La punizione a distanza dei detenuti di Nicola Apollonio Gazzetta del Mezzogiorno, 13 settembre 2020 Sembra che per la malagiustizia non ci sia mai fine. E sembra che non sia affatto vero che la detenzione in carcere, oltre che per punizione per i reati commessi, serve anche come mezzo di riabilitazione. È vero, semmai, che al detenuto vengono applicate prassi distorte e arbitrarie, come pene suppletive per i delitti consumati. Dimenticando, per esempio, che il detenuto è pur sempre un essere umano, dal quale la Giustizia deve sì pretendere il saldo del conto, ma senza accanirsi contro di lui introducendo nell’ordinamento giudiziario, di fatto, una specie di istituto del “confino”. Capita spesso che molti detenuti vengono assegnati o trasferiti in carceri distanti diverse centinaia di chilometri dal luogo di residenza e, soprattutto, dal luogo in cui si celebrano i processi a loro carico, con predilezione per la Sicilia e la Sardegna o per città dell’estremo nord come Tolmezzo, che si trova al confine con l’Austria. Ci sono imputati baresi, per esempio, ristretti ad Agrigento, Nuoro, Torino o in altre località difficilmente raggiungibili. Per cui, a questi detenuti viene in qualche modo precluso il diritto a mantenere i rapporti con i familiari, elemento fondamentale del trattamento rieducativo previsto dall’ordinamento penitenziario, in rispetto dell’art. 27 della Costituzione, molto chiaro sul fatto che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. E qui s’innesta un altro problema, che riguarda l’esercizio del diritto di difesa. L’avvocato difensore, solitamente scelto nell’ambito del Foro più vicino all’Autorità giudiziaria competente, si trova ad avere difficoltà a predisporre adeguatamente la linea difensiva (incontrando il proprio assistito ed esaminando con lui gli atti del processo) perché non ha il tempo per raggiungere le sedi disagiate dove l’imputato è stato trasferito. “Qualche volta - dice un noto avvocato che preferisce l’anonimato - è accaduto che tali trasferimenti siano avvenuti in pendenza dei termini, notoriamente ristretti, per la proposizione della richiesta di riesame innanzi al Tribunale della libertà”. Ed è pure successo che ad alcuni detenuti con necessità di particolari trattamenti sanitari, non solo è stata preclusa la possibilità di usufruire di centri ospedalieri penitenziali, ma anche di farsi visitare a proprie spese dal proprio medico curante. Eppure, si tratta di un diritto garantito dall’art. 11 dell’O.P. a tutti i detenuti. Ora, alla luce di queste discutibili prassi, si può dire che si tratta di iniziative assolutamente arbitrarie e non rispettose della normativa vigente. Qualche volta, a fronte delle richieste di chiarimenti in ordine ai trasferimenti “fuori sede”, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria si è limitato a rispondere che “l’assegnazione nell’attuale sede penitenziaria è stata disposta anche per ragioni di sicurezza e per esigenze penitenziarie che permangono, in virtù del potere-dovere riconosciuto dalla legge all’Amministrazione penitenziaria di individuare per ogni detenuto l’istituto più idoneo”. Ma, al di là delle ipotetiche “ragioni di sicurezza”, il Dap sembra dimenticare che l’art. 14 L n. 354/75, dopo un doveroso richiamo al principio-guida relativo all’all’effettuazione del trattamento rieducativo, afferma testualmente: “Per le assegnazioni sono inoltre applicati di norma i criteri di cui al primo e al secondo comma dell’art. 42”. Che così recita: “I trasferimenti sono disposti per gravi e comprovati motivi di sicurezza, per esigenze dell’istituto, per motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari”. Quindi, i “motivi di sicurezza” posti a base di un trasferimento devono essere “gravi e comprovati”, e questo vuol dire necessariamente anche “esplicitati e noti”. In più, il secondo comma del citato art. 42, stabilisce che “Nel disporre i trasferimenti deve essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie”. La malagiustizia, quindi, non è soltanto quella che attiene a situazioni di errori giudiziari, ma anche a situazioni di ritardi e inefficienza del servizio. E provoca, la malagiustizia in Italia, una crisi di fiducia e un palpabile scoramento dei cittadini nei confronti dello Stato. Tutti sanno che uno Stato serio deve garantire il rispetto delle regole sul trattamento e la tutela delle esigenze di sicurezza in ogni istituto penitenziario, e quindi anche in quelli vicini al luogo di residenza dei detenuti. Mirabelli: “La pena deve consistere in qualcosa che riconduca le cose a un equilibrio” agensir.it, 13 settembre 2020 “La pena deve consistere in qualcosa che riconduca le cose a un equilibrio, non soltanto in una punizione. Su questo la Corte costituzionale si è più volta espressa”. Lo ha detto Cesare Mirabelli, costituzionalista, ex presidente della Corte Costituzionale, oggi consigliere generale dello Stato della Città del Vaticano, intervenuto al Festival della comunicazione “I media Cei… insieme per passione”, in corso a Terrasini. “Chi è recluso in carcere non perde i suoi diritti di uomo - ha aggiunto - la sua dignità, come la tutela della sua salute, dell’essere curato, il diritto a un reinserimento nella società”. Nel suo intervento, Mirabelli ha ricordato quindi i casi di “detenuti analfabeti che hanno cominciato a studiare in carcere, si sono distaccati dalle organizzazioni criminali cui hanno appartenuto e si sono laureati”. “Sono esempi di speranza”. Poi, il riferimento alla storia di Giovanni Bachelet, che “manifestava perdono nei confronti degli assassini del padre”. “Ciò non significa che non ci sia pena, ma si mantiene vivo il rapporto di umanità che stimola al pentimento di chi ha commesso il reato”, ha osservato il costituzionalista. Soffermandosi, infine, sul ruolo della Corte costituzionale, l’ex presidente ha spiegato che “si colloca in posizione finale di garanzia del diritto della persona, anche del diritto del detenuto, oltre che del perfetto assetto istituzionale, nel caso di conflitti di potere”. “Non bisogna escludere a priori la possibilità di benefici nei confronti di chi è appartenuto a organizzazioni criminali, ma occorre compiere una valutazione in concreto del recupero del detenuto, alla luce del percorso rieducativo che ha compiuto”. Cartabia: “Diversità e pluralismo la ricchezza del diritto” di Franca Giansoldati Il Messaggero, 13 settembre 2020 Gli scatoloni sono ormai pronti. Destinazione Milano. Marta Cartabia lascia il Palazzo della Consulta, dove è entrata trentenne, come assistente di studio, nel 1993, e poi è ritornata, nel 2011, a 48 anni, come giudice costituzionale nominata dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Negli ultimi nove mesi, i suoi colleghi l’hanno scelta per guidare la Corte, prima presidente donna nella storia della Repubblica. “Un’assunzione di responsabilità enorme, non una medaglia al valore”, dice, facendo il bilancio della sua lunga esperienza, prima di tornare all’insegnamento universitario. “Non è un ritirarsi in una dimensione privata spiega - perché considero la cura e l’istruzione delle giovani generazioni il primo dei compiti pubblici”. E cita Mario Draghi: “Dobbiamo essere vicini ai giovani investendo nella loro preparazione”. Ai giovani e al futuro Marta Cartabia guarda con incrollabile fiducia, richiamando però tutte le istituzioni a un impegno speciale: “Sostenere le energie positive emerse durante il lockdown in una prospettiva di ricostruzione a lungo termine”. Presidente, in questi nove anni la Corte è cambiata? “La Corte è una solida istituzione di garanzia, ben radicata nel sistema costituzionale, il cui tratto distintivo, soprattutto negli ultimi anni, è il pluralismo. Le istituzioni sono pensate per durare nel tempo; sono sempre le stesse, ma la loro sensibilità cambia a seconda di chi ne fa parte. Quando arrivai, il collegio della Corte era più omogeneo e in quel contesto io ero un po’ un’anomalia; a tratti mi sentivo persino un po’ sola come unica donna nel collegio. Diversa per genere, generazione e geografia dagli altri giudici. Oggi la Corte ha una composizione diversificata e reputo che questo sia una ricchezza. Tanto per cominciare, le donne sono tre e l’ultima nomina del Presidente della Repubblica ha mantenuto questo numero. La Corte è più varia per genere, per età, per provenienza geografica e per estrazione culturale. Questo tratto è decisivo per un organo come la Corte costituzionale perché è solo dal pluralismo interno che può nascere una vera neutralità nel giudicare”. Qual è la sua idea di neutralità e, quindi, di imparzialità e indipendenza? “C’è chi pensa che la neutralità si ottenga per sottrazione, spogliandosi della propria storia, dei propri valori e orientamenti culturali. Nella vita della Corte, la neutralità si ottiene invece per addizione e nel confronto di culture e provenienze diverse. E qui di culture e provenienze ce ne sono tante. Alcuni giudici, ad esempio, hanno avuto un passato politico e parlamentare. Può sembrare una contraddizione: chi fa le leggi poi ne giudica la legittimità costituzionale Ebbene, tutto questo non è un problema, ma una ricchezza. Dentro la Corte, ma anche fuori, ognuno vede il mondo attraverso un punto di vista: ogni punto di vista illumina l’uno o l’altro degli aspetti dei problemi da decidere, gettando un fascio di luce. È nell’intrecciarsi dei vari fasci di luce che si delinea l’immagine nella sua complessità. Nessuno può conoscere da solo, occorre incrociare le prospettive. Come direbbe Hannah Arendt: Nell’ascolto, faccio esperienza del mondo, ovvero di come il mondo appaia da altri punti di vista. In ogni doxa si manifesta il mondo. Poi, naturalmente, ci deve essere un punto di sintesi. Dopo avere ascoltato tutti e aver lavorato nel dialogo e con l’arte della persuasione, la Corte cerca di offrire la risposta più convincente e adeguata”. E qui che entra in gioco il ruolo del presidente? “Il ruolo del presidente è saper cogliere il contributo di tutti e metterlo a frutto”. È stato facile per lei? “No. È faticosissimo, ma entusiasmante. È più semplice affermare un punto di vista unilaterale che sintetizzare ciò che ha valore nel contributo degli altri, specie quando le visioni sembrano inconciliabili. Non si tratta di trovare una media matematica o un minimo comune denominatore. Il Presidente è un po’ come un direttore d’orchestra. Tiene la partitura, segna il tempo, il tono. Valorizza le singole voci, assicurando la coralità. Il mio obiettivo è stato mantenere l’armonia nel collegio”. C’è riuscita? “Lo lascerei dire agli altri. Ho cercato di valorizzare i contributi di tutti. Come dice San Paolo: vagliare tutto e tenere ciò che vale”. Da cattolica, come ha conciliato la sua visione con il punto di vista laico degli altri suoi colleghi? “Non sono certo la prima cattolica ad entrare nella Corte (sorride). Ma mi chiedo: perché essere cattolico viene percepito da alcuni come un problema? Credo che ciò sia dovuto al fatto che spesso la fede è percepita come un sistema di regole e leggi che competono con quelle dello Stato. Ma questo non è il cristianesimo che ho conosciuto. Il cristianesimo che conosco è lo sguardo sulla persona raccontato nel Vangelo quando Cristo incontra la prostituta, quando incontra Zaccheo, quando incontra la Samaritana o quando incontra il buon ladrone sulla Croce. È uno sguardo che comprende e valorizza appieno ogni aspetto della loro umanità, così che nel rapporto con quell’Uomo tutti si trovano a dare il meglio di sé. È uno sguardo che permette a tutti, laici e credenti, di trovare un terreno di incontro. Tracce di questo sguardo sulla persona si leggono in filigrana anche nei principi costituzionali”. Che cosa ha significato per Marta Cartabia, teorica del diritto, diventare giudice? “Diventare giudice per un giurista significa imparare a guardare al diritto a partire dai problemi che si creano nella vita delle persone e nella vita sociale. Un caso giudiziario, in fondo, è un enigma da risolvere. Questa abitudine a guardare ai problemi e a coglierne la vera natura reputo sia uno degli aspetti più interessanti di questi nove anni alla Corte, perché come dice Chesterton: Il guaio non è non vedere le risposte, ma non cogliere l’enigma”. Quest’esperienza l’ha cambiata? “Essere giudice ti fa vedere le questioni in tutta la complessità delle situazioni reali e la realtà è sempre imprevedibile. Da qui vedi il diritto nel momento del suo impatto sulla vita delle persone. Essere giudice ti chiede di misurarti continuamente con ciò che non è giusto, dalla piccola e minuscola ingiustizia quotidiana fino ai drammatici risvolti di una legge che genera effetti inaccettabili. Svolgere la funzione giudicante richiede una disponibilità all’inquietudine, perché stare davanti alle ingiustizie mette inquietudine. Per questo non possiamo dimenticare le parole di Calamandrei: Vogliamo dei giudici con l’anima, giudici engagés, che sappiano portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia”. Oggi la Corte ha implementato anche la comunicazione. Perché? “La comunicazione è parte fondamentale dei compiti della Corte. Il suo compito è custodire i principi costituzionali e il primo modo per farlo è coltivare una cultura costituzionale, raccontando il suo impatto nella vita delle persone. I valori costituzionali debbono mantenersi vivi nel tessuto sociale, se no diventano lettera morta, diventano cenere. Magari ceneri da adorare, come direbbe Papa Francesco, ma incapaci di incidere nella vita sociale”. Nonostante il lockdown, e la sua malattia, lei lascia un’impronta di modernità senza precedenti: udienze da remoto, App, processo telematico, podcast, firma digitale... Avete fatto un salto quantico. “Il Covid ha richiesto a tutti di rinnovarsi per continuare a essere sé stessi. Anche la Corte, per continuare a svolgere i suoi compiti normali, ha dovuto mettere in atto un imponente processo di innovazione. Prima si lavorava solo su carta e in presenza. Col Covid tutto è cambiato: per esempio, gli avvocati che vengono da ogni parte del paese non potevano più viaggiare per venire a depositare gli atti nella cancelleria della Corte; abbiamo dovuto attivare uno scambio elettronico di documenti; nel frattempo abbiamo impostato il processo telematico costituzionale che è a un buon punto di sviluppo e si chiamerà e-Cost. L’attività della Corte non si è mai fermata, neanche a Ferragosto. Abbiamo fatto udienze e camere di consiglio da remoto e alla fine non c’è stata alcuna flessione nell’attività della Corte: basta vedere il numero delle decisioni”. E dopo il Covid come vede il futuro di questo Paese? “Pur vivendo un dramma, sono emersi elementi di grande positività. C’è stata una spontanea solidarietà tra le persone, creatività, intraprendenza e responsabilità in tante attività economiche e sociali. Io sono fiduciosa e auspico che le istituzioni sappiano sostenere le energie positive che si sono sprigionate. Occorre realismo e lungimiranza, una prospettiva di ricostruzione a lungo termine, un po’ come quella che permise la ripresa dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale”. Solo un giusto processo ci restituirà la civiltà distrutta a Colleferro di Giuseppe Belcastro* Il Dubbio, 13 settembre 2020 La giustizia non è vendetta e i carnefici sono tali solo quando un altro dramma si è consumato, quello del processo. Esiste una barricata. Willy Montero Duarte sta su un versante; i suoi carnefici su quello opposto. A guardare l’immagine del sorriso che i media hanno diffuso subito dopo il drammatico assassinio, ti manca l’aria; specie se hai figli. E quando ti riprendi dall’apnea arriva, sorda, l’incredulità e con essa una rabbia crescente. La mente non riesce insomma a credere che qualcuno - chiunque egli sia - possa scatenare su quel sorriso una furia così violenta da causarne la morte; a mani nude e senza una ragione. Se mai ne possa esistere una. E così ci ritroviamo, ciascuno a suo modo, a domandarci come tutto ciò sia stato possibile, in che momento della storia abbiamo dimenticato i fondamenti del vivere collettivo, in che famiglia siano cresciuti gli autori di questo atroce misfatto, che scuole e che amici essi abbiano frequentato. Sopraffatti dal cordoglio e dalla indignazione, animati da un’autentica solidarietà per i genitori, i familiari e gli amici di Willy dal magnifico sorriso, tutti noi desideriamo allora giustizia per questo delitto e, alzando sempre più la voce, incominciamo a manifestare un legittimo desiderio di punizione per chi ha ucciso. Arriviamo così sul crinale di quella barricata, quando si palesano sguaiati urlatori che insufflano odio, condendolo sapientemente con immagini di sicura suggestione. Scopriamo allora che alcuni dei ragazzi coinvolti nella vicenda, accusati del delitto, sono esperti di arti marziali, amano fotografarsi in pose truci che farebbero ridere se le circostanze non fossero da tragedia greca, hanno il corpo cosparso di tatuaggi sinistri. Insomma, per dirla così, sono brutti e sporchi. Diventare pure cattivi è un attimo e diventare colpevoli poco di più. Succede allora che i ragazzi che sono accusati del delitto diventino, per la magia del pensiero collettivo, sicuramente assassini perché son troppo sporchi, troppo brutti, troppo cattivi per essere accusati da innocenti. E succede anzi che, alcuni tra coloro che hanno la responsabilità della mediazione e il dovere di fare tutto il possibile per evitare che la stessa violenza e lo stesso odio che ha causato la tragedia non travolga altri dopo Willy, colpevoli o innocenti che siano, alimentino invece, per fini non certo commendevoli, il vento della riprovazione, trasformando automaticamente sulla pubblica piazza l’imputato in colpevole, e pretendendo per lui pene esemplari a seguito di giudizi sommari. Ce n’è ancora, però. Perché se gli accusati sono già colpevoli, a che gli serve un avvocato? A cosa serve spendere inutilmente il danaro pubblico per celebrare un processo? Come si potrà mai addivenire ad una decisione diversa dalla condanna? E sapete cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che il processo penale perde la sua funzione di garanzia dei diritti del singolo contro il potere soverchiante dello Stato; vuol dire che quel giudice che, dio non voglia, osi contravvenire al giudizio del popolo è un eretico e va anch’esso mandato alla gogna; vuol dire persino che l’avvocato, che ha avuto in sorte il fardello di una difesa così difficile, sia addirittura complice delle malefatte del suo assistito e come tale vada minacciato di morte. In questo crepuscolo della civiltà, non solo giuridica, sembra restino in pochi (e tra questi l’Unione delle Camere Penali Italiane) a ricordare che la ragionevolezza è imperativa, che la giustizia non è vendetta e che i carnefici sono tali solo quando un altro dramma si è consumato, quello del processo; che è, a sua volta, la sola via attraverso la quale si esercita legittimamente il più terribile dei poteri dell’uomo sull’uomo: quello di privare della libertà i propri simili. È innegabile: la stessa violenza che toglie una vita frantuma al contempo la base d’origine della convivenza civile, rompe un accordo secolare tra gli uomini, infrange in un momento e in maniera brutale la prima regola riconosciuta. Ma fa anche altro: evoca la necessità che quell’ordine venga ripristinato quanto più rapidamente possibile e costruisce un banco di prova. Serve che ciascuno sieda a quel banco e si confronti con sé stesso facendo l’unica scelta possibile: rintuzzare nel profondo ogni istinto di vendetta e contribuire a dissipare quegli stessi odio e violenza che hanno generato la tragedia. Esiste una barricata. Vediamo di restare dalla parte di Willy e stringerci con dolce compostezza ai suoi genitori in questo loro momento di indicibile sofferenza. *Avvocato Calabria. Carceri, “Il viaggio della speranza” per superare lo stato d’emergenza La Repubblica, 13 settembre 2020 Organizzato dall’Ong Nessuno Tocchi Caino: incontri, presentazioni di libri e manifestazioni. “Il viaggio della speranza” è il racconto per immagini, parole e atti dell’VIII Congresso di Nessuno tocchi Caino che si è tenuto nel Carcere di Opera a Milano nel dicembre del 2019. “Il viaggio della speranza” non è solo un libro, è un viaggio vero e proprio che attraverserà la Calabria dal 12 al 20 settembre, venendo dalla Puglia, per proseguire in Sicilia, dove Nessuno Tocchi Caino - una lega internazionale di cittadini e parlamentari per l’abolizione della pena di morte nel mondo, che fa parte della “galassia” Radicale - sarà dal 20 settembre al 4 ottobre prossimi. Sono previsti incontri, presentazioni del libro e manifestazioni sui temi cari all’Ong, a partire dal superamento degli stati di emergenza verso l’affermazione dello Stato di Diritto. Il “cartellone” delle tappe calabresi. Il titolo del volume di 440 pagine, dedicato a Marco Pannella, è tratto dal nome di una associazione americana contro la pena di morte, Journey of Hope - from Violence to Healing (Viaggio della speranza - dalla violenza alla guarigione), costituita da parenti delle vittime di reato e parenti dei detenuti nel braccio della morte che ogni anno, insieme, con una sorta di carovana della pace e della giustizia, attraversano gli Stati Uniti. Oltre alla Prefazione di Tullio Padovani e alla Lectio Magistralis di Marta Cartabia, il libro contiene le riflessioni, le testimonianze e le emozioni emerse nel carcere di Opera nei due giorni di un Congresso che, nel concatenarsi degli interventi di magistrati, giuristi, professori universitari, operatori penitenziari e detenuti, a suo modo è stato anch’esso una traversata dal dolore alla guarigione. Una breccia nel muro del “fine pena mai”. A partire dai detenuti di Opera, artefici del proprio cambiamento, il “viaggio” ha raggiunto Strasburgo e i giudici supremi europei, creatori del diritto umano alla speranza. La via della nonviolenza e del Diritto ha poi portato a Roma, innanzi ai massimi magistrati italiani della Corte Costituzionale, che hanno aperto una breccia nel muro di cinta del “fine pena mai”. La Carovana della speranza non si è fermata, ora corre verso una nuova frontiera, quella invocata da Aldo Moro: “non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. La rottura con le logiche del passato. Come nel Docu-film “Spes contra spem - Liberi dentro”, anche nel libro “Il viaggio della speranza”, che dell’opera di Ambrogio Crespi è il seguito letterario, dalle testimonianze - in particolare dei detenuti - emergono con chiarezza una rottura netta con logiche del passato, una maggiore fiducia nello Stato di Diritto, la possibilità del cambiamento anche nel carcere e la conversione di persone detenute in persone autenticamente libere. Il calendario degli incontri in Calabria è il seguente: Sabato 12 settembre - Cosenza ore 18:00 Piazza XI settembre (angolo Via Tagliamento) Domenica 13 settembre - Lamezia Terme Ore 11:00 Corso Giovanni Nicotera 130, Comizio del NO al Referendum Domenica 13 settembre - Crotone Ore 18:00 Museo e Giardini di Pitagora, Parco Pignera, Via Giovanni Falcone, 9 Lunedì 14 settembre - Sant’Onofrio (VV) Ore 18:00 Municipio, Sala Consiliare Falcone-Borsellino Martedì 15 settembre - San Luca (RC) Ore 18:00 Piazza della Resistenza Mercoledì 16 settembre - Siderno (RC) ore 18:30 Piazza Municipio Giovedì 17 settembre - Taurianova (RC) Ore 18:30 Ex Palazzo Municipale di Radicena, Via XX Settembre Venerdì 18 settembre - Palmi (RC) Ore 18:00 Casa della Cultura Terni. Detenuti trasferiti dopo le rivolte di marzo, tre morti “sospette” nel carcere ternitoday.it, 13 settembre 2020 Da Modena a Sabbione dopo i fatti di inizio marzo, la causa del decesso sarebbe da attribuire ad abuso di metadone e psicofarmaci. Macrì: inchiesta per chiarire le cause. Interrogazione del Pd in Senato. Nei giorni in cui l’Italia stava precipitando nel lockdown per l’emergenza Coronavirus, nelle carceri d’Italia si accendeva la miccia della rivolta. Vennero coinvolti istituti penitenziari da nord a sud del Paese. Al Sant’Anna di Modena morirono cinque detenuti. Una trentina vennero trasferiti in altri istituti penitenziari. Tra questi, vennero registrati altri decessi: uno alla Dozza di Bologna e tre nell’istituto penitenziario di vocabolo Sabbione a Terni. Il trasferimento avvenne “malgrado le disposizioni del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fossero di prevenire qualunque forma di trasferimento per evitare contagi da Covid19. Questo provvedimento oggi sembra sia oggetto di accertamenti per violazione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario e dell’articolo 11 della Costituzione italiana che richiama il diritto alla salute ed alla cura, così come le normative della Corte europea dei diritti dell’uomo. Questa grave inosservanza - afferma il dottor Claudio Cipollini Macrì, presidente della Legal Consulting e amministratore del gruppo Onlus no profit Detenuti liberi - purtroppo ha portato a decessi”. “I detenuti sarebbero stati vittime di abuso di sostanze stupefacenti trafugate durante la rivolta - dice il senatore Franco Mirabelli, vicepresidente vicario del gruppo del Pd e capogruppo dem in commissione Giustizia al Senato - Credo che, al di là di tutto, lo Stato italiano debba chiarire, soprattutto per le famiglie delle persone decedute, cosa è accaduto. Va fatta luce sugli accadimenti di quei giorni e sulle eventuali responsabilità e per questo ho rivolto un’interrogazione al ministro della giustizia Bonafede”. Sulla vicenda, lo stesso Mirabelli ha presentato un’interrogazione sottoscritta anche dalle senatrici Cirinnà, Iori e Rossomando. “È necessario appurare se siano state eseguite le visite mediche necessarie al nullaosta per il trasferimento dei detenuti verso altri istituti e se sia o meno in corso un’indagine del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per chiarire come sia stato possibile che, nel carcere di Modena, i reclusi abbiano avuto accesso a metadone e psicofarmaci in quantità tali da risultare letali”. Milano. La giustizia riparte, ma senza personale di Andrea Gianni Il Giorno, 13 settembre 2020 Tassi di posti vacanti da record con picco del 38% in Corte d’Appello: “Valutiamo un’azione di protesta”. Negli uffici del Tribunale di Milano dovrebbero esserci 735 dipendenti amministrativi in organico, ma in realtà quelli in servizio sono solo 548. Situazione peggiore nella Corte d’Appello, con 150 “amministrativi” su 242 previsti: 92 posti vacanti, un tasso di scopertura del 38%. Numeri sul tavolo alla ripresa delle attività dopo la pausa estiva, in uffici giudiziari milanesi che, dopo l’emergenza sanitaria, stanno affrontando la sfida di arginare i contagi in spazi frequentati ogni giorno da migliaia di persone. E il problema della carenza di organico, che si trascina da anni, rischia di allungare ancora i tempi della giustizia. “Le assunzioni non sono sufficienti rispetto ai pensionamenti - spiega il segretario della Cisl-Fp Milano Metropoli, Giorgio Dimauro - le uscite superano sempre gli ingressi. Stiamo valutando eventuali azioni di protesta per mandare un messaggio forte al ministero della Giustizia, perché avvii un grande piano di assunzioni”. Azione che potrebbe coinvolgere sindacati, lavoratori e anche avvocati, mandando un segnale a Roma dal Palazzo di giustizia di Milano. Più di un anno fa, nel giugno 2019, i lavoratori dell’amministrazione giudiziaria avevano incrociato le braccia, per chiedere “risorse, riqualificazione e un grande piano di assunzioni”. Anche perché, per effetto dei pensionamenti anticipati con quota 100 su un organico che ha un’età media superiore ai 50 anni, “la situazione già critica rischia di diventare “insostenibile”. Un anno dopo, in un 2020 segnato dall’emergenza sanitaria, secondo gli ultimi dati consultati dai sindacati, relativi allo scorso 30 giugno, “non è cambiato nulla”. E il tasso di scopertura rimane più o meno lo stesso. Guardando al Tribunale, è ancora vacante il 25.4% dei posti in organico. Mancano all’appello 187 dipendenti, che secondo la pianta organica dovrebbero aggiungersi ai 548 attualmente in servizio. I tassi di scopertura più alti nelle file dei cancellieri di seconda area, con quasi la metà (42.7%) di posti vacanti. Se la passano meglio gli assistenti giudiziari di seconda area (il tasso di scopertura è del 5%), o gli operatori giudiziari di seconda area (26.1%). In Corte d’Appello, invece, il tasso di scopertura medio arriva al 38%. Percentuale che si traduce in 92 posti vacanti e 150 in servizio su una pianta organica del personale amministrativo di 242 posti. C’è solo un contabile di seconda area in servizio, ad esempio, su cinque previsti. Sono del tutto assenti gli assistenti tecnici, quando invece l’organico dovrebbe essere composto da sette persone. Mancano cancellieri, funzionari, operatori giudiziari. “Questi numeri - prosegue Dimauro - si ripercuotono sul funzionamento della giustizia, soprattutto in un momento delicato come quello che stiamo vivendo”. Giovedì scorso i sindacati del pubblico impiego hanno incontrato il presidente reggente della Corte d’Appello, Giuseppe Ondei. Sul tavolo il nodo del personale, il rientro negli uffici dopo mesi di lavoro a distanza, la necessità di prevenire occasioni contagio. Un allarme già scattato nei giorni scorsi, quando un magistrato della Procura generale è risultato positivo al coronavirus. Gli uffici sono stati sanificati ed è stato effettuato uno screening sulle persone entrate in contatto con lui. Non sarebbero emersi, dalle analisi, ulteriori contagi. Ferrara. “Galeorto”, anche in carcere sboccia la natura Il Resto del Carlino, 13 settembre 2020 In tre piccoli appezzamenti vengono coltivati prodotti della terra: “Un progetto di formazione sociale”. Anche il carcere ha il suo giardino. Aperto nuovamente e solo per poche ore al pubblico in occasione della prima giornata di “Interno verde”, lo spazio verde di via Arginone è un orto curato dagli stessi detenuti. O meglio, sono ben tre orticelli: “La possibilità di lavorare la terra - ha spiegato la comandante della struttura Annalisa Gadaleta, nel corso della visita guidata e contingentata - rientra all’interno del progetto Galeorto, sin dal 2016, e insiste su tre spazi. Nonostante richieda un lavoro di sicurezza aggiuntivo, tutto il personale del carcere ne è entusiasta e lo sono anche i ragazzi che lo curano”. Come detto, ieri mattina anche i visitatori hanno potuto toccare con mano il lavoro che alcuni ‘ospiti’ della casa circondariale svolgono quotidianamente. Un operato che interessa una porzione di terra esterna alle mura perimetrali del carcere di circa 1,5 ettari, una invece interna alla struttura di oltre 3,5 ettari ed infine una terza, più piccola, dedicata all’attività vivaistica: in tutto, sono circa una ventina i detenuti impegnati nella produzione e raccolta di frutta e verdura. Poi, i prodotti che si ottengono, vengono distribuiti a tutti gli altri reclusi. Se poi qualche particolare dono della terra abbonda, vengono chiamate in causa l’associazione Viale K, la Caritas o l’Emporio solidale Il Mantello. “A seconda del ciclo delle stagioni - precisano dall’associazione Viale K presieduta da don Domenico Bedin - vengono prodotte più o meno tutte le varietà orticole, compreso il peperoncino e le cime di rapa; queste ultime, in particolare, sono molto apprezzate soprattutto dal personale che lavora all’interno del carcere. I macchinari necessari al lavoro sono stati donati o comprati grazie ai ricavi delle attività di volontariato: in questo modo l’orto diventa il mezzo, e non il fine, di un percorso formativo”. “Cattività”, un film di Bruno Oliviero racconta l’esperienza della detenzione di Silvia Nugara Il Manifesto, 13 settembre 2020 Martedì 15 nell’ambito della Milano Movieweek. In collaborazione con Mimmo Sorrentino e il suo progetto al carcere di Vigevano “Educarsi alla libertà”. Lo chiamano “teatro partecipato” per sottolineare il legame con il metodo etnografico dell’osservazione partecipata o partecipante in cui chi osserva, pur rendendosi consapevole del proprio posizionamento, entra in contatto con la singolarità dell’altro, prova a mettersi nei suoi panni, ad avvertire emozioni e sentimenti di chi ha di fronte. È a questo metodo che Mimmo Sorrentino, drammaturgo e regista teatrale, impronta il suo lavoro con le comunità che incontra e con cui costruisce percorsi creativi, laboratori e performance pubbliche. Si tratta di una pratica di scrittura collettiva che nasce dal dialogo e dal confronto con l’alterità, da un’etica della collaborazione che riconoscendo distanze e prossimità consente di dare vita in gruppo a qualche cosa che non potrebbe nascere dal singolo. Nel 2014, Sorrentino ha iniziato a lavorare al progetto “Educarsi alla libertà” che, insieme a un gruppo di detenute nella sezione di alta sicurezza del carcere di Vigevano, ha avuto come esito tre spettacoli: L’infanzia dell’alta sicurezza, Sangue e Benedetta. Il film-maker Bruno Oliviero ha seguito questa esperienza e ne ha tratto un film, Cattività, scritto con Sorrentino stesso e Luca Mosso. Il film sarà proiettato in prima visione martedì 15 al Teatro Franco Parenti nell’ambito della Milano Movieweek in collaborazione con il festival Film-maker. La macchina da presa di Oliviero segue le prove, i laboratori preparatori, il dietro le quinte e le messe in scena in istituti penitenziari, all’università statale di Milano, alla scuola di teatro Paolo Grassi, al teatro Palladium a Roma, alla Primavera dei Teatri a Castrovillari. Vediamo le detenute lavorare con impegno e poi condurre a propria volta seminari con ospiti esterni al carcere, incontrare il pubblico ammirato e commosso, diventare protagoniste di un percorso di presa di coscienza ed emancipazione catalizzato dall’arte. L’alta sicurezza, spiega un cartello a inizio film, è un regime detentivo che si applica agli appartenenti alla criminalità organizzata per separarli dagli altri detenuti e limitarne i rapporti con l’esterno. Partecipare al laboratorio è dunque per le donne coinvolte un’occasione rara di contatto con un mondo agognato ma anche difficile da affrontare. In una scena, due detenute-attrici sono sedute in un camerino di fronte a una parete di specchi e una dice: “Ci stiamo godendo lo specchio anche se l’immagine che vediamo non ci convince, è troppo realistica”. Confrontarsi con il mondo esterno significa infatti trovarsi di fronte all’immagine di sé riflessa nello sguardo del mondo che può essere difficile da riconoscere e accettare. Ma l’incontro con il mondo esterno è solo l’ultimo passo di un percorso a tappe che inizia con la condivisione della propria storia all’interno del gruppo condotto da Sorrentino che in una scena spiega: “Ho chiesto loro di raccontarmi la loro infanzia e poi mi sono inserito con la mia scrittura nello iato tra ciò che avevano detto e ciò che non sapevano di aver detto”. Se la traduzione della propria parola singolare in testo da porgere alla collettività è già un’esperienza “drammatica”, che permette a ciascuna di osservarsi come dall’esterno, il dispositivo teatrale fa un ulteriore passo avanti, mescola le carte e affida ogni racconto alla voce di una compagna-attrice: “Interpretare la storia dell’altra è viverla”, dice una di loro con lo sguardo di chi, attraverso il rispecchiamento e la reciprocità, ha vissuto una rivoluzione della coscienza. Ogni donna racconta la propria perdita dell’innocenza, parte dal registro mitico dell’infanzia per poi passare al piano tragico delle morti a cui ha assistito. Non tutte ce la fanno ad affrontare fino in fondo un percorso che scava nel profondo, che costringe ciascuna a riconoscersi prigioniera di un carcere interiore fatto di vincoli con uomini violenti e logiche aberranti del crimine organizzato. Qualcuna lascia, qualcuna invece si aggrappa alla possibilità offerta dall’arte come ad un’ancora di salvezza e respira aria nuova. In Cattività, il cinema si mette al servizio del teatro e il teatro al servizio di donne decise a riconquistare la propria umanità. Basta lasciare pistole e fucili in mano a chi ha problemi psichici di Luca Di Bartolomei L’Espresso, 13 settembre 2020 Pandemia e lockdown hanno messo a dura prova molti italiani, e tra loro tanti detengono legalmente un’arma. Un cocktail pericoloso sui cui serve intervenire ora. In un periodo eccezionale, come quello che stiamo attraversando, il Coronavirus è giustamente diventato il nemico numero uno degli italiani mettendo all’angolo le altre emergenze che prima riempivano giornali e tv. In questa nuova fase però, affianco al Covid, la grande preoccupazione che emerge dalle risposte degli italiani è quella per la condizione economica. Il 47 per cento si dice seriamente preoccupato, il 44 per cento moderatamente preoccupato, il 7 per cento poco preoccupato e il 2 per cento per niente preoccupato. Gli italiani hanno paura per il proprio futuro, per il lavoro e per i risparmi. E ci sono molti più italiani armati rispetto a cinque anni fa: circa mezzo milione. Hanno destato particolare scalpore le parole del ministro dell’Interni Luciana Lamorgese che ha parlato di rischio di tensioni sociali in concreto perché a settembre-ottobre vedremo gli esiti di questo periodo di grave crisi economica. In questo contesto un capitolo ancora da comprendere sono le conseguenze sulla stabilità psicologica delle persone più fragili (o di quelle il cui equilibrio è più compromesso) del lungo lockdown. Ma stando ai risultati dei primi studi che iniziano a uscire emergerebbero difficoltà e conseguenze che allungano inquietanti ombre sul futuro. Un’analisi della fondazione Veronesi su dati di Open Evidence ha messo a confronto le diverse reazioni all’emergenza tra Italia, Spagna e Regno Unito. È emerso che in Italia il 41 per cento della popolazione sarebbe potenzialmente “a rischio salute mentale” a causa di vari fattori di vulnerabilità socio-economica (tale percentuale sale al 46 per cento in Spagna ed al 42 nel Regno Unito). Uno studio condotto dall’Università dell’Aquila in collaborazione con l’Università di Roma Tor Vergata (pubblicato per ora sulla piattaforma MedRxiv) rivela come il 37 per cento degli intervistati presentino sintomi da stress post-traumatico. Durante il lockdown - prosegue la ricerca - c’è stato un aumento di richieste di trattamento dei disturbi d’ansia legati alla paura del contagio, al timore di uscire o di rimanere isolati. Adesso, invece, ci troviamo di fronte a un aumento di stati depressivi e d’ansia legati alla crisi economica. “Non è più accettabile che persone in cura per depressione o con problemi psichici possano detenere legalmente armi da fuoco a causa di leggi che tutelano la privacy dei possessori di armi invece dell’incolumità di famigliari, amici e conoscenti. In Italia è ancora troppo facile ottenere una licenza per armi. Se davvero vogliamo prevenire omicidi e delitti è urgente rivedere le norme a cominciare dalle comunicazioni tra medici, questure e prefetture”. A dirlo è Gabriella Neri a dieci anni esatti dall’omicidio di suo marito, Luca Ceragioli e di Jan Hilmer, rispettivamente direttore e responsabile amministrativo dell’azienda “Gifas Electric” di (Lucca). Luca e Jan furono freddati con una pistola regolarmente detenuta per “uso sportivo” da un ex dipendente, affetto da conclamati problemi psichici. Come purtroppo dimostrano i tre casi di omicidio (femminicidio) e suicidio che si sono succeduti la scorsa settimana a Borgotaro, Aprilia e Carmagnola, le armi legalmente detenute sono lo strumento più usato per commettere omicidi di famigliari, parenti e conoscenti. Un ampio studio pubblicato lo scorso anno dall’istituto Ricerche Economiche e Sociali Eures dal titolo “Rapporto su caratteristiche, dinamiche e profili di rischio dell’omicidio in famiglia” documenta che le armi da fuoco sono lo strumento più frequentemente utilizzato anche negli omicidi nell’ambito di prossimità. Lo scorso dicembre con Gabriella e Giorgio incontrammo il ministro Roberto Speranza al quale chiedemmo di attivarsi perché in via regolamentare e d’accordo col Ministro Lamorgese si potesse impedire a chi sostiene trattamenti farmacologici per problemi psichici anche temporanei di poter girare armato. Considerata la crisi che abbiamo davanti dovrebbe essere una priorità per tutti. Migranti. Pietre contro lacrimogeni, a Lesbo la rivolta dei profughi di Leo Lancari Il Manifesto, 13 settembre 2020 La polizia contro gli sfollati di Moria che chiedevano di essere trasferiti sulla terraferma. Lacrimogeni e idranti contro pietre. Poliziotti in tenuta antisommossa contro disperati costretti a contendersi perfino una bottiglia d’acqua ma proprio per questo decisi a tutto pur di lasciare l’isola di Lesbo. La rivolta era nell’aria e non poteva essere altrimenti. Dopo la quarta notte passata dormendo all’aperto, senza potersi lavare e mangiando quello che hanno potuto rimediare grazie agli sforzi delle ong, i profughi dell’ex campo di Moria ieri si sono scontrati duramente con la polizia. Sui cartelli innalzati dai manifestanti le parole d’ordine che hanno scandito la protesta e che non avrebbero potuto essere più chiare: “Libertà” e “Vogliamo lasciare Moria”. Il sogno di lasciarsi alle spalle l’isola diventata ormai una prigione - e per molti di coloro che ieri si sono scontrati con la polizia lo è ormai da anni - per essere trasferiti sulla terraferma. La stessa richiesta - il trasferimento dei profughi sulla terraferma - avanzata anche dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres. È chiedere troppo? Sì per il governo di Atene, deciso a non cedere a quella che è solo una necessità dei profughi ma incapace di gestire la mole di richieste di asilo così come non è stato capace di approntare un piano per fronteggiare l’emergenza coronavirus nei campi. Unica soluzione proposta: il prolungamento all’infinito del lockdown accompagnato da una forte limitazione della possibilità per i profughi di muoversi. Da qui la voglia di libertà dei manifestanti. Ieri intanto sono cominciati i lavori per realizzare il nuovo campo profughi che sorgerà in un’area recintata non distante dal porto. Atene aveva promesso che Moria non sarebbe stata riaperta, ma nonostante nei giorni scorsi l’Unione europea abbia promesso finanziamenti per evitare che il nuovo campo si trasformi in un altro inferno per migliaia di uomini, donne e bambini, nulla garantisce che possano ripetersi gli errori visti in passato. Con più di undicimila persone in strada, tra le quali migliaia di bambini, per adesso verranno allestiti soli tremila posti. “Sarà data priorità alle famiglie, con tende per sei persone. Il processo di ricollocazione comincia oggi”, ha assicurato un portavoce del ministero dell’Immigrazione. Unica nota positiva è l’apertura fatta dai dieci Paesi che hanno accettato di farsi carico dei 400 minori non accompagnati che si trovavano a Moria. I bambini verranno trasferiti in Francia, Germania, Olanda, Belgio, Finlandia Lussemburgo, Slovenia, Croazia, Portogallo e Svizzera (che non fa parte dell’Ue). Un primo passo importante, ma del tutto insufficiente a far fronte all’emergenza. Che l’Unione europea dovrebbe fare di più lo ha detto anche Olaf Scholz, vicecancelliere e ministro della Finanze tedesco, per il quale la disponibilità ad accogliere profughi dalla Grecia arrivata finora dagli Stati membri “non è all’altezza delle necessità”. Germania inclusa, che secondo Scholz “deve dichiarasi pronta ad accogliere più richiedenti asilo da Lesbo”. Il primo a rispondere è stato il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, con parole che però vanno in tutt’altra direzione rispetto a quella auspicata da Scholz: l’Austria non accoglierà gli sfollati di Moria, ha detto infatti il leader del Partito Popolare. “Rischiamo di commettere gli stessi errori fatti nel 2015”, ha spiegato. Una posizione in contrasto da quella espressa dai verdi, suoi partner di governo, ma che invece rischia di diventare la linea lungo la quale si attesterà la maggior parte degli Stati membri. Così la mafia pakistana sfrutta e uccide gli immigrati di Alan David Scifo e Rosario Sardella L’Espresso, 13 settembre 2020 Caporalato, estorsioni, prostituzione, sequestri. L’omicidio di un bracciante a Caltanissetta squarcia il velo su una cosca sconosciuta ma collegata a quelle italiane. “Justice for Adnan”: con gli occhi pieni di lacrime e rabbia, decine di ragazzi pakistani chiedono che venga fatta luce sulla morte di un loro amico. Non lo gridano tra i palazzi di Islamabad ma in corso Umberto I, nel cuore di Caltanissetta, a pochi passi da via San Cataldo. Dove, tra le vecchie case malconce del centro storico, alcune occupate abusivamente, abitava Adnan Siddique, giovane pakistano ucciso a coltellate, lo scorso 3 giugno, per aver squarciato il velo su una nuova realtà criminale che ha il suo centro nella città nissena. Per il suo omicidio sono stati finora arrestati quattro pakistani (e altri due sono stati fermati per favoreggiamento). “Ma il resto dell’organizzazione è ancora a piede libero”, ci spiega Alì, amico di Adnan, 35 anni, uno dei pochi nel gruppo che parla bene l’italiano: “Abbiamo un po’ di paura, ma siamo qui perché lo dobbiamo ad Adnan e alla sua famiglia. Vogliamo la verità su quanto sta succedendo ai migranti che lavorano nelle campagne tra Caltanissetta e Agrigento”. “Caporalato”, si è detto dopo quel delitto, deciso dalla banda perché Adnan aveva accompagnato due suoi connazionali a denunciare il lato oscuro della comunità pakistana. Ma quell’omicidio rivela qualcosa di più: un’organizzazione criminale radicata, responsabile anche di molti altri reati, una sorta di mafia pakistana con un filo diretto con il Paese d’origine e le cui vittime sono il più delle volte altri pakistani, ma anche afghani e africani. Di questa organizzazione il caporalato è solo uno dei settori d’attività: “Chi arriva a Caltanissetta per trovare lavoro si rivolge a questi personaggi”, spiega il colonnello dei carabinieri Baldo Daidone, in prima linea per scoprire cosa si nasconde dietro la morte di Adnan. “Si tratta di una intermediazione lavorativa diversa dal classico caporalato, su cui stavamo già lavorando e su cui continuiamo ad indagare”. “Justice for Alì”, con gli occhi pieni di rabbia decine di ragazzi pakistani gridano che venga fatta giustizia per l’uccisione del loro connazionale, Adnan Siddique, avvenuta lo scorso 3 giugno. L’omicidio squarcia il buio di una vera e propria organizzazione criminale che ha il proprio centro a Caltanissetta e con un filo diretto con il Pakistan. Il caporalato è solo uno dei settori su cui i criminali hanno puntato gli occhi, poi ci sarebbe un presunto giro di estorsioni che la stessa banda criminale opererebbe nei confronti di coloro che vendono la frutta al dettaglio. E i sequestri di persona. Come racconta Adu, picchiato e prelevato dalla sua abitazione a Sommatino, paesino della provincia di Caltanissetta, e portato a casa di italiani a Canicattì, in provincia di Agrigento. “Mi hanno picchiato con il bastone e volevano parlare con mio padre in Pakistan per chiedergli cinquemila euro. Mi ha aiutato Dio se sono ancora vivo, perché loro mi volevano ammazzare”. Uno dei ragazzi che dopo il delitto continua a lavorare nei campi, non vuole dire il proprio nome ma mostra la chat Telegram in cui i “capi” cercano persone da sfruttare. Non c’è ancora il sole quando su automobili e pulmini, nel cuore della “Strata ‘a Foglia”, decine di pakistani vengono prelevati e trasportati nelle campagne di Delia e Sommatino per la raccolta degli agrumi e della celebre “uva Italia” tipica di queste terre. “Anche il viaggio si paga”, racconta il ragazzo, “dobbiamo dare 5 euro e alla fine non ci rimane quasi nulla”. Gli sfruttati non solo pakistani, si diceva: gli ultimi a essere finiti nel gorgo, ad esempio, sono i somali. Roba facile, il procacciamento dei migranti, vista la presenza del centro di accoglienza appena più in là, in contrada Pian del Lago. Secondo Ignazio Giudice, segretario provinciale della Cgil di Caltanissetta, “esiste un caporalato variegato, fatto di contratti e buste paga finte, assenza di copertura infortunistica, evasione fiscale, criminalità organizzata che gestisce i braccianti. Bisognerebbe intervenire, fare i controlli nelle aziende agricole del territorio provinciale. Nelle campagne spesso si consumano reati non solo legati allo sfruttamento del lavoro, ma anche al procacciamento di documenti, di affitti delle case in nero dove vanno ad abitare i loro connazionali e altro ancora”. E proprio questo aveva denunciato Adnan, per aiutare i suoi amici, come raccontano al bar dove lui andava ogni giorno e in cui oggi, nonostante la paura di ritorsioni, i proprietari ancora chiedono giustizia perché “Adnan era buono”. In quella stradina, dove ogni giorno si tiene il mercato della frutta, con le insegne in doppia lingua, c’è la foto di Adnan, diventata un simbolo. Ma anche prima lui era un punto di riferimento per molti suoi connazionali, circa 1.300, oggi, nel territorio nisseno. Per capirne di più andiamo a parlare con Filippo Maritato, barba bianca e pipa in bocca, presidente della Casa delle Culture e del Volontariato, creata a Caltanissetta durante il periodo della grande immigrazione dei siriani. Tramite un finanziamento Maritato ha fatto ristrutturare un’ex scuola e ne ha fatto la sede della sua associazione, dove i volontari si riuniscono e provano a produrre “nuova linfa vitale per questa città che sembra assopita”: dall’assistenza sanitaria a quella carceraria per i circa 200 migranti detenuti al Malaspina, fino al banco alimentare, nello sforzo di creare le condizioni per una vera accoglienza fatta di integrazione e legalità. Dopo l’omicidio di Adnan Siddique, Maritato ha riunito i pakistani e con loro ha cercato di capire cosa si nascondesse dietro quell’agguato - e quanto il fenomeno del caporalato sia in mano a questa banda di criminali. “Così abbiamo scoperto che da almeno due anni Adnan era stato minacciato”, ci spiega. “E non era il caporalato la sola attività di questo gruppo di pakistani. C’era stato, ad esempio, anche il tentativo di avvicinare delle ragazze dominicane per costringerle alla prostituzione. E dell’altro ancora”. “L’altro ancora” è un giro di estorsioni che la stessa banda criminale opererebbe nei confronti di coloro che vendono la frutta al dettaglio, perlopiù giovani, nello storico mercato “Strata ‘a foglia” di Caltanissetta. E se i ragazzi delle bancarelle non versano il pizzo o si ribellano, vengono picchiati e minacciati direttamente i loro parenti in Pakistan. La squadra mobile della questura di Caltanissetta, subito dopo l’omicidio di Adnan, ha intercettato il telefono di Bilal Muhammed (uno degli arrestati) a colloquio con un certo Chery, diminutivo di Sharyeal: “Fammi sapere quanti nomi mettono nella denuncia”, chiede Bilal al suo interlocutore, e poi aggiunge: “Fratello, digli a Dani Rana di non fare il testimone perché altrimenti non diamo pace alla sua famiglia (in Pakistan, ndr) e gliela mettiamo nel culo. Abbiamo fatto sapere a Rana che abbiamo minacciato la sua famiglia”. Un sistema di ricatti e intimidazioni che costringeva al silenzio i pakistani, come racconta uno di loro all’Espresso: “Questa banda era nota, qui in zona, però nessuno aveva il coraggio di denunciarli. A me dovevano pagare una giornata di lavoro ma quando ho chiesto i soldi, Bilal mi ha detto di non lamentarmi, sennò finivo nei guai”. Adesso a Caltanissetta Alì e i suoi amici pakistani hanno dato vita a un comitato permanente, portando alla luce nuovi elementi: ad esempio, hanno trovato una specie di libro mastro in cui la banda segnava le giornate lavorative e alcuni nomi dei caporali e dei padroni italiani. Una volta al mese i ragazzi del comitato si incontrano con Filippo Maritato e i volontari italiani. Sono loro che hanno rinvenuto a casa di Adnan la copia originale dell’ultima denuncia. Due giorni prima di essere ammazzato, Adnan aveva accompagnato un suo connazionale a denunciare quello che gli era successo, cioè un rapimento: era stato prelevato con forza dalla banda nella sua abitazione di Caltanissetta e portato in macchina a Canicattì, in una casa di italiani. “Mi hanno obbligato a chiamare mio fratello in Pakistan per dirgli di pagare tremila euro. Quando lui ha pagato (con un money transfer), mi hanno lasciato andare, minacciandomi di uccidermi se avessi denunciato l’accaduto”, si legge nella denuncia dell’amico di Adnan. Un altro sequestro porta invece a Sommatino, nell’entroterra nisseno. Un rapimento con la richiesta di un riscatto di cinquemila euro, dietro la minaccia di uccidere il padre della vittima, in Pakistan. Il ragazzo era stato portato anche lui sempre in quella stessa casa di italiani a Canicattì. Sì, perché la mafia pakistana lavora per conto di italiani, ci racconta anche Adu (nome di fantasia per tutelare l’identità della nostra fonte), il quale a sua volta dice di essere stato picchiato selvaggiamente da 12 pakistani che erano arrivati in tutta calma a casa sua, attraversando l’intero paesino. Gli chiedevano dei soldi, di quelli che guadagnava come bracciante. Uno dei pakistani che lo hanno picchiato, un mese dopo sarà arrestato nella vicenda Adnan. “Perché nessuno ha fatto dei controlli dopo la mia denuncia? Ora hanno arrestato sei di loro, ma tutti gli altri sono ancora fuori. Io e gli altri abbiamo paura”, dice. Ma l’anello mancante è rappresentato proprio dagli italiani: piccoli e grandi proprietari terrieri delle aziende locali a cui fa comodo la manodopera a basso costo. Ora le indagini dovranno scoprire per chi lavora la mala pakistana, chi c’è in quel “secondo livello” sopra i kapò che sfruttano, minacciano, picchiano e rapiscono i loro connazionali. Droghe. Cosa è la riduzione del danno e perché dovremmo usarla di Alessandro De Pascale L’Espresso, 13 settembre 2020 Serve a evitare che chi usa stupefacenti muoia ed è l’approccio che funziona meglio. Ma in Italia, anche se la legge lo prevede, l’ideologia repressiva impedisce che venga adottata davvero. Lo scorso 6 luglio, a Terni, due adolescenti non sopravvivono alla notte. Flavio e Gianluca, 15 e 16 anni d’età, dopo aver trascorso la serata insieme ed essere rientrati nelle loro case, muoiono entrambi nel sonno per insufficienza cardiaca. A ucciderli, la probabile assunzione di un mix di sostanze psicoattive. Tra le poche certezze, l’acquisto in strada di metadone da un 45enne in cura presso il locale Servizio per le tossicodipendenze (SerT): un boccettino per 15 euro. Il metadone è un farmaco oppioide creato dalla Germania nazista nel pieno della Seconda guerra mondiale (il brevetto è del 1941) che i tedeschi trasformano in un successo commerciale solo a partire dagli anni Sessanta, quando negli Stati Uniti i medici iniziano a impiegarlo come sostituto dell’eroina per il trattamento della dipendenza da oppiacei. Nel sistema sanitario italiano arriva vent’anni dopo, per far fronte alla cosiddetta “epidemia di eroinomani” che, partita dagli Usa, dilagava allora in tutto l’Occidente. Non è la prima volta (e probabilmente non sarà nemmeno l’ultima) che qualcuno muore per aver assunto metadone come sostanza da sballo ricreativo ceduta da altri. Si tratta di un nuovo fenomeno: quello degli “shottini” di metadone, venduti in strada al pari di quelli di amaro, grappa o rum per pochi euro. Nel 2018, ad esempio, a rimetterci la vita era stato un 22enne di una famiglia della Roma bene. Due anni dopo, un ragazzino di 17 anni a Genova e un 19enne a Pisa. Giusto per citare gli ultimi casi. In seguito alla tragica morte dei due adolescenti a Terni, il prefetto della città, Emilio Dario Sensi, ha riunito un tavolo tecnico con magistratura e forze dell’ordine per valutare “ulteriori possibili strategie di contrasto al fenomeno dello spaccio di sostanze stupefacenti”. Mentre sul fronte politico, l’assessore alla Sanità della Regione Umbria, Luca Coletto, già sottosegretario alla Salute in quota Lega nel primo governo Conte, ha promesso che in Parlamento arriverà una “modifica della norma che prevede l’erogazione del metadone nei SerT su base settimanale”. Mettendo a rischio il diritto di cura delle quasi 90 mila persone che nel 2018 (ultimi dati governativi disponibili) risultavano in trattamento farmacologico contro la dipendenza da eroina presso questi servizi. C’è stato poi il quotidiano La Nazione, che ha convocato un forum su giovani e droga nel quale il vicesindaco di Perugia, il pediatra Gianluca Tuteri, anche lui leghista, ha chiesto di usare “il pugno duro” contro la “piaga delle sostanze d’abuso”, ipotizzando di “costringere” chi si presenta in ospedale anche solo con un’intossicazione da alcol a prendere parte ad un progetto di recupero. “Lanciamo allarmi, parliamo di emergenza ma non pensiamo di mettere in condizione i giovani di non morire, fornendogli tutti i servizi e le informazioni necessarie per potersi difendere”, commenta Stefano Vecchio, presidente di Forum Droghe, associazione che dal 1995 si batte per la riforma delle politiche sulle droghe. “I ragazzi che hanno acquistato quel metadone non avevano nessuna informazione”, continua questo psichiatra che lavora sul tema dal 1982, “perché quando una sostanza è considerata un farmaco si pensa sia esente da pericoli. È mancata loro l’informazione sulle caratteristiche, la composizione, su tutti i possibili rischi. Questo è un pilastro molto semplice di una politica pragmatica ed efficace sulle droghe: si chiama Riduzione del danno (Rdd)”. Il Dipartimento dipendenze della Asl che dirige Vecchio è stato uno dei primi in Italia, peraltro in un Meridione troppo spesso indicato come fanalino di coda in termini di servizi e prestazioni sanitarie offerti, ad aver istituzionalizzato questa pratica spostandola dal terzo settore direttamente all’interno del servizio pubblico. Come del resto prevede la legge, da tre anni a questa parte. Assieme a lotta al narcotraffico, riduzione della domanda, cura e riabilitazione, la Riduzione del danno fa parte della cosiddetta “politica dei 4 pilastri” europea in materia di droghe. Anche in Italia, questa pratica è entrata a far parte dal 2017 dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) che le Regioni sono tenute a garantire allo Stato nell’ambito del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Il problema è che, per ora, resta un diritto mancato. L’ultima relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze (con dati fermi al 2018), contiene i risultati dei questionari inviati alle 20 Regioni italiane dall’Osservatorio europeo sulle droghe e le tossicodipendenze di Lisbona (Emcdda) sui servizi di Rdd attivi in Italia. E cioè di quelli finalizzati ad entrare in contatto con i consumatori precoci, ricreativi o occasionali, che sfuggono ai servizi tradizionali deputati alle dipendenze. I risultati ci dicono che nella maggior parte delle regioni italiane le attività di Rdd risultano demandate, oltre che ai citati SerT, a “servizi di salute mentale, strutture residenziali (comunità terapeutiche e/o strutture ospedaliere)”, persino alle “farmacie”. In altre parole, nel nostro Paese sono ancora merce rara gli operatori professionali che incontrano i consumatori per fare orientamento, fornire generi di prima necessità, materiali sterili, informazioni sulle sostanze o accompagnamenti in comunità, attraverso le unità di strada che intervengono direttamente nei luoghi del divertimento o che operano nei drop-in (la loro versione stanziale). “Sono state “nozze coi fichi secchi”, visto che è rimasto tutto come prima: in assenza di finanziamenti da parte di Stato e Regioni la Rdd resta a buon cuore delle singole aziende sanitarie o dei singoli gruppi di privato sociale”, denuncia Paolo Jarre, un altro medico che da quasi quarant’anni si occupa dei problemi che derivano dall’uso di droghe e oggi direttore del Dipartimento patologia delle dipendenze della Asl Torino 3, periferia ovest del capoluogo piemontese. A Terni, l’unità di strada che faceva Riduzione del danno ha smesso di operare oltre 6 anni fa. “La nostra attività non è mai stata finanziata dalla Asl, ma sempre e solo con progetti comunali a scadenza”, rivela Marco Coppoli, uno degli operatori sociali che vi lavorava. “Quindi non appena ingranavi, iniziando a lavorare, si arrivava a scadenza e i fondi finivano”. Questo tipo di approccio non giudicante, a detta degli operatori che lo praticano, è in grado di ridurre le vittime e far comprendere dinamiche della piazza e nuovi stili di consumo. Il tutto, in un mercato della droga in continua evoluzione: a dicembre 2019, secondo l’Ufficio contro la droga e il crimine delle Nazioni Unite (Unodc), sul mercato erano arrivate ben 950 Nuove sostanze psicoattive (Nps). “La maggior parte dei giovani cerca lo “sballo” a tutti i costi, con quale sostanza poco importa”, continua Coppoli, “e il problema è che qui, tra le droghe pesanti, l’eroina è quella che si trova più facilmente. Ecco perché serve fare informazione con la Rdd”. Nemmeno il progetto regionale di Rdd, finanziato direttamente dal governo quando l’Umbria era in vetta alle macabra classifica delle morti per overdose, è più attivo. Si chiamava “Notti Sicure in Umbria” e univa tutte le unità di strada presenti sul territorio per interventi nei grandi eventi del divertimento con postazioni chillout, primo soccorso, spazio informativo, ristoro e servizio di drug checking (analisi rapida delle sostanze). “A fine 2018 la Regione aveva stanziato dei fondi per un progetto analogo sull’intero territorio umbro”, denuncia Andrea Albino, referente dei servizi di Riduzione del danno della cooperativa sociale perugina Borgorete. “Ma il solito macchinario burocratico ha fatto sì che ancora non sia partito, perché il passaggio con il quale la dirigenza della Asl 1 doveva affidare i fondi al terzo settore, e quindi al privato sociale che avrebbe dovuto occuparsene, materialmente si è perso”. Ecco perché il Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), rete attiva con i suoi associati su tutto il territorio nazionale fin dal 1980, è intervenuta nel dibattito sul caso Terni per chiedere alle istituzioni “meno repressione (…) il rispetto dei Lea (…) e della nostra lunga storia e delle professionalità acquisite nel tempo e dai più riconosciute, riportando l’attenzione sulle politiche di prevenzione, educazione e Riduzione del danno”. L’unica, a loro dire, in grado di salvare delle vite e cercare di prevenire l’insorgere di consumi problematici. I profughi siriani fanno causa a chi ha finanziato i terroristi islamici di Fabrizio Gatti L’Espresso, 13 settembre 2020 Due uomini d’affari e la Doha Bank del Qatar saranno processati con l’accusa di aver finanziato le stragi. La causa intentata con una class action di persone costrette a scappare del paese per la guerra civile. I fratelli siriani Moutaz e Ramez al-Khayyat hanno percorso la storia in senso contrario. Mentre milioni di connazionali lasciavano le loro case impoveriti dalla guerra civile per sbarcare in Europa, loro consolidavano il proprio impero in Qatar. Una crescita inarrestabile grazie ai contratti miliardari per le infrastrutture e gli stadi che ospiteranno i Mondiali di calcio nel 2022, ma anche grazie alla benevolenza della famiglia al-Thani, da sempre al comando del piccolo Stato affacciato sul Golfo Persico. I soldi non hanno colore, né confini. Così oggi almeno cento profughi di quelle ondate umanitarie accolte da mezza Europa hanno citato in tribunale a Londra i due fratelli e la Doha Bank, il più grande istituto bancario dell’emirato: Moutaz e Ramez al-Khayyat, oggi importanti uomini d’affari di 37 e 36 anni, sono accusati di avere finanziato su larga scala l’organizzazione terroristica Jabhat al-Nusra in Siria attraverso triangolazioni con Turchia e Libano che, sempre secondo le contestazioni, la potente banca avrebbe dovuto denunciare e bloccare. I due ricchi imprenditori e Doha Bank smentiscono categoricamente ogni coinvolgimento. Ma intanto, tutti insieme, sono chiamati davanti all’Alta Corte di Inghilterra e del Galles a rispondere dei danni fisici, psicologici e morali inflitti ai profughi da jihadisti e combattenti, affiliati fino al 2016 alla rete di Al Qaeda, per poi perseguire gli stessi obiettivi dell’Isis nella fondazione di uno stato islamico. L’appello per aderire alla causa civile viene esteso ora ai rifugiati siriani oggi residenti in Italia, Svizzera e nel Sud Europa. Quanti hanno perso le loro case, i propri familiari o sono stati costretti a fuggire per colpa di Jabhat al-Nusra sono invitati a contattare il team legale all’indirizzo syrianvictims2020@protonmail.ch. La prima richiesta di risarcimento, non ancora quantificata, è stata depositata nel 2019 davanti all’Alta Corte di Londra, dove sia i fratelli al-Khayyat sia la banca sono titolari di ingenti proprietà. Ma c’è ancora tempo per estendere il numero delle parti offese e quindi delle testimonianze sui danni subiti. Il caso è stato affidato al famoso legale Ben Emmerson, avvocato con il grado di consigliere della regina, già relatore speciale alle Nazioni Unite dal 2011 al 2017 per i Diritti umani e l’Antiterrorismo e difensore di Julian Assange contro la richiesta di estradizione in Svezia. “Sto agendo per conto delle vittime”, spiega a L’Espresso l’avvocato Emmerson, “chiedendo un giudizio di responsabilità contro quegli interessi che hanno finanziato l’organizzazione per commettere atrocità. Questo non comprende soltanto i finanziatori internazionali e le banche, ma anche le multinazionali che hanno pagato tangenti o tasse ai terroristi, per continuare le attività commerciali in parti della Siria sotto il controllo dello Stato islamico. È inutile sconfiggere l’Isis sul campo di battaglia senza inseguire i loro sostenitori finanziari ed è quello che ora stiamo cercando di fare. Lo scopo non è solo ottenere risarcimenti per questi crimini indicibili, ma anche dissanguare l’economia terroristica della sua linfa vitale e privare gli sponsor di Stato dei vantaggi politici che hanno percepito”. Quando i quotidiani britannici hanno pubblicato la notizia, Richard Whiting, rappresentante della filiale di Londra di Doha Bank ha smentito le circostanze: “Riteniamo che le accuse sostenute contro l’istituto siano infondate”. Lo stesso dichiarano le aziende di Moutaz e Ramez al-Khayyat. Gli avvocati di Doha Bank hanno presentato un’istanza per trasferire il procedimento in Qatar. Altre cause legali contro istituzioni del ricco emirato sono state nel frattempo avviate negli Stati Uniti. Per evitare ritorsioni da parte delle cellule di al-Nusra, sia in Europa sia ai parenti eventualmente rimasti in Medio Oriente, l’Alta Corte di Londra ha emesso un ordine di anonimato: con questo provvedimento viene protetta l’identità dei ricorrenti che può quindi essere conosciuta soltanto dai giudici e dai difensori, ma non può essere rivelata agli accusati o resa pubblica. Non tutti i profughi siriani (o curdi) possono comunque aderire: “Il procedimento è aperto ai rifugiati ora residenti in Europa che sono rimasti feriti, e/o hanno subito perdite, e/o sono stati sfollati dal Fronte al-Nusra. Sono ovviamente consapevole che molti profughi hanno lasciato la Siria per varie ragioni. Ma i ricorrenti nella nostra causa sono soltanto le persone che ricadono in questa categoria”, spiega un assistente legale, incaricato di svolgere le indagini per conto degli esuli siriani. È l’ennesima accusa che colpisce l’emirato del Qatar, già alle prese con le inchieste sulla corruzione nella campagna per ottenere i prossimi Mondiali di calcio. Doha Bank, che come i fratelli al-Khayyat comunque ribadisce l’infondatezza delle contestazioni, è guidata da parenti stretti dell’emiro al potere, il quarantenne Tamim bin Hamad al-Thani. Secondo i profughi che hanno presentato ricorso all’Alta Corte, i manager della banca non potevano non sapere o altrimenti avrebbero dovuto controllare meglio le attività delle filiali. Da lì sarebbero state prelevate le ingenti somme di denaro contante: soldi da consegnare, alla fine della triangolazione, a corrieri che a loro volta li avrebbero fatti entrare nelle zone controllate da Jabhat al-Nusra attraverso i confini turco e libanese. Senza quel denaro, sostiene l’accusa, i jihadisti non avrebbero avuto la possibilità di armarsi e quindi di infliggere sofferenze e lutti alla popolazione, costretta poi a emigrare. Moutaz e Ramez al-Khayyat sono alla loro seconda vita. La prima è cresciuta all’ombra del potere di Damasco, con legami fin dentro le strette cerchie del regime di Bashar al-Assad, grazie anche al padre imprenditore e alle parentele importanti della famiglia. Ma quando nel 2012 in Siria la rivolta contro Assad diventa definitivamente una guerra civile, con la risposta armata dell’esercito e la costituzione delle milizie, i fratelli al-Khayyat sono già ricchi imprenditori al sicuro in Qatar. E da lì, come ricostruisce nel 2015 un’inchiesta della prestigiosa rivista americana “Foreign policy”, sostengono la rivoluzione partecipando anche a una donazione per l’invio di medici oltre le prime linee: si mobilitano alcuni tra i più importanti esuli, rivela l’articolo, “compresi due dei più ricchi siriani di Doha... la cui impresa di costruzioni “UrbaCon Trading and Contracting” aveva vinto appalti come la costruzione di infrastrutture per i Mondiali 2022”. A Doha si racconta che i fratelli al-Khayyat non abbiano trovato ostacoli sia per la loro bravura negli affari, sia per l’amicizia di Moutaz con la donna più potente del mondo arabo: Mozah bint Nasser, 61 anni, seconda delle tre mogli di Hamad bin Khalifa al-Thani, a capo del ricchissimo Stato dal 1995 al 2013, e madre dell’attuale emiro. Il catalogo on line della società di costruzioni dei due fratelli elenca l’Abdullah Bin Khalifa Stadium di Doha, i nuovi hotel di lusso che ospiteranno squadre e spettatori dei Mondiali come lo Sheraton e l’Hilton, il resort sull’isola artificiale di Banana Island, il nuovo aeroporto internazionale dell’emirato, il monumentale centro commerciale Mall of Qatar, grattacieli, ponti, scuole. Le infrastrutture simbolo portano la loro firma. Da anni il Qatar viene accusato da alcuni Paesi arabi di aver finanziato il terrorismo jihadista e i movimenti islamisti nei conflitti regionali, dallo Yemen alla Libia, e di intrattenere relazioni fin troppo amichevoli con l’Iran. Questa volta non è la Casa Bianca a sostenerlo, anche perché gli Stati Uniti occupano nell’emirato, con la Royal Air Force britannica, la base aerea più armata del Golfo. Lo dichiara invece una coalizione che comprende Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita, unico Stato confinante con il Qatar e non certo illibato per quanto riguarda i rapporti con gruppi jihadisti. Questi governi dal giugno 2017 non hanno più rapporti commerciali con il regno degli al-Thani. Ma per un Paese ricco di gas e petrodollari, l’embargo è solo un grattacapo passeggero. Proprio in quelle prime settimane di isolamento, Moutaz e Ramez al-Khayyat diventano eroi nazionali. Per risolvere la penuria di latte, yogurt e formaggi organizzano un ponte aereo da Australia e Stati Uniti per trasferire nell’emirato quattromila mucche. Così, dopo appena un mese, garantiscono la produzione di circa un terzo del fabbisogno quotidiano di latte fresco, per una popolazione di due milioni e mezzo di abitanti e un reddito medio tra i più alti al mondo. La North Farm della società Baladna, che come le altre imprese degli al-Khayyat fa capo alla Power International Holding, è oggi un allevamento intensivo ultra automatizzato in mezzo al deserto. I rifugiati siriani che per primi hanno avviato la causa a Londra sono consapevoli che i fratelli al-Khayyat e Doha Bank respingono le accuse e annunciano azioni legali di risposta: “Per questa ragione”, aggiungono nel loro appello, “c’è da aspettarsi che la denuncia venga vigorosamente contestata. Ogni dichiarazione deve essere provata. Ogni ricorrente deve dimostrare che lui o lei hanno sofferto le ferite e le perdite che dichiarano di aver subito”. Se la richiesta venisse accolta, sarebbe un precedente per i profughi di tutto il mondo: punire ovunque sotto il profilo economico governi, multinazionali, famiglie, signori della guerra che con le loro ricchezze trasformano la vita tranquilla di milioni di persone in un bagno di sangue. Iran. Teheran non si piega, il wrestler Navid impiccato in carcere di Gabriella Colarusso La Repubblica, 13 settembre 2020 Eseguita la condanna per omicidio nonostante la mobilitazione del mondo dello sport e di Trump. Navid Afkari aveva 27 anni, era cresciuto con la passione per il wrestling, era diventato un lottatore professionista: è stato giustiziato per omicidio ieri mattina nel carcere di Adelabad, a Shiraz, nel Sud dell’Iran, dopo un processo che le organizzazioni per i diritti umani e gli avvocati hanno definito ingiusto e senza prove, e dopo che Navid stesso ha ritrattato la sua confessione denunciando di essere stato torturato. A nulla sono valsi gli appelli del comitato olimpico internazionale e della Fifa, della United World Wrestling Scientific Commission, di wrestler iraniani, americani, europei, del presidente americano Donald Trump. Afkari era stato arrestato nel 2018 dopo avere partecipato alle manifestazioni anti-governative che da Shiraz, considerata roccaforte liberale, si erano diffuse ad altre città del Paese, ed era stato condannato a due pene di morte: una per moharebeh, “guerra a Dio”, ovvero alla Repubblica islamica e l’altra per il presunto omicidio di Hassan Torkaman, un dipendente della società idrica locale che secondo i manifestanti e Human Rights Watch era anche un basij, collaborava con i Guardiani della rivoluzione responsabili della repressione della piazza. Fu trovato morto davanti casa, ucciso con un coltello. Il procuratore della provincia di Fars, Karem Mousavi, ha detto alla televisione di Stato che la sentenza per “qesas”, la legge della ritorsione, è stata eseguita “su insistenza della famiglia della vittima”. Per l’avvocato di Afkari, Hassan Younes, invece la famiglia della vittima era disposta a concedere il perdono e Navid è stato impiccato poche ore prima che le due famiglie si incontrassero per trovare un accordo che avrebbe potuto evitare la condanna a morte con il carcere e un risarcimento. “Mi stavo imbarcando su un volo per Shiraz con il fratello di Vavid, Saeed, perché la famiglia della vittima aveva accettato un incontro per parlare di perdono. Speravamo tutti che avrebbero accettato ma pochi minuti prima che l’aereo partisse ci hanno chiamato per informarci che Navid era stato giustiziato”, ha raccontato il giornalista e attivista per i diritti umani Mehdi Mahmoudian, che sta seguendo il caso. Due fratelli di Navid, Vahid e Habib, che avevano partecipato alle manifestazioni, sono stati condannati a 54 e 27 anni. Navid aveva inizialmente ammesso di avere ucciso l’uomo, ma ha poi ritrattato rivelando che la confessione gli era stata estorta con la tortura. “È sconvolgente che le richieste degli atleti di tutto il mondo e il lavoro dietro le quinte del Cio, insieme al comitato olimpico iraniano, alla United World Wrestling e alla National Iranian Wrestling Federation non abbiano raggiunto l’obiettivo sperato, i nostri pensieri vanno alla famiglia e gli amici di Navid Afkari”, scrive il Cio in una nota. Il presidente Thomas Bach si era rivolto direttamente “alla Guida suprema e al presidente iraniano” per chiedere clemenza. Sulla vicenda era intervenuto anche Donald Trump, senza esito. L’anno scorso l’Iran ha eseguito più di 280 condanne a morte secondo Amnesty International, il numero più alto al mondo dopo la Cina. A novembre, le proteste scoppiate in tutto il Paese contro l’aumento del prezzo della benzina, la crisi economica, la corruzione, sono state duramente represse: Amnesty conferma almeno 300 morti, un report della Reuters a dicembre parlò di 1.500 morti. Migliaia di persone sono state arrestate e di molti non si conosce la sorte. Per quelle proteste erano stati condannati a morte tre ventenni, Amirhossein Moradi, Mohammad Rajabi e Saeed Tamjidi, ma la sentenza è stata poi sospesa grazie a una ampia mobilitazione internazionale. Avranno un nuovo processo. Afghanistan. Negoziati con i talebani, una svolta nel segno dell’incertezza di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 13 settembre 2020 In questa chiave, sarebbe rilevante che gli Stati Uniti e in generale le forze del contingente internazionale, intervenuti dopo l’invasione del 2001 per stabilizzare l’Afghanistan, non lo abbandonassero troppo rapidamente al suo destino. Diciannove anni dopo gli attentati dell’11 settembre, l’Afghanistan è a una svolta. L’inizio ieri, nel Qatar, dei negoziati di pace diretti tra il governo afghano e i massimi rappresentanti del movimento radicale islamico che garantì asilo ad Al Qaeda avvia una fase delicata, la più incerta, dell’intero processo politico. Il rischio del ritorno alla guerra guerreggiata resta minaccioso. Sebbene violenze e attentati non siano mai del tutto cessati, qualsiasi ostacolo maggiore riporterebbe allo scontro aperto. E le colonne locali di Isis, in forte crescita dal 2016, hanno tutto l’interesse a generare tensioni. Anche gli indubbi passi avanti compiuti dalla società civile locale, compresi i diritti per le donne e i minori specie nelle zone urbane, potrebbero rimanere fortemente pregiudicati. Gli stessi talebani sono stati spesso confusi in proposito negli ultimi anni. Alcuni leader più illuminati ai colloqui di Mosca l’anno scorso avevano per esempio promesso di non intendere più tornare alla chiusura delle scuole per le bambine. Ma altri dichiarano apertamente di voler reintrodurre, manu militari se necessario, la loro lettura radicale della legge islamica. In questa chiave, sarebbe rilevante che gli Stati Uniti e in generale le forze del contingente internazionale, intervenuti dopo l’invasione del 2001 per stabilizzare il Paese, non lo abbandonassero troppo rapidamente al suo destino, come invece avvenne dopo la guerra che condusse al ritiro sovietico. Questi colloqui sono comunque parte del piano di ritiro americano elaborato dopo la firma degli accordi con i talebani lo scorso febbraio. I negoziati con le autorità di Kabul avrebbero dovuto iniziare subito. Ma incomprensioni sulla richiesta talebana di liberare parte dei loro prigionieri hanno ritardato il processo. Al cuore del problema sta il rifiuto talebano a considerare le autorità di Kabul partner legittimi e non “marionette” degli americani, come spesso ripetono.