La Commissione Giustizia del Senato avvia indagine conoscitiva sull’emergenza carceraria agi.it, 14 settembre 2020 Nonostante sia passato quasi un anno dal primo via libera unanime, i senatori della Commissione Giustizia, ora, sembrerebbero avere tutta l’intenzione di iniziare l’indagine conoscitiva sulla situazione delle carceri italiane. E lo conferma l’esito di una delle ultime sedute della 2a Commissione, in cui il presidente Andrea Ostellari (leghista, confermato dopo un voto un po’ rocambolesco durante il rinnovo delle presidenze) ha riferito ai presenti le proposte avanzate dai gruppi parlamentari durante un ufficio di presidenza. Riprendere in mano l’indagine deliberata a novembre 2019 (ma mai veramente iniziata) e dare il via agli inviti di esperti, alti funzionari e governativi - con le loro audizioni - allargando il raggio d’azione anche a temi più spinosi, come il rapporto tra il Dap e i magistrati di sorveglianza e l’emergenza carceraria della primavera di quest’anno. Temi che hanno fatto molto discutere durante il lockdown e l’inizio dell’emergenza Covid: il primo perché’ ha generato un grande dibattito intorno alla famosa circolare sulle scarcerazioni, il secondo per via delle proteste che hanno portato alla fuga di alcuni detenuti. Allo stesso tempo i senatori puntano ad uscire dalle aule parlamentari segnando in agenda alcune visite nelle carceri. Ipotesi sopralluoghi a Poggioreale e San Vittore - Si ipotizzano “sopralluoghi” al carcere di Poggioreale, San Vittore (questo con un focus sull’incidenza della tossicodipendenza sui detenuti, grazie alla variante trattamentale offerta dal reparto detto “La nave”) e poi, successivamente, un terzo in altra area geografica. Insomma, il presidente ha ricevuto il mandato dei commissari per riferire alla presidente Elisabetta Casellati l’intenzione di andare avanti e di allargare i temi di indagine. Valutare motivi difficoltà modalità alternative alla detenzione - Innanzitutto, inglobando la “ricerca delle cause dell’inadeguatezza dell’istruttoria per le decisioni in ordine alle modalita’ alternative alla detenzione carceraria, non superata dai recenti interventi decretizi della primavera 2020?. Che tradotto, spiega un senatore, vorrebbe dire approfondire gli avvenimenti che si sono susseguiti alla gia’ citata circolare del Dap. Argomento molto spinoso di cui si è occupata anche la commissione Antimafia. Le responsabilità politiche del Ministro Bonafede - I senatori, pero’, non si limiteranno alla consultazione dei dati pervenuti durante l’esame del decreto Scarcerazioni (di maggio scorso) nè si limiteranno ad invitare funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Vogliono parlare con il Governo. “L’esigenza di ricostruire l’indirizzo politico, impresso agli uffici dal vertice del dicastero - ha spiegato Ostellari in commissione - richiede che l’organo detentore della responsabilità politica venga in commissione ad illustrare i quesiti sul tavolo”. Quindi non è escluso che venga invitato a sedersi in commissione anche il ministro Alfonso Bonafede. Le “anomalie” del Dap durante l’emergenza - E nel dettagliare l’obiettivo generale, Ostellari ha elencato i temi che saranno affrontati: “Le modalità di gestione del sistema carcerario, per sapere se e in che misura esse rispondano alle linee di indirizzo da lui (il ministro; Ndr) impresse all’amministrazione penitenziaria durante la vigenza del suo ufficio”. E poi “le anomalie” riscontrate “nell’adempimento delle istruzioni date” per porre rimedio all’emergenza carceri durante l’emergenza Covid. Anche le carenze finanziarie e di personale faranno parte degli argomenti delle audizioni. I rapporti tra Dap e Magistratura Sorveglianza - Più importante: i criteri cui si ispirano i contatti istituzionali tra il Dap e la magistratura di sorveglianza, sia per conseguire una risposta “pronta” ed “efficace” alle necessità conoscitive (in termini di precedenti del reo, di disponibilità medico-ospedaliere, eccetera) funzionali all’esame delle istanze avanzate dai detenuti, sia per disporre di rilevazioni statistiche indispensabili al controllo dell’efficacia delle decisioni assunte, sia da parte del Governo che da parte del Parlamento stesso. Il dibattito in Commissione - Torniamo alla commissione. Dopo un breve dibattito, in cui sono intervenuti i senatori Fiammetta Modena di Forza Italia (che ha enfatizzato il ruolo degli psicologi e degli educatori nel miglioramento della programmazione trattamentale), Franco Mirabelli del Pd e Angela Piarulli del M5S (secondo cui vanno indicate in prospettiva sopralluoghi anche in penitenziari di Sicilia, Sardegna e Puglia), la senatrice Grazia D’Angelo (M5s) si è sofferma sull’indicazione dei rapporti tra Dap e magistratura di sorveglianza, esprimendo “perplessità’“ per il tenore troppo puntuale della formulazione. Critica non condivisa dalla sua collega di gruppo, Piarulli, che invece ha giudicato “opportuna” la discussione del tema. Infine, ad intervenire è stato il senatore di Leu Pietro Grasso. L’ex magistrato ha chiesto di acquisire la documentazione sulle scarcerazioni, prodotta in commissione Antimafia in occasione del ciclo di audizioni sul tema e la relazione conclusiva. Liberazione anticipata a Cesare Battisti, la decisione presa è legale e giusta di Luca D’Auria* ilfattoquotidiano.it, 14 settembre 2020 Sono naturali e comprensibili le doglianze dei parenti delle vittime di Cesare Battisti alla notizia che al terrorista ed ex latitante sia stata concessa la liberazione anticipata. Ma quanto è accaduto dal punto di vista giuridico, e cioè il riconoscimento della “buona condotta” con conseguente riduzione, nel computo finale, della pena da scontare, è non solamente un fatto preveduto dalla legge e dunque perfettamente in linea con l’ordinamento, ma anche umanamente giusto. Non ha nulla a che vedere con il concetto abusato di “certezza della pena” e una sua presunta violazione. Anche per questo principio, al pari di quanto accade con quello di legalità, un traguardo dell’evoluzione del diritto subisce, nel linguaggio della polemica senza fine, una metamorfosi radicale così da trasformarsi in un grimaldello concettuale per soddisfare il desiderio del “pugno duro” e del giustizialismo facilone. Finché esisterà la Costituzione e non saranno promosse consultazioni popolari per “ridurre il numero delle garanzie” (vedasi il tormentato capitolo sulla prescrizione) la pena deve continuare ad essere finalizzata alla rieducazione del condannato (e questa è una conquista decisiva dello Stato di diritto). Chi è contrario a questa lettura della punizione dovrebbe andarsi a rileggere un po’ di storia del pensiero giuridico e rendersi conto di come andavano (e potrebbero ancora andare) le cose prima dell’introduzione del dogma per cui la pena non è una vendetta rusticana, ma deve porre come scommessa decisiva la “guarigione della società” (per parafrasare Durkheim). Ripeto: l’unica presa di posizione umanamente comprensibile è quella dei parenti delle vittime (anche se temo che questo umanissimo dolore venga strumentalizzato dal tentativo dei media di fomentare frizioni sociali). Il resto è pura polemica da reti sociali: un mondo dove, in nome di un ulteriore travisamento tipico della contemporaneità, viene proiettato il concetto di libera espressione di parola verso l’abuso di parola e dei commenti più estemporanei, provocatori e, assai spesso, privi di fondamento tecnico (giuridico se si discute di questioni di diritto, medico se di medicina e così via). La grande illusione di una maggiore democraticità delle società di oggi, fondate sulla possibilità di “dire tutto su tutto da parte di tutti” sarebbe vera se questa sorta di diritto “di tribuna” venisse esercitato - non dico con competenza - ma almeno con il rispetto delle forme espressive del rispetto e dell’educazione. Come già accennato in altri post, la società al tempo dei social si forgia intorno al linguaggio del turpiloquio dei concetti che, oramai, non investe solamente alcuni ribelli (ben venga questa categoria quando è portatrice di idee innovative) ma diviene la via normale di esprimersi. In questo senso la vicenda di Cesare Battisti non differisce certamente da tutte le altre. Forse è addirittura più roboante, in quanto fa gioco reinventare un’attualità sociale a fatti storicamente datati, rispetto ai quali coloro che ne parlano con veemenza poco o nulla ne sanno. In questo quadro generale mi sono chiesto se, sfruttando un presunto diritto di cronaca, non siano i giornalisti stessi a creare e ricreare polemiche e contrasti per alimentare un capitolo nuovo della tanto gustosa e vertiginosa pop justice di cui spesso scrivo nei miei post. La vicenda dell’ex terrorista Battisti - dati i suoi trascorsi di rivoluzionario di estrema sinistra - fa gioco in questa realtà politico-sociale in cui la nuova fenomenologia mediatica della destra del XXI secolo è caratterizzata da tratti linguistici che vengono raccontati come “chiari” e “rivolti alla gente” quando, assai spesso, sono piuttosto caratterizzati da toni che ricordano un “pugno nello stomaco” (seppur vengano costantemente conditi da ideologie familistiche, legalitarie e patriottiche). In verità Cesare Battisti non è libero e certamente non lo potrà essere per numerosissimi anni. La liberazione anticipata per buona condotta consiste nella decurtazione di un numero di giorni fissi ogni semestre che verranno scalati dal “fine pena” (cosiddetto “mai” nel gergo carcerario, nel caso di un ergastolano). I drammatici errori e gli orrendi delitti di cui si è macchiato Battisti hanno trovato lo Stato capace di reagire, seppure in ritardo e dopo una lunga latitanza. Una volta che è stato raggiunto questo scopo, e cioè la carcerazione, Cesare Battisti è diventato un detenuto come ogni altro (condannato all’ergastolo). Finché la giustizia ha un senso i suoi principi non devono subire rivolgimenti, e anche la liberazione anticipata è un principio che deve essere assicurato per consentire a chi ha “sbagliato” di redimersi. Questo è un principio che ha le proprie radici nel messaggio cristiano e proprio chi difende quei valori con forza e orgoglio dovrebbe farsi primo portatore di questi valori. *Avvocato e docente di Diritto Resiste a pubblico ufficiale chi con l’auto esegue manovre pericolose per non farsi prendere di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2020 Cassazione - Sezione V penale - Sentenza 26 giugno 2020 n. 19368. Integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale la condotta di colui che, per sottrarsi alle forze di polizia, non si limiti alla fuga alla guida di un’autovettura, ma proceda a una serie di manovre finalizzate a impedire l’inseguimento, così ostacolando concretamente l’esercizio della funzione pubblica e inducendo negli inseguitori una percezione di pericolo per la propria incolumità. Nella specie (sentenza della Cassazione penale 19368/2020) il reato è stato ravvisato rispetto alla condotta dell’imputato che si era sottratto all’identificazione degli operanti attraverso una complessa manovra di guida nel corso della quale, alla simulazione di resa, era seguita una proditoria fuga dal parcheggio di un centro commerciale, con concreta esposizione a rischi per le persone, conclusasi - dopo un inseguimento da parte delle forze dell’ordine- solo con l’impatto dell’auto sulla barriera di un casello autostradale. Consolidata è l’affermazione secondo cui, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra l’elemento materiale della violenza la condotta del soggetto che si dia alla fuga, alla guida di una autovettura, non limitandosi a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada (sezione VI, 20 maggio 2015, Farina, in una fattispecie in cui il reato è stato ravvisato a carico di soggetto che, datosi alla fuga, aveva posto in essere manovre spericolate di guida pur avendo a bordo del proprio veicolo un neonato; nonché, sezione I, 4 luglio 2019, Foriglio; sezione VI, 21 novembre 2019, Bodini). Sul punto si è ancora più in dettaglio precisato che il reato di resistenza postula la “violenza” o la “minaccia” per opporsi all’atto di ufficio o di servizio, il che presuppone - quanto alla prima ipotesi - un vero e proprio impiego di forza da parte dell’agente e - quanto alla seconda ipotesi - l’attuazione di un comportamento percepibile come minaccioso, in entrambi i casi volto a contrastare il compimento dell’atto del pubblico ufficiale. Per l’effetto, il delitto non è configurabile nel caso in cui l’agente ponga in essere una condotta di mera resistenza passiva, come nel caso in cui si dia semplicemente alla fuga, ovvero quando si limiti a divincolarsi come una reazione spontanea e istintiva al compimento dell’atto del pubblico ufficiale. Dovendosi piuttosto solo precisare, quanto alla fuga, che integra l’elemento materiale della violenza rilevante ai fini della sussistenza della resistenza punibile, la condotta del soggetto che si dia alla fuga, alla guida di una autovettura, non limitandosi a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada (sezione VI, 2 febbraio 2017, Billè). Il contributo causale alla commissione del reato fa scattare la violenza sessuale di gruppo di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2020 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 3 luglio 2020 n. 19987. Per la configurabilità del delitto di violenza sessuale di gruppo e per l’affermazione della partecipazione allo stesso non è necessario che tutti i partecipi abbiano preso parte a tutti i segmenti della condotta, né che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, essendo sufficiente che dal compartecipe sia comunque fornito un contributo causale alla commissione del reato, anche nel senso del rafforzamento della volontà criminosa dell’autore dei comportamenti tipici di cui all’articolo 609-bis del Cp. Lo ribadisce la Suprema corte con la sentenza 19987/2020. È principio pacifico quello secondo cui, ai fini dell’integrazione del reato di violenza sessuale di gruppo, non occorre che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, essendo sufficiente che dal compartecipe sia comunque fornito un contributo causale alla commissione del reato, anche nel senso del rafforzamento della volontà criminosa dell’autore dei comportamenti tipici di cui all’articolo 609-bis del codice penale (di recente, sezione III, 20 febbraio 2018, C.). Va altresì ricordato che il reato di violenza sessuale di gruppo, che presuppone la “partecipazione di più persone riunite” ad atti di violenza sessuale è configurabile anche nell’ipotesi che gli autori del fatto siano soltanto due, non essendo a tal fine necessario che l’atto sessuale sia compiuto contemporaneamente da tutti i partecipanti, essendo invece sufficiente la mera presenza di tutti, anche se l’atto viene poi posto in essere a turno da ciascuno dei partecipanti. Ciò in quanto l’elemento caratterizzante del reato è la presenza nel luogo del fatto di tutti i partecipi nel momento in cui viene posta in essere l’azione violenta o intimidatoria, cui la vittima non può sottrarsi per la più efficace costrizione esercitata da una pluralità di persone presenti sul posto, anche se appunto l’atto sessuale sia posto in essere da uno solo dei partecipi o da costoro a turno (sezione III, 13 maggio 2009, B. e altro). Applicazione di misure di prevenzione nei giudizi di cosiddetta “pericolosità generica” Il Sole 24 Ore, 14 settembre 2020 Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Pericolosità sociale - Giudizio - Valutazione. In tema di misure di prevenzione disposte nei confronti di soggetti c.d. pericolosi generici, e nell’ipotesi di aggravamento della misura, il giudizio di pericolosità deve essere strutturato intorno a fatti suscettibili di assumere rilievo quale indice di pericolosità del soggetto ricostruita intorno al requisito necessario, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, affinchè le condotte sintomatiche di pericolosità possano rientrare in via esclusiva nella lett. b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159/2011 e non su condotte di mera violazione delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione che appaiano riconducibili a manifestazioni delle condizioni psichiatriche del soggetto. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 1 settembre 2020 n. 24635. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Pericolosità sociale - Corte cost. n. 24 del 2019 - Provvedimenti definitivi anteriori di applicazione di misure di prevenzione personali fondate sulla pericolosità generica ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011 - Mancanza di “idonea base legale” - Revocabilità - Ragioni. In tema di misure di prevenzione è “sostanzialmente illegittimo”, e dunque suscettibile di revoca in sede di esecuzione, il provvedimento di applicazione di una misura fondata sul giudizio di cd. pericolosità generica, ai sensi dell’art. 1, lett. b), del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, che sia privo di adeguata motivazione circa la sussistenza del triplice requisito - delitti commessi abitualmente dal proposto che abbiano effettivamente generato profitti per il predetto, costituenti l’unico suo reddito o, quantomeno, una componente significativa dello stesso - necessario, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2019, affinché le condotte sintomatiche di pericolosità possano rientrare in via esclusiva nella lettera b) dell’articolo 1 del detto decreto. • Corte di cassazione, sezione I, sentenza 8 aprile 2020 n. 11661. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Pericolosità sociale - Pericolosi generici - Declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011 - Effetti della sentenza della corte costituzionale n. 24 del 2019 sui procedimenti in corso - Persistente legittimità della misura fondata anche sulla lett. b) dell’art. 1 del citato decreto - Condizioni - Fattispecie. Le misure di prevenzione disposte nei confronti dei soggetti c.d. pericolosi generici che rientrano in entrambe le categorie di cui alle lett. a) e b) dell’art. 1 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non perdono la loro validità a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 24 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della sola prima categoria di soggetti, a condizione che nella proposta e nel provvedimento applicativo non solo sia stata richiamata anche la categoria di cui alla lett. b) della norma citata, ma, altresì, che il giudice della misura abbia accertato, sulla base di specifiche circostanze di fatto, che il proposto si sia reso autore di delitti commessi abitualmente in un significativo arco temporale, da cui abbia tratto un profitto che costituisca - ovvero abbia costituito in una determinata epoca - il suo unico reddito o, quanto meno, una componente significativa del medesimo. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure il provvedimento di confisca di beni disposto nei confronti di un soggetto che, dedito all’attività di usura e riscossione violenta dei crediti per un lasso temporale di circa quindici anni, aveva ricavato da tali attività introiti di rilevante importo che, unitamente alla attività di evasore fiscale seriale, risultavano costituire l’ammontare prevalente del suo reddito). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 10 aprile 2020 n. 12001. Sicurezza pubblica - Misure di prevenzione - Revoca, modificazione o sospensione - Aggravamento della misura - Giudizio di pericolosità - Valutazione ex novo - Esclusione. Nell’ipotesi di aggravamento della misura di prevenzione personale, non si deve procedere “ex novo” al giudizio di pericolosità, essendo stata quest’ultima già definitivamente accertata in sede applicativa della misura. (La Corte ha precisato che, in caso di aggravamento, la valutazione è relativa ai “fatti nuovi” indicati a sostegno dell’accresciuta pericolosità). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 16 aprile 2018 n. 16790. Genova. Dentro il carcere vedere per capire di Alessandra Ballerini La Repubblica, 14 settembre 2020 Obbedendo inconsciamente all’imperativo morale di Calamandrei “bisogna vedere” siamo tornati a “vedere” il carcere di Marassi con il consigliere Pastorino e il dott. Campus. Bisogna “vedere” e bisognerebbe capire. Per questo la lettura dell’ultima relazione al Parlamento del Garante dei diritti delle persone private della libertà è un ottimo strumento di comprensione anche per chi non ha la possibilità di visitare il carcere. Mauro Palma, il garante nazionale, durante la presentazione della relazione ha pronunciato una frase che è rimbombata nella testa di ogni ascoltatore, compresi i più distratti: si va in carcere perché si è puniti, non per essere puniti. Il carcere, la privazione della libertà e dunque la mortificazione della dignità scippata della responsabilità personale, è già la pena, di per sé terribile. Non occorre e soprattutto non è giusto né legittimo, aggiungerne altre. Visitando le labirintiche sezioni del carcere genovese, scambiando gli sguardi con quelli attenti e angosciati delle persone ristrette, parlando con la direttrice e la vicecomandante, si ha la chiara sensazione che chi entra in carcere sia già stato punito e non solo dal giudice. Chi ci accompagna con pazienza e competenza in questo viaggio, ci racconta le storie di tutti questi volti nascosti dalle grate e di ciascuno ricorda i nomi. Sono storie in cui la “pena” è iniziata ben prima della carcerazione. Sono storie di povertà, migrazioni forzate, disagio sociale, dipendenza, disturbi mentali, tragedie o conflitti familiari. Sono storie di sfortune e inciampi nelle quali è mancata una mano tesa di aiuto e la caduta alla fine si è rivelata rovinosa e senza rete di protezione. Queste persone stanno rinchiuse qui dentro non solo e non tanto per gli errori commessi ma perché non si sa dove altro metterli e perché nessuno se ne è potuto o voluto prendere cura. Il carcere non è evidentemente la soluzione, ma solo un nascondiglio. Come mettere la polvere sotto il tappeto. In assenza di un numero adeguato di assistenti sociali e psicologi, come lamenta la direttrice, queste creature non vedranno che accrescere i loro disagi e la loro rabbia. Chi il carcere lo vede, chi lo capisce, chi ci lavora, sa perfettamente che nella maggior parte dei casi la prigionia, la punizione fine a se stessa, il dolore e l’emarginazione che comporta, non solo è totalmente inutile ma quasi sempre dannosa e talvolta fatale (il sito Ristretti Orizzonti ci ricorda che nei primi 8 mesi del 2020 nelle carceri italiane sono morte 108 persone e di queste 41 si sono suicidate, ritenendo la morte più accettabile della reclusione). A Marassi nello scorso ottobre due persone si sono impiccate. Al momento della nostra visita a fronte di una capienza massima di 546 uomini, le persone detenute sono 689. Tra loro molti hanno meno di 25 anni, a volte sono poco più che diciottenni, costretti condividere la pena con adulti. Oltre il 60% delle persone recluse sono straniere e circa un sesto dei ristretti ha problemi di tossicodipendenza. Ascoli Piceno. Da “Amelia” una seconda opportunità di vita di Stefania Mistichelli cronachepicene.it, 14 settembre 2020 L’associazione di promozione sociale lavora per favore il reale reinserimento sociale di persone con difficoltà: detenuti in regime di misura alternativa alla detenzione, ex-tossicodipendenti, ex alcolisti. Flammini: “Perché il passato di ciascuno è importante, ma il futuro non può però essere pensato solo in termini di utopia”. Nata nel 2000, l’Associazione Amelia mira a sviluppare interventi a favore di un effettivo reinserimento sociale di ex-tossicodipendenti, ex alcolisti e detenuti in regime di misura alternativa alla detenzione e si configura come una struttura educativa e relazionale che interagisce con le strutture ministeriali, con il territorio e con i contesti familiari e sociali. “Un settore nel quale o ci credi o non riesci ad andare avanti. Questo anno avremmo festeggiato il ventennale - spiega la presidente Enrica Flammini - ma ovviamente per il Covid abbiamo dovuto annullare la tradizionale festa che organizziamo di solito con tutte le istituzioni”. Enrica Flammini è stata un’educatrice, lavorando nella sua carriera in diverse comunità terapeutiche. “Stando in comunità - racconta - vedevo tanti ragazzi con problemi di dipendenza entrare ed uscire in continuazione dal carcere, e quando uscivano non avevano niente se non la strada. Allora ho deciso di trasformare Amelia, nata come nucleo operativo dedicato alla prevenzione (facevamo unità di strada, eventi in piazza con tutte le altre comunità che chiamavamo le “comuniadi” eccetera) in un’associazione che si occupasse di detenuti”. Infatti, l’associazione Amelia gestisce a San Benedetto del Tronto un centro diurno, in via Carducci, e una casa alloggio in via Ceci, casa Amelia. Il primo in condizioni normali, pre covid, poteva ospitare fino a cinquanta ospiti, mentre oggi ne accoglie undici la mattina e undici il pomeriggio. La casa alloggio dispone di otto posti, dove gli ospiti possano stare almeno tre mesi. “È il tempo minimo in modo che possano organizzarsi una volta usciti dal carcere - spiega la presidente - anche perché spesso capita che escano da un giorno all’altro, senza preavviso. In questi casi noi interveniamo e li accogliamo. In questo momento siamo pieni”. Inoltre Amelia dispone di centri di ascolto nei comuni di Cupra Marittima, Grottammare e Martinsicuro Teramo (in collaborazione con i Comuni stessi) e di sportelli di ascolto e laboratori all’interno degli Istituti penitenziari di Ascoli e Fermo. “Con un lavoro di rete - continua la Flammini - accogliamo, per un percorso riparatorio ed educativo, soggetti svantaggiati in regime di misura alternativa alla detenzione e provenienti dai vari Istituti Penitenziari di Marche ed Abruzzo e soggetti bisognosi di aiuto con condizioni economiche compromesse, tra cui ex detenuti e adulti a rischio di emarginazione. Non possiamo ospitare minori e persone con problemi psichiatrici”. La filosofia di Amelia è quella secondo cui il cambiamento deve essere teso a star bene con se stessi, con gli altri e con la società tutta, annullando quindi quell’ideale dello star bene prefigurato da modelli errati. “Il passato di ciascuno - spiega Enrica Flammini - è comunque importante, costituisce il punto di partenza per comprendere gli eventi appartenenti al proprio percorso di vita, merita una rilettura non solo cognitiva ma anche affettiva. Allo stesso modo è importante il futuro che non può però essere pensato solo in termini di utopia, di progetto a lunghissima scadenza. Per questo, è necessario attribuire valenza positiva alla quotidianità, non già intesa come sterile ripetitività, bensì vissuta come momento privilegiato della relazione e dell’azione”. Come azione di promozione sociale, Amelia si pone, tra i suoi obiettivi, quelli di creare opportunità occupazionali ispirandosi ai principi della solidarietà e della legalità, di sviluppare competenze lavorative, culturali e sociali e potenziare le capacità attraverso la realizzazione di laboratori professionalizzanti. Per svolgere le sue attività, l’associazione conta su un staff di volontari, tutte figure professionali. “L’equipe - illustra Enrica Flammini - è composta da due psicoterapeuti, due psicologhe, quattro educatori, quattro operatori, due maestri d’arte, due legali e volontari esterni”. Ad esempio, sono diversi i laboratori e le attività organizzate all’interno delle Case Circondariali di Ascoli e Fermo. Tra questi, il laboratorio dove i detenuti imparano a realizzare oggetti in legno. “In particolare - racconta la presidente dell’associazione - ci siamo “specializzati” in oggetti sportivi. I ragazzi realizzano questi oggetti molto belli ispirati alle squadre di calcio del territorio, che poi vendiamo nei mercatini”. L’Associazione Amelia, negli anni, ha stipulato importanti convenzioni e collaborazioni: dalla convenzione con il Ministero di Giustizia-Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Macerata-Ascoli Piceno-Fermo a quella con il Tribunale di Ascoli. “Inoltre - aggiunge Enrica Flammini, collaboriamo con diversi servizi, come i Sert di San Benedetto del Tronto, Ascoli, Porto Sant’Elpidio (Fermo) e Nereto (Teramo) e i Comuni di San Benedetto, Grottammare, Cupra Marittima e Martinsicuro (Teramo)”. “Tutte le attività e servizi proposti dall’associazione - conclude la presidente - vengono eseguiti in volontariato. Non essendo sostenuta finanziariamente, riesce ad andare avanti grazie all’impegno dei volontari, all’attuazione di piccoli progetti, al sostegno del 5 x mille, alle offerte di privati, ai contributi di aziende, al contributo del Comune di San Benedetto e alle elargizioni nelle parrocchie”. L’Aquila. Ingiusta detenzione, Petrilli torna a Roma Il Centro, 14 settembre 2020 Giulio Petrilli (Comitato per il diritto al risarcimento per ingiusta detenzione a tutti gli assolti) manifesterà mercoledì 7 ottobre alle 10 a Roma. “La manifestazione”, informa Petrilli, “è stata autorizzata dalla questura di Roma. Sarò nuovamente davanti a Montecitorio a manifestare per chiedere al parlamento di abrogare un comma anticostituzionale che vieta il risarcimento per ingiusta detenzione a coloro i quali, pur se assolti con sentenze definitive, avrebbero contribuito, con il loro comportamento, a favorire il proprio arresto. Ma può una persona favorire il proprio arresto? Io credo di no, è contro natura. Ma per la legge italiana è possibile. Abrogare un comma del genere, palesemente anticostituzionale, il primo dell’articolo 314 del codice di procedura penale, è quello che chiederemo. Invito tutti a partecipare. L’ingiusta privazione della libertà personale va risarcita sempre. La commissione petizioni del parlamento europeo mi ha detto che ho ragione, impegnandosi a creare una legge che sancisca il diritto al risarcimento per tutti gli assolti”. Lecce. Corsi di recitazione e spettacoli: il teatro riparte dal carcere di Luca Bergamin Corriere della Sera, 14 settembre 2020 I detenuti stessi scriveranno i testi che poi metteranno in scena. Il progetto di Franco Ungaro con l’Accademia Mediterranea dell’Attore coinvolgerà anche i quartieri disagiati della città. Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita. Lo disse Eduardo De Filippo. Una conferma arriva dalla Casa Circondariale di Lecce dove riprendono, dopo la sospensione causata dalla pandemia, i corsi di recitazione destinati ai detenuti. Ad organizzarli è ancora Ama, l’Accademia Mediterranea dell’Attore (accademiaama.it), diretta da quello scopritore e seminatore di talenti che è Franco Ungaro. Merito suo se sino allo scorso inizio di primavera più di trenta ospiti della Casa Circondariale, persone condannate alla reclusione per reati legati a droga, rapine, soggetti a pene non leggere, hanno accettato di prendere parte alle lezioni tenute da quattro operatori, intraprendendo così un percorso di reciproca fiducia e ascolto, proseguito poi online e culminato in un’apertura al pubblico esterno. “Grazie al sostegno dell’illuminata direttrice Rita Russo, puntiamo - dice Ungaro -, oltre che alla stesura di testi da parte dei detenuti stessi, all’allestimento di spettacoli che si possano svolgere nella casa circondariale, ai quali tutti possano assistere. L’esempio del Carcere di Volterra è la strada da seguire: noi coinvolgiamo gli ospiti in una serie di improvvisazioni, confessioni e sguardi. Posso dire che ci sentiamo già una grande e unica famiglia umana e teatrale. Vogliamo che insegnare loro i lavori dello spettacolo: potrebbe in futuro tornare utile”. L’attenzione di Ama verso il sociale, del resto, è comprovata da numerosi progetti, tra i quali il più recente e prossimo alla ripartenza è quello del coinvolgimento delle periferie e quartieri più disagiati, come ad esempio il 167 di Lecce, noto alle cronache per il coinvolgimento di parte dei suoi abitanti in episodi di cronaca legati alle faide della Sacra Coronata Unita. “Fare teatro lì, partecipando anche ai progetti di street art, ha significato mostrare alle famiglie che non sono sole, che l’arte è un mezzo di coinvolgimento e di riscatto delle coscienze - continua Ungaro. L’empatia che si è creata è tale che adesso quelle stesse famiglie assistono a tutti gli spettacoli che facciamo al Museo Castromediano e in altre sedi, e ci chiedono di tornare a fare laboratori tra i palazzotti degradati. La soddisfazione umana che si prova è davvero tanta e reciproca”. Aveva dunque sempre ragione Eduardo De Filippo quando sosteneva che il teatro porta alla vita e la vita porta al teatro. Non si possono scindere le due cose. Il Teatro in Carcere riceve il Premio Speciale “Books For Peace 2020” Ristretti Orizzonti, 14 settembre 2020 La quarta edizione del Premio Books For Peace assegna un riconoscimento speciale per l’Impegno Sociale al Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Books For Peace nasce da un progetto di un gruppo di associazioni: Funvic (Fundação Universitária Vida Cristã / Unifunvic) - Brasil club Unesco Bfuca-Wfuca sezione Europa, Anaspol (Associazione Nazionale Agenti Sottufficiali Polizie Locali), Ass.ne Nazionale Giudici di Pace, Iadpes International Academy Diplomatic Pax et Salus, con lo scopo di valorizzare i libri, la cultura, lo sport, l’arte. Al fianco di un concorso letterario il Premio tratta gli argomenti della Pace a tutto tondo, non solo tra i popoli, ma dei popoli, come la violenza di genere, il bullismo, le discriminazioni razziali e religiose, l’integrazione sociale e culturale. La quarta edizione di Books For Peace 2020 ha voluto condividere, valorizzare, scoprire l’arte e la cultura di chi vede il mondo da un altro punto di vista, premiare le loro attività di vita e cultura. Tra queste l’esperienza del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (Cntic), fondata nel 2011 in occasione dell’XI Convegno internazionale su “I teatri delle diversità” promosso dal Teatro Universitario Aenigma e dalla Rivista europea omonima fondata all’Università di Urbino Carlo Bo da Vito Minoia ed Emilio Pozzi, docenti di discipline dell’educazione e dello spettacolo (il primo anche presidente del Cntic). Oggi il Coordinamento riunisce oltre 50 esperienze da 15 regioni italiane (http://www.teatrocarcere.it/) ed ha strutturato un Protocollo d’Intesa con il Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità) e l’Università Roma Tre per la promozione e diffusione del teatro in carcere. Grazie a primi studi avviati con l’Istituto Superiore di Studi Penitenziari nel 2014 i primi dati significativi rivelano che il tasso di recidiva per chi segue una buona esperienza di teatro in carcere si riduce dal 67% al 6%. Il lavoro sin qui sviluppato è stato considerato una “buona pratica” in ambito internazionale e il 26 marzo 2019 l’International Theatre Institute (Iti - Unesco) decide di celebrare ufficialmente la Giornata Mondiale del Teatro (cerimonia abitualmente organizzata presso il quartier generale Unesco di Parigi) nell’istituto penitenziario di Pesaro riconoscendo il valore universale della pratica del teatro in carcere. A novembre 2019 a Urbania (Pesaro e Urbino) prendono avvio i lavori dell’International Network Theatre in Prison (Intip - theatreinprison.org), organismo partner dell’ITI-Unesco. Il Premio dunque segna un percorso ormai maturo che sta coinvolgendo varie altre istituzioni (Università, Istituzioni scolastiche, Contesti per la Giustizia minorile e di comunità, Uffici di Esecuzione Penale Esterna, Teatri, Enti Locali) e giunge nel momento molto importante della ripresa delle attività dopo il Lockdown con in cantiere due iniziative significative: il XXI Convegno internazionale che si terrà a Urbania il 29-30-31 ottobre 2020 con il titolo Dialoghi tra pedagogia, teatro e carcere (a breve il programma sul sito https://www.teatridellediversita.it/) e la Settima Rassegna nazionale itinerante Destini Incrociati in collaborazione con l’Università di Roma Tre e l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro nella seconda metà di novembre 2020 (data da definire) con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo. Il commento di Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere: “Sono grato e onorato di ricevere questo importante riconoscimento a favore di tutti gli operatori che con impegno e dedizione promuovono il teatro in carcere in Italia e a livello internazionale. Nella condizione di privazione della libertà personale, tale esperienza, etica ed estetica allo stesso tempo, può stimolare coscienza e azione in una prospettiva di superamento della marginalità e dell’esclusione, lasciandoci sperare nelle potenzialità dell’arte e della cultura come strumenti di prevenzione e formazione per una società inclusiva”. “Cattività”: la presa di consapevolezza di un gruppo di donne di mafia diventate attrici di Paola Piacenza iodonna.it, 14 settembre 2020 Sette detenute del carcere di massima sicurezza di Vigevano salgono sul palcoscenico per raccontare la loro perdita dell’innocenza. Un film, che viene presentato alla Movie Week di Milano, le ha seguite nel percorso. Sono mogli e figlie di mafiosi, camorristi, membri della ‘ndrangheta. Sono rinchiuse in un carcere di massima sicurezza. Lì partecipano a un progetto di teatro partecipato: Mimmo Sorrentino, regista, drammaturgo, guida, chiede loro di andare indietro nel tempo fino all’infanzia e fino in fondo a loro stesse. E poi di condividere. Dapprima, insieme. Perché Rosaria si appropri della vita e della storia di Margherita, e il padre di Teresa diventi il fratello Federica. Infine con il pubblico. Perché a queste donne, che sono “donne di mafia”, per la prima volta in Italia è stato concesso di uscire, sotto scorta, per un motivo diverso dai processi. L’incontro con spettatori, studenti e studiosi del fenomeno mafioso, le mette allora di fronte alle loro responsabilità. È difficile rinnegare la Mafia, le origini; ma se le origini sono ferali e violente e se sul palco le attrici urlano il dolore che hanno provato da bambine in quei contesti di violenza, allora ancora una speranza c’è. Anche se ancora in gabbia. Cattività, film di Bruno Oliviero, che lo dirige, Luca Mosso e Mimmo Sorrentino, segue la preparazione di tre spettacoli del progetto “Educarsi alla libertà” e documenta il percorso di presa di consapevolezza ed emancipazione che le donne compiono insieme. Iniziato nel 2014 il progetto è diventato un caso di rilevanza nazionale non solo per la qualità dei prodotti artistici realizzati (alcune di queste detenute-attrici insegnano teatro in carcere agli studenti del lll anno della Scuola Paolo Grassi), ma soprattutto per le ricadute sociali e giuridiche che ha generato. Il film porta a epigrafe una frase di Nando Dalla Chiesa: “Quando le sette donne tornano insieme sul palco, felici dell’accoglienza, e le si vede una accanto all’altra nei loro abiti curati, l’applauso capisce di essere giusto, non blasfemo verso le vittime di quei clan che portano quei cognomi. Se stiamo scoprendo la legalità o lo spirito della legge, non saprei. Certo queste donne stanno cercando di scoprire sé stesse. E con quelle storie alle spalle non è poco, proprio non è poco”. Nando Dalla Chiesa ha ospitato lo spettacolo nell’aula magna dell’Università Statale di Milano, e lì, come nei teatri di Milano, Torino e Roma dove le detenute hanno potuto incontrare il pubblico, è vero, molti sono stati gli applausi, ma ancora di più le domande: “Avreste potuto avere una vita diversa, considerato la realtà in cui siete nate e cresciute?” chiede una spettatrice. “Considerata quella realtà, sarebbe stato impossibile” risponde una di loro. “Quando Mimmo Sorrentino ci ha raccontato cosa stava facendo con le donne del reparto di Alta Sicurezza del carcere di Vigevano abbiamo pensato che stava accadendo qualcosa di nuovo nel racconto della Mafia nel nostro paese” spiegano gli autori. “Nell’esperimento di scrittura partecipata si raccontava il passaggio dall’età dell’innocenza all’ingresso nella società mafiosa. Una società di privazioni emotive osservata dal punto di vista delle bambine. Quando siamo andati in carcere ci siamo resi conto che c’era anche un altro spazio di novità, una gabbia diversa da quella che rinchiudeva queste donne nel carcere. Una gabbia che, nel liberarle, le costringeva a pensarsi nel profondo, a mettersi in discussione. Le sbarre della loro realtà di bambine che cercavano di spezzare”. Cattività verrà presentato nel corso della Movie Week, al teatro Parenti di Milano dalla Civica Scuola di Cinema L. Visconti e da Filmmaker Festival martedì 15 settembre in due proiezioni, alle 18.30 e alle 21.30. Ingresso con prenotazione obbligatoria, L’incontro con il regista Bruno Oliviero, Mimmo Sorrentino, alcune delle protagoniste del film, il critico cinematografico Luca Mosso, il critico teatrale Oliviero Ponte di Pino e la giornalista e docente delle Civiche scuole di cinema e di teatro Ira Rubini si terrà in presenza e in diretta streaming su Facebook e Youtube www.facebook.com/scuoladicinema.milano e www.youtube.com/user/FondazioneMilano. “Storia segreta della ‘ndrangheta”, un libro di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso di Marianna Vallone La Città di Salerno, 14 settembre 2020 È l’organizzazione criminale più ricca e potente in Italia ed Europa. Una mafia arcaica fatta di picciotti e rozzi contadini, che oggi dominano l’economia. Cos’è accaduto, com’è nata e come si è sviluppata nei secoli, lo racconta chi da anni è impegnato nella battaglia contro la criminalità organizzata. Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, “Storia segreta della ‘ndrangheta” ne conosce ogni segreto. Conosce le carenze dello Stato, l’impatto della mafia sulla società e gli strumenti per combatterla. La complessità della ‘ndrangheta, Nicola Gratteri, insieme ad Antonio Nicaso, l’ha raccontata pure nei suoi libri, ben 18: lo fanno da 15 anni. Ad una sola domanda non era stata data ancora una risposta: perché, nell’Ottocento, i ladri di polli in Italia sono diventati mafia mentre in Europa sono rimasti ladri di polli. Nel suo ultimo libro, “Storia segreta della ‘ndrangheta”, lo rivela. Come ha scoperto i segreti della ‘ndrangheta? Facendo tanta ricerca storica. Con il professore Nicaso siamo partiti da prima dell’Unità d’Italia, quando nell’Isola di Favignana erano detenuti non solo politici, ma anche pregiudicati campani, calabresi e siciliani. C’è stato un interscambio di riti con terminologie comuni, una sorta di copia: i pregiudicati analfabeti hanno cercato di imitare i detenuti politici che erano colti e sapevano scrivere. Li guardavano con ammirazione e hanno cercato di mutuare il linguaggio, i comportamenti. In questa commistione tra le tre tipologie di criminali, inizia a nascere una terminologia comune, “picciotto”, un termine della ‘ndrangheta usato anche in Campania. Più avanti, nell’Ottocento, com’era la situazione? Nel 1869 ci sono le prime elezioni comunali a Reggio Calabria con due liste, una capeggiata dai Borboni e dalla Chiesa, l’altra dai latifondisti e aristocratici. Questi pagano dei picciotti, tra i quali Francesco De Stefano, che ai più dice poco: era stato condannato per reati comuni. Un ladro di polli. E fu chiamato per fare atti di pestaggio, di terrorismo, contro i candidati della lista opposto e i loro elettori. Questo gesto ha dato legittimazione ai ladri di polli, che a quel punto sono diventati interlocutori della classe dirigente. Perché dice che Francesco De Stefano ai più dice poco? Perché lui nel 1869 era un ladro di polli, ma la sua famiglia, i De Stefano, oggi controlla metà Reggio Calabria e un quarto di Milano. Quindi la classe dirigente ha favorito la crescita delle mafie? Inizialmente la classe dirigente ha usato la mafia, ha pensato di usarla, di poterla usare pagandola, per avere scorciatoie, servigi e certezza del successo in alcune azioni. Nella realtà non si faceva altro che legittimarla. Un altro episodio? Il terremoto del 1908, ad esempio, ha spazzato via la città di Reggio Calabria: sono morte oltre 100mila persone. Il governo centrale, per risolvere il dramma, con una legge ha stanziato 175 miliardi di lire: una cifra ingente a quei tempi. La legge prevedeva che, a chiunque avesse avuto una casa distrutta, lo Stato avrebbe dato il 70% della spesa complessiva per ristrutturarla. Ma calandoci nel momento scopriamo che la gente non aveva soldi, quel 30% la gente non sapeva dove prenderlo. Ci ha pensato la picciotteria: addirittura arrivarono degli appartenenti alla Mano Nera di New York per prestare soldi. È stata favorita l’usura, involontariamente, attraverso una legge sbagliata. Ha detto spesso che la mafia è più presente sui territori della politica, è così? Sì soprattutto negli ultimi decenni. Un capomafia è presente sul territorio 365 giorni all’anno, mentre un politico è presente 4 mesi prima delle elezioni e magari dopo essere eletto cambia anche il numero di telefono per non essere disturbato. Un mafioso è l’interlocutore diretto dei cittadini, del popolo, degli emarginati, delle periferie, dove la politica non si fa vedere, quindi quando arriva il momento di votare, l’emarginato, il disoccupato e il popolo voteranno per il candidato prescelto dal capomafia. È il politico che va dal capomafia o viceversa? Negli ultimi 25 anni è la politica che va dal capomafia perché è lui che ha i voti. Il politico non ha più credibilità sul territorio, perché non dà risposte. Il mafioso dà risposte: parziali, drogate e da schiavi, ma le dà. Perché la ‘ndrangheta è la meno conosciuta delle altre mafie? I motivi sono diversi. La mafia non è stata narrata nei libri, la ‘ndrangheta però è stata brava a mimetizzarsi, ha cercato accordi con le istituzioni, sopravvivendo a tutti i periodi storici. Lei ha avuto mai paura? Sì ogni tanto. Mi accorgo che la paura la sento anche fisicamente, la lingua mi diventa amara. Però l’importante è dominare la paura, parlare e discutere con la morte. L’importante è essere convinti che quello che si fa serve, serve a rendere più vivibile un territorio, solo così il dolore e la fatica passano. Odio e silenzio i veri mandanti di Maurizio de Giovanni La Stampa, 14 settembre 2020 Sarebbe facile. Sarebbe molto facile dare la solita lettura di quest’ennesima, atroce storia: interpretare nel modo consueto l’inseguimento notturno delle due moto tra Caivano e Acerra, un fratello che non perdona alla sorella la sua storia d’amore e la sperona, e mentre lei muore col collo spezzato lui si accanisce sulla compagna a calci e a pugni, e mentre quella lo prega e lo scongiura di occuparsi della sorella lui niente, continua a picchiare, e continua e continua finché arrivano i carabinieri e si rende conto delle conseguenze di quello che ha fatto, di quello che realmente è accaduto. Sarebbe facile parlare di arretratezza e degrado, di quanto il Sud del paese e del mondo sia indietro, dell’infamia dell’ignoranza e della violenza che rende in qualche modo insuperabile l’incapacità della comprensione. Sarebbe facile levare il solito grido di dolore, richiamando l’attenzione superficiale e distratta sull’assenza delle istituzioni in un luogo folle in cui tutti sanno esistere la piazza di spaccio più grande d’Europa e nessuno fa niente per estirparne il cancro, in un comune da anni commissariato per il forte intreccio tra malavita organizzata e amministrazioni, dove non è possibile esercitare liberamente il diritto al voto. Sarebbe facile richiamare la difficoltà della scuola, in un luogo dove un ragazzo su tre non frequenta alcun istituto nell’età dell’obbligo all’istruzione e nessuno se ne occupa. Sarebbe facile puntare l’indice su strutture familiari che non sanno proporre modelli, dove la strada è una giungla e dove i maestri sono quelli che propongono un modo semplice e diretto di fare soldi, e poco importa se questi modelli portano a una precoce morte violenta o a lunghe carcerazioni che non sono certo redentive ma che consolidano e acuiscono la determinazione a vivere da delinquenti. E sarebbe meno facile ma comunque possibile dire che comunque Maria Paola aveva voluto vivere e viveva la propria storia d’amore, e che da anni conviveva con chi amava, e che se non fosse stato per la nebbia che ha avvolto il malfunzionante cervello e il cuore ottuso di suo fratello ancora la vivrebbe, proprio lì e proprio adesso, nonostante il mondo e nonostante una assurda, ignobile e maligna morale con la emme molto minuscola. Sarebbe facile. Noi invece non riusciamo a liberarci dall’orribile sensazione che esista un filo rosso e grondante che unisce tutti gli eventi che la cronaca ci getta impietosa in faccia, nelle pieghe del racconto di una pandemia che distanzia e allontana e rende soli e silenziosi. Non riusciamo a liberarci dal riconoscere una perversa, dolorosa identità in questi corpi insanguinati e in queste morti inutili e quindi ancora più agghiaccianti. E Maria Paola, uccisa dal proprio stesso sangue solo perché era innamorata, si colloca al fianco di Willy che voleva difendere un amico dalla furia folle, e al fianco di Filippo, che era andato in discoteca a Bastia Umbra ed è morto in una rissa; e di Evan, che non aveva ancora due anni ma che prima di morire aveva già conosciuto l’ospedale per i precedenti maltrattamenti, e di Gioele, il cui minuscolo cadavere è stato sbranato dai cani nel silenzio di un declivio al fianco di un’autostrada. Perché a unire questi morti, a legare questo sangue c’è il silenzio, l’indifferenza e l’incapacità di prevedere qualcosa che era leggibile, che si poteva immaginare e fermare prima. E c’è l’odio che caratterizza quest’epoca, alimentato nelle aule della politica e nei talk show in cui se urli e strepiti e sbavi con gli occhi iniettati di sangue sei più cool, più attraente e più ascoltato. Un odio profondo e divisivo, un’intolleranza sdoganata come fosse un’opinione, un rispettabile punto di vista. Che invece è solo concorso in omicidio. Omofobia, in Parlamento legge al palo da 20 anni di Adolfo Pappalardo Il Mattino, 14 settembre 2020 Tra stop and go la Camera solo un mese fa è riuscita a portarla in aula su iniziativa dei democratici. Sono vent’anni che in Italia si discute di un inasprimento della pena per chi commette reati di discriminazione sessuale e di genere ma sinora nulla. E se un passo in avanti c’è stato, viene dal Pd con la cosiddetta norma Zan, dal nome del relatore, il deputato democrat Alessandro. Si prevede di aggiornare i delitti della legge Mancino (contro le discriminazioni per motivi razziali, etnici e religiosi) aggiungendovi anche quelli di carattere sessuale. Oltre a questo, la nuova legge mira a diffondere una cultura della tolleranza, con l’istituzione della giornata nazionale contro l’omofobia e la transfobia. Solo il 5 agosto alla Camera c’è stata la discussione generale e a settembre era previsto l’esame del provvedimento, comprese due pregiudiziali di costituzionalità presentate da Fratelli d’Italia e Lega. Ma perché tanta lentezza? Nella scorsa legislatura il democrat Ivan Scalfarotto tentò di portare a casa le norme ma alla fine si arrese. Da un lato il mondo arcobaleno, dall’altro la Chiesa. Due esigenze contrapposte che non sono mai scese a compromessi, né si è riuscito a trovare una mediazione. E, tanto per capirci, appena nel giugno scorso la Conferenza Episcopale Italiana, in documento ufficiale alla vigilia della discussione della legge Zan in Parlamento, faceva notare come “nell’ordinamento giuridico del nostro Paese esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio. Questa consapevolezza ci porta a guardare con preoccupazione alle proposte di legge attualmente in corso di esame presso la commissione Giustizia della Camera dei Deputati contro i reati di omotransfobia: anche - sottolinea la Chiesa italiana - per questi ambiti non solo non si riscontra alcun vuoto normativo, ma nemmeno lacune che giustifichino l’urgenza di nuove disposizioni”. Un alt pesantissimo dalla Chiesa italiana che il centrodestra, in particolare, ha fatto suo. “Il vero obiettivo della proposta di legge Zan sull’omofobia è quello di introdurre un reato di opinione”, diceva la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni all’indomani del documento della Cei. “Il rischio - spiegava invece il leghista Salvini a inizio luglio quando il ddl Zan arrivò in commissione - è di sconfinare nell’ideologia, ed è un rischio troppo elevato. Per quel che mi riguarda se qualcuno viene discriminato, insultato, pestato, l’unica via possibile è la galera. Non esiste il pestaggio più grave o l’insulto più grave. Non ci sono differenze, altrimenti anche noi presentiamo una legge ma questa volta contro l’eterofobia”. Non a caso ieri, dopo l’omicidio della 22enne di Caivano, è la Sinistra a prendersela con i due politici di centrodestra. “La tragedia di Maria Paola ci dice quanto ci sia bisogno di una legge contro l’omotransfobia. Salvini e Meloni avranno ancora il coraggio di non riconoscere questa emergenza a cui la politica deve dare una risposta, subito?”, si chiede il portavoce nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. “Il nostro Paese non può più stare fermo ad attendere l’ennesimo caso, l’ennesima discriminazione, l’ennesimo omicidio. Dobbiamo approvare la legge contro l’omotransfobia e la misoginia e dobbiamo farlo subito: dall’estensione della legge Reale-Mancino a questa fattispecie di reato, fino all’istituzione di centri antidiscriminazione e di case rifugio per dare riparo e sostegno alle vittime”, spiega Alessandro Zan, il deputato Pd e relatore del ddl contro omotransfobia e misoginia. E aggiunge: “Il Parlamento deve assumersi le proprie responsabilità e deve dare al Paese una norma efficace perché questo ritardo continua a mietere vittime”. “È un’altra drammatica conferma dell’urgenza di approvare la legge del Pd contro l’omofobia e la transfobia”, chiede ieri il segretario democrat Nicola Zingaretti. Mentre la legge Zan approdava alla Camera, il 7 agosto scorso la Campania si è dotata della legge n. 37/2020 ovvero “Norme contro la violenza e le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere”. “Abbiamo lavorato molto con l’assessora Marcirai, la commissione Pari Opportunità e la Consulta per la condizione femminile”, spiega Loredana Raia, consigliere Pd e promotrice della legge. Ovviamente la norma campana non può prevedere sanzioni ma istituisce un Osservatorio e favorisce progetti e interventi di accoglienza, soccorso, protezione e sostegno alle vittime di questo tipo di violenza. Con una dotazione finanziaria però di appena 300mila curo per il triennio 2020-2022. Ma ad oggi, dopo il varo, non c’è traccia di iniziative. “Chiederò - conclude la Raia - di accelerare le procedure per rendere operativa la legge approvata, attivando subito l’osservatorio regionale”. Libia. Ricatto all’Italia: “I pescatori saranno liberi se ci restituite i calciatori” di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 14 settembre 2020 Bengasi vuol far passare per atleti 4 scafisti, condannati per omicidio. Il sequestro dei due natanti e dei 18 pescatori siciliani bloccati a Bengasi da dieci giorni rischia di trasformarsi in una proposta indecente, “comunque irricevibile”. Perché dalla Libia, non dalla Tripoli del traballante governo riconosciuto dall’Onu, ma da ambienti considerati vicini al generale della Cirenaica Khalifa Haftar rimbalza in Italia la proposta di una trattativa che trasformerebbe in ostaggi i pescatori accusati di avere violato le acque libiche. Ostaggi da scambiare con quattro libici arrestati nel 2015 a Catania, processati in Corte di assise e in Cassazione, condannati a 30 anni come trafficanti di migranti e assassini. Considerati però da amici, familiari e miliziani libici solo dei presunti “giovani calciatori”. Una tesi bizzarra sostenuta da un nugolo di parenti schierati al porto di Bengasi con cartelli rivolti ad Haftar perché non si tratterebbe di trafficanti, ma di attaccanti e terzini che avrebbero voluto raggiungere la Germania per essere arruolati come professionisti nelle grandi squadre: “Calciatori in cerca di fortuna, migranti come quelli che viaggiavano con loro, non scafisti”. Il contrario di quanto accertato dalla magistratura adesso sconcertata da questa ipotesi definita “ripugnante” dal procuratore della Repubblica di Catania Carmelo Zuccaro: “Altro che giovani calciatori. Non furono condannati solo perché al comando dell’imbarcazione, ma anche per omicidio. Avendo causato la morte di quanti trasportavano, 49 migranti tenuti in stiva. Lasciati morire in maniera spietata. Sprangando il boccaporto per non trovarseli in coperta. Un episodio fra i più brutali mai registrati”. È un quadro surreale perché la richiesta è di fare tornare gli “assassini” in Libia per riprendere a giocare nelle squadre di Bengasi e dintorni. Un quadro destinato ad alimentare polemiche politiche e ad aprire una complessa pagina diplomatica, mentre i servizi di intelligence sono al lavoro invocando riserbo. Ma a temere che il silenzio non aiuti a liberare i pescatori sono i familiari dei 18 siciliani riuniti con gli armatori dei due pescherecci, Antartide e Medinea. Tutti raccolti in un magazzino del porto di Mazara. Decisi a protestare contro “l’inefficienza del governo italiano”, come dice Leonardo Gancitano, l’armatore dell’Antartide: “Ci siamo resi che con quel pezzo di Libia hanno rapporti solo Turchia e Francia. E quindi abbiamo pensato che forse è meglio rivolgerci a Macron, anziché a Conte...”. Amara considerazione echeggiata mentre molti ringraziavano solo una deputata eletta a Mazara con i Cinque Stelle, Vita Martinciglio, come affonda Gancitano: “È l’unica a darci notizie. Gli altri impegnati in campagna elettorale. Distratti da quello che diventerebbe un ricatto, se le notizie di uno scambio dovessero prendere davvero corpo”. E prova a confortare donne disperate come Rosaria Giacalone, moglie del direttore di macchina di uno dei due pescherecci, o Rosa Ingargiola, madre di Pietro Marrone, il comandante del Medinea: “La notte non si dorme, il giorno si piange, voglio rivedere mio figlio...”. S’affaccia lo spettro del ricatto. Ma ogni margine di trattativa sembra svanire davanti a un processo con imputati considerati responsabili di quella che fu definita “la strage di Ferragosto”. Cinque anni fa i quattro libici, tutti fra i 23 e i 25 anni, Joma Tarek Laamami, Abdel-Monsef, Mohannad Jarkess e Abd Arahman Abd Al Monsiff, con quattro marocchini, anche loro condannati e reclusi in carcere, furono accusati di non avere liberato i 49 migranti rinchiusi in stiva. Per questo il procuratore Zuccaro considera l’eventualità di “uno scambio di ostaggi” una enormità giuridica: “Non penso che verremo interpellati, ma da operatori del diritto saremmo assolutamente contrari. Sarebbe una cosa ripugnante”. Stati Uniti. “Neonazisti infiltrati nella polizia”. La denuncia dell’ex suprematista di Massimo Basile La Repubblica, 14 settembre 2020 “Conosco neonazisti che fanno i poliziotti. Solo nel mio gruppo lo sono diventati tre, immaginatevi quanti possano essere”. Frank Meeink, 45 anni, è stato uno dei più importanti leader neo-nazi d’America, al punto da ispirare il personaggio di Derek Vinyard, il giovane fanatico con la svastica tatuata sul petto interpretato da Edward Norton, nel film American History X. Meeink adesso gira l’America per mettere in guardia da quelli come lui. All’inizio, durante gli incontri pubblici, gli chiedevano del suo passato, di quando a 13 anni divenne nazi per sfuggire agli abusi subiti in famiglia, alla periferia di Philadelphia, e di quando a 17 rapì e quasi uccise un Antifa, registrando tutto in un video. Meeink finì in carcere per tre anni e fu la sua salvezza: a contatto con i neri, egomaniaco, pazzo, alcolizzato, sconfisse i demoni. Adesso lavora per Life After Hate, no-profit che aiuta chi lascia gruppi di odio, ma da quando Donald Trump definì “very fine people”. I nazisti all’indomani della morte di una giovane pacifista a Charlottesville, il lavoro si è ridotto. Se non lasciano i gruppi d’odio, dove vanno? Meeink dice di saperlo. Il sito americano The- DailyBeast gli ha chiesto se la polizia sia davvero razzista, e lui ha risposto: non solo è razzista, ma arruola neonazisti e militanti di estrema destra. E da prima di Trump. Meeink ricorda un incontro con i leader nazionalisti bianchi a inizio anni 90. “Ci dissero di coprirci le svastiche, farci crescere i capelli e entrare nella polizia. Tre lo fecero”. Il 17 ottobre 2006 l’Fbi rilasciò un dossier dal titolo: “Le infiltrazioni dei suprematisti bianchi nelle forze di polizia”. Sette pagine di annotazioni e tabelle sintetizzatili in un paio di passaggi: “La minaccia primaria dall’infiltrazione e il reclutamento possono mettere a rischio la sicurezza degli stessi agenti”. Si cita il Ku Klux Klan: “È il gruppo più famoso tra quelli suprematisti che ha trovato sostegno in molte comunità, supporto che si è tradotto in legami con le forze di polizia locale”. Quattordici anni dopo la situazione non è migliorata. L’agente dell’Fbi Michael German ha denunciato il proliferare di “razzismo, suprematismo bianco, e militanti di estrema destra nelle forze dell’ordine”. Sceriffi in Texas risultati membri del Ku Klux Klan, come in North Carolina e Michigan, “chat room” in Nebraska tra ufficiali e gruppi suprematisti. La risposta del governo federale è risultata “inesistente”. Dalla morte di George Floyd, l’afroamericano ucciso dalla polizia a Minneapolis, all’agguato ai due vice sceriffi nei sobborghi di Los Angeles, tutti sanno che la violenza è in aumento, ma molti non sanno più da che parte cominci. Meeink indica una soluzione: “Devono mettere un mucchio di ex nazisti come me ad analizzare biografie e dati dei poliziotti. Saremmo in grado di riconoscerli e indicarli. È arrivato il tempo di fare qualcosa di utile per la gente”. L’ex leader nazi è convinto di potercela fare. “Le persone come me - conclude - hanno gli anticorpi dell’odio, perché il virus dell’odio ci ha divorati a lungo”. Hong Kong. Governo non interferirà con l’arresto dei 12 residenti detenuti in Cina agenzianova.com, 14 settembre 2020 Nonostante le richieste di assistenza delle famiglie, il governo di Hong Kong ha rifiutato di interferire nell’arresto, da parte delle autorità cinesi, di 12 residenti della ex colonia britannica che tentavano di fuggire a Taiwan via mare. Secondo il governo di Hong Kong, il caso rientra nella giurisdizione della Cina continentale. In una dichiarazione rilasciata ieri, 13 settembre, le autorità di Hong Kong hanno affermato di aver ricevuto richieste di assistenza dalle famiglie dei residenti arrestati il mese scorso dalle forze dell’ordine del continente per ingresso illegale nella Cina continentale, dopo aver tentato di fuggire a Taiwan. Secondo la Cina questi individui sarebbero “separatisti”. “Il crimine in questione rientra nella giurisdizione della Cina continentale, e il governo della regione amministrativa speciale rispetta e non interferirà con le azioni delle forze dell’ordine”, ha spiegato il governo di Hong Kong. Il gruppo è stato sospettato di aver commesso “vari reati penali” a Hong Kong, e il governo ha esortato le famiglie a utilizzare un servizio di consulenza legale fornito gratuitamente. Il governo è intervenuto dopo che i parenti dei detenuti hanno tenuto una conferenza stampa a Hong Kong, chiedendo il ritorno urgente dei 12 che erano stati intercettati dalla guardia costiera del Guangdong il 23 agosto su una imbarcazione diretta a Taiwan. Le famiglie chiedono che gli arrestati possano consultare gli avvocati designati da loro e non dal governo cinese, e che sia loro permesso di chiamare i parenti a Hong Kong. Un ragazzo di 16 anni è il più giovane detenuto e molti hanno bisogno di farmaci, hanno detto i parenti. Il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Morgan Ortagus, ha twittato che gli arresti sono “un altro esempio del deterioramento dei diritti umani a Hong Kong”, e ha invitato le autorità cinesi a “garantire un giusto processo”.