La pena si sconta in cammino di Paola D’Amico Corriere della Sera, 15 settembre 2020 Dalle Alpi all’Appennino fino al mare: al via la “Carovana” del progetto di Fondazione Exodus di don Mazzi. Gli adolescenti sperimentano le regole di convivenza, fanno musica e teatro, imparano ad andare in barca a vela. Sono adolescenti, tutti minorenni tra i 14 i 17 anni che devono scontare una pena. Ma lo faranno in cammino. Il loro sarà un lungo (e faticoso) viaggio. Dalle Alpi all’Appennino e poi al mare. Accompagnati dagli educatori, sono già partiti in carovana dalla Val Masino (So), hanno fatto tappa nella sede centrale di Exodus nel Parco Lambro di Milano per firmare le regole che si sono dati per questa “nuova vita insieme” con don Antonio Mazzi, ideatore del progetto “Pronti, Via!”. E si sono rimessi in viaggio. Ora, attraverseranno l’Appennino per scendere verso l’Umbria. E poi, sempre camminando, raggiungeranno l’isola d’Elba. La carovana tornerà a Milano solo alla vigilia di Natale. Quando i ragazzi, dice don Mazzi, “avranno i piedi gonfi ma la testa a posto”. Il loro viaggio sarà un’avventura, fatta di incontri, esperienze, scuola. Faranno musica, teatro, sport, volontariato, attività in mare. Impareranno anche ad andare in barca a vela. Passo dopo passo, comprenderanno che “stare in gruppo non è il punto di partenza ma di arrivo - come spiega Franco Taverna, responsabile nazionale del progetto - e vuol dire prendersi cura dell’altro”. Said, un giovane della “Carovana, Pronti Via!” - la prima di sette che partiranno nel quadriennio di sperimentazione del progetto promosso da Fondazione Exodus e selezionato dall’impresa sociale Con i Bambini, per dare risposte agli adolescenti e combattere la povertà educativa e il disagio di tanti ragazzi - confida: “Sai qual è il bello di questa esperienza? Gli imprevisti, tutto quello che può accadere in una giornata. Vivendo tutti i giorni con gli altri ragazzi vedo in loro cose che non vedrei uscendoci solo per qualche ora. Il cammino, insomma, è un po’ mettersi in gioco”. Gli fa eco Ludovica, educatrice: “Vivere insieme è bello ma faticoso, però siamo già una famiglia e stiamo imparando a volerci bene”. L’esodo Non c’è nulla di nuovo nell’iniziativa, sottolinea don Mazzi: “Ci chiamiamo Esodo, è il cammino che si salva. Siamo nati nel Parco Lambro raccogliendo i ragazzi che negli anni Ottanta si drogavano e abbiamo continuato a camminare”. Identica la modalità, la Carovana, nuovi gli obiettivi. “Superare la logica del carcere, aboliamo il carcere minorile, troviamo soluzioni diverse, gli errori si possono riparare”. Ma non con misure repressive bensì “attraverso l’avventura educativa di un viaggio”. E, secondo obiettivo, “buttiamo giù le scuole”. Perché questi adolescenti “dentro hanno il terremoto, dobbiamo creare una relazione non insegnare qualcosa”. Taverna aggiunge: “I protagonisti delle carovane rientrano in una fascia di popolazione fortemente a rischio, non sono delinquenti. Al ritorno, a gennaio, torneranno a scuola e per ciascuno di loro sarà consegnata una relazione al giudice e questa esperienza sarà considerata come una messa alla prova”. In quattro anni, il progetto coinvolgerà un centinaio di minorenni dalla Lombardia alla Sicilia. “Agli educatori ho detto “Non spaventatevi se i ragazzi scappano via” - dice ancora don Mazzi - perché questo progetto mette alla prova la loro tenuta. Più che le parole serve guardare negli occhi questi giovani che la parola l’hanno persa, perché vengono da esperienze dove la bugia e l’inganno erano all’ordine del giorno, parlavano per nascondersi, per farsi vedere in modo diverso, per salvarsi”. Spesso, il loro contesto familiare è devastato. “Eppure - conclude - sono i genitori a volere il carcere Noi la pensiamo diversamente”. Candidati non graditi. E il Dap riapre il bando di Felice Manti Il Giornale, 15 settembre 2020 Serve il Direttore generale dei detenuti e del trattamento, ma i nomi non piacciono al Guardasigilli. “Rischio caos ricorsi”. Si può allungare il bando di un concorso se i candidati non sono graditi? Al ministero della Giustizia la pensano così. In bocca al lupo. Perché è chiaro anche ai bambini di quinta elementare tornati tra i banchi ieri che non si può fare, a meno di non rischiare una sequela di ricorsi. È quello che probabilmente succederà al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, finito nella bufera questa estate dopo le parole del pm antimafia Antonino Di Matteo, quando rivelò pressioni affinché il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (nel tondo) non lo nominasse al vertice del Dap, nonostante lo stesso Guardasigilli grillino gliel’avesse promesso qualche giorno prima. Complice il Covid e qualche imprudente decisione dei tribunali di Sorveglianza, il Dap è finito nel mirino anche per le scarcerazioni di pericolosi boss di mafia, camorra e ‘ndrangheta, di cui l’amministrazione penitenziaria sarebbe stata impotente spettatrice sebbene in realtà l’uscita di cella dei mafiosi sarebbe stata una diretta conseguenza della circolare Dap del 21 marzo nata per scongiurare possibili contagi tra i detenuti e poi frettolosamente ritirata. I vertici del Dap sono stati decapitati, il nuovo capo Bernardo Petralia e il vice, Roberto Tartaglia, sono stati nominati dallo stesso Guardasigilli i primi di maggio. Ma nel Dap adesso serve anche un nuovo Direttore generale dei detenuti e del trattamento. Lo scorso luglio il ministero aveva pubblicato un bando al quale, secondo quanto risulta al Giornale, avrebbero partecipato poco più di una mezza dozzina di candidati. Un numero importante, visto anche che la poltrona richiedeva curricula, titoli ed esperienze di tutto rispetto. E invece proprio ieri, a sorpresa, i termini del bando sono stati riaperti per due settimane, fino al 28 settembre. Il motivo fa un po’ sorridere: “Tenuto conto che il precedente interpello è stato pubblicato a ridosso del periodo feriale e tale situazione, unitamente allo stato emergenziale determinato dalla pandemia, può aver verosimilmente contribuito alla presenza di un numero ridotto di candidati, si ritiene necessario riaprire i termini per la presentazione (...) in modo da consentire una scelta più oculata” eccetera. Al ministero della Giustizia non lo ammettono, ma è evidente che nessuno dei candidati che aveva presentato domanda era “gradito” a Bonafede, visto anche il carattere fiduciario dell’incarico. Da qui la necessità di riaprire il bando, nella speranza che si presenti qualche candidato “amico”. Ovviamente, il rischio che il concorso venga impugnato è altissimo, praticamente certo. “Se dovesse vincere qualcuno che ha fatto domanda dopo la riapertura del bando”, spiega una fonte, l’intero concorso “potrebbe essere a rischio perché in ogni caso la procedura è irrimediabilmente viziata, e un giudice amministrativo, se adito, non potrà non rilevarlo”. “Questo rischio esiste in astratto per tutti i bandi - osservano fonti del ministero - nel caso di specie, la riapertura dei termini è volta ad avere a disposizione una platea più ampia di candidature, considerata la particolare complessità e delicatezza dell’incarico e dal momento che l’interpello era stato pubblicato a luglio”. Ma tant’è. Non è la prima volta che in via Arenula Bonafede e il suo staff incorrono in scivoloni giuridici, dalla sparata a Porta a Porta del ministro (“Quando per il reato non si riesce a dimostrare il dolo e quindi diventa un reato colposo”) alla Spazza-corrotti dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Consulta e “scritta così male che rischia di alimentare la corruzione” (copyright Raffaele Cantone), dal pasticcio sulla riforma della prescrizione definita “uno strabismo legislativo” da Gherardo Colombo allo scontro con i legali del procuratore calabrese Eugenio Facciolla su cui decideranno le sezioni unite della Cassazione tra qualche giorno. Bettini detta la sua agenda antigiustizialista. E il Pd? di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 15 settembre 2020 La straordinaria apertura del leader dem. Critiche all’abolizione della prescrizione, alla durata eccessiva delle indagini preliminari e all’abuso della custodia cautelare; poi la necessità di rafforzare la terzietà del giudice. Ma tra i penalisti prevale il pessimismo. Goffredo Bettini ha consegnato al Corriere della Sera alcune idee sulla Giustizia penale in Italia inedite per l’area politica di provenienza e per molti versi sorprendenti. Le ha infatti inserite nel contesto di un ragionamento che spiegava il senso dell’alleanza politica Pd-5 Stelle, da lui sostenuta e difesa, per rimarcare la distanza culturale e programmatica “più dolorosa” (sono sue parole) tra le non poche che pure a suo dire caratterizzano una convivenza necessitata - è la tesi - dal contingente quadro politico e sociale. Bettini non è solo un autorevole esponente del Pd, e il rilievo che il principale quotidiano italiano ha voluto riservare all’intervista ne è la più plastica conferma: egli è, secondo i più, il king maker della odierna politica dem. Per quanto si sia affrettato a sottolineare la natura personale delle opinioni espresse, mi sembra difficile che esse possano passare inosservate all’interno del Partito Democratico, soprattutto se si consideri l’accurata precisione dei temi che egli ha inteso evocare. Quali sono dunque i temi sui quali Bettini ha rivendicato la più marcata distanza dal populismo giustizialista dell’alleato grillino? Durata eccessiva e non governata delle indagini preliminari; abuso della custodia cautelare, definita nei suoi eccessi “torturante”; l’abolizione della prescrizione, fiore all’occhiello del giustizialismo grillino, con la indecente conseguenza che noi penalisti abbiamo definito “dell’imputato a vita”; ed infine - davvero parole rivoluzionante sulle labbra di un leader piddino - la necessità di rafforzare e garantire la terzietà del Giudice rispetto al Pubblico Ministero, per garantire un indispensabile “riequilibrio tra accusa e difesa”. Saranno anche opinioni personali, ma è bene rimarcare che non le avevamo mai sentite, dette così e dette tutte insieme, da parte di un leader di scuola comunista ed ora piddina del calibro di Goffredo Bettini. Quei punti, elencati con una attenzione al dettaglio che non si può seriamente ignorare, costituiscono da sempre, non uno escluso, il tratto identitario di quella idea liberale della giustizia penale che definisce storicamente il terreno privilegiato dell’impegno politico delle Camere Penali italiane. Le reazioni che ho potuto registrare sono, al momento, del più sconfortato pessimismo. In tanti, pur comprendendo il senso della mia sottolineatura già nei giorni scorsi, hanno espresso la certezza che nulla accadrà in un’area politica che ha, da sempre, tradizioni molto più prossime al giustizialismo grillino che a quella visione liberale del diritto penale la quale, senza dubbio, non vi ha mai fatto ingresso sin da quando il portone era in via delle Botteghe Oscure. E d’altro canto, questo primo anno di governo giallorosa ha registrato proprio sulla Giustizia penale, nei fatti ed al netto di qualche sbiadita quanto inefficace presa di distanza, le convergenze più significative con l’agenda controriformista del Ministro Bonafede. Si tratta di osservazioni fondatissime, ma che proprio per questo conferiscono alla improvvisa sortita di Bettini una forza peculiare. Faccio fatica a credere che questo leader, da qualche mese rientrato prepotentemente sulla scena politica con un riconosciuto ruolo di protagonista, abbia sottovalutato il peso, ripeto, inedito e sorprendente di una presa di posizione così circostanziata e inequivoca, adottata per di più nel contesto di una intervista di intenzionale rilievo mediatico e politico. Staremo a vedere, dunque, e comprenderemo meglio nei prossimi snodi del dibattito politico italiano a chi Bettini abbia inteso rivolgersi all’interno del proprio partito, e con quale esito. D’altronde abbiamo da tempo registrato, in una parte certamente minoritaria ma tuttavia qualificata dei parlamentari del partito democratico, una significativa attenzione e una esplicita condivisione delle iniziative politiche dei penalisti italiani. A noi non interessano le polemiche sterili e le petizioni ideologiche pregiudiziali. Crediamo nella forza delle nostre idee, ed incoraggiamo con convinzione, nei confronti di chiunque, ogni segnale di attenzione, ed ogni possibile apertura al dialogo. Questo è d’altronde il fascino inestinguibile della bella politica, al quale, nonostante i tempi tristi che viviamo, non sappiamo e non vogliamo resistere. *Presidente Unione Camere Penali Italiane Consulta, sul nuovo vertice non c’è trippa per populisti di Errico Novi Il Dubbio, 15 settembre 2020 Domani si elegge il successore di Cartabia. Dire che la Corte costituzionale ha dato lezioni al Parlamento sarebbe una sgrammaticatura. Dialettica fra istituzioni può voler dire anche conflitti, figurarsi se possono restare traumi per pronunce come quella sul caso Cappato, con cui un anno fa la Consulta ha definitivamente dovuto sostituirsi al legislatore in materia di fine vita. Però è vero che, con una parte dell’attuale maggioranza, la Corte è ormai spesso chiamata al contrappunto, in particolare su materie che vedono i 5 Stelle su posizioni “eterodosse”. Basti pensare alla sentenza dello scorso 12 febbraio sulla parziale incostituzionalità della spazza-corrotti, o a quella che il 23 ottobre 2019 ha “sdoganato” i permessi premio per i detenuti di mafia in regime “ostativo” (tanto che alla Camera c’è ancora chi pensa di “stemperare” la pronuncia con una legge ordinaria). Insomma, di sicuro oggi si può parlare di un giudice delle leggi autonomo dal legislatore. A ben guardare è un patrimonio che gli ultimi due presidenti, Giorgio Lattanzi e Marta Cartabia, hanno amministrato con una classe incredibile. Non hanno mai fatto pesare l’autorevolezza di quel contrappunto. Altrettanto autonoma e affrancata da condizionamenti sarà la Corte nell’individuare, con la camera di consiglio convocata per domami alle 11, il successore di Cartabia, prima donna della storia al vertice dell’organo. La costituzionalista della Bicocca di Milano ha concluso la settimana scorsa il proprio mandato di giudice, e ovviamente la propria presidenza. Si sa che i nomi in ballo sarebbero tre, così disposti in ordine di anzianità di servizio: Mario Morelli, 79 anni, attuale vicepresidente, giudice costituzionale dal dicembre 2011, dunque con soli 3 mesi di mandato ancora a disposizione; Giancarlo Coraggio, 79 anni anche lui, ex presidente del Consiglio di Stato, che resterebbe in carica fino a gennaio 2022; e Giuliano Amato, due volte premier, 82 anni, che ha davanti la prospettiva più ampia, visto che presiederebbe la Corte fino a settembre 2022. È di ieri l’intervista al Messaggero con cui Cartabia ha individuato la qualità più preziosa dell’organo da lei presieduto fino a venerdì: “Il pluralismo interno”, da cui “può nascere una vera neutralità nel giudicare”. Giuliano Amato sarebbe una scelta certamente prestigiosa e altamente significativa sotto questo profilo: è il solo componente del collegio a essere stato anche legislatore. Coraggio resterebbe presidente 8 mesi in meno di Amato, che non sono pochi, ma garantirebbe una permanenza comunque utile a pianificare l’attività. Morelli interpreterebbe forse più genuinamente di tutti l’idea del pluralismo che si traduce nell’impersonalità. Lattanzi e Cartabia sono stati forti anche mediaticamente ma non si sono mai presi platealmente la scena. È chiaro che una presidenza scritta nell’inopinabile gerarchia dell’anzianità di mandato assumerebbe un carattere ancora più discreto. Resta il nodo della funzionalità interna, che sembra mettere il magistrato napoletano in una lieve posizione di vantaggio su Morelli e Amato. Oggi i due giudici di più recente nomina, Angelo Buscema ed Emanuela Navarreta, giurano al Colle, domattina arriverà il verdetto. Una cosa è certa: se scegliesse Morelli, la Corte non sarebbe sospettabile di voler estendere il più possibile la platea dei presunti privilegiati. Non esistono più la macchina, la stanza e la segretaria ad uso di chiunque sia stato al vertice della Consulta, anche per poco. Se il collegio eleggesse Morelli, sarebbe libero dalle insinuazioni dei demagoghi. Anzi: a chi resta presidente per un periodo inferiore ai 10 mesi (trascorsi nello steso anno solare) non spetta neppure il minimo riconoscimento economico sulla pensione (il 2 per cento in più). Insomma, la “tradizione” del più anziano eletto presidente è ormai affrancata dai maramaldi anticasta. Libera, come la Corte. L’allarme di Cafiero de Raho: le mafie si prendono le imprese di Antonio Maria Mira Avvenire, 15 settembre 2020 Il procuratore: l’infiltrazione della criminalità nell’economia è evidente e diffusa Preoccupa la capacità di aggregazione dei clan. Subito interventi urgenti per le aziende bisognose. “Chi afferma che è un’esagerazione l’allarme che abbiamo lanciato sui rischi che le mafie facciano affari sulla ricostruzione post-Covid, evidentemente non riesce a guardare con chiarezza qual è l’attuale situazione. L’infiltrazione delle mafie nell’economia è talmente evidente, diffusa”. È molto chiaro il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, alla Festa dei media cattolici. E lo è altrettanto quando esprime la preoccupazione che per rilanciare l’economia “si possa verificare l’abbassamento dei controlli e delle verifiche”. Rispetto all’allarme che avete lanciato cinque mesi fa, all’inizio del lockdown, sugli affari mafiosi, avete avuto delle conferme che vi preoccupano maggiormente? La preoccupazione è fondata sull’esperienza. Ci sono anche indagini che evidenziano come le mafie, in particolare la ‘ndrangheta, tentino sempre di impossessarsi delle imprese entrando col prestito e con l’usura. È un’altra conferma, seppure al momento sporadica; siamo solo agli inizi, e quindi il monitoraggio delle indagini ancora non evidenzia la gravità del fenomeno, ma è evidente il percorso da sempre praticato dalle mafie, quindi in una situazione come l’attuale ci aspettiamo sicuramente qualcosa di più significativo. Proprio per questo l’allarme che era stato lanciato era anche finalizzato a interventi urgenti di sostegno immediato alle imprese più bisognose, più esposte, per evitare che finiscano in mano ai mafiosi. Non c’è invece il rischio che, per rilanciare giustamente l’economia, si abbassi l’asticella dei controlli di legalità? Già ci sono alcuni segnali non positivi... Abbiamo espresso preoccupazione che si possa verificare l’abbassamento dei controlli e delle verifiche. Ma devo dire che c’è una moltiplicazione di monitoraggi fondati soprattutto sulle intercettazioni. Queste indagini ci consentono da un lato di essere ottimisti, nel senso che i focolai maggiormente rischiosi ci inducono a intervenire con urgenza; dall’altro abbiamo dei meccanismi (come le segnalazioni per operazioni sospette) che consentono di rilevare con immediatezza, dove ci sono indicatori del rischio, per esempio ipotesi di riciclaggio e quindi di reinvestimento sospetto. Ciò poi si accompagna all’ulteriore monitoraggio che compiono le dogane nell’ambito delle transazioni, i tavoli tecnici posti in essere proprio in questi mesi, unitamente alle riunioni di coordinamento che stiamo portando avanti con i vari uffici che hanno segnali di questo tipo. Il tutto ci fa guardare con un certo ottimismo anche ai fini di un urgente intervento. Qualcuno aveva detto che avevate esagerato con gli allarmi. Le sembra che ora siano stati recepiti o ci vuole ancora più attenzione? Non c’è stata nessuna esagerazione da parte nostra, assolutamente. L’infiltrazione delle mafie nell’economia è talmente evidente, chiara, diffusa, che ogni indagine di cui si ha notizia con arresti in Lombardia, Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia Romagna o Lazio dimostra quanto vasto sia il reimpiego nell’ambito delle attività economiche del denaro ricavato dal traffico di stupefacenti e da altri reati. E quanto forte sia il circuito aggregante che ‘ndrangheta, Cosa nostra e camorra riescono a instaurare: che è la cosa ancora peggiore. Offrendo anche servizi illegali, oltre alla possibilità di intervenire nel circuito economico legale, la criminalità organizzata aggrega a sé un numero sempre più rilevante di imprese interessate a questi servizi. In che modo? In primo luogo con le false fatturazioni, che giovano a tutte le imprese: anche le attività imprenditoriali sane se ne avvantaggiano. Ma nel momento stesso in cui usano questi servizi, entrano in un circuito di illegalità dal quale non potranno più uscire. Abbiamo esempi recenti? In una delle ultime indagini in Lombardia è stata identificata un’associazione mafiosa di una decina di componenti accusati di reati fiscali e false fatturazioni aggravati dall’articolo 7 (l’aggravante mafiosa, ndr) con centinaia di contestazioni; quindi centinaia di imprese vi hanno partecipato. E questo è il segnale più chiaro di quanto le mafie si infiltrino nell’economia, e quale sia la conseguenza per il sistema economico e per lo Stato che subisce un danno enorme. Aiga: “Ora riforma dell’esame di abilitazione alla professione forense” di Davide Varì Il Dubbio, 15 settembre 2020 La proposta dei giovani avvocati dell’Aiga prevede una sola prova scritta, l’atto giudiziario, ed una prova orale, oltre che una doppia sessione annuale (a giugno e a dicembre). “I recenti esiti dell’esame scritto per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato hanno fatto emergere tutte le contraddittorietà di un sistema che, come più volte denunciato, somiglia di più ad un concorso pubblico - che si svolge, ormai, con modalità del tutto anacronistiche ed estranee all’effettivo svolgimento della professione - piuttosto che ad una prova abilitativa da eseguire all’esito di un percorso professionalizzante di pratica”. È quanto si legge in una nota dell’Aiga, ricordando di aver consegnato a deputato Carmelo Miceli (Pd), che provvederà, quale primo firmatario, a curarne l’iter per il deposito presso la Camera, una proposta di legge avente ad oggetto la riforma dell’esame di abilitazione alla professione forense. La proposta Aiga prevede una sola prova scritta, l’atto giudiziario, ed una prova orale, oltre che una doppia sessione annuale (a giugno e a dicembre). Nella riforma prevista dall’Aiga prevede anche la facoltà, rimessa al ministro della Giustizia, di svolgere la prova scritta con l’ausilio di strumenti informatici. “L’esame di abilitazione alla professione forense - afferma Antonio De Angelis, presidente nazionale di Aiga - deve rappresentare solo l’ultimo tassello del processo di verifica della idoneità di un giovane ad esercitare la professione di avvocato e non, invece, una lotteria in cui anche i più bravi sono costretti ad affidarsi alla sorte sperando di rientrare in una data percentuale di promossi. Occorre assolutamente favorire l’accesso alla professione forense alle giovani generazioni, attraverso criteri di valorizzazione del merito”. “Si tratta - commenta Mariella Sottile della giunta nazionale Aiga - del primo importante passaggio normativo attraverso cui puntiamo a modificare profondamente il sistema dell’accesso alla professione desideriamo sollecitare una riforma strutturata della legge professionale che valorizzi pienamente il merito e le capacità dei nostri giovani praticanti ma, soprattutto, di coloro che svolgono un percorso universitario e di tirocinio forense con profitto, impegno e passione e con l’obiettivo, primario, di diventare avvocati”. Quei politici che cercano il consenso “budellare” di Iuri Maria Prado Il Riformista, 15 settembre 2020 Che cosa vuol dire l’affermazione: tizio “deve essere punito con rigore”? Significa assumere la veste del procuratore del popolo, significa istigare all’adunata e rinnegare lo Stato di diritto. Sbaglia gravemente il politico che sulla notizia di un fatto di sangue, e quando ancora nessun processo ha fatto nessun accertamento, dichiara che il responsabile “deve essere punito con rigore”. Che cosa vuol dire, infatti, “deve”? Forse non c’è una legge posta a punire quei delitti? Forse non c’è un giudice con il compito di applicarla? E allora che cosa significa reclamare che l’esercizio di quel “rigore” è doveroso? Ecco che cosa significa: significa assumere la veste del procuratore del popolo; significa istigare all’adunata intorno ai palazzi di giustizia, con la turba che grida i suoi desideri punitivi intimando al giudice di realizzarli perché altrimenti non è giustizia, altrimenti le vittime non sono protette, altrimenti è la prova che la gente perbene soffre soltanto mentre i criminali la fanno franca. Chiaramente non si tratta solo dei politici, e a quel coro querelante partecipano tanti altri, a cominciare dal giornalismo che non si vergogna di fondare il proprio giudizio colpevolista sul profilo losco dell’indagato. Ma specialmente un politico dovrebbe violentare le proprie propensioni aberranti e rimanere fedele al precetto, meno comodo ma più civile, dello Stato di diritto: questa cosa che non sempre porta consenso e anzi spesso lo pregiudica, ma è l’unica cosa su cui è possibile costruire un consenso diverso rispetto a quello selvaggio e budellare che alle debolezze della giustizia oppone la certezza della forca improvvisata sulla piazza. Perché questo è l’effetto, se non l’intenzione, di quelle ingiunzioni: che il tribunale metta in sentenza quel che reclama la piazza, opportunamente rappresentata dal politico che ne formalizza il verdetto. Ma se all’omicida infliggono un anno in meno di carcere o concedono qualche minuto d’aria in più, perché il processo così dispone, e se dunque la sentenza non si uniforma alla pretesa di “rigore” formulata nelle comminazioni del politico di turno, allora che cosa succede? Identifichiamo in quelle leggi molli e in quei giudici poco rigorosi la causa della giustizia insufficiente? È una buona premessa per l’adozione del rimedio classico: pene aggravate, che non servono a tenere bassa la criminalità ma a tenere alto il tono del comizio; e magari una magistratura di provata fede forcaiola, ben volentieri disposta a farsi terminale di quell’istanza punitiva in nome di una giustizia finalmente efficiente perché rinuncia a se stessa. E ora si accomodi chi ci accusa di volere l’impunità per chi ha ammazzato Willy. È uno sport facile e diffuso: il rigore deve esserci perché lo chiedono gli spalti, l’arbitro non serve. Val di Susa, due anni di carcere senza misure alternative per un’attivista No Tav di Maurizio Pagliassotti Il Manifesto, 15 settembre 2020 Dana Lauriola, 38 anni, punita in modo “esemplare” per aver continuato a lottare. Aveva partecipato nel 2012 ad una manifestazione presso un casello della autostrada Torino - Bardonecchia. Un “vecchio” processo inerente una manifestazione del movimento Notav presso il casello della autostrada Torino - Bardonecchia nel 2012, una delle infinite mobilitazioni di questi anni, per il Tribunale di Torino sta assumendo un valore angolare. Una decina di persone tennero sollevate le sbarre del casello autostradale per alcuni minuti mentre altri esponevano striscioni di protesta: tra queste era presente Dana Lauriola, una delle rappresentanti maggiormente in vista del movimento. Condannata ad una detenzione molto dura, due anni, ieri le è stata negata ogni forma di pena alternativa al carcere. Lauriola ha trentotto anni e nella vita coordina uno storico servizio torinese per senza dimora di cui cura il reinserimento sociale, mansione che ha visto crescere la sua già elevata rilevanza dall’inizio della crisi sanitaria che ha esposto i dormitori torinesi ad elevata pressione: eppure la portanza sociale di tale ruolo non ha impressionato i giudici, che hanno invece - così scrivono i militanti Notav in un comunicato - considerato il non allontanamento dalla val Susa, e men che meno dal movimento che da circa due decenni protesta contro la costruzione del tunnel di base della nuova tratta Torino - Lione, una ragione per negare pene alternative. Si prospetta quindi un nuovo caso di carcerazione pesante in val Susa, in un momento connotato da un sostanziale stallo dei lavori, sebbene piccoli allargamenti del cantiere e roboanti proclami non manchino. L’avvocato Claudio Novaro: “Una decisione incomprensibile, tanto più che la relazione degli assistenti sociali ministeriali al tribunale era molto positiva e raccomandava la concessione dell’affidamento in prova. Sconcerta che, come nel caso di Luca Abbà (militante Notav, condannato pesantemente per resistenza a pubblico ufficiale nel 2019, ndr) il tribunale neghi le misure richieste chiamando in causa il dato territoriale, la residenza di Dana a Bussoleno, per sostenere tra le altre cose che la vicinanza con i luoghi della protesta Notav comporta il rischio di commissione di nuovi reati”. Marco Grimaldi, consigliere regionale di Leu, ha così commentato: “Nonostante l’equiparazione Notav-associazione sovversiva sia stata respinta dalla giustizia italiana, sembra che nel tribunale di Torino qualcuno continui nella sua personale guerra contro i fantasmi”. Schierata con Dana Lauriola anche la consigliera regionale del M5S Francesca Frediani: “Una vergogna, questa non è giustizia. Dalla parte di Dana senza se e senza ma”. In un commento postato sulla sua pagina social, Dana Lauriola, sottolinea: “Uno dei motivi per cui vado in carcere, scritto nero su bianco, è che non mi sono dissociata dalla lotta No Tav, l’altro è che ho continuato a vivere in Valle di Susa. Sono tranquilla per tutte le scelte che ho fatto in questi anni, ho amato la valle e la lotta No Tav per oltre 15 anni e continuerò a farlo anche se fisicamente lontana. Intanto vi abbraccio, vi farò avere mie notizie. Vi chiedo di continuare la lotta, con tutta la forza e il coraggio che avete”. “Sparite le pagine della sentenza, che giustizia è mai questa?” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 settembre 2020 Morti in corsia, l’avvocato Cataldo Intrieri commenta la “singolare” vicenda processuale. Ora ci sarà un nuovo processo: “Non è stato un semplice errore materiale”. Venerdì sera la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio il verdetto della Corte d’Assise d’Appello di Milano che aveva inflitto 30 anni all’infermiera Laura Taroni, nota alle cronache come l’infermiera killer. La donna è stata condannata in relazione all’omicidio del marito Massimo Guerra e della madre Maria Rita Clerici tramite la somministrazione di dosi eccessive di farmaci: a iniettare i farmaci sarebbe stato il medico Leonardo Cazzaniga, con cui aveva una relazione, e che è stato condannato all’ergastolo in primo grado. Lui ora è ai domiciliari, la donna in carcere. Alla base della decisione degli ermellini ci potrebbe essere l’errore materiale che aveva viziato la sentenza di secondo grado, dal momento che mancavano 13 pagine nelle motivazioni con cui lo scorso 30 novembre la Corte di Appello aveva confermato la condanna a 30 anni inflitta alla Taroni dal Gup di Busto Arsizio con rito abbreviato nel 2018. Ne parliamo con l’avvocato Cataldo Intrieri, che assiste la donna insieme alla collega Monica Alberti. Avvocato Intrieri ci può spiegare bene cosa è successo? A gennaio di quest’anno i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano ci hanno notificato un’udienza nella quale si sarebbe dovuto riparare - a loro dire - ad un errore materiale contenuto all’interno delle motivazioni con cui avevano condannato la nostra assistita. Attraverso la procedura detta di “correzione dell’errore materiale” avrebbero voluto sanare la questione. Ci hanno riferito che quelle tredici pagine erano state scritte su un altro computer - mi chiedo dunque se dalla stessa persona - e non copiate e incollate nella sentenza. Ma non si trattava affatto di un errore materiale, come l’aver sbagliato a scrivere un nome o una data di nascita dell’imputato. Pensare di poter rimediare così è goffo ma soprattutto sconcertante. Dunque ci siamo rifiutati di aderire alla procedura perché mancava un importante pezzo di motivazione che riguardava due punti rilevanti sollevati dalla difesa’. E cioè? Il dispositivo era privo della parte riguardante la perizia psichiatrica della signora Taroni e quella relativa alle dichiarazioni di alcuni consulenti in merito alla letalità dei farmaci utilizzati da Cazzaniga. Ricordo che sul corpo del marito della Taroni non è stato possibile effettuare l’autopsia perché è stato cremato e non per volontà della moglie. Quindi siamo dinanzi ad un vero processo indiziario. Aggiungo che la nostra assistita è in carcere mentre il signor Cazzaniga, pur essendo stato condannato all’ergastolo, è ai domiciliari. Tornando a quelle 13 pagine cosa è poi accaduto? Alla fine io e la collega l’abbiamo avuta vinta e la Corte di Appello ha ammesso che non si poteva procedere in quel modo. Arriviamo dunque in Cassazione e inseriamo tra i rilievi posti all’attenzione dei supremi giudici anche questo fatto. Ora attendiamo le motivazioni della Cassazione per capire bene i motivi dell’annullamento. Se sarà davvero così, sarebbe davvero grave... È la prima volta in circa 40 anni di carriera che mi succede una cosa simile. Si mette a repentaglio l’esito di un processo con accuse pesanti. Ma la cosa ancora più grave è che i giudici di appello avevano fissato l’incidente di esecuzione quando i termini di impugnazione stavano per scadere. Cosa avremmo dovuto scrivere nei motivi di ricorso in Cassazione se non erano a nostra disposizione ben 13 pagine della sentenza di appello? La giustizia non può essere amministrata con tanta sciatteria. Le parti civili hanno rilasciato una dichiarazione al Giorno dove si dicono certi che il prossimo processo di appello confermerà le responsabilità della Taroni... L’annullamento riguarda tutti i capi della sentenza. E sicuramente la Corte di Cassazione, avendo rifiutato il ricorso per altri due imputati del processo, e avendo accolto quello della Taroni e di altri due è sicuramente entrata nel merito dei ricorsi stessi. Quindi la collega Alberti ed io confidiamo che l’annullamento riguardi anche altri parti della sentenza, che troviamo carente altresì sotto il profilo della valutazione degli indizi per le condanne più gravi. A parer mio non è stato analizzato adeguatamente il rapporto di coppia tra i due imputati: non si è cercato di capire fino in fondo se la donna fosse una succube di Cazzaniga. Contrordine: lo stop retroattivo della prescrizione stabilito dal “Cura Italia” è legittimo di Errico Novi Il Dubbio, 15 settembre 2020 Così sostiene la Cassazione. C’è una condizione in cui la prescrizione può essere modificata retroattivamente: se interviene una causa di sospensione dell’intero processo. In simili circostanze, ha sostenuto la terza sezione penale della Cassazione con sentenza depositata mercoledì scorso (la 25433 del 2020), le rimodulazioni del legislatore ricadono in realtà sotto l’ombrello dell’articolo 159 primo comma del codice penale, in cui si stabilisce che se viene sospeso l’intero procedimento, si blocca anche il termine di estinzione del reato. La pronuncia è di notevole interesse anche perché attualissima: riguarda infatti l’articolo 83 del decreto Cura Italia con cui il governo, lo scorso 17 marzo, introdusse la cosiddetta fase 1 della giustizia in tempi di Covid, ossia il rinvio di tutte le udienze fino al 15 aprile e la sospensione dei termini per qualsiasi atto relativo al procedimento, con l’esclusione di pochissime tipologie ritenute indifferibili. Al comma 4 dell’articolo 83 veniva espressamente affermato lo stop al decorso della prescrizione per tutti i processi “congelati”. Ma se pure il legislatore non si fosse preoccupato di specificarlo, la sospensione “di fatto” dell’intero procedimento avrebbe comunque determinato, per la Suprema corte, anche lo stop del termine di estinzione. Il ricorso respinto dalla Cassazione era stato proposto da un imprenditore condannato il 18 marzo 2019 dalla Corte d’appello di Venezia per omesso versamento dell’Iva. Inizialmente l’impugnazione contestava aspetti inerenti la sentenza di secondo grado. Ma lo scorso 16 luglio il difensore, Davide Druda del Foro di Padova, aveva depositato un’integrazione con cui aveva chiesto di dichiarare il suo assistito prosciolto per la prescrizione che sarebbe nel frattempo intervenuta. In subordine, l’avvocato aveva chiesto di rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità della norma con cui il Cura Italia aveva sospeso il decorso dei termini prescrizionali anche per i reati commessi prima dell’entrata in vigore del decreto. Il processo all’imprenditore è ricaduto non solo sotto la potestà del Cura Italia ma anche di quella dei successivi provvedimenti sull’emergenza Covid, che hanno consentito ai giudici la sospensione di tutti i termini dei procedimenti ritenuti non urgenti fino al 30 giugno scorso. Con la pronuncia depositata il 9 settembre, la Cassazione ha rigettato sia la richiesta di proscioglimento che l’istanza di remissione. Ma sul punto la Corte costituzionale è stata chiamata in causa già lo scorso 21 maggio da due ordinanze di remissione del Tribunale di Siena. Atti in cui il giudice ha proposto un’interpretazione assai diversa da quella appena avanzata dalla Cassazione: rinvio delle udienze e relativa sospensione dei termini sono concetti che, per il magistrato, vanno tenuti distinti da quello di “sospensione del processo”. Solo la Consulta, a questo punto, potrà dirimere la controversia. Roma. Dovrebbe essere in una Rems: ma è da un anno a Regina Coeli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2020 Un giovane tedesco è considerato incapace di intendere e di volere ma da più di un anno è di fatto detenuto nel carcere romano di Regina Colei, mentre in realtà il magistrato di sorveglianza ha disposto che deve essere ospite di una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Da più di un anno è di fatto detenuto nel carcere romano di Regina Colei, mentre in realtà il magistrato di sorveglianza ha disposto che deve essere ospite di una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Si tratta di un ragazzo tedesco di 31 anni, in Italia senza fissa dimora, tratto in arresto a maggio del 2019 e dichiarato incapace di intendere e di volere. Lo assiste l’avvocata Sonia Santopietro che sta lavorando per risolvere la situazione del ragazzo che, di fatto, si trova illegalmente in carcere. Da più di un anno è di fatto detenuto nel carcere romano di Regina Colei, mentre in realtà il magistrato di sorveglianza ha disposto che deve essere ospite di una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza Dovrebbe essere in una Rems: ma è da un anno a Regina Coeli(Rems). Si tratta di un ragazzo tedesco di 31 anni, in Italia senza fissa dimora, tratto in arresto a maggio del 2019 per aver commesso resistenza a pubblico ufficiale e lesioni giudicate guaribili in un giorno. Viene dichiarato incapace di intendere e di volere, ma in quanto ritenuto pericoloso a causa delle sue patologie psichiatriche, gli viene applicata la misura di sicurezza provvisoria presso una Rems. Ad assisterlo è l’avvocata Sonia Santopietro del foro di Roma, la quale sta lavorando su più fronti affinché si risolva la situazione del ragazzo che, di fatto, si trova illegalmente in carcere. Per capire meglio la vicenda, bisogna partire dall’inizio. Quando il giovane tedesco ha commesso quei fatti di resistenza a pubblico ufficiale, sul luogo e nell’immediatezza dell’evento, i medici del 118 richiesti dagli operanti - considerando che alternava momenti di calma a momenti di evidente agitazione - non hanno ritenuto di dover disporre alcuna misura sanitaria, così vien accompagnato in commissariato. Di nuovo è stato richiesto l’intervento del 118 che, rivisitato il ragazzo, non ha disposto alcuna misura sanitaria nei suoi confronti. In stato di arresto viene tradotto in carcere a disposizione dell’autorità giudiziaria. Il giorno successivo in udienza, convalidato l’arresto, gli viene applicata la misura cautelare della custodia cautelare in carcere e tradotto a Regina Coeli. Ad agosto 2019, all’esito del giudizio, viene dichiarato con sentenza del Tribunale di Roma incapace di intendere e di volere al momento del fatto e, in quanto ritenuto socialmente pericoloso, gli viene applicata, in via provvisoria, la misura di sicurezza della Rems per la durata di due anni. Senza soluzione di continuità, il Tribunale dispone, in attesa dell’individuazione di una Rems disponibile, la sua traduzione al carcere di Regina Coeli. “Il ragazzo - spiega a Il Dubbio l’avvocata Sonia Santopietro - è affetto da una grave psicosi per la quale il carcere non rappresenta un luogo adeguato ove possa ricevere le cure necessarie. Seguito anche dal dipartimento di salute mentale, alterna alti e bassi ed anche la sua collocazione inframuraria viene determinata dall’andamento della patologia: repartino, sorveglianza a vista, non è mancato un ricovero presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura a causa di un episodio di acuzie ed a seguito del quale viene riportato in carcere”. Nel frattempo si fa istanza per chiedere una valutazione della pericolosità sociale, ma soprattutto per la revoca della misura di sicurezza detentiva essendo inadeguata la struttura carceraria. Arriviamo a giugno 2020 e il magistrato di sorveglianza ritiene attuale la pericolosità sociale del ragazzo. Ma sempre nell’ordinanza scrive: “Risulta che è in lista di attesa per l’individuazione della Rems dallo scorso agosto, tempo francamente lungo ed assolutamente non adeguato alla gravità del disturbo che necessita di urgente trattamento psichiatrico”. Ma non solo. Ricordiamo che il ragazzo non ha nessun legame nel nostro Paese, i familiari infatti vivono in Germania. Quindi non deve essere per forza ospitato in una struttura della regione Lazio, ma anche nel nord dove i familiari lo potrebbero raggiungere più facilmente. Infatti, il magistrato di sorveglianza aggiunge: “Concordando con le indicazioni dei responsabili della Asl che hanno evidenziato l’importanza di favorire i contatti con la famiglia, il magistrato chiede agli organi competenti all’individuazione della Rems di valutare la possibilità di assegnare l’internato ad una struttura del Nord Italia ove i genitori potrebbero accedere più facilmente. Non vi è infatti necessità di osservare il principio di territorialità non avendo legami familiari e domicilio nella Regione Lazio, ed essendo occasionale la commissione del reato a Roma. La ricerca estesa ad altre Regioni potrebbe rendere più veloce l’inserimento in Rems, a garanzia del diritto alle cure e delle ragioni di tutela della collettività”. Nonostante ciò nessuna Rems ancora si dichiara disponibile ad accoglierlo. L’avvocata Santopietro, il 23 luglio scorso, ha quindi interpellato tutti i diretti interessati che devono provvedere a dare seguito all’ordinanza: Dap, Provveditorato Regionale del Lazio, Servizi sanitari della Regione Lazio e Centro salute mentale della Asl. Dopo un mese risponde solo il Dap, rappresentando “che per quanto di competenza questo Ufficio con provvedimento del 28.08.2019 ha già provveduto ad indicare la Rems di Subiaco oppure in alternativa le Rems di Palombara Sabina e Ceccano. Con provvedimento del 6.07.2020 ha provveduto a richiedere la disponibilità di posto letto a tutte le Rems attive a livello nazionale, allo stato, con esito negativo. Questo Ufficio con provvedimento del 28.08.2020 ha provveduto a sollecitare le Rems attivate dalla Regione Lazio a concedere la disponibilità di posto letto. Le predette Rems interpellate dalla Direzione della Casa Circondariale di Roma Regina Coeli, con cadenza giornaliera, continuano a comunicare la indisponibilità di posto letto” ed ancora che “Questo Dipartimento si limita a svolgere una mera attività di raccordo con le Autorità Giudiziarie, fornendo alle stesse la sola indicazione dell’insistenza sul territorio di riferimento della Rems attiva per il ricovero dell’internando in ragione della residenza dello stesso. Potranno essere richieste alle Rems attive nel Lazio, già indicate da questo Ufficio a disporre il ricovero e alla competente Direzione della Regione Lazio le indicazioni per la concreta esecuzione del dispositivo della sentenza ed al conseguente accertamento della pericolosità sociale ex art. 679 c. p. p. disposto dal Magistrato di Sorveglianza di Roma”. Nulla da fare. Nessuna Rems è in grado di ospitare il ragazzo, nonostante sia stata allargata la possibilità anche in altre regioni. L’avvocata non demorde, ha scritto recentemente al Garante Nazionale e Regionale delle persone private della libertà personale. Ma ha anche messo a conoscenza della situazione l’ambasciata tedesca, costantemente aggiornata. “Quante altre persone si trovano nella stessa situazione”, chiede in maniera retorica l’avvocata Santopietro. “Ci si deve chiedere - continua la penalista - a cosa siano serviti oltre dodici mesi, ad oggi, di attesa in carcere; in questo periodo, detenuti, operatori, polizia penitenziaria hanno svolto e continuano a svolgere, di fatto, un’attività di mediazione, traduzione linguistica, sostegno, contenimento della patologia e del disagio, trasformando così il carcere da luogo di pena a contenitore del disagio”. Quasi quotidianamente si ripropone il problema delle persone che - in attesa di essere ospitati nelle Rems - vengono trattenute nelle carceri. Le liste di attesa esistono e sono piuttosto affollate, tanto da portare anche a gesti estremi. Da ricordare il tragico caso di Valerio Guerrieri, 21 anni e che si è tolto la vita proprio al carcere di Regina Coeli. Anche lui doveva stare in una Rems. Sassari. Fine della fuga, catturato Johnny Lo Zingaro La Repubblica, 15 settembre 2020 L’ergastolano che seminato il panico nella Roma degli anni 70 era alla sua settima evasione. Catturato dalla polizia in un casolare nella provincia di Sassari. Era la sua settima evasione. È stato catturato dalla polizia Giuseppe Mastini, noto come “Johnny lo Zingaro”, 60 anni, evaso dieci giorni fa dal carcere di massima sicurezza di Sassari. È stato preso dalla polizia in Sardegna, all’interno di un casolare nella provincia di Sassari. Non era tornato in prigione dopo un permesso premio. Sette evasioni, due omicidi, un rapimento, 25 rapine e un grande amore: la storia criminale dell’ergastolano Giuseppe Mastini, inizia a Roma negli anni 70. Nato nel 1960 a Ponte San Pietro, Bergamo, si trasferisce a dieci anni a Roma con la sua famiglia e una carovana di famiglie sinti della Lombardia. La roulotte è parcheggiata in via Riccardo Balsamo Crivelli, al Tiburtino dove in pochi mesi Mastini diventa per i criminali del quartiere “Johnny lo zingaro”. Lavora nel parco giochi di famiglia ma la sua vera passione sono le auto: è un talento a guidarle e a rubarle. Così si fa un nome tra i piccoli delinquenti e inizia la sua carriera criminale. Nel 1971 partecipa a una rapina insieme a una banda del Tiburtino, scoperto dalla polizia preme il grilletto per la prima volta, spara poi scappa e si salva. Fa sul serio all’alba del 31 dicembre del 1975 quando ammazza - per un orologio di poco valore e diecimila lire - un operaio di 38 anni impiegato Atac, Vittorio Bigi, insieme all’amico Mauro Giorgio, anche lui quindicenne. Pordenone. “Serve una soluzione al sovraffollamento delle carceri” ilfriuli.it, 15 settembre 2020 Il M5S ha presentato un’interrogazione al Ministero della Giustizia per capire l’avanzamento dei lavori a San Vito. Un’interrogazione al Ministero della Giustizia per monitorare gli avanzamenti nella realizzazione della nuova Casa Circondariale di San Vito al Tagliamento. Ne dà notizia il deputato pentastellato Luca Sut, capogruppo M5S in X Commissione Attività produttive della Camera. “Pordenone ha urgentemente bisogno di una struttura penitenziaria che sopperisca alle carenze dell’attuale Istituto di piazza della Motta”, esordisce Sut. “La vicenda è nota da tempo - incalza il Portavoce M5S - come da tempo si susseguono segnalazioni circa l’inadeguatezza degli spazi interni e il conseguente deterioramento delle condizioni detentive. Un’indagine condotta lo scorso anno dall’Associazione Antigone - aggiunge - non ha potuto che confermare le gravi carenze dell’antico Castello che ha fatto registrare un tasso di affollamento pari al 186,8%. Una situazione che ho constatato in prima persona, nel corso della recente ispezione svolta per le carceri della regione assieme alle colleghe Stefania Ascari e Sabrina De Carlo”. “Come tutti sappiamo - prosegue - l’avanzamento dei lavori per il nuovo penitenziario di San Vito ha subìto un forte rallentamento a causa delle vicende legate all’aggiudicazione dell’appalto. Fase ora conclusa - chiosa il deputato - ma ancora non seguita dalla ripresa del cantiere, in quanto si attende la pronunzia dell’Avvocatura dello Stato che chiarirà le condizioni economiche di subentro dell’impresa Pizzarotti alla prima aggiudicataria Kostruttiva. Nel frattempo rimane viva la preoccupazione per il sovraffollamento della struttura pordenonese, a cui si aggiunge una carenza di personale di Polizia penitenziaria. Per questo ho voluto interrogare il Ministero della Giustizia, al fine di avere un quadro completo e aggiornato della questione che seguo già da tempo, restando in contatto sia con la Segreteria del Ministro Bonafede che con il Dipartimento di Amministrazione penitenziaria”. Torino. L’appello della prof: “Non toglietemi la cattedra in carcere” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 15 settembre 2020 “Lotterò fino in fondo per riavere le mie ore di insegnamento in carcere. Il mio posto è anche lì”. Giuseppina Vitiello, 58 anni, è un insegnante di inglese del Giulio, l’istituto superiore di via Bidone che ha, tra le sue sezioni, anche quella per gli studenti detenuti che vogliono diplomarsi. Finalmente, dopo 12 anni di precariato, quest’anno è diventata di ruolo. Finalmente è anche riuscita ad ottenere il trasferimento in quella scuola, come da lei richiesto. Pensava di rivedere tutti i suoi studenti, quelli non ancora diplomati ovviamente, ma soprattutto quelli del Lorusso e Cotugno. A sorpresa però, la preside del suo istituto, Fiorella Gaddò, le ha comunicato che non sarà così. Una doccia fredda per lei che aveva dedicato già diversi anni nel progetto d’insegnamento in carcere, con un entusiasmo e una dedizione che, anziché essere premiata, è stata bypassata dall’esigenza di utilizzare la docente esclusivamente per gli studenti “liberi” che frequentano le ore serali del Giulio. La docente ha provato in ogni modo a convincere la sua dirigente a tornare indietro nella decisione, ma invano. E così ha deciso di scrivere una lettera aperta a tutta la sua scuola, per sensibilizzare soprattutto i colleghi alla situazione dei detenuti: il rischio è di veder naufragare i progetti anche da lei costruiti per quegli studenti in condizione di fragilità. “Siamo solo due insegnanti di ruolo lì, e toglierne una significa smantellare il progetto, togliere il diritto alla continuità dell’insegnamento dei nostri allievi. Sto lottando per poter ritornare a insegnare in carcere: non è un posto ambito, ma ci vuole esperienza e motivazione per conquistare la fiducia di questi ragazzi. Io ho avuto grandissime soddisfazioni da loro, e ho intrecciato rapporti per creare un polo educativo unico. Abbiamo aiutato e supportato tanti studenti che non hanno mai avuto la possibilità di frequentare davvero le scuole ma che hanno visto in questi progetti una chance per crearsi una nuova vita”. L’insegnante ricorda gli ottimi risultati raggiunti dai 4 studenti detenuti che si sono diplomati da poco, tra cui due ragazzi della banda di piazza San Carlo. “Lo stesso entusiasmo lo dedico alle ore serali, ovviamente - spiega ancora la docente - ma per me, come ho scritto nella lettera aperta, il carcere è una priorità. La sezione carceraria deve vivere e ha bisogno della collaborazione di tutti: dobbiamo difendere questo progetto, che potrebbe essere un fiore all’occhiello per il nostro istituto, non un fastidio da eliminare al più presto. Basta vedere negli occhi la luce che hanno i nostri allievi, e i risultati che hanno ottenuto mettendocela tutta in condizioni difficilissime. Vi assicuro che il gioco vale la candela”. Alessandria. Presentazione dei prodotti artigianali di economia carceraria per la ricerca telecitynews24.it, 15 settembre 2020 Per questa occasione Solidal per la Ricerca e Fuga di Sapori tornano a manifestare apertamente la loro collaborazione attiva nel presentare alla cittadinanza la crema spalmabile che fa del bene. La Bottega Solidale Social Wood di Corso Roma 52 porterà infatti all’esterno i suoi prodotti artigianali di economia carceraria tra cui sarà possibile scoprire anche La Brigantella. Realizzata con nocciole Piemontesi, presenta il caratteristico cuore di caffè Lazzarelle, torrefatto nel Carcere femminile di Pozzuoli e viene prodotta artigianalmente solo con ingredienti naturali, senza zuccheri aggiunti né olio di palma o altri grassi vegetali. “Di creme spalmabili alle nocciole ne esistono davvero tante, più o meno famose, ma una in grado di rubare il cuore a chi la assaggia e, allo stesso tempo di essere solidale, non esisteva. - afferma Andrea Ferrari presidente di Associazione Ises - Siamo molto contenti di poter presentare questo prodotto anche all’interno di Gagliaudo: noi ci adoperiamo perché esca il più possibile tutto quanto di buono viene fatto all’interno delle Carceri italiane e vogliamo che queste bontà abbiano anche un’utilità sociale. Per ogni barattolo di La Brigantella venduto, infatti, una parte dell’incasso sarà destinato alla Fondazione Solidal: un aiuto concreto per una fondazione a cui vogliamo bene e che vogliamo aiutare stabilmente”. “Nella convinzione che lo sviluppo della conoscenza sia un valore fondamentale per lo sviluppo dell’intero territorio - ricorda Antonio Maconi, Presidente della Fondazione Solidal - Solidal per la Ricerca sostiene numerose iniziative di valorizzazione dei patrimoni locali artistici, culturali, storici ed enogastronomici con l’obiettivo di dare vita a una preziosa sinergia tra le realtà territoriali”. “Siamo davvero felici di partecipare a Gagliaudo - aggiunge Marinella Bertolotti, membro del Comitato Solidal per la Ricerca - con la presentazione di un prodotto che è due volte solidale poiché attraverso la sua vendita sostiene sia progetti di economia carceraria sia progetti di ricerca, come quelli relativi al Covid-19 e al Mesotelioma che Solidal per la Ricerca promuove a partire dalle indicazioni dell’Azienda Ospedaliera di Alessandria”. Questo prodotto nasce dalla collaborazione tra Solidal per la Ricerca - che rappresenta lo strumento operativo che persegue gli obiettivi della Fondazione Solidal e dell’Azienda Ospedaliera di Alessandria, in termini di promozione della ricerca e fundraising, con il fine ultimo di generare innovazione e trasferire i risultati scientifici nella pratica clinica a favore dei pazienti - e Fuga di Sapori - un marchio di Associazione Ises nato per diffondere il “buono che viene da dentro” e tramite la Cooperativa Sociale Idee in fuga, finanziare e promuovere inserimenti lavorativi all’interno degli Istituti Penitenziari di Alessandria, utilizzando principalmente ingredienti di economia carceraria e, insieme ad artigiani attenti al sociale, crea prodotti di qualità e socialmente responsabili. Il weekend del 19 e del 20 Settembre sarà quindi un’ottima occasione per lasciarsi tentare dalla golosità, contribuendo così a sostenere l’economia locale, l’economia carceraria e la ricerca scientifica. Siena. “La Ripartenza”, in mostra le opere dei detenuti del carcere di Ranza gazzettadisiena.it, 15 settembre 2020 È stato un successo “La Ripartenza”, mostra di pittura ed elaborati dei detenuti della casa di Reclusione di Ranza, organizzata dal Gruppo Volontariato Penitenziario della Misericordia di Siena. L’esposizione artistica è stata collocata nella suggestiva cornice del Chiostro di San Martino luogo che, recentemente ristrutturato, rappresenta una delle strutture più belle del centro storico di Siena. L’edizione 2020 della Mostra di pittura ed elaborati dei detenuti della casa di Reclusione, ha portato il titolo significativo de ‘La ripartenza’ per ricordare, insieme, il nuovo cammino dei detenuti dopo aver scontato la pena e l’attuale percorso di vita di ognuno di noi dopo le limitazioni imposte dalla pandemia. “Non pensavamo di farcela quest’anno e invece eccoci qua, si riparte” ha detto, introducendo la mostra, Andrea Valboni, Provveditore Arciconfraternita di Misericordia. “Arriviamo da un periodo particolarmente difficile - ha continuato Andrea Valboni - ed è questo uno dei motivi per i quali si è scelto di titolare la mostra “La Ripartenza”, a significare un nuovo inizio per tutti noi. Ognuno, anche se a fatica, sta riuscendo nell’intento di ripartire, ci riavviciniamo leggermente alla normalità. Il volontariato non deve ripartire perché, così come tante altre cose, non si è mai fermato e dunque per noi questa mostra - ha specificato il Provveditore - significa ripartenza morale, così come lo stesso significato può avere per le singole persone che vivono la quotidianità del carcere. La realizzazione delle opere, come quelle qui esposte, e il lavorio su attività creative, permette ai detenuti di fare qualche passo in più proprio sulla strada della rinascita e della ripartenza”. “La ripartenza non è la norma per persone che hanno vissuto esperienze carcerarie - ha detto Andrea Valboni - ma la capacità di un essere umano di riscattarsi è una cosa che travalica la singolarità dell’individuo e che riguarda semmai, più in generale, la società nel suo complesso. Ecco che si riparte: i detenuti sono ripartiti dipingendo, facendo dei quadri con fili, degli origami incredibili prova di creatività, estrema pazienza ed evidente capacità manuale; si apprezza lo sforzo e la voglia di esprimere qualcosa di proprio ed è questa, credo - ha concluso il Provveditore - che sia la cosa più bella di questa mostra”. “È dalle opere, dai colori, dalle linee che vediamo questo spirito di rinascita, di ripartenza: questi detenuti sono persone che hanno affinato la loro vena artistica e si nota una crescita anche in questo senso” ha detto questa mattina Vittoria Cogliandro, Referente Gruppo Volontariato Penitenziario della Misericordia di Siena. Vittoria Cogliandro ha sottolineato come la mostra sia, nella realtà dei fatti, “una meta, perché rappresenta un ponte di congiungimento tra detenuti e la società esterna; i detenuti, attraverso queste opere, mediante i visi dipinti, ci danno la percezione di quello che è il loro stato interiore e di un lavoro che è portato avanti con estrema serietà. I risultati sono ottimi, e i detenuti hanno avuto una crescita pittorica notevole”. Sull’acquisto delle opere la Referente Gruppo Volontariato Penitenziario della Misericordia di Siena specifica: “Non si tratta di una vera e propria vendita, è una beneficenza: a seconda del valore del quadro suggerito dal detenuto, il ricavato serve all’acquisto di tele e colori per continuare a dipingere all’interno del carcere. Per continuare a sognare - ha concluso Vittoria Cogliandro - a vedersi proiettati in un futuro migliore, a sfogare anche quello che è il proprio sentimento di rabbia e rimorso, alla ricerca di redenzione. L’arte è un veicolo molto importante verso il miglioramento del proprio io e, se si parla di disagio sociale ed arte, si nota quanto quest’ultima abbia una funzione estremamente terapeutica”. “La Ripartenza”: mostra di pittura ed elaborati dei detenuti della casa di Reclusione di Ranza, Chiostro di San Martino. “Lettera a mio padre”, di Barbara Balzerani recensione di Frank Cimini Il Riformista, 15 settembre 2020 La lettera critica di una figlia che non rinnega. Arrestata nel 1985 e condannata a sei ergastoli legati al caso Moro, è tornata libera nel 2011. Dopo la morte del padre, che non aveva capito le ragioni della sua scelta politica estrema, da figlia cerca la riconciliazione. “La rivoluzione si fa a Cuba o in Cina, non in un paese come il nostro, dove un popolo osannante non aveva aspettato neanche che il cadavere del Duce fosse diventato freddo per rinnegarlo. Tutti democristiani e comunisti del giorno dopo sotto le bandiere dell’antifascismo di parata e a baciare le mani caritatevoli del notabile di turno che distribuiva case ai più bisognosi”. Questo disse papà Balzerani alla figlia Barbara durante il primo colloquio in carcere. Lei lo ricorda nel suo ultimo lavoro, “Lettera a mio padre”, uscito in questi giorni con Derive e approdi (12 euro, 122 pagine). “Lettera a mio padre” è un colloquio immaginario con il padre nel racconto di chi ha perso, come parte di una generazione che diede l’assalto al cielo. Balzerani dirigente delle Brigate Rosse, sei ergastoli legati al caso Moro, arrestata nel 1985 e tornata libera dopo 26 anni, nel 2011. Ora si confronta con il genitore che non c’è più, spiegando le ragioni di una storia politica che non viene rinnegata, ma guardata con spirito critico, ricordando che le ingiustizie sociali all’origine di quella scelta non solo non sono scomparse, ma si sono aggravate. Balzerani lo precisa con uno sguardo all’attualità e lo sforzo di ricercare nuovi sentieri di lotta per uscire finalmente dal ‘900, perché la rivoluzione è un fiore che non muore. E non muore perché a tenerlo in vita sono le diseguaglianze, le oppressioni e le negazioni dei diritti degli ultimi e dei penultimi. Per una di quelle case papà Balzerani, che pure votava i repubblicani “perché non fanno né bene né male”, non fece domanda al notabile di turno. E l’autrice chiosa: “Conoscendoti non è strano, perché tu eri un lavoratore, non un pezzente al quale fare elemosine. Mai ti saresti fatto umiliare tanto neanche per quattro mura che un giorno, dopo averle pagate per mezza vita, sarebbero state di tua proprietà”. Il papà non aveva capito le ragioni delle scelte politiche e di vita di sua figlia. “Ti sei solo preoccupato che non mi rompessi l’osso del collo, che non finissi così spesso sui giornali che non si dicesse che ero una criminale... Mi hai chiesto se era vero tutto quello che scrivevano di me. E io non ho avuto cuore di rassicurarti. Ostinatamente cercavo la tua complicità. Tu eri mio padre... che mi regalava biciclette e bambole costose in tempi di calze della Befana appese alla stufa piena di mandarini”. “Come hai fatto a non riconoscerti in quel pezzo di paese che aveva rotto il patto dì fedeltà con la fabbrica, in quegli operai che si sono sottratti al comando di quello che tu identificavi come “il padrone”?” chiede ancora la figlia al padre. Balzerani cerca il padre fino alla fine. “Se tu ci fossi ancora sapresti spiegare l’inganno malcelato dietro le motivazioni industriali che dovrebbero ripulire l’aria dai gas venefici. Potresti spiegare come funziona un motore e di che si alimentano le tanto magnificate macchine elettriche ultima trovata dell’affarismo verde. Come se sotto il cavolo delle fiabe si trovassero le batterie che tutto hanno tranne la capacità di non inquinare”. Balzerani denuncia: “Stiamo morendo sull’altare del Dio consumo”. Il padre non avrebbe mai potuto crederci nei suoi anni di lotta per l’indispensabile. “Adesso che la furia della produzione capitalistica ha diradato tante nebbie, possiamo vedere quanto gli Stati con i loro confini le proprietà della terra con le loro recinzioni, la produzione con lo sfruttamento del lavoro e dei territori le biotecnologie abbiano messo in forse alla vita di continuare. Forse è il tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica è in grado di riesumare, di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma è questo il tempo. Per gli irregolari, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci metta all’altezza di un’altra storia interamente umana”. L’autrice come si vede parla del presente e soprattutto del futuro. Parla di una speranza che non viene meno. Insiste sulla possibilità di trovare altre e nuove chiavi di interpretazioni della realtà perché quelle vecchie ormai non possono più funzionare. Ma si tratta sempre di reinventare un conflitto, di non rassegnarsi e quindi di non disperarsi, anche prendendo atto che da tempo i proprietari dei mezzi di produzione si sono rivelati gli unici in grado di praticare la lotta di classe, a differenza del tempo in cui temettero di perdere il potere. Attraverso l’immaginario colloquio col padre, sulla base della sua esperienza politica e umana, 26 anni in cella, sei Olimpiadi e qualche spicciolo, Balzerani ci ripete che un altro mondo è possibile. Dimostra a suo modo di avere ancora fiducia negli italiani, marcando la differenza dal papà, che non ne aveva e nella saletta di una galera indicava solo Cuba e Cina Ragazzi dentro sognano il “Mare fuori” sorrisi.com, 15 settembre 2020 La sigla “Ipm” sta per “Istituto Penale Minorile”. Dietro questa sigla e dietro quelle sbarre ci sono ragazzi che hanno commesso errori, hanno ucciso, rubato, truffato. E adulti che cercano di punirli, aiutarli o redimerli. Una realtà complessa, come quella che descrive la nuova serie tv “Mare fuori”, su Raidue dal 23 settembre per sei serate. Coprodotta da Rai Fiction e Picomedia, si snoda di puntata in puntata raccontando “cosa succede quando finisci in carcere e c’è qualcuno che si occupa di restituirti uno sguardo positivo sulla vita, di darti un’alternativa” spiega Cristiana Farina, ideatrice e poi autrice (con Maurizio Careddu) del soggetto della serie. “La nostra storia parla dei ragazzi di un Istituto penale e fondamentalmente di come cerchino di trovare una strada per comunicare con gli adulti, un contatto profondo che non sia solo autorevolezza e autorità. A volte, per fortuna, ci riescono”. Da una parte, quindi, c’è il mondo degli adulti. Questo fa capo alla direttrice del carcere (l’attrice Carolina Crescentini), rigida e dura almeno all’inizio, quando arriva a Napoli, dove la serie è ambientata, con un passato pesante sulle spalle. Dall’altra c’è il mondo dei ragazzi: il giovane di buona famiglia (Nicolas Maupas), il camorrista pentito (Massimiliano Caiazzo), il piccolo boss (Giacomo Giorgio), lo spacciatore spavaldo (Matteo Paolillo), la rom truffaldina (Valentina Romani) e la fredda assassina (Serena De Ferrari). “Mi ha sempre colpito l’idea di vedere dei giovani dietro le sbarre nell’età più virulenta e potente” ammette Cristiana Farina. “La direttrice del carcere è un personaggio più drammatico e cerebrale, una donna con un bagaglio di sofferenze non risolte: serve a rendere la storia più universale”. L’universale della serie è, non da ultimo, dato dal protagonista del titolo, ossia dal mare: “Quando stai lì dentro quello che vedi è il mare, quello che desideri è la libertà. Il mare ce l’hai a venti metri, ma non lo puoi raggiungere”. Mare fuori - Raidue da mercoledì 23 ore 21.20. “Siamo tornati ai tempi del delitto d’onore” di Carlo Lania Il Manifesto, 15 settembre 2020 Alessandro Zan (Pd). Parla il relatore della legge contro l’omotransfobia in discussione alla Camera. “Ormai siamo ripiombati nel delitto d’onore, con una cultura machista e patriarcale che vuole impedire a una donna di scegliere chi amare e di realizzare il proprio progetto di vita”. Alessandro Zan è il relatore della legge contro l’omotransfobia e la misoginia licenziata prima dell’estate dalla commissione Giustizia della Camera e che tra poche settimane - a distanza di 24 anni da quando venne presentato il primo disegno di legge a tutela delle persone Lgbt - è in attesa di essere discussa dall’aula. “Quella tra Maria Paola e Ciro era una storia consolidata, che durava da tre anni”, prosegue il deputato dem. “L’amore non può avere limitazioni o confini e la frase detta dal fratello di lei, che Maria Paola era infetta perché stava con una persona trans, si commenta da sola ma richiede da parte di tutti uno sforzo per migliorare questo Paese”. A Caivano il dramma di Maria Paola e Ciro, in Puglia due ragazzi di Torino, che lei aveva sposato, a pranzo in un ristorante si ritrovano un pene disegnato nel piatto. Sugli orientamenti sessuali delle persone la cultura di questo Paese sembra incapace di fare passi in avanti... Il fatto di avere un orientamento sessuale diverso da quello che è considerata la normalità è ancora oggi visto da molti come qualcosa di sbagliato e per questo derisa. Si va dalle risatine fino agli insulti e alle violenze. C’è bisogno di un’educazione al rispetto e all’inclusione per far capire che una persona è gay o etero non perché lo sceglie e che va rispettata per quello che è. Basterebbe insegnare questo nelle scuole per far crescere futuri cittadini più consapevoli e rispettosi delle differenze. A che punto è la legge contro l’omotransfobia? Arriva in aula della Camera a ottobre per l’approvazione. Non sarà un passaggio facile... L’onorevole Giorgia Meloni a proposito di quanto accaduto a Caivano ha detto che lo Stato deve essere presente perché nessuno deve morire per l’amore che sceglie. Sono d’accordo con lei e le chiedo di essere coerente ritirando la pregiudiziale di costituzionalità presentata dal suo partito per affossare la legge insieme a tutti gli emendamenti di natura ostruzionistica che possono ritardare o addirittura comprometterne l’approvazione. Il presidente del Family Day Massimo Gandolfini sostiene che il codice penale offre già gli strumenti per punire aggressioni come quella di Caivano... Nel nostro Paese esiste già una legge contro i crimini di odio e punisce la discriminane razziale, etnica e religiosa. Noi vogliamo semplicemente allargare questa legge ai reati di omotransfobia e misoginia, perché oggi insieme alle vittime di razzismo e antisemitismo sono le donne e le persone Lgbt le più colpite dai crimini di odio. Lo dice il rapporto dell’Agenzia per i diritti umani dell’Unione europea che chiede all’Italia di adeguare la propria legislazione per contrastare questi fenomeni. Dubbi però sono stati espressi anche dai cattolici del suo partito, il Pd... Mi auguro che siano stati superati con il lavoro importante svolto in commissione Giustizia della Camera dove alla legge è stato aggiunto un articolo in cui si specifica che non è in discussione la libertà di opinione. Un articolo importante per tranquillizzare i parlamentari in buona fede anche se la giurisprudenza ha chiarito qual è il confine tra libertà di espressione e incitamento all’odio. Chiedo ai parlamentari della maggioranza, a partire da quelli del mio partito, di non esitare più e di andare tutti assieme verso l’obiettivo, l’approvazione di una legge che questo Paese non può più attendere. Migranti. Nel limbo dopo l’inferno. Tra gli sfollati di Moria in attesa della nuova prigione di Valerio Nicolosi Il Manifesto, 15 settembre 2020 L’estate nell’isola di Lesbo non lascia spazio a giornate più fresche e, sotto al sole e a temperature di 30°C, i 12.000 sfollati del campo di Moria continuano a vivere in strada mentre il governo greco continua a dichiarare che entro domenica tutte le persone saranno nel nuovo campo, già parzialmente costruito. La realtà però è che solo poco più di 500 persone hanno lasciato gli accampamenti improvvisati in strada e hanno scelto volontariamente di andare nel nuovo campo che sorge su di un promontorio in riva al mare, dove le coste turche sono bene visibili, come se fosse un monito per i migranti: questo è il confine d’Europa e loro ci sono rimasti impantanati. Percorrendo la litoranea che da Mytilene porta verso Nord, appena fuori la città si incontra un blocco stradale della polizia che sembra quasi ordinario, come se ci fossero dei lavori in corso e non più di 10.000 persone accampate lungo la strada dopo qualche centinaio di metri. Le autorità non consentono alla stampa di passare ma è possibile proseguire lungo la strada che porta davanti al vecchio campo, dove l’odore di bruciato e la cenere rendono spettrale un posto che fino a pochi giorni fa era infernale. La luce del tramonto rende per pochi minuti tutto meno brutto ma, non appena il sole scende dietro una montagna, la realtà torna ancor più tetra. Un ragazzo afghano cammina tra quel che resta della sua tenda cercando qualcosa che possa essere salvato. “È orribile quel che è successo, vivevo qui fino a pochi giorni fa, ora ho preso un piccolo appartamento in città con degli amici, siamo stanchi di stare nei campi”, racconta prima ancora di ricevere una domanda, come se fosse uno sfogo. Della sua vita nel campo non è rimasto nulla, vive con il sussidio da rifugiato ma cercare lavoro per lui è impossibile. “Vorrei andare in Francia o in Germania ma anche se ci riuscissi verrei mandato indietro”, aggiunge mentre continua a camminare tra la cenere e l’odore di plastica bruciata. Lui è tra i pochi ad avere ricevuto l’asilo negli ultimi mesi. Infatti circa il 90% delle richieste fatte nelle isole greche sono state respinte con la palese volontà di lasciare le persone in un limbo giudiziario dove non è possibile respingerli ma non hanno il diritto a restare. Lungo la strada che collega Moria al grande accampamento, ci sono decine di persone che camminano sul ciglio della strada, tutte hanno qualche busta in mano, altri invece ne trascinano di più pesanti. I primi sono riusciti a trovare qualcosa tra le macerie del campo, i secondi invece hanno fatto spesa in un market dove vendono cibo e bevande. Hanno perso tutto e nonostante ci siano delle organizzazioni che si stanno adoperando, è difficile sfamare tutti. “Non vogliamo tornare in quelle condizioni, i nostri figli hanno già sofferto troppo in quel campo. La notte dell’incendio ci siamo svegliati per i rumori di chi urlava e correva, abbiamo paura che posso succedere di nuovo”, racconta Ahmed che con la sua famiglia ha deciso di restare sulle colline intorno a Moria. Tra i profughi la paura più grande è quella di finire in un campo che assomiglia ad una prigione. “Ci hanno detto che se entriamo non possiamo uscire, dicono che sia per il Covid ma abbiamo paura che sia per sempre”, aggiunge mentre con la moglie organizza una cena con poche cose fredde, visto che non hanno nemmeno un fornello per cucinare. I positivi al Covid nel nuovo campo sono 17 a fronte degli oltre 500 tamponi fatti ma i negativi non possono comunque uscire, nemmeno per fare la spesa. All’ingresso i giornalisti vengono fermati ma è ben visibile il via vai di mezzi dell’esercito che portano rifornimenti e truppe per continuare a costruire altre tende. La situazione dunque resta in stallo, mentre domani ad Atene arriverà Charles Michel, il presidente del Consiglio Europeo, e porterà con sé un messaggio che già è stato espresso da Bruxelles: l’Unione Europea è pronta a finanziare il nuovo campo, dando quindi pieno sostegno al governo greco. La “Fortezza Europa” è pronta a ricostruire uno dei suoi avamposti, forse il peggiore. Colombia. Mario Paciolla: ucciso per non essere stato in silenzio di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 15 settembre 2020 Due mesi dopo. I fatti emersi finora sulla morte di Mario Paciolla, avvenuta in circostanze ancora misteriose. Le inchieste della giornalista Duque restituiscono un quadro complesso che coinvolge la politica colombiana. Sulla prima pagina del quotidiano nazionale colombiano El Espectador, è apparsa l’ultima parte dell’inchiesta della giornalista investigativa Claudia Duque che aggiunge nuovi dettagli rispetto al caso di Mario Paciolla e ricostruisce alcune dinamiche interne alla Missione di Verifica delle Nazioni Unite che lo avrebbero messo in pericolo nei mesi precedenti alla sua morte. Sulla scena del crimine secondo la Procura è stato ritrovato il mouse del computer di Mario impregnato di sangue e secondo le informazioni raccolte dalla giornalista lo stesso mouse è stato ripulito e prelevato dall’Onu per poi ricomparire nella sede centrale delle Nazioni Unite a Bogotá. Questa nuova incongruenza si aggiunge alle già tante ambiguità che sono state segnalate dai familiari e dalle inchieste che si stanno occupando del caso. Seguendo il filo dell’articolo di Claudia Duque, le ragioni che hanno esposto Mario si intrecciano con le trame della politica colombiana e in particolare con uno scandalo che ha sancito l’inizio di una crisi di governo che continua a protrarsi tutt’oggi. Il 29 agosto 2019, alle 23.03, i caccia delle Forze Aeree colombiane bombardano l’accampamento di Rogelio Bolivár Córdova, conosciuto come el Cucho, nei pressi di Aguas Claras alle soglie del municipio di San Vicente del Caguán. El Cucho era un comandante delle cellule dissidenti delle Farc, i gruppi armati che non hanno accettato il disarmo sancito dagli Accordi di pace del 2016. Nell’accampamento si trovavano per lo piú minorenni tra i 12 e i 17 anni, alcuni dei quali reclutati contro la loro volontà. In un primo momento la notizia del massacro di adolescenti è stata mantenuta segreta, la Dijin, la polizia criminale, ha compilato un inventario di cadaveri e di resti di corpi umani senza specificare l’etá delle vittime. Si parla di almeno 17 morti. L’operazione portata avanti dai piloti dell’esercito è stata classificata come ‘beta’, aveva cioè avuto bisogno dell’autorizzazione delle più alte autorità del governo colombiano ed è stata definita dal presidente della repubblica Ivan Duque un’operazione “meticolosa” e “impeccabile”. Il 5 novembre 2019, il senatore del Partito Sociale di Unità Nazionale Roy Barreras chiede spiegazioni all’allora ministro della Difesa Guillermo Botero sull’uccisione dei minori e sul perché tale informazione di interesse nazionale non fosse stata comunicata al popolo colombiano. Scoppia lo scandalo e il ministro è costretto a dimettersi, un evento cruciale per la democrazia colombiana dove la cupola del potere militare è abituata all’impunità. Qualche settimana più tardi, il 21 novembre, il malcontento della popolazione verso il presidente Ivan Duque e gli scandali che continuano a travolgere il suo governo, porta allo sciopero nazionale indetto da decine di sigle sindacali a cui hanno aderito anche organizzazioni studentesche, indigene, ambientaliste, femministe e LGBTQI. Un movimento trasversale composto da milioni di giovani ha riempito le strade chiedendo pace e diritti e subendo per settimane la repressione delle forze di polizia e dell’esercito schierato durante il coprifuoco indetto in diverse città del Paese. Un’ondata di proteste che continua tutt’oggi con i cacerolazos che accompagnano le inchieste e gli scandali giudiziari che continuano a indebolire la leadership di Duque e che hanno portato agli arresti domiciliari il suo padrino politico ed ex-presidente Alvaro Uribe Veléz. Secondo la ricostruzione di Claudia Duque il senatore Barreras ha ottenuto le informazioni riguardanti il bombardamento e le vittime minorenni da un report delle Nazioni Unite filtrato proprio dalla Missione di Verifica di San Vicente del Caguán dove lavorava Mario Paciolla. Secondo le fonti anonime consultate dalla giornalista, Mario aveva partecipato in prima persona nella costruzione del report che ha poi portato alle dimissioni del ministro della Difesa. Il passaggio di queste informazioni riservate che hanno esposto i lavoratori delle Nazioni Unite, tra cui appunto Mario Paciolla, sembra sia avvenuto nel contesto di una lotta di potere interna all’Onu. Sempre secondo le rivelazioni pubblicate sul El Espectador, a favore della diffusione delle informazioni c’erano i funzionari coordinati da Raúl Rosende, direttore dell’area di Verificazione della Missione Onu in Colombia. Rosende avrebbe avallato la diffusione delle informazioni riguardanti il bombardamento bypassando l’autorizzazione del suo superiore Carlos Rúiz Massieu, capo della Missione in Colombia perché sembrerebbe vicino all’attuale governo di Ivan Duque, una pratica che a quanto pare non era nuova e che aveva già permesso altre fughe di notizie riguardanti altri scandali legati alle operazioni militari. Nel quadro ricostruito da Claudia Duque si aggiunge un’altra figura ambigua della Missione Onu, il capitano della Marina in pensione e consulente della Missione in Colombia dal 2016 Ómar Cortés Reyes. Secondo le fonti anonime interpellate, Reyes viene individuato come il denominatore comune di tutte le fughe di notizie. Secondo un ex-lavoratore della Missione in Colombia la gestione irresponsabile di informazioni sensibili, che Reyes ha condiviso con le alte cariche militari con la scusa di generare un clima di fiducia, ha messo a rischio la vita degli osservatori Onu con il solo scopo di consolidare la loro rete di intelligence. Il ruolo controverso di Reyes si aggiunge a quello dell’ex-sottufficiale dell’esercito colombiano Christian Thompson, il responsabile della sicurezza della Missione di Verifica a San Vicente del Caguán che era in comunicazione con Mario Paciolla prima della sua morte e che è stato il primo ad arrivare sulla scena del crimine permettendo la manomissione della stessa. Rimangono aperti molteplici dubbi sull’omicidio di Mario Paciolla ma una pista sembra consolidarsi con le nuove rivelazioni che confermano il ruolo controverso dei militari coinvolti nella Missione di Verifica delle Nazioni Unite e le lotte intestine dentro l’organizzazione che potrebbero aver compromesso la sicurezza di Mario Paciolla che ha confidato di essersi sentito”tradito”, “usato” e “sporco”. Claudia Duque aggiunge che all’indomani delle dimissioni del ministro della Difesa, Mario e i suoi colleghi avevano subito attacchi informatici che lo avevano portato a cancellare la maggior parte dei suoi account sulle reti sociali, eliminare foto di parenti e amici e fare una copia di backup del suo computer. Già a gennaio del 2020 Mario aveva richiesto di essere trasferito e aveva affermato di volersi dimenticare per sempre della Colombia: “Non è più un posto sicuro per me. Non voglio più mettere piede in questo Paese né all’Onu. Non fa per me. Ho fatto richiesta di cambio già da un po’ e non me lo hanno concesso. Voglio una vita nuova, lontano da tutto”. Libia. Si dimette il “governo” dell’Est. A rischio gli sforzi per liberare i 18 pescatori siciliani di Vincenzo Nigro La Repubblica, 15 settembre 2020 Il premier Al Thinni nel mirino dei contestatori, mentre il generale Haftar sembra rimanere defilato dopo la sconfitta militare a Tripoli. Sempre incerto il destino dei marinai arrestati al largo di Bengasi: i libici chiedono il rilascio di 4 loro connazionali condannati in Italia a 30 anni per traffico di migranti. Un nuovo segnale di caos politico dalla Libia, che questa volte rischia di rallentare anche gli sforzi per liberare i 18 pescatori siciliani arrestati al largo di Bengasi il 1° settembre. Domenica sera, dopo giorni di proteste di piazza e anche di attacchi a sedi istituzionali, si è dimesso il governo “parallelo” dell’Est presieduto da Abdullah al Thinni. Sul sito del Parlamento della Cirenaica viene confermato che il governo Al Thinni, non riconosciuto dalla comunità internazionale, “ha presentato le proprie dimissioni al presidente della Camera dei Rappresentanti, Agila Saleh, dopo le proteste popolari dei giorni scorsi per chiedere migliori condizioni di vita e la fine della corruzione. Le dimissioni “saranno presentate al Parlamento per il voto”. Le dimissioni sono state presentate durante una riunione di emergenza, convocata domenica da Saleh per discutere delle cause del deterioramento dei servizi pubblici e delle condizioni di vita dei cittadini, in primis la mancanza di elettricità e la situazione sanitaria dovuta al coronavirus. Il tutto mentre ormai da settimane, dopo la sconfitta militare che lo ha costretto a rinunciare all’assedio di Tripoli, il generale Khalifa Haftar rimane in disparte, silenzioso: molti segnali indicano che il generale non ha rinunciato all’idea di riprendere le operazioni militari, ma per il momento si tiene lontano dalla gestione degli affari civili in Cirenaica. La crisi politica sicuramente avrà un impatto sulla vicenda dei 18 pescatori siciliani bloccati al largo di Bengasi il 1° settembre mentre pescavano il gambero rosso in acque che da anni la Libia considera sue. I marinai dei pescherecci “Antartide” e “Medina” sono al centro di una crisi con risvolti giudiziari e politici complicati. La Marina libica legata all’esercito del generale Khalifa Haftar che controlla la zona di Bengasi ha avuto ordine dal “Comando generale”, cioè dal generale Haftar, di non rilasciare i pescatori “fino a quando i calciatori libici imprigionati in Italia non saranno liberati”. I libici chiedono il rilascio di 4 giovani libici detenuti in Italia, condannati a 30 anni di carcere per traffico di migranti. Per mesi le loro famiglie in Libia hanno chiesto la libertà, sostenendo che erano soltanto calciatori, atleti che volevano fuggire in Europa. Adesso che si sono trovati 18 siciliani bloccati in Libia, le famiglie chiedono di non liberare gli italiani. Giovedì scorso donne, uomini, bambine e bambini hanno organizzato una manifestazione al porto di Bengasi con fotografie e cartelloni: “Liberate gli atleti libici: sono calciatori, non trafficanti”. Le autorità di Bengasi hanno accettato: propongono all’Italia uno “scambio”, i pescatori contro i “calciatori”. I 4 giovani libici furono arrestati in Sicilia nel 2015: vennero condannati dalla Corte d’assise di Catania e poi dalla Corte d’appello, con l’accusa di aver fatto parte del gruppo di scafisti responsabili della cosiddetta “Strage di Ferragosto” in cui morirono 49 migranti. Si chiamano Joma Tarek Laamami, di 24 anni, Abdelkarim Al Hamad di 23 anni, Mohannad Jarkess, di 25 anni, Abd Arahman Abd Al Monsiff di 23 anni. Secondo i migranti con cui viaggiavano, la notte della “Strage” con “calci, bastonate e cinghiate” avrebbero bloccato molti nella stiva dell’imbarcazione. La versione dei 4 era diversa: Al Monsiff disse per esempio di “giocare a calcio nella serie A libica” e che aveva deciso “di andare in Germania per avere un futuro, impossibile in Libia a causa della guerra”. La loro versione era che si erano imbarcati anche loro per fuggire dalla Libia, e che i veri trafficanti avevano ridotto loro il prezzo del passaggio purché si occupassero di pilotare le barche. In un’intervista alla Agenzia Nova, il colonnello Ahmed Jumaa, un comandante delle forze navali libiche dell’Est, ha confermato che la loro pattuglia marittima “Ikrima” il 1° settembre ha bloccato due pescherecci italiani. “Durante un regolare pattugliamento, nove obiettivi sono stati avvistati a 30 miglia nautiche a nord di Daryana, erano pescherecci italiani. Li abbiamo contattati via radio, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta da loro, quindi abbiamo usato i gommoni e abbiamo cercato di assaltarli con la forza e siamo riusciti a prendere il controllo di due. Sfortunatamente, gli altri sono fuggiti, mentre cercavano di ostruirci gettando delle corde dietro di loro in mare”. C’è un altro commento che il colonnello affida all’Agenzia Nova, ed è importante per capire cosa ha in mente la parte libica: il colonnello dice che “questa non è la prima volta che barche simili violano le acque libiche, ma i nostri uomini pattugliano le acque per proteggerle dai ladri e da chiunque cerchi di minare la nostra sovranità e rubare la nostra ricchezza marina”. I pescatori, quindi, sarebbero dei criminali, che potrebbero essere scambiati con dei carcerati libici in Italia. Libia. Hafter e Sarraj difendono insieme i calciatori-scafisti di Bengasi Corriere della Sera, 15 settembre 2020 Secondo i libici uno di loro giocava nella Premier League e si era imbarcato in cerca di fortuna. Trattativa in stallo per i pescatori di Mazara del Vallo. Non vorrebbero sentir parlare di scambio di ostaggi gli armatori e i familiari dei 18 pescatori siciliani ormai segregati in una casa di Bengasi dalle milizie di Khalifa Haftar, contrapposte a quelle di Fayez al-Sarraj, il premier insediato a Tripoli con il governo riconosciuto dall’Onu. Ma questa annosa questione culminata due settimane fa con il sequestro di due pescherecci di Mazara del Vallo accusati di avere violato le acque libiche, seppur lontanissimi dalla costa, rischia di prendere una brutta piega. Per l’entrata in scena di parenti, amici e tifosi di 4 libici partiti da Bengasi nel 2015, condannati a 20 e 30 anni di carcere a Catania come assassini e trafficanti di migranti, adesso indicati come vittime di un clamoroso errore giudiziario “perché si tratta solo di calciatori in cerca di fortuna”. Tesi sostenuta non solo dall’entourage di Haftar, ma anche da ambienti vicini al premier al-Sarraj visto che a definire i 4 come innocenti attaccanti e mediani sarebbero l’ambasciata libica a Roma e il consolato di Palermo, stando a Cinzia Pecoraro, l’avvocata coinvolta per la difesa contemporaneamente da Tripoli e Bengasi. Prova che il calcio può diventare occasione di unità perfino sul fronte di una lunga guerra interna. Mentre assistono sgomenti a questa strana partita i familiari dei 18 pescatori, privi di notizie da due settimane, l’avvocata si limita a constatare quanto accade, certa dell’innocenza dei quattro: “Io so solo che i parenti dei giocatori mi contattano attraverso i canali ufficiali. E che in questo caso l’intera Libia difende un giocatore come Abdelkarim Alla F. Hamad, indicato anche col soprannome di Abdel-Monsef. Come si evince da atti sottovalutati dai giudici italiani”. E mostra l’attestato della sua formazione e le foto dell’attaccante inserito come mediano nell’”Al-Ahly Bengasi”, in competizione con la “Al-Ahly Tripoli” nel campionato della Libyan Premier League. Attestato firmato per “El Alhy Club” dal direttore esecutivo Ibrahim Salem Almagribi. Nelle stesse condizioni gli altri ventenni Joma Tarek Laamami, Abd Arahman Abd Al Monsiff e Mohannad Jarkess, l’unico nato in Siria, tutti condannati anche per avere sprangato il boccaporto di un barcone affondato con 49 migranti rinchiusi in stiva. Un orrore che si ricorda come “la strage di ferragosto”. Storia del 2015. Processi in due casi non ancora approdati in Cassazione. Con i libici che sperano nella revisione. O almeno in un ribaltamento dei procedimenti non ancora passati in giudicato. È l’auspicio di Cinzia Pecoraro, su posizioni opposte a quelle del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, certo della responsabilità. “Ma hanno letto i magistrati i messaggi telefonici agli atti?”, chiede lei. “Ce ne sono di emblematici: “Non dire a mia madre che sono partito in barca...”, “I miei genitori: parti con il visto, il mare no no...”. Non sono scafisti, ma migranti trasformati dai trafficanti in aiutanti, come succede su tutti i barconi. Non criminali. Non un coltello, non un bastone. Ci sarà un giudice a Roma che capirà...”. A questo puntano i parenti che, intanto, invocano Haftar di non liberare i pescatori siciliani finché non accadrà lo stesso per i condannati. Richiesta che terrorizza le famiglie di Mazara, come ripete l’armatore Leonardo Gangitano: “Cancellate la parola ostaggi. Nessuno ufficialmente da Bengasi la usa. E non dobbiamo usarla noi in Italia. Occorre avere fiducia perché la Libia restituisca mariti, padri e figli partiti da qui solo per lavorare”. Gran Bretagna. Chi c’è dietro la giudice che processa Assange di Manlio Dinucci Il Manifesto, 15 settembre 2020 Coinvolta in diversi conflitti di interessi a causa dei suoi legami familiari, la giudice che decide sulle sorti di Assange è sposata con un pezzo grosso dell’industria militare e dei servizi di intelligence. Emma Arbuthnot è la giudice capo che, a Londra, ha istruito il processo per l’estradizione di Julian Assange negli Usa, dove lo attende una condanna a 175 anni di carcere per “spionaggio”, ossia per aver pubblicato, quale giornalista d’inchiesta, prove dei crimini di guerra degli Stati uniti, tra cui video sulle stragi di civili in Iraq e Afghanistan. Al processo, assegnato alla giudice Vanessa Baraitser, è stata respinta ogni richiesta della difesa. Nel 2018, dopo che è caduta l’accusa di violenza sessuale da parte della Svezia, la giudice Arbuthnot ha rifiutato di annullare il mandato di arresto, così che Assange, non potesse ottenere asilo in Ecuador. Emma Arbuthnot ha respinto le conclusioni del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria di Assange. Inascoltate anche quelle del responsabile Onu contro la tortura: “Assange, detenuto in condizioni estreme di isolamento non giustificate, mostra i sintomi tipici di un’esposizione prolungata alla tortura psicologica”. Nel 2020, mentre migliaia di detenuti sono stati trasferiti agli arresti domiciliari quale misura anti-Coronavirus, Assange è stato lasciato in carcere, esposto al contagio in condizioni fisiche compromesse. In aula Assange non può consultarsi con gli avvocati, ma viene tenuto isolato in una gabbia di vetro blindato, e minacciato di espulsione se apre bocca. Che cosa c’è dietro tale accanimento? Arbuthnot ha il titolo di “Lady”, essendo consorte di Lord James Arbuthnot, noto “falco” Tory, già ministro degli appalti della Difesa, legato al complesso militare-industriale e ai servizi segreti. Lord Arbuthnot è tra l’altro presidente del comitato consultivo britannico della Thales, multinazionale francese specializzata in sistemi militari aerospaziali, e membro di quello della Montrose Associates, specializzata in intelligence strategica (incarichi lautamente retribuiti). Lord Arbuthnot fa parte della Henry Jackson Society (HJS), influente think tank transatlantico legato al governo e all’intelligence Usa. Lo scorso luglio, il segretario di stato Usa Mike Pompeo è intervenuto a Londra a una tavola rotonda della HJS: da quando era direttore della Cia nel 2017, egli accusa WikiLeaks, fondata da Assange, di essere “un servizio di spionaggio del nemico”. La stessa campagna conduce la Henry Jackson Society, accusando Assange di “seminare dubbi sulla posizione morale dei governi democratici occidentali, con l’appoggio di regimi autocratici”. Nel consiglio politico della HJS, a fianco di Lord Arbuthnot, è stata fino a poco tempo fa Priti Patel, l’attuale segretaria agli Interni del Regno Unito, cui compete l’ordine di estradizione di Assange. A questo gruppo di pressione che conduce una martellante campagna per l’estradizione di Assange, con la regia di Lord Arbuthnot e altri influenti personaggi, è sostanzialmente collegata Lady Arbuthnot. È stata nominata dalla Regina magistrato capo nel settembre 2016, dopo che WikiLeaks aveva pubblicato in marzo i documenti più compromettenti per gli Usa. Tra questi le email della segretaria di Stato Hillary Clinton che rivelano il vero scopo della guerra Nato alla Libia: impedire che questa usasse le sue riserve auree per creare una moneta pan-africana alternativa al dollaro e al franco Cfa, la moneta imposta dalla Francia a 14 ex colonie. Il vero “reato” per cui Assange viene processato è quello di aver aperto crepe nel muro di omertà politico-mediatica che copre i reali interessi di potenti élite le quali, operando nello “Stato profondo”, giocano la carta della guerra. È questo potere occulto a sottoporre Julian Assange a un processo, istruito da Lady Arbuthnot, che come trattamento dell’imputato ricorda quelli della Santa Inquisizione. Se estradato negli Usa, Assange verrebbe sottoposto a “misure amministrative speciali” molto più dure di quelle britanniche: verrebbe isolato in una piccola cella, non potrebbe contattare la famiglia né parlare, neppure tramite gli avvocati che, se portassero un suo messaggio, verrebbero incriminati. In altre parole, sarebbe condannato a morte. Turchia. Arrestati 60 avvocati: difendevano dei dissidenti di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 15 settembre 2020 In Turchia 60 persone tra avvocati, praticanti, laureati in legge e giudici sono stati arrestati perché stavano difendendo persone accusate di reati collegati al terrorismo e sono stati a loro volta accusati di complicità con gruppi terroristi. A riferirlo l’agenzia di stampa Anadolu, secondo cui tutti avevano clienti accusati di far parte del gruppo del chierico Fetullah Gulen, oppositore del presidente Racep Tayyip Erdogan considerato la mente del fallito colpo di Stato del 2016. Sempre secondo Anadolu, le indagini condotte dalla procura hanno portato a spiccare 60 mandati d’arresto per affiliazione al movimento, e venerdì in sette diversi comuni della provincia di Ankara la polizia ha arrestato 48 avvocati, sette praticanti, quattro giudici già precedentemente licenziati e un laureato in giurisprudenza. Secondo Arrested Lawyers (Al), organizzazione che si batte per i diritti degli avvocati in Turchia, i professionisti sono stati arrestati come atto di “ritorsione per il lavoro che stavano svolgendo, in difesa di persone sospettate di affiliazione terroristica”. Un atto che viola la Convenzione internazionale dell’Avana, secondo cui “gli avvocati non possono essere identificati con i loro clienti o con i casi dei loro clienti nello svolgimento delle proprie funzioni”. All’appello rivolto alla magistratura turca a non criminalizzare la professione hanno aderito gli ordini degli avvocati di Ankara, Istanbul, Smirne, Mardin, Sanliurfa, Gaziantep e Van, insieme alla Progressive Lawyers association e ad altri otto raggruppamenti con sede ad Istanbul. In una nota, Arrested Lawyers denuncia che dopo la riforma degli ordini degli avvocati che il governo ha promosso a luglio le autorità hanno accelerato la pratica di criminalizzare quei legali che seguono casi di prigionieri di coscienza finiti in manette per la loro dissidenza politica. I 60 professionisti arrestati venerdì - fa sapere Al - si occupavano di persone che avevano a loro volta denunciato torture da parte delle forze di sicurezza oppure erano state vittime di sparizioni forzate. L’ong calcola che migliaia tra giornalisti, attivisti, oppositori, intellettuali e avvocati siano attualmente incarcerati a causa di “una legge sul terrorismo molto generica che permette di far ricadere in questa fattispecie di reato ogni atto di critica o opposizione all’autorità”. A confermare il sospetto di un processo di criminalizzazione contro giudici e avvocati, Arrested Lawyers cita parole di Erdogan pronunciate durante il suo discorso per l’apertura dell’anno giudiziario: “Quegli avvocati che difenderanno persone accusate di terrorismo non possono che essere dei terroristi. Se agiscono in questo modo, devono pagare anche loro”.