione classica. Tutte cose da tempo lasciate sostanzialmente in abbandono e con giuliva spensieratezza considerate “superate”. Ma la cui perdita ha avuto, tra i tanti altri, l’effetto decisivo di farci credere ormai obsoleto, in certo senso addirittura ridicolo, il concetto etico-politico di barbarie. È accaduto infatti che dalla giusta lezione impartita dall’antropologia - secondo la quale tutte le culture hanno pari ragione e dignità di esistere nella loro enigmatica diversità, sicché non ha senso stilare gerarchie e parlare di “civiltà” e di “barbarie” - da questa sacrosanta lezione, dicevo, si è giunti a concludere che allora anche tra i valori politici non fosse legittimo istituire alcuna reale linea divisoria tra bene e male. A partire da almeno una ventina d’anni, proprio mentre in tutte le sedi si celebrava ogni giorno il festival mondiale dei “diritti umani”, contemporaneamente ma paradossalmente nel nostro discorso pubblico sulle cose del mondo, invece, concetti come “libertà”, “diritto”, “dispotismo”, “violenza”, “eguaglianza” cadevano pian piano in disuso, e la distinzione tutta storica e politica tra “civiltà” e “barbarie”, risalente all’illuminismo, veniva equiparata più o meno a un cascame ideologico da “guerra fredda”. Prima ancora dell’evanescente politica estera europea è l’opinione pubblica euro-occidentale, insomma, che nel suo giudizio a proposito del mondo è caduta in uno stato di atonia, di un sostanziale agnosticismo relativista che dagli omicidi di Stato egiziani o iraniani all’arroganza totalitaria cinese le permette di accettare sostanzialmente tutto, di accettare la barbarie senza fiatare. Da Colleferro a Caivano, la violenza nichilista dei giovani di Antonio Polito Corriere della Sera, 17 settembre 2020 Sempre più giovani in preda ad una banale intimità con il nulla. La politica non centra: deve aiutarci la scuola. Ci affanniamo a cercare l’”ismo” giusto, cui attribuire questa ondata di violenza gratuita, proterva, perfino estetizzante, che sta sconvolgendo la nostra estate. È fascismo? È razzismo, machismo, culturismo? È odio, è rabbia? Per quale ragione ogni argine morale sembra cedere, e a Vicenza si picchia un anziano perché difende una ragazza, e a Colleferro si ammazza un giovane perché difende un amico, e a Caivano si uccide una sorella perché ama? Ma c’è forse un altro “ismo” che abbiamo trascurato, e che precede e spiega tutti gli altri, ed è il nichilismo. Quella specie di intimità con il nulla (nihil in latino) che si sta impadronendo un po’ alla volta di tanti giovani. Che svuota di valore le loro vite, e le spinge a ribellarsi a ogni regola, anche quelle più elementari di umanità, perché tanto non c’è nulla per cui valga la pena. Da Nietzsche - Il nichilismo, si sa, ha una lunga storia, filosofica e letteraria. Il suo avvento era stato profetizzato da Nietzsche, che aveva avvertito la “morte di Dio” e l’avvicinarsi della “catastrofe”, consumata poi nella carneficina della Grande Guerra. L’aveva descritto Turgenev in Padri e figli, nella figura del giovane “che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto quel principio sia circondato”. L’aveva contrastato Dostoevskij, costruendo la grande figura tragica di Raskol’nikov, il giovane che uccide così, perché non sa che fare della propria vita, a che cosa dedicarla, e poi lo paga col tormento del pentimento. Forse oggi il nichilismo è anche più banale, come spesso accade al male. Ha perso la forza intellettuale di scagliarsi contro i valori, è meno ambizioso, ha spesso il volto di una “vita normale”, ha scritto Julián Carrón. È un vuoto a perdere, assomiglia più a una lattina usata che a un’arma carica come la bomba che uccise lo zar Alessandro II, o la cintura esplosiva di chi si è fatto saltare in aria nelle vie delle città europee in segno di sprezzo per la vita. L’”ismo” - Oggi il nichilismo si accontenta di riempire quelle menti svuotate di valori con qualche cosa che consenta loro di arrivare fino a fine giornata, che dia almeno un’apparenza lì dove non c’è più senso: che sia il culto del corpo dei due fratelli Bianchi di Colleferro (a proposito, quanto voyeurismo colpevole per quei tatuaggi, quei muscoli scolpiti, quanta oscena esaltazione del corpo maschile); o che sia il senso dell’onore familiare che ha fatto credere a Michele Gaglione di dover punire la sorella Maria Paola; o ancora la cultura predatoria di giovani maschi che si prendono il piacere sessuale con la forza, e puniscono le donne che ne rifiutano il possesso. Se il nuovo nichilismo è questo - assenza di valori - non ha neanche molto senso metterlo in relazione con la politica. La politica è infatti, e al contrario, esaltazione di ideali, anche quando sono sbagliati, o magari fanatici, ma pur sempre ideali. Tanto per dire Atreyu, l’eroe della Storia infinita cui la destra di Fratelli d’Italia dedica la sua festa annuale, nella trama del film è il nemico del Nulla, e si batte per distruggerlo. Le etichette hanno questo di pericoloso: alla prima pioggia si scollano. Anzi, la politica democratica può combattere il nulla. Ed è un peccato che i giovani ne siano stati tenuti così lontani, al punto da essere spinti a disprezzarla sempre più. La politica - Se di fronte a casi di cronaca talmente efferati, e ripetuti, la buttiamo in politica, rischiamo di non vedere la vera emergenza che essi denunciano: un’emergenza educativa. Si sa che educazione è termine più ricco di istruzione. La sua radice etimologica allude alla necessità di “guidare” il giovane, di “tirar fuori”, “estrarre” ciò che di buono c’è in lui. È un processo complesso, che richiede innanzitutto degli educatori, cioè delle persone disposte a rischiare, per farsi amare e rispettare. Non si svolge tutto nella scuola, che ha molti altri compiti accanto a questo, ma si svolge specialmente nella scuola. Spesso a opera di singoli valorosi, quei “maestri” capaci di toccare il punto infiammato che c’è nel cuore e nella mente di ogni personalità in formazione, e fortunati quelli che una volta nella vita ne hanno incontrato uno. La scuola - Ma meno vanno a scuola i nostri giovani, meno hanno possibilità di fare incontri così. Meno sentiranno parlare di valori, meno avranno speranza di riempirsi di vita, invece che di falsi idoli. I ragazzi di Colleferro, quello di Caivano, l’aggressore di Vicenza, sono molto diversi tra loro, ma una cosa in comune ce l’hanno: non appartengono al ristretto numero di laureati che l’Italia può vantare, fanalino di coda in Europa, visto che solo la Romania ne ha meno di noi. Con questo non si vuol sostenere che l’istruzione terziaria metta al riparo dagli accessi di violenza, purtroppo sappiamo bene che non è così. Ma nel degrado progressivo del nostro sistema educativo, nella sua burocratizzazione, nella svalutazione del ruolo sociale dei professori e della loro autorità, oberati da cervellotiche direttive e pratiche inefficienze, nei tassi record di dispersione scolastica, c’è sicuramente una radice del male che si sta manifestando nella cronaca nera della nostra estate. E forse non è un caso che questa esplosione di nuovo nichilismo coincida quasi simbolicamente con la riapertura dell’anno scolastico, dopo una pausa troppo lunga per non lasciare traccia nello spirito pubblico della nazione. Speriamo che funga da monito. Speriamo che la scuola ci aiuti. Speriamo che ci ricordi che l’educazione non è solo una questione di banchi e supplenze, ma di idee e di valori. Migranti. Più rimpatri che solidarietà, l’Europa prepara la stretta di Carlo Lania Il Manifesto, 17 settembre 2020 Von der Leyen annuncia: “Aboliremo il regolamento di Dublino”. “Solidarietà e rimpatri”. Sono queste le due parole d’ordine sulle quali ieri Ursula von der Leyen ha annunciato di voler impostare la futura politica europea sull’immigrazione. Mercoledì prossimo la Commissione Ue presenterà il nuovo patto su immigrazione e asilo scoprendo così finalmente le carte su come intende gestire un fenomeno che, come ha ricordato la stessa presidente parlando ieri all’europarlamento, “ci sarà sempre”. Con una precisazione che però fa capire quale tra le due parole d’ordine annunciate avrà un peso maggiore: “La crisi dei migranti del 2015 (gestita senza un particolare successo sulla solidarietà dal suo predecessore Jean Claude Juncker, ndr) ha provocato divisioni tra i Paesi membri e alcune cicatrici non sono ancora guarite”. Per uscire dallo stallo degli ultimi cinque anni per Von der Leyen c’è quindi solo una strada da percorrere: “scendere a compromessi” con quei Paesi che si sono sempre rifiutati di accogliere i richiedenti asilo. Certo, “senza compromettere i nostri principi”, assicura, ma senza una posizione condivisa tra i 27 “non ci sarà una soluzione”. La presidente della Commissione Ue approfitta del suo intervento sullo stato dell’Unione per piantare due paletti con i quali spera di arginare le politiche sovraniste che hanno preso piede in Europa (“Voi predicate solo odio, noi vogliamo soluzioni”, dice replicando all’intervento di un deputato tedesco dell’Afd). Il primo: “Salvare vite in mare è un principio umano non negoziabile”. Il secondo: “Aboliremo il regolamento di Dublino”, annuncia. “Lo rimpiazzeremo con un nuovo sistema europeo di governance delle migrazioni che avrà strutture comuni per l’asilo e per i rimpatri”. Si tratta però di due barriere molto fragili. Intanto perché da quando ha cancellato la missione europea Sophia nel Mediterraneo, Bruxelles non ha più manifestato l’intenzione di dare vita a un’altra operazione di salvataggio (la nuova missione Irini si occupa principalmente di contrastare il traffico di armi verso la Libia). E poi perché l’abolizione di regolamento di Dublino, che tanti problemi ha creato e crea ancora con il suo principio di Paese di primo ingresso, ha tutta l’aria di essere solo apparente. “Non ci sarà più nulla che si chiamerà regolamento di Dublino, ma nella sostanza le cose non cambieranno molto”, spiegavano ieri a Bruxelles. Stando alle anticipazioni circolate finora, le nuove regole prevedono infatti che il vecchio Dublino venga sostituito da due nuovi regolamenti. Il primo riguarderà i Pesi di primo ingresso ai quali spetterà il compito di effettuare la prima scrematura tra i migranti, dividendo coloro che hanno diritto alla protezione internazionale dagli altri, destinati ad essere rimpatriati. Compito che, a quanto si è capito, potrebbe spettare all’Easo, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo. Il secondo regolamento riguarderà quanti si sono visti accettare la richiesta di asilo e per i quali verrà avviata una procedura per stabilire quale Stato dovrà assumersene la responsabilità. E a questo punto la solidarietà europea della quale ha parlato ieri Von der Leyen rischia di svanire. La soluzione alla quale sarebbe arrivata la Commissione è infatti un esempio di quei compromessi alla quale ha fatto riferimento Von der Leyen. Non ci sarà nessuno meccanismo di distribuzione obbligatoria tra gli Stati membri, ma ogni capitale potrà scegliere tra accogliere un certo numero di profughi oppure partecipare aiutando gli Stati maggiormente sotto pressione fornendo finanziamenti, mezzi o personale. Un cedimento alla richieste avanzate da tempo dai Paesi dell’Europa centro orientale. Resta, infine, il problema dei rimpatri. Vanno a rilento perché per eseguirli occorrono degli accordi di riammissione con i Paesi di origine che però sono ancora pochi (l’Italia li ha solo con Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria). Per questo sono previsti incentivi economici da destinare a quei Paesi che accetteranno di fermare le partenze verso l’Europa. Turchia. Demirtas critica la Cedu: “Decisioni lente e senza effetto reale” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 17 settembre 2020 La Corte Europea dei Diritti Umani criticata da avvocati e rappresentanti dei diritti umani dopo la visita ad Ankara e Istanbul del suo presidente Robert Spano. La Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu) delude i dissidenti che in Turchia si battono per vedere rispettati i loro diritti. A puntare il dito sulla Cedu è Selhattin Demirtas, uno dei fondatori del partito filocurdo Hdp, che è in prigione dal novembre del 2016. “La Corte ci mette troppo tempo a pronunciarsi e, alla fine, anche quando decidono che c’è stata una violazione dei diritti umani, la sentenza non ha alcun effetto pratico” ha scritto al Financial Times dalla prigione di Erdine, al confine con la Grecia. Demirtas, 47 anni, aveva ottenuto una vittoria storica nel 2015 quando la sua formazione era riuscito ad entrare in Parlamento facendo perdere la maggioranza all’Akp di Recep Tayyip Erdogan ma è stato arrestato un anno dopo durante le purghe seguite al fallito colpo di Stato del 2016, con l’accusa di appoggiare il Partito dei Lavoratori Curdi, che è considerato un’organizzazione terrorista dalla Turchia, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Lui, al contrario, sostiene che l’Hdp ha sempre cercato una soluzione pacifica alla questione curda. Nel 2018 e nel 2019 la Cedu si è pronunciata sul caso di Demirtas certificando la flagrante violazione dei suoi diritti. Il primo pronunciamento riguardava la detenzione preventiva che aveva impedito al leader di partecipare a due elezioni cruciali “limitando così la libertà del dibattito politico e il pluralismo”. I giudici chiedevano l’immediata liberazione del leader ma la magistratura turca non ha rispettato la sentenza. Demirtas è stato condannato nel 2018 per un discorso pronunciato nel 2013 e ora è sotto accusa per terrorismo: rischia fino a 142 di prigione. Ma non è solo il leader curdo ad essere scontento. In Turchia sono molti gli avvocati e gli attivisti critici verso il Consiglio d’Europa e la Corte Europea dei Diritti Umani. Il presidente di quest’ultima, Robert Spano, si è recato ad Ankara e ad Istanbul all’inizio di settembre dopo che l’organismo aveva clamorosamente bocciato l’ordine di scarcerazione per Aytaç Ünsal che digiunava da più di 200 giorni in carcere per chiedere un processo giusto. Per la Cedu la detenzione dell’avvocato “non metterebbe a rischio la sua vita” e questo nonostante il recente decesso dell’avvocata Ebru Timtik, lo scorso 27 agosto, dopo 238 giorni di digiuno. In Turchia Spano ha incontrato il presidente Erdogan e ha ricevuto una laurea honoris causa in giurisprudenza dall’Università Statale di Istanbul, la stessa che ha epurato 192 accademici dopo il fallito golpe del 2016. Lo scrittore Mehmet Altan, fino a poche ore prima aveva esortato Spano a non ritirare il premio. “Non so come si possa essere fieri di essere membri onorari di una università che condanna alla disoccupazione, alla povertà e al carcere centinaia di docenti solo per il loro pensiero e i loro scritti”, ha scritto Mehmet Altan in una sua lettera accorata al presidente della Cedu. Altan è un accademico di fama mondiale ed era stato espulso da quella università per le sue idee e fu tra i primi intellettuali arrestati nella repressione post-golpe assieme a centinaia di giornalisti e scrittori, come suo fratello Ahmet e Nazl? Il?cak. Ci sono più di 60 mila richieste di reintegro inoltrate presso la Cedu per violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali in Turchia. Stati Uniti. Nel Centro migranti degli orrori “Isterectomie forzate alle donne” di Anna Lombardi La Repubblica, 17 settembre 2020 La denuncia di un’ex infermiera dell’Irwin County Detention Center in Georgia dove sono detenuti più di 4 mila clandestini: “Era un campo di concentramento”. E nell’America che si prepara al voto, una corte d’appello ha appena confermato il via libera per espellere almeno 300mila persone provenienti da El Salvador, Haiti, Nicaragua e Sudan. Condizioni igieniche disastrose, nessun riguardo per le norme anti Covid, cure sanitarie prestate con riluttanza e in ritardo: ma soprattutto un immotivato ed altissimo numero di isterectomie, asportazioni dell’utero, ai danni di detenute senza particolari problemi di salute. È l’atroce denuncia di Dawn Wooten, infermiera afroamericana che per tre anni ha lavorato all’Irwin County Detention Center, di Ocilla, Georgia. Un centro di detenzione privato nella contea di Irwin dove l’infame Ice, la polizia anti migranti americana, ha rinchiuso almeno 4680 clandestini. “Una specie di campo di concentramento sperimentale” lo ha definito l’ex infermiera nel rapporto depositato con l’aiuto di alcune ong: Project South Georgia Detention Watch, Georgia Latino Alliance for Human Rights e South Georgia Immigrant Support Network. Un racconto riportato pure dalla rivista web The Intercept, che ha verificato le parole dell’infermiera - di prima demansionata per aver denunciato la situazione ai suoi superiori e poi licenziata, raccogliendo la testimonianza di un’altra ex operatrice sanitaria di quel centro, insieme a quelle di almeno quattro detenute. A imporre l’operazione a donne spesso inconsapevoli di quel che gli stava accadendo, spesso per colpa della barriera linguistica, un particolare ginecologo, soprannominato dalle infermiere addirittura: “il collezionista di uteri”. Come se non bastasse, nella struttura nessuno si è preoccupato di seguire le procedure anti Covid. Anzi, se qualcuno denunciava sintomi veniva ignorato, e infatti non risulta al suo interno nessun caso: “Falso. Si sono ammalati in molti e qualcuno è perfino morto. Solo che non sono stati conteggiati” insiste Wooten. Nell’America che si prepara al voto, d’altronde, non migliora la situazione dei migranti. Una corte d’appello ha appena confermato il via libera all’amministrazione Trump per espellere almeno 300mila persone provenienti da El Salvador, Haiti, Nicaragua e Sudan grazie a uno “status di protezione temporanea” per motivi umanitari o ambientali: ora, insomma, saranno espulsi. Eppure, nonostante le politiche aggressive di President Trump nei confronti dei clandestini, l’elettorato latino sembra meno determinato a votare per Joe Biden rispetto a quando nel 2016 votò per Hillary Clinton. Sempre che vadano alle urne, visto che fra le loro fila l’astensione è molto alta, a questa elezione il loro voto potrebbe essere determinante. Secondo uno studio del Pew Research Center, infatti, i latinos saranno il 13 per cento dei potenziali elettori, superando per la prima volta gli afroamericani. Ebbene, il presidente sembra risalire nel favore dei latinos soprattutto in Florida, grazie ai suoi spot dove dà a Biden del socialista, che sta scaldando i cubani. Nello stato in bilico, determinante per vincere le elezioni, i due avversari sono testa a testa, col 48 per cento. Nigeria. L’Unicef contro la condanna al carcere per un tredicenne “blasfemo” ansa.it, 17 settembre 2020 L’organo delle Nazioni Unite chiede la revoca dei dieci anni di carcere inflitti al giovane dal tribunale della Sharia. L’Unicef ha “espresso profonda preoccupazione” per la reclusione e il trattamento di un tredicenne condannato per blasfemia in Nigeria. Ad agosto, infatti, il giovane è stato condannato a dieci anni di carcere con lavori umili da un tribunale della Sharia nello Stato di Kano, a nord del Paese. La condanna “è sbagliata... nega anche tutti i principi fondamentali alla base dei diritti dell’infanzia e della giustizia dell’infanzia che la Nigeria - e di conseguenza, lo Stato di Kano - ha firmato”, ha detto Peter Hawkins, rappresentante del Fondo dell’Onu per l’infanzia in Nigeria. L’Unicef aggiunge in una dichiarazione che la sentenza è in violazione della Convenzione dell’Onu sui diritti dell’infanzia - ratificata dal Paese africano nel 1991 - invitando perciò le autorità federali e statali nigeriane a riesaminare urgentemente il caso con l’obiettivo di revocarla. Diversi Stati nel nord della Nigeria hanno introdotto la Sharia, legge basata sul Corano. I tribunali della Sharia processano solo i musulmani, ma se un caso coinvolge un musulmano e non musulmano, quest’ultimo avrà la possibilità di scegliere dove andare a processo.