“Folli rei” e codice Rocco, ora la riforma di Stefano Cecconi e Franco Corleone Il Manifesto, 16 settembre 2020 I muri del manicomio sono duri da abbattere. Dall’approvazione della legge 180, nel 1978, che sanciva l’abolizione dell’internamento in ospedale psichiatrico, ci vollero vent’anni, e un decreto dell’allora Ministra Rosy Bindi con sanzioni alle regioni inadempienti, per chiudere effettivamente i manicomi in tutta Italia. Con gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) la storia si è ripetuta. E anche se il tempo per chiuderli è stato più breve (l’ultimo, quello di Barcellona Pozzo di Gotto, è stato chiuso nel 2017, a 5 anni dal termine previsto dalla legge) c’è voluto un Commissario nominato dal Governo per costringere ben sei regioni ad accogliere i loro pazienti ancora internati in Opg. E sappiamo quanto forti siano ancora oggi le resistenze ad applicare la riforma che li ha chiusi, al punto che si rende urgente e necessaria la riattivazione dell’Organismo nazionale di monitoraggio sul superamento degli Opg. Per fortuna un recente pronunciamento della Corte Costituzionale (sentenza 99/2019) ha sancito per il detenuto l’equiparazione dell’infermità mentale a quella fisica così da poter accedere a misure alternative al carcere, e quindi alle cure più appropriate. Purtroppo la nostalgia del manicomio e la contestazione dei principi fondamentali delle Rems, primo il numero chiuso, hanno spinto un magistrato di Tivoli a presentare una questione di legittimità costituzionale. Ma i segnali concreti di quanto persistenti siano i muri del manicomio sono tanti: pensiamo all’uso della contenzione meccanica nei servizi psichiatrici, all’abuso nel ricorso al Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso), alla crescita di strutture residenziali che allontanano, spesso per sempre, le persone dalla loro comunità. E pensiamo allo stigma che continua ad associare follia a pericolosità sociale; stigma che era alla base dell’Opg e mantiene oggi in vita il “doppio binario”, che riserva solo ai “malati di mente incapaci di intendere e volere autori di reato” un trattamento speciale. La Riforma che ha chiuso gli Opg e avviato il difficile processo per il loro superamento non ha intaccato infatti gli articoli del codice Rocco che, ritenendo i “folli rei” non imputabili, li destina al binario speciale della misura di sicurezza, alla separazione tipica della logica manicomiale. Da questa consapevolezza nasce la proposta di legge sull’imputabilità dell’autore di reato dichiarato incapace di intendere e volere, che sarà presentata e discussa nel seminario del 18 e 19 settembre a Treppo Carnico. Un altro muro da abbattere è dunque questo. Tuttavia, come ricordava Basaglia, di cui ricordiamo i quaranta anni dalla scomparsa, i manicomi possono tornare. E non basta chiuderli, bisogna costruire le alternative. Per questo la modifica del Codice Rocco, con l’abolizione del doppio binario per i “folli rei” restituisce cittadinanza e, insieme, reclama un cambiamento radicale della drammatica condizione nelle carceri, la piena attuazione della riforma per il superamento degli Opg, e un rilancio del welfare, per assicurare il pieno diritto alla tutela della salute e alla cura. C’è dunque uno strettissimo legame tra l’iniziativa per sostenere questa legge e la mobilitazione della Conferenza nazionale per la Salute Mentale per il potenziamento dei DSM e di servizi sociosanitari diffusi nel territorio, indispensabili per assicurare percorsi di cura, in carcere e fuori, per l’emancipazione sociale delle persone. Il seminario è ristretto ai partecipanti prenotati, ma sarà registrato e disponibile sul sito della Società della Ragione. Inoltre, il volume Il muro dell’imputabilità: dopo la chiusura degli Opg, la riforma del regime legale dei “folli rei” è disponibile per chi lo richieda. Si confronteranno gli attori protagonisti di questa sfida: psichiatri e operatori della salute mentale, avvocati, magistrati, cittadini utenti, associazioni impegnate nel campo dei diritti civili e sociali. Le lettere dei detenuti indirizzate al Garante erano lette dagli agenti: interviene il Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2020 In più di un’occasione gli agenti penitenziari hanno letto le corrispondenze dei detenuti inviate al Garante nazionale delle persone private della libertà. In più di un’occasione gli agenti penitenziari hanno letto le corrispondenze dei detenuti inviate al Garante nazionale delle persone private della libertà. Sono atti che violano non solo l’articolo 20 del Protocollo opzionale alla convenzione contro la tortura, ma anche l’istruzione applicativa data con la circolare del 18 maggio 2016. Un fatto, grave, tanto che si è mosso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) inviando una missiva a tutte le direzioni delle carceri per stigmatizzare l’accaduto e affinché non si ripeta più. “Si è certi - si legge nella lettera del direttore generale del Dap - che si sia trattato di disattenzione nel seguire una prassi routinaria, ma non viene meno la gravita della violazione del segreto epistolare: trattasi, infatti di diritto che riprende pienezza, anche quando affievolito dal provvedimento giudiziale di visto, né eccettuati dalla legge”. Per questo motivo, si legge sempre nella missiva, il Dap deve “perciò invitare le LL. SS. a investire i comandanti dei reparti perché siano evitate in futuro tali trascuratezze”. La questione non è di poco conto. Bisogna ricordare che l’ufficio del Garante nazionale è un organismo di monitoraggio indipendente richiesto agli Stati aderenti al Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (Opcat). Quest’ultimo, entrato in vigore nel giugno 2006, ha dato vita ad un “doppio pilastro” per la prevenzione della tortura: a livello internazionale, il Sottocomitato delle Nazioni Unite sulla prevenzione della tortura, e a livello nazionale con i Meccanismi nazionali di Prevenzione che ogni Stato ha avuto l’obbligo di istituire sotto forma di appositi organismi indipendenti, quale appunto il Garante nazionale in Italia. Si tratta di un organismo che si caratterizza per l’indipendenza da ogni potere dello Stato e per l’esercizio libero del potere di verifica delle situazioni di restrizione della libertà personale. Il protocollo della convenzione contro le torture - recepito tramite una legge nazionale garantisce quindi alcuni poteri al Garante, tra i quali i colloqui riservati (anche con i reclusi al 41bis) e il ricevere, senza alcuna censura, petizioni scritte, documenti o altro materiale redatto dai detenuti. La riservatezza nei colloqui e nelle corrispondenze epistolari con il Garante è importante perché dà la possibilità al detenuto di sentirsi libero di esprimere le proprie doglianze senza subire condizionamenti di alcun genere. Come detto, si è verificato spesso la violazione della riservatezza delle corrispondenze, per questo il Dap è prontamente intervenuto tramite una lettera inviata a tutti i direttori dei penitenziari e ai provveditori regionali. Neppure l’emergenza può giustificare il blocco retroattivo della prescrizione di Simona Viola* Il Dubbio, 16 settembre 2020 Lo stop sancito dal “Cura Italia” mette in gioco lo stato di diritto. Come molti sanno, a causa della pandemia è stato, fra l’altro, disposto il rinvio di diversi mesi delle udienze della maggior parte dei processi penali, per evitare che la contestuale presenza di più persone nelle aule giudiziarie concorresse all’aumento dei contagi (decreto 18/ 2020, il cosiddetto “Cura Italia”). Affinché i rinvii non avvantaggiassero gli imputati, è stato disposto (all’articolo 83) che nei procedimenti rinviati rimanesse sospeso il corso della prescrizione del reato. Tuttavia sia la Costituzione italiana che la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo prevedono che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima che venisse commesso il fatto; si tratta di uno dei principi fondamentali dello Stato di Diritto, una garanzia fondamentale, corollario essenziale del principio di legalità, perché consente al cittadino di prevedere interamente le conseguenze delle proprie azioni, e impedisce allo Stato di “cambiare le carte in tavola”. All’indomani della approvazione del decreto si è dunque posto il problema della applicabilità (o meno) della sospensione della prescrizione (che naturalmente va a svantaggio dell’imputato) anche ai reati commessi prima che il provvedimento entrasse in vigore. Il problema è stato colto da diversi giudici italiani, che hanno sollevato diverse questioni di costituzionalità dell’articolo 83 del decreto Cura Italia: le prime ordinanze pubblicate in Gazzetta Ufficiale, lo scorso 19 agosto, provengono dai Tribunali di Siena e di Spoleto, e altre sono prossime alla pubblicazione. ItaliaStatodiDiritto, in considerazione dell’importanza che la decisione della Corte costituzionale avrà per definire la linea di crinale tra la normativa dettata dall’emergenza in materia penale e il rispetto dei diritti costituzionali fondamentali, ha deciso di produrre alla Corte un’opinione scritta, redatta dal professor Marcello Gallo, che ha sostenuto con rigore e passione la fondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate. L’ingresso dell’opinione in Corte costituzionale di un soggetto terzo rispetto al giudizio è stata resa possibile da una recente modifica della disciplina del giudizio costituzionale, che consente alle formazioni sociali senza scopo di lucro, e agli enti istituzionali portatori di interessi collettivi attinenti alla questione sollevata (i cosiddetti Amici Curiae) di produrre delle opinioni scritte che offrano alla Corte elementi utili alla valutazione del caso, anche in considerazione della sua complessità. L’opinione è leggibile integralmente sul sito www.italistatodidiritto.it. La questione in gioco non deve essere sottovalutata: da una parte, infatti, il fenomeno pandemico eccezionale ha imposto l’approvazione in breve tempo di una disciplina speciale, senza precedenti, volta a “congelare” nei limiti del possibile tutta l’attività giudiziaria e principalmente quella che tradizionalmente si svolge “in presenza”; dall’altra, tuttavia, ci sono diritti costituzionali primari di cittadini che subiscono un trattamento penale di sfavore (l’incremento della prescrizione del reato commesso) senza alcuna responsabilità (i processi non sono stati rinviati a causa loro) e per effetto di norme che non esistevano quando il reato fu da loro commesso. In proposito, va osservato che un primo orientamento della Cassazione, come ha riportato il Dubbio di ieri, non ha ravvisato profili di incostituzionalità dell’articolo 83, proponendo una lettura in malam partem dell’articolo 159 del Codice penale che ItaliaStatodiDiritto non condivide. La nostra associazione crede infatti che sia necessario, anche in regime di emergenza, non smettere di assicurare ai cittadini il rispetto delle garanzie costituzionali primarie: la forza e l’autorevolezza di una democrazia si misurano sulla sua capacità di rispettare le regole che essa stessa si è imposta, e ogni erosione di quelle regole porta con sé un indebolimento dell’assetto istituzionale. *Presidente ItaliaStatodiDiritto Caso Palamara, inizia il processo alla magistratura italiana di Errico Novi Il Dubbio, 16 settembre 2020 Inizia oggi pomeriggio davanti alla sezione disciplinare del Csm il processo dell’anno alla magistratura. Anzi, come scriveva ieri la Stampa, la “Norimberga” togata. Sul banco degli imputati Luca Palamara, ex presidente Anm e per anni potente leader della corrente di centro Unicost. Inizia oggi pomeriggio davanti alla sezione disciplinare del Csm il processo dell’anno alla magistratura. Anzi, come scriveva ieri la Stampa, la “Norimberga” togata. Sul banco degli imputati Luca Palamara, ex presidente Anm e per anni potente leader della corrente di centro Unicost. Con lui, se il collegio dovesse riunire i procedimenti, anche i cinque ex consiglieri del Csm che parteciparono a maggio 2019 all’incontro con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri, in cui si discusse di nomine di importanti uffici giudiziari. Fra tutti, la Procura di Roma. La posizione di Ferri in quanto parlamentare è al momento al vaglio delle Sezioni unite della Cassazione. Dall’udienza di oggi si dovrebbe dunque capire quale “linea” prenderà il Csm in questa vicenda che ha terremotato la magistratura e che continua, con la costante pubblicazione dei messaggini inviati a Palamara dai colleghi, a riservare sorprese. Stefano Giame Guizzi, consigliere di Cassazione e difensore di Palamara, è intenzionato a chiedere il congelamento del processo fino a quando non sarà entrato in carica il prossimo Csm. Quindi fino al 2022. Gli attuali giudici sarebbero troppo coinvolti nell’accaduto, dovendo giudicare coloro che fino al giorno prima erano stati compagni di banco all’interno della sala Bachelet di piazza Indipendenza. Il secondo punto delle difese riguarda l’utilizzabilità delle intercettazioni. Tutte le accuse che sono state mosse dalla Procura generale della Cassazione a Palamara - ad iniziare dal tentativo di discredito nei confronti dell’allora procuratore Giuseppe Pignatone e dell’aggiunto Paolo Ielo - e ai cinque ex consiglieri, si basano essenzialmente su quanto carpito tramite il trojan inoculato nel telefono dell’ex numero uno dell’Anm. Sul punto va ricordato che il trojan era stato inserito dai magistrati di Perugia per scoprire la tangente di 40mila euro che sarebbe stata data da alcuni faccendieri a Palamara affinché nominasse Giancarlo Longo procuratore di Gela. Tale accusa però è venuta meno. Sono stati gli stessi pm umbri al momento della notifica della chiusura delle indagini a togliere l’imputazione. Le captazioni con i parlamentari, sottolineano le difese, non erano affatto casuali. Palamara prendeva sempre appuntamento prima di incontrare Ferri. La Procura generale è di diverso avviso e ha chiamato a testimoniare i finanzieri che hanno proceduto all’ascolto. Il punto nodale, in caso questi scogli tecnici venissero superati, è quindi la lista testi. Palamara, in particolare, ha presentato una maxi lista di circa 130 testimoni. Fra questi, politici, capi di correnti, parlamentari, ex vicepresidenti del Csm. La difesa ha però già fatto sapere che valuterà uno “sfoltimento”. I tanti testi di Palamara si spiegano in un solo modo: da sempre i consiglieri del Csm avevano interlocuzioni con esponenti politici e capi delle correnti per le nomine. Il sistema Palamara sarebbe allora sempre esistito. Se la disciplinare effettuerà dei tagli consistenti, è chiaro che la linea difensiva di Palamara andrà rivista. Il processo si apre in un clima sempre più incandescente. La scorsa settimana le dimissioni a sorpresa del togato Marco Mancinetti, esponente di Unicost, ora sotto disciplinare proprio a causa della chat con Palamara. E poi la mai sopita querelle sulla cessazione dal servizio di Piercamillo Davigo. Il 20 ottobre il magistrato compirà settant’anni, età massima consentita prima della pensione. Davigo, a quanto sembra, intenderebbe rimanere, giacché il mandato di consigliere scade fra due anni. Sul fronte associativo, infine, va segnalata la presentazione di una nuova lista per le prossime elezioni in programma a ottobre per il rinnovo dell’Anm. Si chiama “Articolo 101”. Fra i cavalli di battaglia, il sorteggio per l’elezione dei componenti togati del Csm, la rotazione degli incarichi, la massima attenzione alla “questione morale” in magistratura. Palamara squarcia il velo sul Csm: chi di voi è la talpa di Repubblica? di Paolo Comi Il Riformista, 16 settembre 2020 L’ex leader Anm contro Bonini, che raccontò l’incontro con Lotti e Ferri a indagine in corso. Nel mirino la segretaria Pieraccini: “Ci fu un reato, ora deve riferire se fece verifiche per appurare come avvenne la fuga di notizie”. È caccia alla “talpa” che informò a maggio dello scorso anno i giornali degli incontri di Luca Palamara con i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti. Tutto inizia con un articolo a firma di Carlo Bonini apparso sul quotidiano La Repubblica il 29 maggio 2019 in cui veniva raccontato con dovizia di particolari, grazie a “qualificate fonti del Csm”, l’incontro di Palamara con Lotti e Ferri all’Hotel Champagne. Allora le indagini erano in corso, il trojan era stato inoculato nel telefonino dell’ex leader dell’Anm. Fu dunque violato il segreto istruttorio. Fu commesso un reato, accusa l’ex presidente dell’Anm. Chi ha passato informazioni riservate a Repubblica e agli altri giornali?, chiede in udienza Palamara. Che punta il dito contro la segretaria generale del Csm Paola Pieraccini. Deve riferire, attacca Palamara “sulle verifiche disposte per riscontrare se vi sia stata, o meno, tale propalazione verso la carta stampata”. L’ex presidente dell’Anm ha deciso di passare al contrattacco e ieri, in apertura dell’udienza disciplinare a suo carico, ha depositato una durissima memoria in cui ricostruisce quanto accaduto fino a oggi, ponendo interrogativi al collegio che dovrà decidere del suo futuro professionale. La sua rimozione dall’ordine giudiziario è, infatti, sempre più probabile alla luce delle ultime incolpazioni da parte della Procura generale della Cassazione. Tutto inizia con un articolo a firma di Carlo Bonini apparso sul quotidiano La Repubblica il 29 maggio 2019 ed intitolato “Il mercato delle toghe: un patto per prendere la Procura di Roma”. Nel lungo articolo veniva effettuata una particolareggiata ricostruzione dell’incontro, svoltosi la sera del 9 maggio precedente all’hotel Champagne di Roma, alla presenza di Palamara, Lotti, Ferri e cinque consiglieri del Csm. Fra gli argomenti di discussione, le nomine di alcuni importanti uffici giudiziari, ad iniziare dalla Procura della Capitale post Giuseppe Pignatone. Bonini, in due passaggi, aveva scritto che la conoscenza giornalistica di quei fatti sarebbe derivata da “diverse e qualificate fonti del Csm”. All’epoca le indagini a carico di Palamara erano in pieno svolgimento. Il trojan inoculato nel suo telefono e che registrò l’incontro era stato attivato da qualche settimana. I pm di Perugia, titolari del fascicolo, cercavano risconti alla maxi mazzetta di 40mila euro che sarebbe stata data al magistrato romano per la nomina, poi non avvenuta, di Giancarlo Longo a procuratore di Gela. I riscontri delle “captazioni” erano a conoscenza, nell’ordine, del Gico della Guardia di Finanza che materialmente procedeva agli ascolti, dei pm di Perugia e, appunto, dei vertici del Csm. I magistrati umbri avevano trasmesso a Palazzo dei Marescialli le prime risultanze già agli inizi di maggio del 2019. Chi potrebbe, allora, essere d’aiuto nella caccia alla talpa? La risposta la fornisce lo stesso Palamara: il segretario generale del Csm Paola Pieraccini. “Al fine di accertare la veridicità, o meno, di tale circostanza”, la dottoressa Pieraccini, magistrato di Cassazione, dovrà riferire “sulle verifiche eventualmente disposte per riscontrare se vi sia stata, o meno, tale propalazione verso la carta stampata”. La condotta del magistrato, prosegue Palamara, sarebbe “suscettibile di integrare, almeno astrattamente, se non il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, quantomeno l’illecito disciplinare consistente nella “violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione” ove fosse stata, in ipotesi, realizzata da appartenenti all’ordine giudiziario”. Palamara era già stato vittima in passato di una fuga di notizia. Era accaduto nel periodo in cui era n. 1 dell’Anm ed il Csm stava valutando la sua posizione disciplinare per fatti relativi alla sua attività di pm a Roma. Che il Csm fosse un “colabrodo” era comunque stato lo stesso procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio ad affermarlo in alcune occasioni. Il segretario generale del Csm è una figura chiave a piazza Indipendenza, interfacciandosi direttamente il Quirinale. Per settimane Repubblica, Corriere e Messaggero pubblicarono atti d’indagini di Perugia. E non risulta che siano state aperte indagini per verificare la fuga di notizie. Palamara è poi tornato sulla mancanza di serenità dell’attuale Csm che deve giudicarlo. Il magistrato ha ricordato il ruolo avuto nell’accordo politico che portò all’elezione dell’attuale vice presidente David Ermini (Pd). La nomina venne decisa durante una cena presso l’abitazione dell’avvocato Giuseppe Fanfani (Pd), ex membro laico del Csm nella consiliatura 2014/2018. Fu Palamara a convincere i togati di Magistratura Indipendente, fino a quel momento orientati a votare il professore milanse Alessio Lanzi (Forza Italia) a convergere sull’ex responsabile giustizia dei dem. La scelta di Ermini causò la rottura dello storico patto di Unicost, la corrente di Palamara, con la sinistra giudiziaria di Area che aveva, con l’avallo del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, puntato sul grillino Alberto Maria Benedetti. I componenti del Csm avrebbero poi già espresso “reiterate prese di posizione sull’indagine”. Tutte contro di lui. Un membro del Consiglio avrebbe parlato di “metodo mafioso”. Un altro di nuova P2. Anche Ermini “avrebbe fatto valutazioni che non lasciano dubbi”. Ieri è stato il giorno delle questioni preliminari. Ad assistere Palamara, il consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi. La disciplinare ha respinto. Prossima udienza a fine mese. Bibbiano, scontro tra camere penali e presidente del tribunale di Angela Stella Il Riformista, 16 settembre 2020 L’inchiesta sui presunti affidi illeciti, nota anche come “Caso di Bibbiano”, torna a far parlare di sé per un provvedimento del Presidente del Tribunale di Reggio Emilia che ha suscitato la critica della Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiani. La premessa è che l’udienza preliminare è fissata per il prossimo 30 ottobre e il Gup di Reggio Emilia dovrà decidere se rinviare a giudizio le 24 persone coinvolte nell’indagine “Angeli e Demoni” - altro nome con cui è stata ribattezzata l’indagine - per le quali il pm Valentina Salvi ha chiesto il processo. Secondo l’Ucpi il provvedimento organizzativo del Presidente del Tribunale di Reggio Emilia darebbe per scontato l’esito dell’udienza preliminare. Vediamo perché: il provvedimento che abbiamo avuto modo di leggere è datato 7 settembre e firmato dalla Presidente del Tribunale Cristina Beretti. Con esso sono state disposte alcune variazioni tabellari al fine di redistribuire il carico di lavoro tra i giudici. La peculiarità di tale provvedimento consisterebbe, secondo l’Ucpi, nel fatto di essere motivato, tra l’altro, dalla circostanza per cui “nei prossimi mesi inizierà la celebrazione del complesso procedimento riguardante i noti fatti di Bibbiano”. Invece al momento è ovvio che nessuno degli indagati è ancora stato rinviato a giudizio. “Infatti - dice la Giunta - non è nemmeno iniziata l’udienza preliminare, il cui giudice, come è noto, dovrà (rectius, dovrebbe) stabilire chi può subire il processo richiesto dall’accusa e chi, invece, merita di essere prosciolto”. Come leggere da entrambi le parti - accusa e difesa - tutto questo? “Certamente - sottolineano gli avvocati dell’Ucpi - si tratta di una previsione che, nel tranquillizzare la Procura, getta nello sconforto le difese, ma soprattutto pone in una situazione di grave imbarazzo il giudice dell’udienza preliminare, il quale ora conosce quali siano le aspettative del capo dell’ufficio giudiziario al quale appartiene. I difensori sapranno valutare adeguatamente quali conseguenze processuali abbia un simile provvedimento, anche sotto il profilo della precostituzione del futuro giudice dibattimentale”. Abbiamo chiesto anche una replica alla dottoressa Cristina Beretti, Presidente del Tribunale di Reggio Emilia che ci ha inviato una nota di due pagine; per questione di spazio estraiamo quanto segue: “Questo Presidente non ha “preparato quanto necessario perché ci siano i giudici del caso”, come si legge nel documento dell’Unione Camere Penali per chissà quali illegittimi scopi, né ha ritenuto che il procedimento debba necessariamente sfociare in un decreto che dispone il giudizio. La data e il giorno dell’udienza dibattimentale è già stata richiesta ed indicata da tempo, come impone la legge, per il caso in cui debba essere celebrato il dibattimento. Questo Presidente ha unicamente riorganizzato una sezione penale dando atto del fatto che il collegio presieduto dal collega al quale, per ben altri motivi esplicitati nel provvedimento del 7 settembre è stato riequilibrato il ruolo, sarà quello che, secondo le disposizioni tabellari, celebrerà il processo c.d. Bibbiano laddove dovessero essere disposti rinvii a giudizio”: dunque secondo la Presidente si tratterebbe di una prassi consolidata di organizzazione degli uffici giudiziari. Proprio sulla prassi, si è espresso con noi Eriberto Rosso, Segretario dell’Ucpi: “Diamo volentieri atto alla dottoressa Beretti delle sue dichiarazioni, è un magistrato noto per l’attenzione ai diritti della difesa. Il problema però è che il magistrato fa riferimento ad una prassi consolidata nel richiedere la data del giudizio molti mesi prima dell’udienza preliminare. È una consuetudine sulla quale vorremmo interloquire perché è comunque una strana procedura, una anomalia che merita una riflessione. Si tratta di una prassi consolidata anche in altre sedi giudiziarie? Non abbiamo interesse ad una grossa polemica ma abbiamo ritenuto necessario evidenziare questo dato”. Omicidio Livatino, permesso premio a uno dei mandanti di Roberta Polese Corriere del Veneto, 16 settembre 2020 Ergastolano, ha avuto 9 ore di libertà dal tribunale di Sorveglianza. Nei giorni del trentennale dell’agguato. Negli ultimi cinque anni aveva partecipato alle riunioni di Ristretti Orizzonti, il giornale al quale lavorano i detenuti all’interno del carcere Due Palazzi, il comportamento era stato buono e in vent’anni non aveva mai visto nessuno della sua famiglia. Due giorni fa Giuseppe Montanti, 64 anni, condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rosario Livatino, ha usufruito di 9 ore di permesso per parlare sia al telefono che in presenza, con i suoi famigliari che vivono in parte in Messico e in parte in Germania. Il permesso è stato concesso dal tribunale di Sorveglianza di Padova, visto che Montanti si trova al Due Palazzi a scontare la sua pena. Durante le sue nove ore libere, è andato in una struttura messa a disposizione dalla cooperativa Piccoli Passi di Padova, che gestisce una casa dove i detenuti che non dispongono di un’abitazione possono incontrare le famiglie. Montanti ha parte dei parenti in Messico, dov’era stato arrestato nel 1999, e una parte in Germania. Il permesso premio arriva in concomitanza con il trentennale dell’uccisione del giudice Rosario Livatino, “il giudice ragazzino” barbaramente ammazzato a colpi di arma da fuoco ad Agrigento il 21 settembre del 1990, mentre con la sua auto e senza scorta si stava recando in tribunale. A commettere l’omicidio furono i sicari della “stidda”, organizzazione criminale mafiosa che all’epoca si contrapponeva a Cosa Nostra. Il nome di Montanti venne fatto da un pentito, nel 1999 arrivò la condanna definitiva all’ergastolo: la giustizia italiana lo ha riconosciuto come uno dei mandanti. Venne arrestato in Messico dopo un periodo di latitanza. A riportare il fascicolo carcerario di Montanti sul tavolo del tribunale di Sorveglianza è stata anche una sentenza della Consulta, che ha giudicato incostituzionale non concedere mai permessi premio ai condannati anche per reati efferati, o di mafia. Si chiamano reati “ostativi”, perché per queste persone non c’è una rivalutazione al fine del permesso premio. O almeno non c’è mai stata fino a quando la Corte costituzionale non ha stabilito che si tratta di un divieto illegittimo. “Anche il Papa ha detto che una pena definitiva che non conceda speranza è come una condanna a morte - spiega Ornella Favero, “anima” di Ristretti Orizzonti che conosce bene Montanti - lo Stato in questo modo dimostra di essere migliore delle persone che commettono reati atroci. Tutti noi che abbiamo lavorato in carcere abbiamo visto come le persone cambino anche con il contatto con la famiglia. Spesso lo fanno per i figli, per le mogli: è ingiusto non dare anche a loro questa possibilità”. Omicidio Livatino, è polemica per 9 ore di permesso premio di Angela Stella Il Riformista, 16 settembre 2020 Giuseppe Montanti è stato condannato all’ergastolo ostativo anche per concorso nell’assassinio del “giudice ragazzino”. L’avvocato: “Sono le sue prime ore di vita fuori dal carcere dopo 20 anni”. Un magistrato di sorveglianza di Padova ha concesso un permesso premio a Giuseppe Montanti, condannato all’ergastolo ostativo per reati gravissimi quali il concorso in cinque omicidi, tra cui quello del giudice Rosario Livatino di cui fu il mandante, e quattro tentati omicidi. L’ex appartenente della Stidda ha operato nel territorio di Caltanissetta tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni ‘90, per poi essere catturato in Messico il 12 aprile 2000. Il permesso premio di cui il 64enne ha usufruito ieri è consistito in 9 ore trascorse nella struttura Piccoli Passi dove è rimasto in regime di detenzione domiciliare: lì ha potuto incontrare i suoi familiari e parlare anche con il suo avvocato Angela Porcello, che lo assiste con la collaborazione della collega Annalisa Lentini. Proprio il suo legale ci racconta: “Il signor Montanti era molto felice perché queste sono state le prime ore di vita fuori dal carcere dopo venti anni ininterrotti di reclusione”. Facciamo subito presente all’avvocato Porcello che sono nate delle polemiche, tra cui quella del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, perché il permesso sarebbe stato concesso proprio nella settimana delle commemorazioni per il giudice Livatino, ucciso in un agguato il 20 settembre del 1990: “Sono polemiche strumentali perché la data del provvedimento del magistrato di sorveglianza è del 17 luglio e il permesso premio è stato eseguito solo ora a fronte dei numerosi decreti di permesso già emessi ma la cui esecuzione era stata sospesa a causa dell’emergenza sanitaria”. Ambra Minervini, membro dell’Associazione “Vittime del Dovere” e orfana del magistrato Girolamo Minervini, ucciso dalle Br, contesta i magistrati che hanno concesso la misura. Come si è giunti a questo permesso premio? Innanzitutto, come leggiamo dal provvedimento del magistrato, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia nel 2016 ha accertato la cosiddetta “collaborazione impossibile” per Montanti. Successivamente, come ci spiega sempre l’avvocato Porcello, “c’è stata la svolta con la nota sentenza 253/2019 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis op che precludeva la concessione dei permessi premio a coloro che sono detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis c.p.”. Nel frattempo l’avvocato chiede una “rivisitazione della sintesi”, ossia che venga effettuata una nuova relazione sulla condotta del detenuto. Da essa si evince che Montanti partecipa alla redazione di Ristretti Orizzonti e al progetto “Scuola carcere”, presta attività di volontariato nel laboratorio di cucito, riceve un compenso per la riparazione di biancheria dell’Amministrazione, ha partecipato a corsi di formazione per recuperare nozioni di matematica, scienza e lettere. Inoltre, come ha riferito la psicologa che lo ha seguito, “l’età ormai adulta e la lunga espiazione lo hanno costretto ad un bilancio esistenziale, condotto in piena responsabilità anche relativamente alla sfera affettiva e familiare ed ha maturato la consapevolezza del bisogno di chiedere aiuto. Ha ricostruito la storia dei primi contatti con l’organizzazione, i rapporti con i suoi coimputati, e le vicende connesse alle attività delittuose. Le ammissioni di responsabilità, dirette ed indirette sono state molteplici, così come la volontà di chiarire fatti e circostanze”. Per quanto concerne la pericolosità attuale del detenuto, scrive il magistrato di sorveglianza: “Nessuna nota trasmessa dalle competenti Autorità (talune peraltro non hanno fornito risposta, a distanza di mesi dalla richiesta, tra cui la Dna) segnala indici diretti o indiretti di permanenza attuale di legami con l’organizzazione stiddara del territorio di Agrigento cui Montanti è appartenuto sino al 1992”. A chi contesta che Montanti non hai mai ammesso il concorso nell’omicidio del giudice Livatino, è lo stesso Tribunale a rispondere indirettamente facendo riferimento ad una recente decisione della Cassazione in cui si afferma “la non necessità della confessione del reato per ottenere il permesso premio. La mera professione di innocenza non esonera il giudice da una valutazione approfondita” del condannato. Quali sono ora le prospettive ora per il detenuto? “È l’inizio di un percorso positivo - ci spiega l’avvocato - che apre alla concessione di ulteriori permessi premio e poi la libertà condizionale e la semi detenzione per una apertura sempre maggiore verso la società”. Mafia, fratello Riina resta detenuto: ha 87 anni, no a differimento pena ansa.it, 16 settembre 2020 Niente detenzione domiciliare o differimento della pena causa “infermità” per Gaetano Riina, fratello del boss Totò: lo ha deciso il tribunale di sorveglianza di Torino, che ha respinto un’istanza del suo legale. Gaetano Riina, che ha 87 anni, è detenuto nel carcere delle Vallette, alle porte del capoluogo piemontese, con un fine pena che secondo quanto si apprende è fissato per il 2023. Gaetano Riina è detenuto nel carcere delle Vallette in regime di alta sorveglianza. La pena che sta scontando gli è stata inflitta dalla Corte d’appello di Napoli per avere partecipato a un’associazione di stampo mafioso. Ha dei problemi di salute (è stato anche ricoverato per un mese nel reparto detenuti dell’ospedale Molinette) che, secondo una prima interpretazione della pronuncia del tribunale, sono state giudicate compatibili con la reclusione nella struttura torinese. Sequestrabile il trust simulato di Laura Ambrosi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2020 Corte di cassazione - Sentenza 25991/2020 Penale. Legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente sui beni del trust se anche solo attraverso un ragionamento presuntivo si può dedurre che l’indagato abbia solo simulatamente trasferito i beni. Ad affermarlo la Corte di cassazione con l’ordinanza n. 25991 depositata ieri. Il gip disponeva il sequestro finalizzato alla confisca nei confronti del legale rappresentante di una società in riferimento ad alcuni reati tributari. In esecuzione di tale provvedimento, la Guardia di Finanza sottoponeva a sequestro l’intero patrimonio di un trust costituito, per il tramite di una società. L’ente, in qualità di terzo interessato, proponeva richiesta di riesame eccependo l’illegittimità della misura perché disposta su beni non nella disponibilità dell’indagato sottoposto a procedimento penale. Il tribunale del riesame confermava però il provvedimento nel presupposto che in atti la proprietà del trust appariva riconducibile all’indagato. Il trust ricorreva così in cassazione lamentando un’errata motivazione da parte del tribunale del riesame, oltre che un’illegittima applicazione della norma. Più precisamente, secondo la difesa, l’intestazione dei beni al trust e la nomina di un trustee estraneo comportavano la perdita di ogni potere di disposizione da parte dei conferenti. La Suprema Corte, dopo aver rilevato l’inammissibilità del ricorso, ha fornito alcuni importanti principi sul punto. I giudici di legittimità hanno innanzitutto rilevato che il trust non può considerarsi “persona estranea” al reato, perché manca in radice la netta distinzione tra i patrimoni dell’ente rispetto alla sfera delle disponibilità del conferente. Nella specie, poi, dall’analisi dei fatti e degli atti emergeva che effettivamente l’indagato aveva delle dirette interessenze. In particolare, l’iniziale soggetto incaricato della gestione, poi sostituito, era molto vicino all’indagato; l’entità dei conferimenti era sproporzionata rispetto alle finalità familiari, ed i movimenti di denaro e dei beni erano a beneficio della propria famiglia. Inoltre, tra i beni del trust c’erano anche le quote di una società che costituiva la “cassaforte” immobiliare dell’indagato, amministrata però da un prestanome privo di capacità manageriali. La Cassazione ha così affermato il principio secondo cui è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni conferiti in un trust dall’indagato, se sussistono elementi presuntivi tali da far ritenere che sia stato costituito a fini meramente simulatori. Omesso versamento ritenute: non applicabili nuove sanzioni se la rilevanza penale è più ampia di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2020 Corte di cassazione - Sezione III - Sentenza 15 settembre 2020 n. 25987. No all’applicazione retroattiva della norma che rivede le sanzioni per le violazioni tributarie se è peggiorativa rispetto al precedente trattamento. La Corte di cassazione, con la sentenza 25987 accoglie, sul punto, il ricorso del legale rappresentante di una Srl contro la condanna, con la quale la corte di merito aveva considerato integrato il reato solo sulla base dell’omesso versamento delle ritenute operate e non anche in funzione dell’avvenuto rilascio delle certificazioni di queste ai sostituti di imposta: circostanza quest’ultima non provata. Per la Suprema corte la tesi della difesa è fondata, nel caso esaminato va, infatti, applicata la disposizione vigente all’epoca dei fatti, in base alla quale la condotta contestata non aveva rilevanza penale, e non il Dlgs 158/2015 (articolo 7, comma 1, lettera b). Una norma che ha ampliato la rilevanza penale della condotta estendendola anche alla fattispecie in cui ci sia stata soltanto la dichiarazione del sostituto d’imposta, senza il rilascio delle certificazioni ai sostituti. Per i giudici di legittimità la norma ha infatti affermato la rilevanza penale di una condotta che prima era fuori da quel raggio d’azione. E l’introduzione di un trattamento penale deteriore limita l’applicabilità della norma ai soli comportamenti che si sono verificati dopo la sua entrata in vigore. Napoli. “Il mega-carcere di Nola: progetto insostenibile” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 settembre 2020 Intervista a Domenico Alessandro De Rossi, architetto. Si torna a parlare del carcere di Nola: si farà e quando? Ancora difficile trovare delle risposte. Ogni tanto riemerge in qualche discussione ma dal Dap ci dicono che dovrebbero essere ancora in fase di svolgimento le indagini geologiche sull’area e di progettazione preliminare. Il progetto però risale al bando ministeriale del 2017, elaborato dagli uffici tecnici del Dap, frutto del lavoro scaturito da quanto pensato e stabilito dai tecnici del Tavolo n. 1 degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale “Spazio della pena: Architettura e Carcere” nel 2015. “Tuttavia quel progetto ministeriale è in netta contraddizione con le conclusioni degli Stati Generali e mal pensato dal punto di vista della territorialità, della capienza e sostanzialmente architettonico” ci dice l’architetto Domenico Alessandro De Rossi, cofondatore e vice presidente del Centro Europeo Studi Penitenziari, curatore di due libri “L’universo della detenzione” del 2011 e “Non solo carcere”, del 2016 (Mursia ed.). Architetto cosa critica di quel progetto? Il principale e più grave sbaglio che determina poi a cascata ulteriori errori e problemi è dato dalla insostenibilità del gigantesco impianto che prevede ben oltre 1500 reclusi. La cultura più aggiornata e sperimentata oggi vede la capienza sostenibile dal punto di vista tecnico e gestionale intorno ai 300, 350 detenuti al massimo. La ormai consolidata carenza di integrazione politica, culturale e tecnica tra le diverse competenze destinate alla pianificazione del futuro della detenzione viene ancora in questo Paese a concepire mega impianti carcerari fuori scala, fuori misura, totalmente fuori da una concezione sistemica della detenzione come occasione di recupero del condannato, della sua integrazione e riqualificazione. Tra gli immani problemi di “sistema” che si presenteranno, qualora fosse portato ancora ottusamente avanti il programma, pensiamo solo alle migliaia di persone in visita ai detenuti, al personale della Polizia penitenziaria, agli addetti alla formazione, al personale tecnico e amministrativo. Anche dal punto di vista dei trasporti occorrerebbe una efficienza che non abbiamo in quelle aree né su ferro, né su gomma. Ultimo argomento, ma non meno importante, è quello riguardante il distanziamento fisico tra le persone detenute e circolanti a vario titolo nel carcere in presenza del Coronavirus. Quali altri problemi rileva? Sembrerebbe che il sottosuolo, come per altre parti del territorio in quella regione, sia inquinato da rifiuti tossici. I progettisti, tenendo conto della prospettiva interna e dell’oppressione dei muri di cinta delle carceri tradizionali, vantano di aver pensato ad un carcere senza muri perimetrali. Si tratta di una scelta stigmatizzata da molti e con vari argomenti, anche in occasione del dibattito tenutosi nel marzo 2017 all’Università degli Studi di Roma Tre. Alla presenza, tra gli altri, dell’allora Sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri emerse una aspra critica verso questa scriteriata scelta proprio avvalendosi di un mio articolo pubblicato su Polizia Penitenziaria. Da allora di Nola e del suo mostruoso carcere non se ne parlò più. Pochi giorni fa però è tornato a parlare bene del mega carcere l’architetto Luca Zevi, già coordinatore del tavolo n. 1 degli Stati Generali. Col tempo ha cambiato idea sul progetto e oggi sembrerebbe che coordini i lavori affidatigli dal Dap. Quale sarebbe per lei il modello di carcere perfetto? Il carcere perfetto è un ossimoro e l’architettura per quanto possa fare miracoli non può rendere accettabile ciò che in partenza è pensato male o voluto peggio. Ciò che occorre è ripensare l’esecuzione penale in tutt’altro modo dalla consuetudine nella quale il nostro Paese è immerso. Politiche contraddittorie, competenze settoriali, spoils system (quel perverso meccanismo in cui i dirigenti o i consulenti ricoprono il loro mandato finché rimane in carica il dirigente politico che li ha nominati) contrapposto al merit system, da sempre a parole auspicato ma raramente in Italia praticato. In Europa ci sono carceri ben fatti e che funzionano. Per paradosso, basterebbe copiare. Comunque studiare. Brescia. L’impegno di Toresini con i detenuti di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 16 settembre 2020 Lutto nel giornalismo bresciano: è morto Marco Toresini, direttore della redazione bresciana del Corriere della Sera e del giornale dei detenuti “Zona 508”. Uso spesso, per i miei studenti del corso di Criminologia penitenziaria, un video documento registrato una decina di anni fa. Si tratta di una inchiesta, prodotta e presentata da una emittente bresciana che oggi non esiste più, nella quale alcune persone descrivono e valutano il loro contatto, per ragioni professionali, con il mondo del carcere. Una di queste persone è Marco Toresini, intervistato in rappresentanza di Z508, il periodico edito da Carcere e Territorio, redatto all’interno degli Istituti penali bresciani e del quale Marco fu per oltre un decennio il direttore responsabile. Nei pochi minuti della sua intervista traspare perfettamente il modo di pensare e di lavorare di Marco: il linguaggio semplice e mai ambiguo, il riferimento concreto a un caso giudiziario famoso, in modo da far capire a tutti gli ascoltatori di cosa si stesse parlando, caso in quei giorni particolarmente citato, perché la persona condannata aveva appena acquisito un titolo di studio solitamente estraneo al perimetro carcerario. Marco lamentava che tutti i titoli dei giornali riguardanti questa persona ne evocassero solo il passato, come un macigno impossibile da allontanare e schiettamente riconosceva le responsabilità, sul punto, della categoria professionale cui pure egli apparteneva. L’intervista proseguiva con la narrazione del primo approccio di Toresini al carcere: “…improvvisamente vidi davanti a me i volti di persone di cui avevo narrato le storie giudiziarie e capii che quelle persone stavano tentando di scrivere un’altra storia”. Ecco, senza enfasi ma con rara efficacia e, senza compiacimenti morbosi ma con grande sincerità, Marco in questo modo seppe spiegare il motivo della sua scelta; diventare Direttore di Z508 per raccontare altre pagine, dopo aver conosciuto la parte meno bella di molti racconti di vita. Egli decise cioè di non voltarsi dall’altra parte, come tanti, troppi fanno, ma di aiutare chi avesse desiderato girar pagina, narrandola, o insegnando come narrarla. Una scelta certo non popolare, men che meno conveniente: ma la fatica di strappare tempo alla sua pur esigente professione non inquinò mai la qualità del suo apporto a 508. Una scelta vissuta con convinzione e serietà e al contempo assoluta umiltà, come traspariva dalle relazioni umane instaurate. Ai redattori detenuti mai fece pesare la sua professionalità, e mai si fece condizionare dal pregiudizio verso alcuno di essi. In un momento storico in cui il linguaggio giustizialista torna a essere strillato e il pregiudizio ostile viene addirittura esibito, l’esempio con cui Toresini dette vita a un volontariato penitenziario di qualificata levatura, perché professionalmente orientato, e il tono sempre pacato con cui seppe e volle presentarsi, mancheranno molto. Al carcere, al giornalismo carcerario e a tutti coloro che, sul carcere, vorrebbero sentire narrare altre storie. Ciao Direttore. Como. Ucciso in strada don Roberto Malgesini, lasciato solo con i più poveri di Roberto Maggioni Il Manifesto, 16 settembre 2020 Il sacerdote è stato accoltellato ieri mattina da un uomo senza fissa dimora con problemi psichici. La città, negli ultimi anni, è stata teatro di una destra sempre più violenta e aggressiva. Nella giunta comunale comanda la Lega anche se il sindaco è vicino a Forza Italia. Per tutta la giornata si sono ritrovati lì, tra la chiesa di San Rocco e gli alberi dell’omonima piazza dove don Roberto Malgestini è stato ucciso a coltellate, uniti per l’ultima volta da questo prete “mite e buono”, come lo descrivono tutti. Italiani, stranieri, ciascuno con le sue cicatrici dentro e fuori, c’è chi ancora vive in strada e chi si è lasciato i momenti più duri alle spalle. Don Roberto da oltre 30 anni aiutava chiunque avesse bisogno di una mano e lo conoscevano tutti a Como. C’è un aneddoto curioso che racconta bene che tipo di persona fosse. Prima di ieri mattina di lui in rete non si trovava neanche una fotografia, le redazioni dei giornali locali ne hanno scovate un paio cercando a fondo nei propri archivi. “Perché don Roberto era così, sempre presente nell’aiutare chi aveva bisogno, ma in modo discreto e riservato”, raccontano le persone che lo hanno conosciuto o hanno lavorato con lui, come Fabio Cani, portavoce dell’associazione Como Senza Frontiere. “Lui costitutivamente non voleva mai apparire, agiva sempre al centro delle cose ma sempre come se lui non ci fosse”. Mai alla ricerca di clamori mediatici, schivava le polemiche andando dritto per la sua strada, letteralmente, perché la strada era diventata la sua parrocchia vera, dove incontrava e aiutava i bisognosi. E lì è stato ucciso ieri mattina poco dopo le 7, a pochi metri dal portone della canonica, in quella piazza San Rocco oggi spoglia persino delle panchine, fatte togliere dalla giunta di destra per impedire ai poveri di utilizzarle. Don Roberto aveva fatto sistemare anche dei bagni chimici in quella zona, ma l’amministrazione fece togliere anche quelli. Persino la fontanella comunale a un certo punto smise di far zampillare acqua, sempre per mano dell’amministrazione comasca. Don Roberto è stato ucciso a coltellate da una di quelle che persone a cui ogni mattina portava la colazione e una parola di compagnia, un tunisino senza fissa dimora di 53 anni con problemi psichici, raccontano dalla Caritas, e con in tasca un decreto di espulsione datato aprile e poi sospeso a causa del blocco dei voli per Coronavirus. Per la Lega che governa la città e per il suo capo Matteo Salvini tanto è bastato per dare addosso al clandestino. Cosa abbia spinto l’assassino di Don Roberto a tirargli quelle coltellate fatali non lo sappiamo, la polizia proverà a dare una risposta al folle gesto, l’uomo si è costituito spontaneamente alla caserma dei Carabinieri subito dopo aver ucciso il prete. Di certo però c’è che Don Roberto era stato lasciato solo, quando non apertamente ostacolato, dall’amministrazione comasca guidata dal sindaco Mario Landriscina. Como in questi anni è diventata un laboratorio politico per la destra, una città storicamente ricca, cattolica e conservatrice, che si è riscoperta con la crisi dei rifugiati del 2016 città di confine. Su posizioni anti-accoglienza questa maggioranza ha vinto le elezioni comunali del 2017. È una giunta dove comanda la Lega, anche se il sindaco appartiene ad un’area più vicina a Forza Italia. Una giunta di destra incalzata da destra da Fratelli d’Italia. In questi tre anni la si ricorda per aver allontanato i poveri dal centro città sotto Natale, per aver tagliato sull’accoglienza, per non essere stata capace di condannare in modo netto il blitz del Veneto Fronte Skinhead contro l’associazione Como Senza Frontiere. Come fossimo in un romanzo distopico di Philip Dick, Como è stata anche la prima città italiana a sperimentare la sorveglianza con il riconoscimento facciale, le telecamere di ultima generazione in grado di tracciare e riconoscere i volti delle persone. Almeno fino allo stop imposto dal garante per la privacy. Una città, Como, dove però i reati di strada sono in calo, come testimonia la Questura nei suoi rapporti annuali. L’ultimo episodio che ha sollevato polemiche è stata la coperta tolta a una persona senza fissa dimora e gettata in un prato dall’assessora ai servizi sociali Angela Corengia durante le operazioni di pulizia di un’area in cui dormono una decina di persone. Da tempo le associazioni che si occupano di diritti umani chiedono all’amministrazione di aprire un dormitorio, ma la Lega vorrebbe risolvere il problema recintando l’area. “È una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto”, ha commentato il direttore della Caritas comasca Roberto Bernasconi. “O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno”. Dice ancora il direttore della Caritas ricordano don Roberto: “La città non ha capito la sua missione”. Le Associazioni del terzo settore incrociavano il prete continuamente. Oltre al ricordo commosso della persona, chiamano in causa la politica. “Sentiamo il dovere di accusare le istituzioni che dovrebbero esistere per evitare queste tragedie e per contrastare odio e violenza”, ha scritto Como Senza Frontiere richiamando l’amministrazione comunale alle sue responsabilità politico-amministrative. “Perché don Roberto è stato lasciato solo dalle istituzioni nel compito vitale di dare aiuto alle persone costrette a vivere in strada in una delle città più ricche del mondo? Perché le istituzioni non hanno aiutato e curato un uomo psichicamente instabile nonostante la Como solidale abbia più volte e da anni chiesto di affrontare il problema della fragilità psicologica e psichiatrica di chi vive in strada? Perché chi governa Como ha irresponsabilmente ampliato la disperata guerra tra poveri?”. Tra gli amici di don Roberto c’era Luigi Nessi, un consigliere comunale della sinistra comasca che andava due volte a settimana a consegnare le colazioni insieme al prete ucciso. “Era una figura così mite - ricorda a Radio Popolare - seguiva queste persone tutto il giorno, da mattina a sera. Spero che questo sacrificio faccia riflettere la città di Como”. È l’auspicio che tanti a Como stanno esprimendo in queste ore così tristi. Como. In lacrime il “suo” popolo ai margini: “Solo lui ci ha voluto accogliere” di Niccolò Zancan La Stampa, 16 settembre 2020 Nella città lariana dove convivono due anime, quella inclusiva e quella che discrimina. Il ragazzo che piange lontano da tutti si chiama Mamadou: “La vedi questa camicia? Me l’ha regalata lui sabato mattina”. La donna che tira manate contro la porta chiusa della casa parrocchiale, invece, è arrivata qui al confine fra Italia e Svizzera partendo dal Gambia: “I miei figli sarebbero morti di fame senza don Roberto”. Sul gradino della chiesa di San Rocco la signora Patrizia Pederzoli, 51 anni, fissa il vuoto: “Sono uscita dal carcere due anni fa. Il don è stato l’unico ad aiutarmi. Mi ha trovato un posto per dormire e ogni mattina ci vedevamo qui per la colazione. Portava il caffè e i pasticcini. Io non credo ai preti, ma lui ti metteva il cuore in pace. Era un uomo dolce e anche molto bello, infatti due giorni fa gli ho detto: “Ma perché sei nato prete?”. E lui mi ha fatto uno dei suoi sorrisi e io mi sono illuminata”. Su questo ramo del lago di Como viveva un prete coraggioso. Ma non faceva niente per ostentare il suo coraggio. Nato a Morbegno il 14 agosto 1969, don Roberto Malgesini aveva lavorato per tre anni alla Banca Popolare di Sondrio prima di entrare in seminario. Dal 2008 distribuiva cibo ai poveri davanti a questa piccola chiesa, cercava gli alcolizzati nei giacigli, parlava con le prostitute e con i migranti. “Non era un prete da combattimento, la sua forza era la mitezza”, dice l’ex assessore alle Politiche sociali Bruno Magatti. Anche lui, come tutti gli altri, è venuto a piangere in questi giardinetti che raccontano la storia intera della città di Como. Qui c’erano otto panchine, ma ne sono rimaste due. Perché sei sono state tolte dall’amministrazione per evitare che troppi poveri si sedessero. Le due città sono riconoscibili. Una chiude le fontanelle agli assetati, l’altra è la città di don Roberto. “Io avevo solo un paio di ciabatte - dice il signor Carlo Colombo -. Il don è andato a comprarmi le scarpe con la sua carta di credito. Lo so perché il giorno dopo mi è venuto incontro con il sacchetto e dentro c’era ancora lo scontrino. Faceva così con tutti. Se stavi male ti portava dal dottore, aspettava con te anche se non avevi prenotato”. Don Roberto aveva fatto così anche con il suo assassino, un uomo tunisino con problemi psichici. Lo aveva aiutato a trovare casa, gli aveva dato colazione ogni mattina. Gli aveva trovato l’avvocato per fare ricorso contro il decreto di espulsione. E adesso, che questa generosità è finita con le coltellate in mezzo alla strada, con la morte di don Roberto, la città è ancora più divisa. “C’è una zona d’ombra dove si muovono gli invisibili”, dice l’ex assessore Magatti: “Sono persone che andrebbero prese in carico con delle politiche di inclusione, bisognerebbe uscire dalle ideologie e provare ad affrontare veramente le questioni. Non puoi usare il manganello, gli slogan e i divieti, non puoi rimuovere i problemi”. La spaccatura nel cuore di Como è diventata evidente nell’estate nel 2015, quando davanti alla stazione San Giovanni si è allargata la tendopoli dei migranti che cercavano di passare. Ma questa è una terra ricca e di frontiera, con i motoscafi Riva ormeggiati all’imbarcadero e la villa di George Clooney fra le attrazioni turistiche. Da tre anni governa il centrodestra. Anni di ordinanza come quella del natale 2017: “Vietato mendicare in forma dinamica. Vietato mendicare anche in forma statica, occupando spazi pubblici con l’utilizzo di cartoni, cartelli. È altresì fatto divieto di bivaccare…”. Ordinanza a cui seguì, il Natale successivo, quella contro i venditori di cianfrusaglie e i suonatori di strada. Qui i fascisti di “Veneto fronte skinhead” avevano fatto irruzione al chiostro di Sant’Eufemia dove si teneva una riunione dell’associazione “Como senza frontiere”. Ed è la stessa città dove sette giorni fa l’assessore alle Politiche sociali Angela Corengia ha buttato via le coperte a un senzatetto. “Ma volevo solo disinfettarle”, si è giustificata. Ci sarebbero 840 mila euro da spendere per politiche di inclusione, ma quei fondi non sono mai stati utilizzati. Il consiglio comunale sta discutendo in questi giorni se chiudere con una cancellata un porticato sotto cui trovano rifugio i migranti. Ma Como è anche la città dove un prete mite e coraggioso incarnava il vangelo. “È morto nel giorno in cui ricorre l’anniversario della morte di don Pino Puglisi”, ha detto il vescovo Oscar Cantoni. “I santi si ricorrono… Sono convinto che don Roberto sia stato un santo della porta accanto per la sua semplicità, per l’amorevolezza con cui è andato incontro a tutti”. Piazza Duomo, ieri sera, era piena all’ora del rosario. La signora Giselle Mole, congolese, portava un fiore bianco per don Roberto: “Non ti chiedeva se credevi in dio, ti aiutava a portare la spesa a casa e ti salutava con un sorriso”. Imperia. Riduzione di telefonate e videochiamate: protestano i detenuti primalariviera.it, 16 settembre 2020 Con l’emergenza Covid era aumentato il numero di telefonate e anche videochiamate con Skype e WhatsApp, ora però si è tornati alla normalità. Una protesta pacifica si è svolta, nella tarda serata di ieri, da parte dei detenuti del carcere di Imperia a causa di una riduzione delle telefonate, così come previsto dall’ordinamento penitenziario, che durante l’emergenza Covid ne aveva concesse ulteriori in aggiunta a quelle di norma previste atte a favorire i colloqui sia telefonici che visivi, a distanza, anche con l’utilizzo di applicazione come Skype e WhatsApp. Ora, però, che sono ripresi i colloqui con i parenti, si è tornati alla normalità. I detenuti hanno così iniziato a sbattere posate e altro materiale contro le grate della cella, provocando un rumore che si è sentito anche fuori dal penitenziario. “Purtroppo, sia a livello nazionale che regionale e locale - spiega il segretario regionale figure del Sappe Michele Lorenzo - e visti gli accadimenti drammatici durante l’emergenza sanitaria, la situazione delle carceri è esplosiva, gli istituti nazionali e soprattutto quelli liguri sono sovraffollati e tra questi spicca l’istituto di Imperia”. Afferma Fabio Pagani Uil-Pa penitenziari “Come ci era stato facile pronosticare, si allarga la protesta dei detenuti in molti istituti penitenziari. Dalle ore 21.50 circa di ieri per circa un’ora, una rumorosissima protesta con la battitura delle stoviglie e? cominciata nel carcere di Imperia. In Liguria tra gli istituti gli istituti penitenziari di Imperia e Sanremo rischiamo il default ed e? arrivata la manifestazione a suon di decibel anche a Imperia. I detenuti non hanno digerito l’ordine del direttore di adeguare le telefonate all’Ordinamento Penitenziario, ovvero 1 a settimana in un Carcere che vanta un sovraffollamento esagerato di 100 detenuti presenti su una capienza di 69. La protesta si e? conclusa con l’arrivo del comandante che in qualche modo e? riuscito a placare gli animi”. Milano. Opera, in carcere nasce il ranch aperto alla città di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 16 settembre 2020 Dove c’era una discarica sono sorti un maneggio e una fattoria aperti alla città. I detenuti di massima sicurezza dalle loro finestre non lo vedono ma appena oltre l’altissimo muro di cinta dove si scontano le pene più aspre, lì dove finora c’erano solo la discarica e la spazzatura del carcere di Opera, sono sorti un grande maneggio, una fattoria didattica e un ranch dal nome evocativo: “Freedom” (libertà). In quel luogo chi è ancora in cella ma quasi alla fine del percorso e quelli che si sono guadagnati speciali permessi potranno imparare l’arte del maniscalco, dell’artiere e del sellaio, professioni richiestissime e utili per il reinserimento in società. Non solo: si prenderanno cura degli animali e contribuiranno ai corsi che verranno attivati con l’aiuto di tutti. “È un progetto unico a Milano e forse anche in Italia. Il maneggio, aperto alla città, avrà prezzi popolari e sarà attento ad accogliere in particolare ragazzi che hanno bisogno e persone con disabilità”, anticipa il direttore del penitenziario Silvio Di Gregorio. Il lockdown ha innescato qualcosa di inimmaginabile solo pochi mesi fa. Mentre il carcere era completamente chiuso verso l’esterno, all’interno si è formata una squadra di volontari che ha dato anima e cuore al progetto. Da una parte si sono prestate le “Giacche verdi”, Onlus attiva con i cavalli all’Idroscalo, dall’altra una trentina di membri della Polizia penitenziaria dello stesso carcere: “Nel loro tempo libero, durante quei mesi tristissimi di lockdown e poi in estate, hanno portato materiali, pulito, progettato, montato con incredibile dedizione e umanità”, spiega il comandante Amerigo Fusco, deus ex machina e ideatore. Il percorso è in salita, in particolare con le restrizioni dettate dal Covid, ma tutto è pronto per il lancio il 3 ottobre. Sono arrivati da un sequestro collegato alla ‘ndrangheta a Fino Mornasco una decina di cavalli. Due asinelli sono sardi e un terzo reduce da un campo nomadi dove era maltrattato e denutrito. Corrono sul terreno Peppa e George, maialini thailandesi donati da un agriturismo, e con loro il lama cucciolo Miglio. E poi pavoni, decine di tartarughe e sessantaquattro pappagalli delle specie più diverse. Marco e Beppe, in regime di libertà ristretta, sono i primi detenuti introdotti: entrambi padri e nonni, sono in carcere da decenni. Il primo si è formato con le “Giacche verdi” all’Idroscalo e dicono sia diventato un perfetto maniscalco: sarà il primo ad aiutare ad Opera, dove sta finendo di scontare la sua pena. L’altro è diventato invece tutt’uno con l’asinello che era stato maltrattato al campo nomadi: “Lo ha fatto rinascere, l’animale si è affezionato moltissimo e lo segue ovunque, quasi come un cane, il che mette anche in difficoltà chi lo deve governare”, scherza Di Gregorio. Se il lockdown ha portato qualcosa di buono, forse è proprio questo: ha fatto da collante all’interno di un carcere famoso per la sua rigida gerarchia e alimentato una certa comunicazione orizzontale tra gli ambienti. Questo ha generato una vitalità nuova, solidale e speranzosa: “Il nome Freedom scelto per il ranch evoca la libertà come riconquista potenzialmente accessibile a tutti - dice. Quella parola vorrebbe dare coraggio anche a chi è ancora nel mezzo del cammino di rieducazione e ai detenuti cui sono preclusi i permessi ma ce la stanno mettendo tutta”. Anche Giuseppe Scabiola delle “Giacche verdi” ricorda il contributo di Fondazione Cariplo e getta il cuore oltre l’ostacolo: “Al maneggio in abbiamo una lunghissima lista d’attesa, dirotteremo parte delle richieste verso Opera”. Chi penserebbe, tra le altre realizzazioni, che la fontana da cui zampilla l’acqua era un depuratore delle fogne destinato al macero? E a dicembre il progetto potrebbe allargarsi ancora. Palermo. Agenti penitenziari contagiati dal Covid, saltano i processi con detenuti di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 16 settembre 2020 Diversi casi fra il personale del Nucleo traduzioni del carcere Pagliarelli di Palermo. I numeri non sono ancora noti, ma ci sono diversi agenti di polizia penitenziaria contagiati dal Coronavirus. Il problema è serio. Si tratta dei componenti del Nucleo traduzioni che accompagnano i detenuti nei tribunali per partecipare alle udienze o durante i trasferimenti. Ed è, infatti, al Tribunale di Palermo, nell’aula 24 dei nuovi edifici giudiziari, che stamani il giudice per l’udienza preliminare Clelia Maltese ha dovuto rinviare un processo con 40 detenuti per traffico di sostanze stupefacenti perché gli imputati non sono stati tradotti al Palazzo di giustizia. Il Nucleo è composto da 160 agenti, che fanno base al carcere Pagliarelli, ma che gestiscono i trasferimenti per e da altri penitenziari. La stragrande maggioranza degli agenti è in quarantena. Tutto il personale è stato sottoposto a tampone. Così come tutti i detenuti entrati in contatto con gli agenti. Al momento non ci sarebbero contagiati nella popolazione carceraria. I casi, il cui numero è imprecisato, è circoscritto finora soltanto agli agenti. Sono scattate tutte le procedure per garantire la sicurezza dei detenuti e proteggerli. Così come si sta cercando di ovviare al forzato calo di organico per garantire la presenza nei processi. La notizia, che si è diffusa in fretta fra tanti addetti lavori e avvocati, in serata ha trovato conferme. Firenze. Nuovo disco dell’Orkestra Ristretta di Sollicciano comune.fi.it, 16 settembre 2020 Campagna di Crowdfunding per la realizzazione del disco In/Out. Tempo Reale promuove la realizzazione del nuovo disco dei detenuti dell’Orkestra Ristretta ensemble musicale di Sollicciano dal titolo “In/Out”. Il progetto discografico nasce per celebrare una serie di incontri e contatti avvenuti negli anni tra musicisti militanti del centro e detenuti membri dell’Orkestra ed è sostenuto da Regione Toscana, Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze in collaborazione con Ministero di Giustizia e Casa Circondariale di Sollicciano. All’incisione partecipano i musicisti toscani collaboratori del centro: Andrea Gozzi, Lorenzo Lapiccirella, Stefano Rapicavoli, Federico Pacini (Bandabardò), il compositore Francesco Giomi, Michele Lombardi (Scaramouche) e il Coro multietnico Confusion che suoneranno insieme ai detenuti e al direttore Massimo Altomare. Per realizzare il cd è stata lanciata una campagna di crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso attiva dal 14 settembre al 15 ottobre. Per sostenere i detenuti e aiutarli a realizzare il loro progetto discografico è possibile fare una donazione a questo link: https://www.produzionidalbasso.com/project/in-out-il-nuovo-disco-dell-orkestra-ristretta-del-carcere-di-sollicciano/. È possibile seguire la campagna anche su Fb (@temporealefirenze e @orkestraristrettasollicciano) e su Instagram (@temporeale e @orkestraristretta). Il direttore del carcere racconta le sue prigioni recensione di Vittorio Feltri Libero, 16 settembre 2020 Il racconto della vita dietro le sbarre di un uomo che deve tenere a bada migliaia di detenuti, molti di loro disperati. Silvio Pellico, che scrisse Le mie prigioni, un capolavoro ottocentesco di cui si leggevano una volta alcune pagine nelle antologie scolastiche, non avrebbe mai immaginato un epigono persino letterario, situato però dall’altra parte della pena: quella del direttore di un penitenziario, anche se non proprio lo Spielberg. In fondo, nella visione romantica e cinematografica, chi esercita questa funzione è assimilato a un boia più raffinato: è il super-aguzzino di “Ali della libertà”, un arci-secondino che tiene lucide le apparenze di civiltà dell’inferno. Ho scelto un paragone simmetrico, citando Pellico, di certo esagerato, però ci sono singhiozzi di sofferenza e di umanità indimenticabili nel libro appena uscito di Giacinto Siciliano: “Di cuore e di coraggio - Memorie di un direttore di carcere” (Rizzoli, pp 273, € 18, e-book 9,99). Non ritenevo possibile che un libro sui penitenziari di uno di questo mestiere potesse essere avvincente. Lo è stato per me dal punto di vista intellettuale ed emotivo. Siciliano, attuale responsabile del carcere di San Vittore, e in precedenza di quello gonfio di ergastolani e di capi mafiosi al 41bis, tra cui a suo tempo Totò Riina, di Opera (sempre a Milano), è riuscito a trascinarmi “dentro” in molti sensi, e costringerà chi vorrà fidarsi del mio consiglio a entrare dove si sente il clangore metallico delle serrature, ma soprattutto nell’esperienza viva (viva? Che vita è senza libertà?) di quel mondo. E persino riconoscere la sua utilità, la possibilità che non sia l’università del crimine, un master per nemici accaniti della società, bensì un luogo dove rinascere, con fatica, strappi interiori, ma uscendo dalla spirale perversa di un’esistenza malvissuta. Utopia? Sogno di visionari? Ipocrisia? Lo pensano in tanti: sia quelli che sono contrari all’esistenza stessa delle carceri, e valutano soluzioni rieducative senza sbarre (chi è l’utopista, in questo caso?), sia chi è convinto che siccome un delinquente non cambia, tanto vale, nel periodo di detenzione, fargli vedere i sorci verdi, insomma che soffra il più possibile. Detenuti cambiati - Siciliano racconta un’altra possibilità, la documenta con nomi e cognomi di detenuti cambiati nel profondo. Nessuna teoria ma, appunto, la sua personale vicenda. E che storia quella di Siciliano. Figlio d’arte ma trascinato in questa carriera per un caso che sa tanto di fato inesorabile. Nonno comandante delle guardie di un penitenziario, il padre direttore delle carceri più difficili, capace di soffocare rivolte, e perciò sotto scorta come ora capita al figlio Giacinto. Il quale, cresciuto nell’astanteria delle prigioni, racconta cosa gli capitava il mattino uscendo per andare a scuola. Scrive: “Siciliano boia devi morire”. La scritta rossa con la stella a cinque punte delle BR era comparsa dalla notte al giorno sul muro del palazzo di fronte a casa dei miei nonni materni, nel quartiere Santa Rosa a Lecce. Ero un ragazzino”. Ovvio volesse liberarsi da incubi simili. Voleva fare il notaio, uscire, andare lontano da quelle fortezze senza gioia. Fa il concorso per direttore di penitenziari per esercitarsi nel superare esami e assecondare un’amica che voleva compagnia nello studio, e si ritrova vincitore. Il numero uno. Un destino. Subito a Monza, vice di un grande maestro, Luciano Petruzziello “sempre con una sigaretta senza filtro in mano” a spiegargli una legge del carcere e forse della vita: “Il nemico, Giacinto, te lo devi tenere vicino”. Giravano nella nebbia intorno alle mura della “loro” prigione, nel freddo e nella nebbia della Brianza, lui con un cappotto troppo leggero, balbettando dal freddo e scaldandosi nel fumo delle nazionali senza filtro del direttore. La storia personale - Che cosa ha imparato Siciliano e che cosa comunica al lettore sulle carceri? Un attimo. Prima introduco un altro elemento, secondario fino a un certo punto rispetto al dibattito in corso sulla natura dell’istituzione carceraria, che è un chiodo conficcato nel fianco dell’autore, anzi proprio sulla bocca dello stomaco, e che penetra e strazia la sua coscienza. Siciliano ha vissuto, e ancora vive nell’intimo, una storia personale di tortura giudiziaria. Fu accusato nel 2006 di essere parte di una associazione che - facendosi beffe dei magistrati inquirenti - forniva informatori di mafia ai servizi segreti, sulla base di un protocollo detto Farfalla vigente tra la Direzione amministrativa penitenziaria e l’Aisi (l’intelligence interna). Non ne sapeva nulla, mai letto e dunque mai praticato. Il direttore di San Vittore, oggi onorato da tutti - e giustamente -, sente ancora come una ferita insanabile il pubblico ministero che, mentre gli puntava il dito contro, ripeteva: “Lei è il disonore della sua amministrazione”. Otto anni di processo, spese e offese, infine la prescrizione senza che il giudice decidesse su assoluzione o colpevolezza. Accettò la prescrizione, non poteva permettersi anni e ancora anni di tormento e la rovina economica per la sua famiglia. Non si dà pace. E questa esperienza personale di ingiustizia ha contribuito a farlo maturare, a rendergli più pulito lo sguardo su chiunque abbia davanti. Pure il più criminale dei criminali, gente che scioglie i bambini nell’acido dopo averli strozzati con cura? Pare di sì. Siciliano scrive: “La dignità di un uomo rimane un valore intoccabile anche in una cella”. Ancora: “A me può anche far ribollire il sangue dentro, ma non posso non trattarlo da uomo. E un uomo fa sempre la differenza. Il detenuto che hai davanti è un uomo, non un pezzo di carta, non una sentenza, è una storia e un futuro. Con quell’uomo devo lavorare per valorizzarlo e dargli una possibilità, in modo che faccia tesoro degli errori e cerchi solo di migliorare”. Libertà - Sia chiaro. “Il carcere non è un posto bello”. Non lo è per chi vi sconta la pena, e neppure per chi vigila sui detenuti. Lì infatti si comprime qualcosa senza cui la vita non è tale, e l’uomo è amputato di qualcosa di essenziale, il cui nome comincia per elle e finisce con l’accento sulla a: non ripeto la parola per non sciuparla. La gran parte delle persone ritiene che, rispetto al male fatto, e specie davanti a delitti efferati, questa privazione sia poca cosa, e sostiene che qualsiasi allentamento della morsa, e persino l’ora d’aria, siano regali ingiusti, secondo una morale che risuona nella famosa frase che Giacinto - viene naturale trattarlo con confidenza - cita e a cui replica: “Bisogna prendere le chiavi e buttarle via”. Certo, sarebbe più facile dire sempre di no, mantenersi sulla difensiva, tenere il “nemico” alla larga, isolato, senza che abbia l’opportunità di poter cambiare. Questo però non è il mio compito, questo non è il dovere dello Stato. Se lavorassi al riparo da ogni possibile seccatura o rischio, sarei debole e lo sarebbe pure lo Stato che rappresento. E il carcere sì che si trasformerebbe in un’istituzione inutile, come ormai, purtroppo, sostengono in molti”. Ultimamente un magistrato che in cella ha contribuito a sbatterne tanti, Gherardo Colombo, in pensione riflessiva, è arrivato alla conclusione che non servano a nulla, peggiorano chi vi finisce e alla fine sono un pericolo per la società. Siciliano risponde: “Io, che sono un ottimista di natura, penso che il carcere, pur con tutti i suoi limiti, abbia un valore. Il carcere non è un posto bello, ma può funzionare. Per funzionare bene, la pena deve essere però utile e dignitosa”. Per questo si dichiara contro “l’ergastolo ostativo”, che toglie qualsiasi possibilità di pensare a un futuro diverso, fosse pure per un pomeriggio, per un’ora. Non è tempo perso, almeno non sempre, la prigione. Cita nomi e casi di gente rinata, senza alcuna convenienza per se stessi. E che lo hanno ringraziato per l’occasione data di incontrare un “servitore dello Stato” (stavolta l’espressione mi pare congrua), che, severo sulle regole della detenzione e sul rispetto scrupoloso delle norme, però sa che la pena è per la persona e non la persona per la pena, fosse pure il più malvagio degli assassini. In Italia poco interesse per il voto. È la crisi economica a fare paura di Alessandra Ghisleri La Stampa, 16 settembre 2020 Nei numeri del sondaggio di Euromedia Research cambiano le preoccupazioni più diffuse nel Paese: al primo posto c’è il lavoro. Affermare che l’Italia è un Paese in emergenza non è una rilettura dell’attualità. Anche prima della pandemia Covid-19, non è passato un giorno senza un racconto su una nuova situazione critica: affrontare la pandemia significa dunque affrontare anche tutte le carenze mai risolte nella nostra storia, che finiscono per amplificare a dismisura le urgenze. Lavoro e disoccupazione, sanità, istruzione sono tornati nel ranking delle priorità degli italiani a discapito di sicurezza e immigrazione, malgrado gli sbarchi delle ultime settimane. Questo continuo ritorno dei medesimi argomenti stimola il ragionevole dubbio che la politica non affronterà con serietà i problemi. Anzi, resterà fedele a una comunicazione che aiuta, insieme alle iperboli del linguaggio, a rimandare e rinviare le scelte complicate. Abbiamo compreso che di volta in volta, e di anno in anno, il vero spartiacque sulle promesse della politica e le attese del popolo sono le elezioni. Nazionali o locali, sono un ottimo stimolo per riscuotere garanzie pregresse o per rimettere “in bolla” antichi equilibri disarmonici. Tuttavia manca sempre il saper osare e scommettere sul futuro, il coraggio di reagire per uscire dall’ordinario. Così in attesa di comprendere l’esito del voto alle regionali e al referendum sul taglio dei parlamentari di domenica e lunedì prossimi, gli italiani si trascinano svogliatamente persuasi che il significato del voto si stia inaridendo. La pandemia ci ha posto di fronte a una seria minaccia, che ha fatto emergere i punti di forza e di criticità del nostro sistema sanitario. Il lockdown ha messo lo stop a tutte le attività produttive e commerciali, facendo implodere le certezze su cui ognuno di noi aveva pianificato il proprio futuro. La sospensione delle lezioni con lo smart working ha stravolto, nel bene e nel male, la quotidianità delle famiglie. E allora, in una situazione così trasfigurata, gli elettori si chiedono: perché la politica non si arma di coraggio e non pensa più solo a sopravvivere a sé stessa, ma a reagire? Gli italiani hanno ben compreso che il quadro economico e sociale del nostro Paese è oggettivamente complicato e allo stesso tempo nebuloso, tuttavia le loro speranze vanno in un’unica direzione: il ritorno a una - per quanto anomala - stabilità. Il 65 per cento, pur riconoscendone lo sforzo e l’impegno, ritiene insufficienti le misure del Governo, dando la colpa alle politiche economiche nazionali. I dati ci dicono che, nonostante la crisi, molti sono i Paesi in Europa che hanno pianificato una fase di crescita, mentre l’Italia rimane ancorata agli ingarbugli burocratici che rallentano le nostre imprese e, senza un’efficace riforma della giustizia civile, ne bloccano anche gli investimenti dall’estero. In tutto ciò un lavoratore su due si dice fortemente preoccupato per la sua situazione lavorativa. Covid-19 è arrivato in una condizione sociale già caratterizzata da forti diseguaglianze, che nella percezione comune erano già sentite dalla crisi del 2008. Oggi il timore di una società non meritocratica che possa generare nuove barriere sociali, unitamente alle criticità nel conciliare i nuovi tempi di vita dettate dalla diffusione del virus, si unisce al timore che al termine del “Cura Italia”, previsto per la fine di dicembre 2020, ci sia uno shock strutturale e organizzativo aziendale che produrrà nuova disoccupazione. Così il tema delle diseguaglianze rimane in primo piano perché il rischio di generare una società con delle divisioni tra lavoratori pubblici garantiti e lavoratori privati con scarse assicurazioni per il futuro è molto forte. Mentre i risparmi aumentano e i consumi diminuiscono, l’Italia rimane fanalino di coda anche nelle nascite. Da sempre ciò che muove l’uomo nelle sue scelte sono gli obiettivi che portano a un miglioramento e a una completezza della propria vita. Ma se fare un figlio diventa principalmente un vincolo di investimento economico e non più un’immensa risorsa di gioia… Siamo una società molto povera e con un futuro incerto. La tragedia di Willy e la pedagogia malata che coinvolge tutto il paese di Mirella Serri La Stampa, 16 settembre 2020 “Verrà il momento della giustizia che ha già cominciato il suo corso. Ma verrà anche il momento della riflessione su quello che succede nella nostra città, nel nostro territorio… Abbiamo gli anticorpi per reagire, per pensare un altro modello di società? Pensiamo di sì e lavoriamo e lavoreremo per questo. Dipende da ognuno di noi e dal nostro impegno”: così scrive l’Anpi di Colleferro. Hanno perfettamente ragione gli iscritti all’associazione dei partigiani del luogo dove ha perso la vita il generoso e coraggioso Willy Monteiro Duarte. Bisogna sviluppare gli anticorpi politici e culturali. Ma forse è necessario iniettarli in una direzione precisa: bisogna cioè lavorare contro il revival storico della violenza fascista intesa come sistema educativo, l’ultimo escamotage dei gruppi criminali per conquistare i più giovani con la dimostrazione di autorità e di potere. Da qualche anno nella vasta zona alle spalle dei Castelli Romani, Artena, Colleferro, Lariano, fino a Giulianello e Cori, in provincia di Latina è in atto una vera e propria pedagogia della violenza. A giugno è stato eseguito dai carabinieri l’arresto dei componenti di un gruppo criminale attivo a Cisterna di Latina. Ne faceva parte il padre di Desirée Mariottini, Gianluca Zuncheddu. Una storia tragica quella di Desirée, la 16enne trovata senza vita per un mix di farmaci e droga, dopo esser stata ripetutamente stuprata in uno squallido ritrovo per drogati del quartiere San Lorenzo di Roma il 19 novembre 2018. Zuncheddu, fino a poco prima delle manette, sulla sua pagina Facebook continuava a dirsi tremendamente addolorato e a evocare il sacrificio della figlia che dichiarava di amare moltissimo. Questa gang, come emerso dalle indagini dei carabinieri, era dedita non solo allo smercio di sostanze stupefacenti, soprattutto di cocaina, ma aveva come specializzazione il recupero crediti a carattere estorsivo. Guarda caso è proprio la stessa attività a cui si sono applicati con la loro eccellenza nelle arti marziali, i fratelli Bianchi. Questi gruppi mettono in atto il loro sporco “lavoro” alzando il tiro della violenza in maniera esemplare, con un’ostentazione di forza e di virilismo fascista e machista: quando sono stati convocati sulla piazza di Colleferro per pestare Willy, i Bianchi sono arrivati in pochi minuti ma stavano “scopando” al cimitero con delle ragazze; Zuncheddu quando era stato informato che Desirèe si drogava, ha cercato di educarla insieme alla mamma con le maniere forti tanto da ricevere un’ingiunzione di polizia che gli vietava di avvicinarsi alla casa. Con l’esibizione muscolare, con la brutale sopraffazione gli esponenti più in vista di questi gruppi hanno acquisito fama, notorietà e rispetto soprattutto presso i ragazzi. Per comandare sul territorio il violento deve essere sempre un passo più avanti del proprio antagonista. Così è capitato con Willy che andava vessato per essersi permesso di infilarsi in una storia che non gli apparteneva. La punizione doveva essere esemplare e lo è stata fino alla morte. Questo modello culturale della violenza come esempio “didattico” non nasce con “Gomorra” di Roberto Saviano. Non è infatti nuovo nella Penisola ma affonda le radici nella nostra storia e venne impiegato in maniera sistematica dal fascismo sin dagli esordi. Così, per esempio, quando Giuseppe Bottai guidò la colonna dei fascisti marsicani a Roma, il 28 ottobre 1922, fu messo in guardia: era meglio non passare per il quartiere comunista di San Lorenzo. Di fronte agli spari provenienti da alcuni stabili di quel covo rosso il futuro gerarca rispose a schioppettate. Questo scontro fu voluto da Bottai come un monito pedagogico: doveva valere sia per i suoi giovani accoliti sia per l’Italia intera. Vennero uccisi 13 comunisti, alcuni dei quali, esemplarmente, furono buttati giù dalle finestre. In territori e cittadine come Latina e il loro vasto hinterland questo insegnamento ha attecchito anche perché per decenni vi hanno avuto ampio spazio Casa Pound e Forza Nuova. Solo nel 2017 il parco comunale della cittadina laziale dedicato ad Arnaldo Mussolini, detto dagli abitanti semplicemente parco Mussolini, ha cambiato nome per diventare Parco Falcone e Borsellino. L’Anpi ha colto nel segno quando sollecita modelli culturali alternativi e l’immissione di anticorpi in questa pedagogia malata che viene da lontano e che coinvolge tutta la Penisola. Alessandro Zan: “La mia legge anti-omofobia mette un confine tra odio e opinioni” di Simona Musco Il Dubbio, 16 settembre 2020 “C’è un confine fra ciò che è opinione e ciò che è istigazione all’odio. Fatti come quello di Caivano ci dicono che siamo di fronte ad un’emergenza e chi oggi chiede pene severe deve dimostrare di non essere ipocrita”. Alessandro Zan, il deputato dem autore della legge contro le discriminazioni legate all’orientamento sessuale, non ci sta. E alle opposizioni di destra rivolge l’accusa di istigare all’odio, di confonderlo, volutamente, con un principio costituzionale che non può essere esercitato sacrificando la dignità delle persone. Il suo obiettivo polemico è soprattutto Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che ha chiesto una punizione esemplare per la morte di Maria Paola Gaglione, che affonda le radici proprio nell’omotransfobia. “Se Meloni vuole davvero pene severe - spiega Zan al Dubbio - allora ritiri le pregiudiziali di costituzionalità sulla mia legge. In fondo prevede proprio quello che ora sta chiedendo allo Stato”. Il caso di Caivano è la conferma che una legge contro l’omotransfobia è necessaria? Una ragazza è morta perché la famiglia non accettava il suo amore per un ragazzo transgender, definendola addirittura “infetta”, come se l’essere trans, gay o lesbica fosse una malattia. Purtroppo c’è ancora un forte pregiudizio e tanta ignoranza nella nostra società e dunque bisogna agire con una legge che condanni tutte le forme di violenza e di discriminazione da un lato, e dall’altro creare le condizioni per proteggere le vittime, con centri antidiscriminazione e case rifugio come, appunto, la mia legge prevede. Il problema è però soprattutto culturale: gli stessi organi d’informazione hanno in alcuni casi usato un linguaggio che ha alimentato ulteriori discriminazioni. Introdurre pene più severe come risolve questo aspetto? È vero, una legge da sola non risolve i problemi ma ha un impatto culturale notevole per il Paese, anche a partire dal vocabolario, che manca: si parla ancora di scelta sessuale, come se essere gay o trans fosse una scelta e non una condizione dalla nascita. Nessuno sceglie di essere etero o omosessuale. Usare le parole appropriate è il primo passo per dare valore alla dignità delle persone. E poi una legge approvata dal Parlamento è un chiaro segnale che le Istituzioni danno al Paese, evidenziando che è odioso discriminare o usare violenza verso una persona per ciò che è, per il colore della pelle, per il suo orientamento sessuale, la nazionalità. La legge Mancino, che già esiste per le fattispecie di religione, nazionalità ed etnia, viene semplicemente allargata all’omotransfobia e alla misoginia. Le opposizioni di destra contestano il tentativo di imporre il pensiero unico e di censurare la libertà d’espressione. Come interpreta questo dissenso? Vogliono continuare ad esprimere concetti legati ad omofobia e razzismo. La legge Mancino è già collaudata e dunque se ci fosse stato un problema relativo alla libertà d’espressione ci sarebbe stato anche prima. Non vedo quali problemi porterebbe allargare le maglie di una legge ad altre forme di discriminazione, visto che la giurisprudenza ha già chiarito che la libertà d’espressione non è un valore assoluto, ma deve trovare un bilanciamento costituzionale nella dignità della persona. C’è dunque un confine fra ciò che è opinione e ciò che è istigazione all’odio. Loro vogliono continuare ad istigare all’odio, scambiandolo per libertà d’opinione. Ma non sono la stessa cosa. Quindi c’è la volontà politica di propagandare l’odio? Ne hanno fatto una bandiera ideologica. Nascondendosi dietro una finta difesa dei principi costituzionali, vogliono continuare ad avere campo libero nel diffondere messaggi, concetti, significati che sono legati all’odio nei confronti di minoranze. Giorgia Meloni ha detto che l’omicidio di Caivano è vergognoso e che lo Stato non deve permettere questo, ma dall’altra parte c’è un consigliere di Fratelli d’Italia a Potenza che dichiara che l’omosessualità è contro natura, il suo partito sottoscrive mozioni in tutta Italia per fermare la legge e ha presentato le pregiudiziali di costituzionalità ed emendamenti ostruzionistici alla norma. Allora dico che ci vuole coerenza politica: non si può prima condannare una cosa dicendo che non può esserci un atteggiamento violento contro chi è lesbica o trans e dall’altro ostacolare in tutti i modi la legge che queste violenze e queste discriminazioni le combatte. Meloni chiede pene severe e certe: bene, serve la legge con le aggravanti previste dal codice penale. Si è risposta da sola. Cosa genera casi come quello di Caivano? Queste tragedie sono mosse dall’odio nei confronti di ciò che le persone sono, non nei confronti di ciò che fanno. È questa la cosa per cui in tutte le sedi dell’Ue viene sempre rimarcato che le persone Lgbt e le donne sono le più discriminate. Ecco perché nasce la necessità di estendere la legge Mancino, anche con interventi di tipo positivo. Questa situazione dimostra la sfacciataggine politica di Meloni, ma io rimango positivo, spero sempre in un suo ravvedimento e che sia conseguente a quelle sue affermazioni, ritirando le pregiudiziali. Oggi la leader di Fratelli d’Italia ha contestato l’accordo bilaterale tra Italia e Qatar, evidenziando che lì l’omosessualità è considerata un reato e contestando, dunque, una certa ipocrisia alla maggioranza... Siamo alla follia. L’emergenza in Italia, dunque, esiste? Sì. I fatti di cronaca che sono sotto gli occhi di tutti dimostrano che c’è bisogno di un’azione forte da parte delle Istituzioni, dal punto di vista del contrasto alla violenza ma anche da un punto di vista culturale, con l’azione nelle scuole e l’educazione al rispetto per l’altra persona, a prescindere da chi sia. La legge è stata calendarizzata ad ottobre. È un modo per non affrontare una questione considerata divisiva in periodo di campagna elettorale? Sicuramente non è una legge facile, ma non la definirei divisiva. I fatti di cronaca e la diffusione dell’omofobia rappresentano la necessità di andare fino in fondo. Avevamo il decreto Semplificazioni, ora c’è la pausa per il voto, poi la legge elettorale. È solo una questione di scadenze. È chiaro che se non venisse affrontata ad ottobre allora non ci sarebbero più alibi. Ma non ho alcun motivo per pensare che la maggioranza non onori questo impegno. Lesbo, i migranti tolti dalla strada ma poi sistemati in luoghi che somigliano ad un carcere La Repubblica, 16 settembre 2020 Viene impedito loro di portare con sé telefoni cellulari, rasoi e lacci per le scarpe e collane, appunto, come in una galera. Sono in corso le operazioni di trasferimento di migliaia di persone rimaste in strada dopo l’incendio che ha distrutto gran parte del campo di Moria. “Non è una risposta all’emergenza - si legge in una nota diffusa da Intersos - ma la creazione di un nuovo campo di detenzione, allestito nei giorni immediatamente successivi all’incendio: al momento è in grado di accogliere 5.000 persone, ma entro la prossima settimana la capienza dovrebbe aumentare a 7.000. Per quanto urgente sia intervenire per togliere le persone dalla strada, non è possibile accettare una soluzione che non assicura una risposta adeguata ai bisogni di base di queste persone”. Ai migranti confiscati telefoni, rasoi, lacci per le scarpe. Nel campo non vengono forniti materassi, le tende non state posizionate a una distanza di sicurezza sufficiente e, al momento dell’ingresso, alle persone vengono confiscati telefoni, rasoi, lacci per le scarpe e collane, esattamente come in un carcere. “Più di tutto però - si legge ancora nel comunicato di INTERSOS - non è possibile accettare che l’Unione Europea reiteri le stesse politiche di contenimento che hanno ampiamente dimostrato la loro inadeguatezza sulla pelle di migliaia di persone. Politiche fondate sugli hot spot, sulla militarizzazione dei confini, sulla esternalizzazione del controllo dei flussi migratori. Non si può continuare a intrappolare esseri umani in condizioni disumane, senza diritti e senza certezze sul proprio futuro, condannandoli ad aspettare una risposta che spesso impiega anni ad arrivare”, concluse la nota. Gli interventi di Intersos. È dunque evidente l’urgenza di smantellare queste vere e proprie carceri a cielo aperto e avviare un processo di ridistribuzione dei richiedenti asilo nei singoli Stati membri dell’Unione Europea, ma con intenti di protezione e integrazione. L’intero “sistema umanitario” è unanime nel ritenere che con queste politiche di confinamento significa voltare ancora una volta sguardo, fino al prossimo incidente. Un team di Intersos è a Lesbo per rispondere all’emergenza, secondo modalità indipendenti e rispettose dei principi umanitari. Gli operatori sono impegnati ad accertare i bisogni e fornire l’assistenza necessaria alle persone più vulnerabili. I bisogni più urgenti sono la distribuzione di generi di prima necessità, in particolare per donne e bambini, l’accesso all’acqua e ai servizi igienici, l’accesso ai servizi sanitari. La voglia dei francesi di tornare alla pena di morte di Leonardo Martinelli La Stampa, 16 settembre 2020 Un sondaggio rivela: il 55% della popolazione favorevole alla reintroduzione. E almeno 4 francesi su 5 vorrebbero “un vero capo” alla guida del loro Paese. “Bisogna reintrodurre la pena di morte”: è quanto ritiene il 55% dei francesi, una quota record per il sondaggio condotto ogni anno in Francia dall’istituto Ipsos per il quotidiano Le Monde. Si tratta ormai della maggioranza della popolazione e di undici punti percentuali in più rispetto al 2019. Proprio la Francia è stato l’ultimo Paese europeo occidentale ad abolire la pena di morte nel 1981, dopo che François Mitterrand era diventato presidente, sotto l’impulso del ministro della Giustizia Robert Badinter, ancora oggi uomo simbolo di quella battaglia, che condusse per anni. Se si guarda ai risultati dell’inchiesta, la quota dei favorevoli cambia sensibilmente secondo l’orientamento politico. Tra i simpatizzanti dell’Rn (Rassemblement National, il partito di Marine Le Pen) è l’85% ad approvare la pena di morte e il 71% fra quelli dei Repubblicani, la formazione della destra neogollista (qui il balzo in avanti rispetto all’anno scorso è stato di 23 punti percentuali). Negli altri partiti globalmente “solo” il 39% è favorevole, ma forte è la progressione tra chi ha il Pcf (Partito comunista) e Lfi (La France Insoumise, la, gauche radicale) come formazioni di riferimento (complessivamente 31 punti percentuali in più sul 2019). Quanto alle categorie professionali, quelle dove la percentuale dei favorevoli al ritorno alla pena di morte è più alta sono gli operai (68%), gli impiegati (60%) e i pensionati (55%). Non solo: almeno quattro francesi su 5 vorrebbero “un vero capo” alla guida del loro Paese. Sì, l’82% ritiene che “la Francia ha bisogno di un vero capo per rimettere ordine”. Si tratta di tre punti percentuali in più rispetto all’anno scorso. Tale affermazione è convalidata dal 97% sia dei simpatizzanti dell’Rn che dei Repubblicani. Ma anche dall’80% di quelli del Pcf e di Lfi considerati assieme (33 punti percentuali sopra il livello del 2019). Infine, è l’88% dei francesi a considerare che “l’autorità è un valore troppo spesso oggi criticato”. Pure in questo caso si tratta di un record. Per quanto riguarda la pena di morte, la quota più alta precedentemente registrata era stata del 52% dei francesi, nel 2015, dopo gli attentati di Charlie Hebdo e dell’Hyper Cacher. L’ultimo giustiziato (con la ghigliottina) in Francia risale al 1977: fu Hamida Djandoubi, un tunisino residente nel Sud della Francia, che aveva selvaggiamente torturato una donna, prima di ucciderla. Quattro anni dopo Parigi avrebbe finalmente abolito la pena di morte. Lo aveva già fatto la Spagna nel 1978 e, prima ancora, la Germania nel 1949 e l’Italia nel 1948. Ufficialmente il Regno Unito l’abolì solo nel 1998, ma l’ultima esecuzione era stata effettuata nel 1964. Moldova. Il Ctp denuncia fenomeni ricorrenti di violenza e intimidazione tra i detenuti coe.int, 16 settembre 2020 La Repubblica di Moldova deve agire con determinazione per porre fine alle violenze e agli atti d’intimidazione tra i detenuti, un fenomeno legato in gran parte al sistema di gerarchie informali nelle carceri del paese, ha dichiarato il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) in un nuovo rapporto (vedere il riepilogo). Nel rapporto, basato su una visita effettuata nel paese dal 28 gennaio al 7 febbraio 2020, il Cpt riconosce che sono stati compiuti progressi concreti in alcuni ambiti, ma esprime rammarico per il fatto che diverse raccomandazioni formulate da tempo, in particolare quelle sulle violenze tra detenuti, sul regime applicato sia alle persone in custodia preventiva sia a quelle condannate e sulla scarsità di personale nelle carceri, non siano state prese in considerazione. Il problema delle violenze e degli atti di intimidazione tra detenuti, legato alle gerarchie informali, è risultato grave come quanto descritto nei precedenti rapporti del Cpt. Il Cpt nota che i detenuti sono stati regolarmente trovati con ferite che indicavano violenze tra di loro; tuttavia, le vittime non segnalavano queste aggressioni, a causa del clima di paura e di intimidazione instaurato dai detenuti nei ranghi più alti della gerarchia informale del carcere e dalla mancanza di fiducia nella capacità del personale di garantire la sicurezza della popolazione carceraria. Il Cpt ritiene che la continua incapacità delle autorità di affrontare questo problema sia dovuta in particolar modo a una carenza cronica di personale di sorveglianza e al fatto che si faccia affidamento sui capi della gerarchia informale delle carceri per mantenere sotto controllo la popolazione carceraria. Altri fattori rilevanti sono l’esistenza di dormitori di grande capacità e il fatto che i detenuti non vengono sottoposti a una valutazione individuale dei rischi, il che impedisce la sistemazione negli istituti, nei settori o nelle celle più appropriate. Il Cpt ha espresso preoccupazione anche per l’insufficienza di personale sanitario nelle carceri e per la durata delle misure disciplinari di isolamento, che può andare fino a venti giorni per alcune categorie di detenuti e tre giorni per i minori condannati. Il Cpt raccomanda di ridurre il periodo massimo di confinamento a meno di 14 giorni e di abolire questa pratica per i minori. Quanto al trattamento dei detenuti da parte della polizia, la delegazione del Cpt non ha praticamente raccolto accuse di maltrattamento, ma il Comitato rileva che un numero elevato di reclami per maltrattamento da parte della polizia è stato depositato presso l’Ufficio del Procuratore generale. In relazione alle garanzie nel periodo che segue l’arresto, il Cpt chiede alle autorità moldave di modificare la legislazione in modo che i detenuti abbiano effettivamente accesso a un avvocato fin dall’inizio della privazione della libertà, tenuto conto in particolare delle accuse raccolte dalla delegazione secondo le quali questo diritto talvolta sarebbe riconosciuto nella pratica solo dopo un primo interrogatorio di polizia. Niger. Tre difensori dei diritti umani in carcere da sei mesi di Riccardo Noury focusonafrica.info, 16 settembre 2020 Oggi, 15 settembre, inizia il settimo mese di ingiusta detenzione per tre difensori dei diritti umani nigerini arrestati solo per aver preso parte a proteste pacifiche contro l’uso improprio di fondi pubblici da parte del ministro della Difesa. Moudi Moussa, Halidou Mounkaila e Maikoul Zodi sono stati arrestati il 15 marzo, due giorni dopo che il governo aveva disposto il divieto di manifestare con la scusa della pandemia da Covid-19. Moussa è un giornalista, Mounkaila è il segretario generale del sindacato degli insegnanti e Zodi è il coordinatore per il Niger del movimento globale Tournons La Page. I tre difensori dei diritti umani sono accusati di “organizzazione di un raduno non autorizzato”, incendio doloso, danni a proprietà pubbliche e omicidio colposo. Restano in carcere nonostante il 6 agosto un giudice avesse disposto il loro rilascio dietro il pagamento di una cauzione di cinque milioni di franchi, decisione contro la quale la pubblica accusa ha fatto ricorso, vedendosi dare ragione.