Gherardo Colombo: “Ho capito che il carcere non educa, la vera giustizia è inclusione” di Roberta Scorranese Corriere della Sera, 12 settembre 2020 L’ex magistrato: gli anni delle inchieste, la rinuncia alla toga, le riflessioni sui giovani. Ha mai infranto una regola? “Eccome!” Per esempio? Qual è il suo punto di rottura con la legalità? “Forse la velocità. Quando ero giovane e andavo in moto andavo forte, poi ho avuto un paio di incidenti, peraltro andando adagio, e fine”. Quand’è che smettiamo di seguire le regole? “Quando non le riteniamo giuste. Fino a quando siamo convinti che una norma sia giusta è difficile che decidiamo di infrangerla - anche se qualche infrazione occasionale capita”. Mi viene in mente un passaggio di Furore, di Steinbeck: “Il modello era così saldo che una famiglia rispettosa delle regole riconosceva la propria sicurezza in quelle regole”. “Ecco perché da anni dico che la punizione non educa”. Gherardo Colombo lo dice più o meno dal 2007, da quando ha lasciato la magistratura. Ma, prima, di punizioni ne ha inflitte molte: come giudice, poi come pubblico ministero e poi ancora come giudice, ha giudicato e condannato capi di mafia, ha scoperto la P2 e con Tangentopoli ha fatto affiorare un gigantesco sistema di corruzione. Da anni ormai si dedica (con l’associazione Sulleregole) ad una capillare riflessione sul concetto di giustizia e di educazione, incontrando migliaia di studenti e svolgendo volontariato nelle carceri. È appena uscito per Chiarelettere il suo libro Anche per giocare servono le regole che apre la collana “Ricreazioni”, dedicata ai cittadini di domani. Partiamo da qui. Quand’è che si è convinto dell’inutilità, anzi della nocività del carcere? “Soffrivo ogni volta che dovevo imprigionare o richiedere la prigione per qualcuno. Non riuscivo davvero a capire l’elemento che legittimasse il mio potere di sottrarre un padre o una madre ad un figlio. Mi è rimasto impresso un collega che allegramente chiedeva venti anni di galera. Riflettevo allora sul concetto di giustizia: un peso enorme ce l’ha la disponibilità nei confronti dell’altro”. Penso alla “parabola del figliol prodigo”: il suo è un concetto di giustizia quasi cristiano. “Attenzione: in quella parabola come, indirettamente in quella “dei lavoratori della vigna”, c’è un chiaro riferimento alla giustizia, che non è quella simboleggiata dalla bilancia (“ti restituisco il male che hai fatto”), anzi ne è l’esatto opposto. La retribuzione è simbolo della perpetuazione di un conflitto, la giustizia - al contrario - è inclusione, è superamento di quel conflitto”. Lei ha dedicato una carriera a far emergere “quel che non si sa”. È servito? “Lo svelamento della mafia, le condanne di tante persone, la mafia non l’hanno fatta sparire e nemmeno marginalizzata; la scoperta della P2 è stata rintuzzata dal trasferimento delle indagini ad altra sede, e quel che già era stato scoperto (e ciò che è emerso successivamente grazie a una commissione parlamentare d’inchiesta) non ha portato a cambiamenti sostanziali; altrettanto è avvenuto per i fondi neri dell’Iri”. E il carcere non educa? “Il 68-70 per cento delle persone che ha subito il carcere, in carcere ci ritorna, per aver commesso reati ulteriori: credo basti questo a confutare l’efficacia educativa dello strumento”. Non crede che, tra le eredità culturali lasciate da Tangentopoli, ci sia anche l’illusione - purtroppo a volte anche in campo politico - di poter raggiungere la purezza assoluta? “La “perfezione”, per essere precisi. Ho la sensazione che ci si creda perfetti, onnipotenti. Puri rispetto agli altri, che sono impuri e imperfetti. Guardi solo il tono di certi social network: mi impressiona vedere quanto alcuni si sentano al di sopra degli altri, giudichino gli altri, non ammettano ombre nel proprio operato”. Il dubbio, l’incertezza, sembrano spariti. “Il problema è che la libertà non è l’onnipotenza, anzi. La libertà consiste nella scelta e la scelta implica rinuncia”. Dunque, ci illudiamo di essere liberi ma non lo siamo. “Chi è libero sceglie tra più alternative ciò che ritiene più opportuno, più utile, più piacevole, tenendo conto delle conseguenze. Ripeto, libertà non è onnipotenza: non posso scegliere di bere e dormire contemporaneamente”. Il suo libro lo dice chiaro: affinché si rispettino le regole è necessario che la gente capisca perché sono state fatte. E il rischio che si seguano le regole sbagliate? “Oggi è l’8 settembre (il giorno in cui ci siamo incontrati in un caffé di Milano per questa conversazione, ndr): bene, nel 1938, esattamente tre giorni fa, veniva scritta la terribile pagina italiana delle leggi razziali, che molti applicarono coscienziosamente. Sì, qualche volta la trasgressione è necessaria. Galileo, d’altra parte, era un grande trasgressore. Ma c’è differenza tra legalità e giustizia. Se una legge ingiusta viola i diritti fondamentali più significativi della persona, la legge non solo può, ma nei casi più gravi addirittura deve essere trasgredita”. Purtroppo in questo periodo si parla di norme sanitarie. E c’è chi dice, che i vaccini fanno male e che, allora, non bisogna vaccinarsi. “Ma se dietro una regola c’è una dimostrazione, in questo caso scientifica, dell’efficacia, bisogna far comprendere che quella è la strada giusta. Sui vaccini, poi, quelli della mia età (Colombo è del 1946, ndr) sanno bene che cosa era il mondo con la poliomielite. Io peraltro ho anche rischiato di morire a causa di una polmonite complicata dal morbillo. Per fortuna mio padre, medico, riuscì a procurarsi dei sulfamidici in Svizzera. Molti altri bambini non sono stati così fortunati”. Resta il fatto che ci si sente superiori - in questo caso, alla scienza. “Torniamo al discorso dell’onnipotenza. Io credo che questo diffuso sentirsi “competenti su tutto” nasca proprio da lì. Attenzione a non confondere merito (parola che non mi è simpatica) e competenza. La competenza è specifica: saper riparare quel mobile, saper trovare un vaccino, saper gestire le libertà degli altri. Ho la sensazione che da anni ci sia una svalutazione del concetto di competenza: un onnipotente pensa di sapere tutto”. E lei si è mai sentito onnipotente? “Credo proprio di no. Anzi, ho vissuto con grande travaglio la fase della mia vita in cui ho messo sotto la lente il potere. Forse mi sono sentito onnipotente da bambino, quando provavo a me stesso che potevo percorrere in bici il sopra di un muretto senza spostare un piccolo legno posto sopra. Caddi, naturalmente, e mi feci male”. Eppure il potere sembra essere all’origine delle cosiddette battaglie populiste. Per la verità io ci vedo un bersaglio piuttosto confuso o quantomeno ondivago. Chi è il bersaglio dei populisti? Una non ben definita “élite intellettuale”? E che vuol dire? O sono forse i ricchi? “Il populista per identificarsi ha bisogno di un nemico. Il nemico non può essere il “ricco” tout court perché allora uno si chiede come mai nessuno se la prenda con il top dei calciatori. E se qualcuno si domanda perché uno che sta col popolo finisce per seguire un miliardario come Trump io penso che sia perché questi sono riusciti a dipingersi come uomini che si sono fatti da sé e dunque alimentano delle illusioni. Bisogna identificarsi con qualcuno per credergli”. L’importante è avere un nemico con cui prendersela. “È tipico delle culture autoritarie avere qualcuno da tenere sotto di sé. Possono essere gli ebrei, gli immigrati, le donne”. Dottor Colombo, c’è qualcosa o qualcuno che non riesce a perdonare? “Mi sembra che mi venga automatico non conservare rancore. Il che non toglie che abbia provato fortissimi sentimenti negativi nei confronti di chi uccise colleghi molto vicini, rimesti vittime di terrorismo e mafia”. Che cosa stava facendo in quel 12 dicembre 1969? “Facevo il militare e avevo appena messo il piede sulla camionetta quando mi dissero che c’era stata una fortissima esplosione a Piazza Fontana”. Si è fatto un’idea sul tessuto sociale e culturale che ha alimentato la stagione delle stragi? “Sarebbe un discorso molto complesso. Mi limito a dire che secondo me dopo la guerra l’Italia ha fatto una grande fatica a scrollarsi di dosso la cultura precedente alla guerra. Non ce ne siamo accorti subito, ma penso che sia così”. Negli anni Sessanta c’era ancora parecchia discriminazione. “Penso ai contadini: non diciamo che vivevano come quelli dell’Albero degli zoccoli ma quasi. Qualcosa cambiò con l’arrivo della Vespa e o della lambretta. Almeno furono liberi di spostarsi oltre i confini comunali”. Nei suoi ricordi compare spesso la cascina di famiglia di Renate, raccontata anche nel libro “Il vizio della memoria”. I suoi genitori elargivano punizioni frequenti? “Da mio padre ho ricevuto solo uno schiaffo. E basta. Ho tre figli, di 47, 26 e 24. Ho applicato il criterio educativo che ritenevo giusto, che però si è modificato nel tempo. Credo comunque sia essenziale essere coerenti: se dici agli studenti di spegnere il cellulare tenendo acceso il tuo educhi all’ipocrisia” Di che cosa ha paura oggi? “Non è una paura, è piuttosto un pensiero fastidioso: ogni tanto mi viene da dire che peccato dover morire”. Internati al 41bis: la Consulta deciderà sulla costituzionalità di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2020 La Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati Valerio Vianello Accorretti e Piera Farina, chiedendo alla Corte di esprimersi sulla legittimità degli internati al 41bis. Sollevata la questione di legittimità costituzionale in merito all’applicazione del 41bis agli internati, ovvero coloro che hanno finito di scontare la pena ma sono stati raggiunti da una misura di sicurezza. A deciderlo è la prima sezione della Cassazione, accogliendo il ricorso presentato dagli avvocati Valerio Vianello Accorretti del Foro di Roma e Piera Farina del Foro de L’Aquila. Lo hanno fatto nell’interesse di un internato presso il carcere di Tolmezzo (dove c’è la casa lavoro) che, finito di scontare la pena al 41bis nel 2016, è stato raggiunto da una misura di sicurezza e, di fatto, ha continuato a rimanere recluso sempre con l’applicazione del carcere duro. Ciò, come tutti gli altri internati al regime differenziato, vanifica qualsiasi obiettivo che si dovrebbe raggiungere con la casa di lavoro. Misura di sicurezza, questa, che prevede lo svolgimento di attività lavorative, ma - come hanno scritto i legali nel ricorso - “essendo in 41bis non possono trovare alcuno spazio, in quanto il detenuto - come previsto con precisione dall’ordinamento penitenziario - è costretto a restare chiuso nella propria camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno”. Penalizzati rispetto ai detenuti - Ma non solo. Nel ricorso accolto dalla Cassazione, i legali Vianello e Farina hanno anche sottolineato che un internato al 41bis è anche penalizzato rispetto ad altri perché gli sono precluse alcune specifiche licenze. Queste ultime sono contemplate dall’articolo 53 dell’ordinamento penitenziario, perché sono parte del percorso trattamentale per gli internati, volte a consentire - come recita la sentenza della Cassazione del 1986 - “sia pur sporadiche occasioni di primo contatto con l’ambiente esterno”. Ogni qual volta però sono state richieste, l’Ufficio di Sorveglianza le ha sempre rigettate proprio perché l’internato è al 41bis, un regime duro che esclude qualsiasi tipo di beneficio. Ma tutto questo cosa comporta? Lo spiegano bene i legali dell’internato nel ricorso, osservando che la contemporanea applicazione della misura di sicurezza e del 41bis crea, dunque, “un evidente e illegittimo “corto circuito” nell’ordinamento, perché impedisce che il detenuto - a causa delle severe limitazioni tipiche del regime del carcere duro - possa svolgere il percorso lavorativo e rieducativo peculiare previsto dalla misura di sicurezza della casa di lavoro, così non potendo ottenere, nelle successive valutazioni sulla sua pericolosità da parte del magistrato di Sorveglianza, l’eventuale valutazione in positivo del suo percorso da internato, potendo restare in astratto sottoposto a tale paradossale situazione senza limiti di tempo”. Il carcere duro non si concilia con il reinserimento - Come poi si possa conciliare la funzione che la legge assegna alla Casa di lavoro e la sua funzione di facilitazione nel rientro sociale con la previsione di internamento in regime speciale del 41bis, d’altronde, è risultato assolutamente non chiaro nemmeno al Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma che ha intravisto in tale previsione il rischio di un mero prolungamento della situazione detentiva speciale per motivi di sicurezza. L’internato che ha fatto ricorso per Cassazione ha completamente espiato la propria pena già dal 2016 e si trova nuovamente notificato il provvedimento di proroga del regime del 41bis per medesime circostanze investigative oggetto di ogni contestato rinnovo. Un problema, com’è stato detto, che riguarda tutti gli altri internati nelle medesime condizioni. Ed è qui che si prospetterebbe una violazione della Costituzione. La corte di Cassazione ha infatti recepito il problema e ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del 41bis comma 2 e 2 quater, nella parte in cui prevedono la facoltà di sospendere l’applicazione delle regole di trattamento nei confronti degli internati. La Cassazione, oltre a fare riferimento alla violazione dei vari articoli della Costituzione, ha anche fatto riferimento all’articolo 4 del protocollo 7 della Cedu. Un passaggio significativo, perché tale articolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo parla del diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso fatto. In effetti, applicare il 41bis a una persona che ha finito di scontare la sua pena è una doppia punizione. Ora l’ultima parola l’avrà la Corte costituzionale. La Cassazione: utili le misure anti-covid volute da Bonafede per le carceri di Errico Novi Il Dubbio, 12 settembre 2020 Con la sentenza depositata due giorni fa, e relativa al detenuto di mafia Vincenzo Bellavia (ritenuto il “messaggero” dei boss di Licata) la Cassazione ha chiarito, a chi volesse equivocare, come non esista alcun automatismo fra le “scelte normative ed amministrative” adottate dal governo sul covid e le scarcerazioni. Il recluso in questione non ha diritto alla “sostituzione della misura in carcere con i domiciliari”, come già affermato dal gip lo scorso 20 marzo e dal Tribunale del Riesame il 10 aprile, con l’ordinanza impugnata da Bellavia. Il ricorso è stato respinto nonostante il detenuto si trovasse nel carcere di Voghera, epicentro del primo grande allarme covid nel sistema penitenziario italiano Secondo la sentenza (la numero 25831) della quinta sezione penale, è “suggestiva” ma non ammissibile la tesi della difesa, secondo cui il fatto stesso di trovarsi ristretti in piena emergenza coronavirus rappresentasse una violazione dei principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Tra le motivazioni richiamate dalla Cassazione, ricorre un dato soggettivo: la giovane età (34 anni) di Bellavia e la “assenza di particolari patologie”. È una prima tessera che compone il mosaico di una verità forse sconvolgente per alcuni: le scelte normative e amministrative adottate dallo Stato italiano sono state, appunto, “utili al contenimento del contagio negli ambienti detentivi”. Tra queste la quinta sezione penale della Suprema corte non cita “spontaneamente” la circolare del Dap, ovvero la nota trasmessa il 21 marzo dall’amministrazione penitenziaria, adottata dal direttore generale Giulio Romano e divenuta l’impalcatura di tutte le accuse di arrendevolezza rivolte a Bonafede rispetto alle scarcerazioni dei mafiosi. Non cita quella circolare, la Suprema corte, ma nella sentenza (anticipata ieri dal Sole- 24 Ore) fa comunque riferimento a tutti i provvedimenti anche “amministrativi”, categoria in cui quella circolare rientra. E riguardo la congruità delle misure, ricorda che “tanto sono state straordinarie e dirette anche e soprattutto a tutelare i detenuti costretti a subire le conseguenze dell’emergenza sanitaria in condizioni ancor più difficili”, che “non sono mancate polemiche per il fatto che molti detenuti siano stati posti agli arresti domiciliari”. Nella parte in cui la giudice relatrice Matilde Brancaccio (presidente del collegio Carlo Zaza) richiama le motivazioni con cui già il Riesame di Palermo aveva respinto l’istanza di Bellavia, si ricorda però eccome il “monitoraggio di alcune situazioni di malattia stabilito dal Dap”. Vale a dire la “famigerata” nota con cui l’amministrazione penitenziaria del ministero guidato da Bonafede aveva fatto riferimento ad alcune patologie che, eventualmente accusate dal detenuto, avrebbero dovuto essere comunicate “con solerzia” alla “Autorità giudiziaria per le eventuali determinazioni di competenza”. Dalla più alta delle magistrature arriva dunque una netta “riabilitazione” per le politiche del guardasigilli. A dispetto di quanti le hanno considerate un’offesa alla dignità. Le sentenze, per fortuna, restano assai più dei tweet scomposti di qualche parlamentare o alle interviste spettacolo di qualche pm. Quando il criminale fa pace con la vittima di Caterina Maniaci Libero, 12 settembre 2020 Dal rapinatore in fuga che investe il pedone, agli anziani che subiscono aggressioni. “Sei mediazioni su dieci vanno in porto”. Pietro (nome di fantasia) ci ha messo molto a prepararsi a quell’incontro. Per settimane ci ha pensato, si è torturato al pensiero di guardare negli occhi l’uomo che è colpevole della morte della madre. Scappando dopo una rapina, non l’ha vista sulle strisce e l’ha colpita in pieno con il motorino. La mamma non ha più ripreso conoscenza, giorni e giorni in agonia in ospedale. Pietro l’ha vista morire così e oggi dovrebbe trovarsi faccia a faccia con l’uomo responsabile di tanto dolore. Ce la farà a non cedere all’impulso di saltargli addosso? O almeno di insultarlo? L’impulso è anche quello di scappare via. Ma Pietro resiste e dopo diversi incontri, qualcosa è davvero cambiato. La rabbia non la prova più e prova persino a capire quell’uomo che ha pianto davanti a lui. Una storia tra le tante, con qualche modifica per non far identificare i veri protagonisti, quelle di cui è intessuta la trama, ancora difficile da tessere, della giustizia riparativa in Italia. Che cosa significa giustizia riparativa? Si tratta di un concetto che arriva da lontano, nato dal bisogno di un procedimento diverso rispetto a quello tradizionale dove la vittima assume un ruolo marginale e ad essere messo al centro dell’attenzione è l’autore del reato. La giustizia riparatrice o rigenerativa, (restorative justice in inglese) infatti, punta sulla partecipazione attiva della vittima, del reo e della stessa comunità civile. In sostanza, anziché delegare allo Stato, sono gli stessi attori del reato a occuparsi della riparazione, della ricostruzione e della riconciliazione, con l’obiettivo non di punire ma di rimuovere le conseguenze del reato attraverso l’incontro tra le parti e con l’assistenza di un mediatore terzo e imparziale. In pratica, vittima o familiari della vittima, e colpevole si trovano faccia a faccia e cominciano un percorso, certo non facile e tantomeno breve, per superare dolore, rabbia, senso di colpa, desiderio di vendetta. Questo concetto si applica ovviamente anche ai quei reati commessi contro la collettività. In Italia, come si accennava, la funzione della giustizia riparativa stenta un po’ a ingranare. Ma ormai ci sono molte realtà associative impegnate in questo ambito. E i risultati che ottengono, nonostante le difficoltà, sono confortanti. Secondo i dati emersi da una recente ricerca sull’attività dell’Ufficio per la Mediazione di Milano, in relazione con autori di reato minorenni, tra le vittime che vengono chiamate con la proposta di mediazione, soltanto il sessanta per cento accetta di fare la mediazione. Il quaranta per cento dice di no, non ne vuol sapere, non la vuole fare, e non è una piccola percentuale. Però questo sessanta per cento che accetta di fare la mediazione si dichiara contento di averla fatta. Quindi se una vittima accetta di fare la mediazione è poi quasi sempre soddisfatta dell’esperienza, ne sente il beneficio. Iulia si è messa al volante avendo bevuto qualche bicchiere di troppo. E ha provocato un incidente. Niente di tragico, ma qualche danno l’ha fatto. Ed è stata condannata ad una pena lieve. Ha accettato di entrare in un programma di “messa alla prova”, una delle varie misure alternative alla pena, ed è stata affidata dalla neonata associazione “I nostri diritti”. Le è stato chiesto di occuparsi dello “sfalcio”, di liberare dalle erbacce alcune zone pubbliche in stato di degrado. “Ed è stata veramente brava, non si è limitata a ripulire, è persino riuscita a restituire alla bellezza un tratto della nostra città soffocata da immondizie ed erbacce”, racconta a Libero Edi Sanson, ex brigadiere dei carabinieri, che ha fondato l’onlus “I nostri diritti”, a Udine, che proprio nell’ambito dell’applicazione della giustizia riparativa, vuole anche aiutare gratuitamente chi subisce un reato e non è in grado di pagarsi una difesa adeguata. Iulia - anche questo è un nome di fantasia - è la prima “affidata” all’associazione, “e ha dovuto aspettare ben quattro anni per poter accedere a questo programma. Cercheremo di fare la nostra parte per poter contribuire a snellire il sistema giudiziario. Pensiamo davvero che sia importante consentire a chi ha sbagliato di riabilitarsi risarcendo le vittime, anche attraverso lavori socialmente utili”. L’associazione si avvale della collaborazione di 60 volontari, tra i quali ci sono persone che lo stesso ex brigadiere ha arrestato, nel corso della sua lunga carriera nell’Arma: “Spero che anche Iulia un giorno magari decida di far parte della nostra associazione”. Così come spera, Sanson, di poter aiutare una signora molto anziana, che ha appena subito una rapina “ed è sotto choc; vorrei che i nostri volontari, magari proprio da coloro che hanno pagato il loro debito con la giustizia, la aiutassero con la spesa, il giardino, accompagnandola in tribunale”. Che questa sia una strada giusta da percorrere lo confermano i dati del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità sull’applicazione della “messa alla prova” e dei lavori di pubblica utilità al posto della detenzione: quasi 40mila casi presi in carico nel 2019, oltre 7mila le convenzioni stipulate tra tribunali ed enti pubblici e non profit. Numeri che caratterizzano a livello nazionale la messa alla prova e i lavori di pubblica utilità, due istituti sui quali non tutti inizialmente avevano creduto e che invece registrano un aumento esponenziale che stupisce perfino gli addetti ai lavori. “Pronti, in marcia”. Camminare rende liberi di Gaetano Zoccali Gente, 12 settembre 2020 A 35 anni dalla nascita del progetto Exodus, riparte la carovana educativa: ragazzi che hanno avuto problemi con la giustizia attraversano a piedi l’Italia. “È un percorso di quattro mesi, alternativo al carcere minorile”, dice don Mazzi. Dopo 35 anni riparte la Carovana di Exodus. Si ricomincia a camminare, come alle origini. “Non c’è niente di meglio per tenere i piedi per terra”, dice a Gente don Antonio Mazzi. “I nostri piedi sono come le radici per un albero, ci tengono ancorati al suolo. A salvarci sono i passi che muoviamo sul mondo”, afferma. Proprio nel momento di massima immobilità, durante il lockdown, il fondatore della Comunità Exodus ha avuto modo di soffermarsi nuovamente sull’importanza del mettersi in movimento, come percorso educativo. “Ora i nostri ragazzi sono partiti. Hanno sbagliato cercando la libertà e ora li aiutiamo a trovare una liberazione. Camminare è uno strumento di liberazione, un modo per disintossicarsi, per rimettere in ordine il mondo che questi adolescenti hanno dentro”. Il progetto di Fondazione Exodus appena partito si chiama “Pronti Via!” ed è stato selezionato dall’impresa sociale “Con i bambini” nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. A partire, il 5 settembre, sono stati sette ragazzi dai 14 ai 17 anni che hanno avuto problemi con la giustizia, insieme con quattro educatori, una cuoca, un docente. Dopo un mese di preparazione hanno lasciato la Val Masino, in provincia di Sondrio, alla volta di Monzuno (Bologna), prima tappa del cammino di quattro mesi che li porterà dalle Alpi agli Appennini, in Umbria e Lazio, per approdare all’Isola d’Elba a Natale. Arriveranno a camminare per 20 chilometri al giorno con zaino in spalla. “Con i piedi gonfi, ma con la testa a posto”, dice don Antonio. “In questi mesi faranno i conti con la fatica e si confronteranno con gli altri maturando relazioni. Incontreranno diverse comunità locali, studieranno e faranno verifiche regolari, ma è un’avventura. I ragazzi non sanno dove andranno e dove dormiranno domani. Non è tutto previsto o programmato, perché bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza: si accetta il rischio dell’imprevisto e la capacità di valutarlo e ci si confronta con le leggi della natura. È questa l’esperienza di crescita. Solo così può maturare la consapevolezza di potercela fare”, continua don Mazzi. “Io ho 90 anni, se ne avessi 50 camminerei con loro, ma andrò a trovarli in più tappe”. L’educazione itinerante è nel dna di Exodus. Già il 25 marzo del 1984, a qualche anno dalla fondazione di Exodus, 13 ragazzi tossicodipendenti partirono in bicicletta con quattro educatori dal parco Lambro di Milano e attraversarono l’Italia in 10 mesi. Il progetto “Pronti Via!”, coordinato da Franco Taverna, coinvolge 10 partner. Durerà quattro anni ed è pensato come risposta educativa per i minori che hanno commesso reati penali e sono sottoposti a misure restrittive, come percorso alternativo alla detenzione. Nel quadriennio partiranno sette carovane, in totale cento ragazzi in carico ai servizi di Giustizia minorile. “Bisogna superare la logica del carcere. L’obbiettivo è arrivare a un modello strutturato e convincere le persone e il governo che le carceri minorili vanno soppresse e sostituite con strutture dove i ragazzi possano davvero essere rieducati e aiutati. Non si salva una persona che sbaglia castigandola. Ciò che reprime non si può chiamare educazione”, afferma il sacerdote. “Questi ragazzi con problemi dimostrano il fallimento della famiglia e della scuola. La nostra scuola media andrebbe cambiata radicalmente, l’attuale sistema di insegnamento è vecchio di trent’anni. Non si possono tenere gli adolescenti da 10 a 14 anni ancorati ai banchi di una classe ad ascoltare in maniera passiva per ore, proprio nel momento in cui loro hanno una rivoluzione in corpo. Oltre a imparare la teoria, dovrebbero apprendere coinvolgendo tutto il corpo. Io sostituirei le odierne scuole con villaggi scolastici che includano piscina, palestra, laboratori manuali di musica, arte e corsi pratici. I ragazzi devono conoscere chi sono e capirsi ascoltando il loro corpo. Inoltre, andrebbero invitati a scrivere un diario per almeno 15 minuti al giorno. Gli adolescenti sono lasciati soli dalla famiglia. In più, non hanno amici, né fratelli o cugini, manca il senso di comunità e la solitudine crea molti problemi, perché a quell’età si è estremisti. Se non sembri un vincente non ti guarda nessuno, così iniziano le prese in giro, la violenza, il bullismo”. E la città, al posto di avvicinare le persone, rischia di allontanarle. “Si pensa solo ai centri storici, ma il laboratorio del futuro su cui lavorare sono le periferie. Ho visto mamme più sorridenti in Madagascar, dove lavano i bimbi nelle pozze, rispetto a corso Buenos Aires a Milano, dove invece passeggiano con le carrozzine firmate, ma non sorridono ai loro figli” Chi lavora in tribunale? Il tempo perduto della giustizia di Giuseppe Sottile Il Foglio, 12 settembre 2020 Tra lockdown e sezione feriale quasi cinque mesi di chiusura. I processi penali arretrati hanno superato la soglia di un milione e mezzo. Ma chi controlla le presenze nelle corti e soprattutto nelle procure? Nessuno. Prima il Covid, poi è subentrata la sezione feriale e i tribunali si sono di nuovo svuotati. Si riprenderà, se non ci saranno complicazioni, tra una settimana. Lui, Aristide Carabillò, meglio conosciuto come il principe del Foro, se la cava con un richiamo a Pitagora e davanti al deserto del Palazzo di Giustizia sostiene che “la verità ormai non la danno né le chiacchiere né i tribunali: la danno solo i numeri”. Statistiche ormai seppellite negli scantinati del ministero a Roma dicono che i processi penali arretrati hanno sfiorato, alla fine del 2019, la mastodontica cifra di un milione e mezzo. Se provate ad accatastare i fascicoli uno sopra l’altro vi troverete di fronte a una montagna alta quanto il Vesuvio. Sotto quella montagna di carte ci troverete di tutto: avvisi di garanzia, mandati di comparizione, decreti di archiviazione, ordinanze di rinvio a giudizio, memorie difensive, atti di imputazione, perizie giurate, sentenze di primo grado, motivazioni di appello, ricorsi in Cassazione. Ma ci troverete soprattutto uomini, drammi, lacrime, tribolazioni e rabbia. Sono almeno tre milioni di italiani che, in questo spaventoso anno di sventura, aspettano giustizia. La implorano le cosiddette parti lese, cioè le vittime e i familiari delle vittime: tutti quelli che hanno avuto un danno e sperano di ottenere quanto prima un risarcimento. E la reclamano anche i reprobi: quelli che sono stati segnati a dito dagli investigatori come responsabili del misfatto e sono stati appesi al palo della gogna; quelli che sono finiti in carcere o ai domiciliari, che sono stati già interrogati dal pubblico ministero e poi dal giudice per le indagini preliminari e ora chiedono con insistenza che un collegio giudicante li liberi da questo calvario senza fine, senza tempo, senza confini. Dentro o fuori, poco importa. L’importante è uscirne vivi. Ma i giudici dove sono? Per quattro mesi la paura del Covid ha paralizzato i palazzi di giustizia: aule chiuse, corridoi deserti, cancellerie sprangate, avvocati a spasso o in fila per uno, con la mascherina, quando il lockdown si è appena allentato. Poi però è subentrata la sezione feriale e i tribunali si sono di nuovo svuotati. Si riprenderà, se non ci saranno complicazioni, tra una settimana. Ma bisognerà adottare tutte le cautele previste dalla pandemia e sarà difficile che gli uffici possano riprendere il ritmo dei tempi che furono. Si andrà avanti lentamente, con i piedi di piombo. A Palermo, città di mafia e di tutte le emergenze, a fine giugno la cronaca ha registrato il rinvio di ottomila processi. È probabile che, a conclusione della sezione feriale, l’arretrato toccherà quota quindicimila. O forse più. Quale governo avrà la forza o la fantasia di trovare una soluzione? Quale risposta darà il ministro Guardasigilli, Alfonso Bonafede, a quelle vittime e a quei reprobi che il lockdown ha spinto ancora più giù, nelle caverne di un inferno senza orizzonte e senza speranze? Il numero dei magistrati è quello che è: in tutta Italia sono poco più di novemila. E la giustizia non è come la scuola; il ministro non può fare ricorso a un esercito di supplenti o di precari. Ci vuole, oltre allo studio e alla competenza, anche una investitura sacra e inviolabile da parte del Consiglio superiore della magistratura. Si possono bandire nuovi concorsi, ma con tempi prevedibilmente lunghi, lunghissimi. Tuttavia un rimedio dovrà pur esserci. Sommando rinvii su rinvii presto arriveremo alla paralisi totale. Non resta che guardare all’organizzazione interna degli uffici e trovare lì una soluzione. Forse sarà necessario sacrificare qualche privilegio, ma un tentativo andrebbe comunque fatto. “Comincerei dalla cosa più semplice, più elementare: l’orario di lavoro”, sentenzia Aristide Carabillò, principe del Foro, con l’aria di chi ha appena scoperto non un uovo ma un ovetto di Colombo. E chi può dargli torto? Non c’è ospedale in cui i medici non siano obbligati a firmare un foglio di presenza, entrata e uscita. Non c’è caserma in cui ogni militare non sia sottoposto agli obblighi imposti dalla gerarchia. Non c’è ministero in cui il capo del personale non chieda a ogni funzionario conto e ragione sull’organizzazione e tempi del suo lavoro. Non c’è ufficio in cui non ci sia una disciplina e dove non si valuti la produttività di ogni singolo operatore, magari promovendo quelli che hanno fatto il proprio dovere e sanzionando quelli che non hanno rispettato le regole. Il mondo del lavoro, piaccia o no, è fatto così. Ma il mondo della giustizia italiana è un altro mondo. “Il magistrato è soggetto solo alla legge”, si legge tra i dieci comandamenti dell’ordinamento giudiziario. Il principio è stato fissato a lettere d’oro per garantire a ogni giudice autonomia e indipendenza. Ma, a forza di interpretazioni e dilatazioni da parte di quell’organo di governo che è il Csm, la salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza è diventata per ciascun magistrato la libertà di fare quello che vuole. E guai a contrastarlo. E guai se un procuratore si azzarda a chiedere a uno dei suoi sostituti il perché o il per come di un ritardo, di una negligenza, di un arbitrio o di un menefreghismo. Apriti cielo. Il sostituto griderà immediatamente allo scandalo. Dirà che i tempi e i modi di una inchiesta appartengono solo ed esclusivamente alle sue decisioni; che fargli fretta equivale a comprimere la libertà delle sue scelte e quasi certamente chiederà la tutela del Csm e dell’Associazione nazionale dei magistrati. Se il fervido e solerte Bonafede mostrasse per i tempi della giustizia la stessa passione che lo ha spinto a privilegiare le manette - le manette e nulla più - potrebbe farsi una passeggiata da via Arenula a piazza Indipendenza, dove ha sede l’organo di autogoverno dei giudici. Negli archivi di Palazzo dei Marescialli potrebbe fare scoperte illuminanti e capire che non bastano le devastazioni del trojan per sbaragliare i corrotti e rendere efficace la giustizia italiana; che non basta dotare i pubblici ministeri degli strumenti più invasivi e sbirreschi per diffondere la cultura del diritto; che non basta assecondare le pulsazioni forcaiole di chi urla “onestà-onestà” per garantire al paese sicurezza e legalità. Attraverso l’archivio del Csm il ministro Guardasigilli potrebbe ricostruire un episodio che, da solo, vale forse più di un trattato di sociologia giudiziaria. Dimostra come le correnti della magistratura abbiano lentamente e inesorabilmente abbattuto il principio di autorità e gerarchia che, prima degli anni Settanta, regolava bene o male la vita degli uffici. Le procure avevano un capo al quale si dava rigorosamente del lei. Tribunali e Corti di Appello avevano presidenti ai quali ci si rivolgeva con un rispettosissimo “sua eccellenza”. Nostalgie? Può darsi. Oggi è tutto stravolto. E lo stravolgimento ha origine proprio negli anni ai quali si riferisce la “pratica”, allora si chiamava così, che il giovane Bonafede dovrebbe studiare con straordinaria diligenza; con una acribia degna di un uomo delle istituzioni. Eccola. Succede che un giorno di quegli anni arriva sul tavolo di Salvatore Curti Giardina, procuratore capo di Palermo, un rapporto della polizia, su fatti molto gravi, che faceva riferimento ad altri nove dossier spediti prima del suo insediamento e che i sostituti - tutti brillanti e tutti impancati su un furore antimafia - avevano puntualmente lasciato a marcire nei cassetti. Il procuratore, forse per non urtare la suscettibilità di nessuno, richiama a sé l’inchiesta, formula di suo pugno i capi di imputazione e invia il fascicolo all’ufficio del giudice istruttore per le decisioni conseguenti. Da un lato toglie ai suoi pubblici ministeri il peso di una responsabilità che loro avevano comunque preso sottogamba; e dall’altro lato accelera un provvedimento che gli investigatori della polizia attendevano comunque da parecchio tempo. Non l’avesse mai fatto. I sostituti, ciascuno utilizzando i canali della propria corrente di appartenenza, hanno cercato rifugio e protezione nel Csm. Hanno pianto sulla spalla dei propri referenti e nel giro di due brevi sedute, Curti Giardina si è trovato sul banco degli imputati. La legge prevede il deposito entro novanta giorni, ma non si tratta di una scadenza perentoria. La data si può discutere e così capita che si impieghino fino a cinque mesi per una motivazione che chiunque avrebbe potuto scrivere in due o tre settimane. Tanto, chi controlla? Chi busserà mai alla porta di un giudice per sapere se ha lavorato quattro ore al giorno o solo tre giorni in un mese? Con questi tempi e, soprattutto, con l’elasticità delle regole che abbiamo fin qui descritto, è molto difficile immaginare un recupero dell’arretrato che si è ammonticchiato in questi ultimi cinque mesi nei palazzi di giustizia. I lunghi corridoi restano popolati solo da fantasmi: da avvocati che smaniano per portare a casa un risultato e presentare una parcella al cliente; da due o tre cancellieri applicati alla sezione feriale; da due o tre sostituti procuratori in servizio, malgré tout, per rispondere alle emergenze o al cosiddetto codice rosso, ultima invenzione con la quale lo Stato pretende di fronteggiare il rischio di un attentato terroristico o di una violenza alle donne. L’immagine, se riesci a passare i controlli, lo scanner e a raggiungere l’immenso atrio sul quale si affacciano le aule vuote della Corte di Assise e della Corte d’Assise d’Appello, è desolata e desolante. Hai l’impressione che da un momento all’altro possa apparirti lì, vicino al bar ovviamente chiuso, Miss Flite, la vecchietta che in “Bleak House” di Charles Dickens si apposta giorno dopo giorno nei corridoi della Court of Chancery trascinandosi dietro una borsa con i suoi documenti, nella perenne attesa di un giudizio che Separate le carriere! Il giustizialismo si combatte anche così di Riccardo Polidoro* Il Riformista, 12 settembre 2020 Spesso inchieste ingigantite dai giornali si sono poi rivelate un flop. Distinguendo pm e giudici si può evitare che gli inquisiti finiscano nel tritacarne mediatico. In questi ultimi anni i partiti hanno perso gran parte della propria identità. Soprattutto “a sinistra” abbiamo assistito all’abbandono di quei valori che rappresentano una cultura progressista, basata su una visione etica della politica. In tema di giustizia, ormai da tempo, vi è il conflitto costante tra coloro che sono definiti “giustizialisti” e i cosiddetti “garantisti”. Un inarrestabile scontro che trascina la discussione su temi fuorvianti, lasciando in secondo piano tutte le enormi problematiche che affliggono il mondo giudiziario. È un contraddittorio sterile, che nasce dalle modalità con cui la notizia di reato viene divulgata dai media e dalla successiva necessità di dover bilanciare i termini esplicitamente accusatori di un’informazione tesa all’immediata condanna dell’indagato. Se i tempi del processo sono lunghi, quelli di giornali, televisioni e oggi dei canali social sono istantanei e con la loro velocità impongono un immediato giudizio, basato su quanto scritto o diffuso, che non sempre corrisponde alla verità dei fatti. Vengono così travolte vite, famiglie e carriere in un tritacarne mediatico rivolto a un’opinione pubblica pronta al linciaggio altrui, ma scandalizzata quando la vittima di turno è un familiare, un amico o un compagno di partito, ovvero trincerata nella ormai consueta formula di “fiducia nella magistratura” che nasconde tutta la preoccupazione per quello che accadrà in seguito. In Campania, volendo citare solo gli ultimi trent’anni da Tangentopoli in poi, sono moltissimi i casi di importanti indagini dall’enorme rilevanza mediatica concluse poi con sentenze di assoluzione. Solo per citare alcuni dei casi con riflessi pubblici, seguiti per l’attività professionale, ricordo il clamore mediatico di numerose indagini nei confronti dell’allora giunta comunale Bassolino, per una delle quali un quotidiano titolò, a carattere cubitali, riferendosi al vicesindaco in quel momento con funzioni di sindaco, “sfugge agli arresti”. Ancora, l’indagine sui vertici dell’allora Atan, l’azienda di trasporti cittadina, quella sullo smaltimento dei rifiuti, tutte vicende che si sono concluse con sentenze di assoluzione, ma che hanno inciso in maniera determinante sulla storia della regione e, in particolare, della città di Napoli. La notizia “nuova”, ma tardiva (le indagini durano da tre anni), pubblicata a pochi giorni dalle elezioni, del procedimento penale a carico del governatore Vincenzo De Luca, conferma che nulla è cambiato anche se, in questo caso, sarebbe opportuno apprenderne la fonte. Riconosciuto, infatti, al giornalista il diritto di pubblicare, resta da approfondire la tempistica e l’interesse alla diffusione. Entrambe, certamente, non dell’ufficio di Procura, ma probabilmente del denunciante, avversario politico dell’indagato. È questa, invero, un’eccezione, perché è notorio - e non potrebbe essere diversamente - che le notizie provengono, nella maggior parte dei casi, dalla Procura della Repubblica, a volte con conferenze stampa, a volte con il rapporto diretto con il sostituto procuratore delegato alle indagini. Sarà poi il giornalista a decidere se quanto appreso dovrà essere pubblicato, approfondendo la vicenda anche con altre fonti, magari in contrapposizione con quella principale. Questo non sempre avviene, sia perché è importante “uscire” subito con la notizia sia perché si ritiene utile dare spazio al filone accusatorio di origine che produrrà successivi approfondimenti e sarà poi fonte di apprendimento di altre indagini. Sarebbe, dunque, importante che il lettore - che sia “giustizialista” ovvero “garantista” - comprenda che quanto riportato dai media altro non è che un’ipotesi accusatoria, spesso priva di contraddittorio e che ci sarà poi un giudice a valutarne la fondatezza. Separando le carriere dei magistrati, distinguendo drasticamente la fi gura dell’accusatore da quella del giudicante, come da tempo chiesto dall’Unione delle Camere Penali, sarà possibile un’informazione più chiara e obiettiva e l’irriducibile scontro tra “giustizialisti” e “garantisti” si svolgerà finalmente su territorio neutro. *Responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane Il giudice Spadaro: “Gogna su Bibbiano, a farne le spese la tutela dei minori” di Simona Musco Il Dubbio, 12 settembre 2020 Un anno fa, quando scoppiò quello scandalo che trovò la sua sintesi nella fallace espressione “Sistema Bibbiano”, a risentire dello tsunami che travolse i servizi sociali e il mondo degli affidi fu anche chi, in prima linea, lavorava per salvare i più piccoli da situazioni potenzialmente pericolose. Ovvero il Tribunale dei minori di Bologna, presieduto da Giuseppe Spadaro, che a seguito dell’ispezione inviata dal ministero perse, per questione di opportunità, la poltrona da procuratore minorile a Roma. E ora, terminata quell’ispezione, i cui esiti non sono ancora formalmente noti, per Spadaro arriva la proposta unanime da parte della V Commissione del Csm per la nomina a Presidente del Tribunale dei minori di Trento. Il tutto mentre il mondo degli affidi cerca di tornare, lentamente, alla normalità. “La campagna mediatica su quel caso - spiega Spadaro al Dubbio - fu molto dannosa. Ma ora bisogna lavorare per migliorare il sistema e salvare i bambini in pericolo”. A un anno di distanza dall’inchiesta “Angeli e Demoni”, alcuni dei partiti che fecero campagna elettorale sul tema degli affidi hanno ammesso che fu un errore. Quanto ha influito sul mondo della giustizia minorile? Purtroppo si assistette ad una campagna mediatica, e non solo, totalmente sbilanciata in una sola direzione, poiché noi giudici abbiamo un obbligo di riserbo e non potevamo e possiamo replicare ad invettive, che hanno prodotto sentimenti di rabbia, accompagnati da una crescente sfiducia nei confronti dei giudici minorili e dei servizi sociali che venivano dipinti come i “ladri di bambini”. Questo ha fatto sì che, nei mesi a seguire, tra gli operatori, specie quelli dei servizi sociali, vi fosse quasi il timore a notiziare di situazioni pregiudizievoli per la paura di essere, loro stessi, denunciati. Anche con le famiglie affidatarie è stata ed è molto dura, perché per quanto si tratti di persone straordinarie sono terrorizzate. E anche all’interno delle aule di udienza, abbiamo dedicato quanto più tempo possibile per ragionare assieme ai genitori e ai loro avvocati, adoperandoci per tentare di trasmettere loro la fiducia di essere lì solo per garantire il benessere del bambino. Sono stati mesi molto duri. Il suo Tribunale, poi risultato parte lesa, è stato sottoposto ad una verifica da parte del ministero. Quali sono stati gli esiti? L’avere la Procura di Reggio Emilia, correttamente, identificato il ministero della Giustizia - e dunque anche il Tribunale dei minori di Bologna - parte lesa è confermativo che qualora venga accertato, a conclusione del processo penale, che i reati contestati siano stati commessi, gli imputati ci hanno tratto in errore, rappresentandoci situazioni non vere. Se così fosse, dovranno essere puniti con pene non severissime, come molti affermano, ma “giuste” e il ministero dovrà essere risarcito per il grave danno derivato. Ciò è confermato dal fatto che, ancora, dopo un anno, sulla stampa si legge “sistema Bibbiano”. In quel contesto, per l’eco mediatica e non solo, l’inchiesta ministeriale era atto dovuto. I miei giudici e io per primo - che avevo già attivato una auto- ispezione interna esaminando fascicolo per fascicolo - ci siamo messi a completa disposizione degli ispettori. Alcune intercettazioni ancora coperte da segreto sono state rese pubbliche prima della discovery. Non sarebbe stato necessario fare delle verifiche anche in quel caso? E perché il suo Tribunale non è stato informato dell’indagine? Questa domanda non va posta a me. L’inchiesta ha riaperto la discussione sul tema degli affidi e portato a una proposta di modifica della legge. Quali sono gli aspetti da cambiare? Auspico, in tempi brevi, una nuova norma che disciplini con rigore il rito minorile processuale. Più il legislatore prevede l’osservanza di regole rigide, più è garantita tutela a tutti, compresi gli stessi giudici che hanno il compito delicatissimo di prendere decisioni in materie così complesse in una primissima fase in cui gli elementi di giudizio sono ancora pochi e fumosi. Il principio del contradditorio, la presenza dell’avvocatura e una stringente procedura potranno sicuramente ridurre il margine d’errore portandolo idealmente a zero. Peraltro non dimentichiamo che tutti i protagonisti di questi procedimenti hanno l’ingrato compito di mettere in sicurezza i minori ma anche adoperarsi per consentire ai genitori inadeguati di recuperare al più presto la loro piena capacità genitoriale. Nella proposta di legge si ipotizza anche l’abolizione dell’articolo 403 del codice civile, che consente l’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. È d’accordo? È doverosa una riflessione che conduca ad un intervento normativo di riscrittura dell’articolo 403 cc. Si deve introdurre uno strumento di immediato controllo della decisione amministrativa dei Servizi di allontanamento del minore, ad opera dell’autorità giudiziaria, da espletare nel pieno contraddittorio con la famiglia e sentendo, con la massima celerità tutte le figure che hanno vissuto il minore. Non dico di eliminare questa possibilità per i servizi perché non va dimenticato che, purtroppo, vi sono situazioni oggettivamente gravi che impongono, per la salvaguardia del minore, il suo allontanamento immediato, ma subito una sorta di convalida da parte del giudice e in presenza dei difensori. Altra cosa introdurrei in quasi tutti i procedimenti l’avvocato del bambino. Cosa ci dicono i casi di cronaca degli ultimi tempi? Ci confermano che di fronte all’esistenza di una situazione che possa mettere a rischio il bambino è necessaria, senza indugio, la segnalazione alle competenti autorità giudiziarie minorili, che bisogna intervenire, anche in urgenza, mettendolo in protezione. Uno Stato civile non può girarsi dall’altra parte. Quei bambini oggi potrebbero essere ancora tra noi. La Giustizia minorile sembra interessare solo quando fa cronaca. C’è sottovalutazione? Sì, è considerata quasi una giurisdizione di serie B, mentre le garantisco che si tratta di funzioni delicatissime. Io ho svolto gran parte della mia esperienza in tribunali ordinari affrontando processi penali in Calabria, ma questo è il ruolo più difficile che un magistrato possa svolgere. C’è la necessità, senza dubbio, di una maggiore e più costante attenzione, per assicurare quella celerità processuale dovuta ai bambini. Occorre, in primis, aggiornare, come questo ministero sta facendo, le piante organiche degli Uffici e garantire un numero di giudici minorili togati, presso ogni Tribunale dei minori, correlato alle effettive esigenze di ogni singolo territorio. Per non dire poi del personale amministrativo, assolutamente indispensabile. Occorre attribuire più poteri al Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza e a quelli regionali. L’inchiesta sugli affidi ha fermato la sua nomina a procuratore minorile a Roma, in attesa dell’ispezione voluta dal ministero. Oggi il Csm ha proposto al plenum all’unanimità la sua nomina alla Presidenza del Tribunale Minori di Trento. È la conferma che il suo ufficio ha lavorato al meglio? Sono sempre stato sereno, perché so di aver lavorato per 30 anni sempre con il massimo dell’impegno. E so bene che anche i miei colleghi minorili lo han fatto, sia pure in condizioni oggettivamente difficilissime. L’eco mediatico e altri interventi che si sono avuti a quel tempo, taluni davvero fuori luogo in quanto espressi da chi non aveva conoscenze in quanto non poteva averle, ha inevitabilmente - ed è comprensibile - determinato ad avere prudenza. Inoltre la collega nominata vantava giustamente una maggiore attitudine avendo svolto funzioni requirenti che io non mai svolto. L’unanimità con cui la V commissione ha condiviso la proposta del giudice relatore Pier Camillo Davigo mi onora. Qualora il Plenum dovesse decidere positivamente, dedicherò al mio nuovo ufficio tutto me stesso, portando in quella sede anche questa pesante esperienza, continuando a garantire la massima e più scrupolosa attenzione alla tutela dei minori. Se per i poveri non c’è giustizia e nemmeno conciliazione di Renato Luparini Il Dubbio, 12 settembre 2020 Salvatore è stato un mio storico cliente. Era un ristoratore di successo. Poi, ancora prima del Covid è stato segnato da una serie di disgrazie familiari e rovesci professionali che lo ha messo fuori gioco. Mi ha telefonato quasi piangendo dopo vari anni, chiedendo che lo aiutassi per una questione relativa alla piccola eredità di una zia. Mi ha detto subito di non potermi pagare e l’ho rassicurato dicendo che poteva contare sul patrocinio a spese dello Stato che infatti il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della mia città gli ha prontamente riconosciuto. Se non che la questione rientra tra quelle per le quali è prevista la media conciliazione obbligatoria e quindi prima di andare in Tribunale ci siamo trovati con le controparti (un plotone di agguerriti parenti e la ex moglie inferocita) davanti a un conciliatore, peraltro gentile e preparato. Lunghe discussioni, ripetuti colloqui per poi arrivare a un verbale di mancato accordo. Salvatore abbi pazienza. gli dico: ne riparleremo in Tribunale, a meno che gli altri non si mettano d’accordo senza di noi. Intanto mi preparo come buona prassi a richiedere allo Stato il magro pagamento dei miei onorari, ma scopro che nessuno è competente a decidere. Qualche giorno dopo arriva una sentenza della Corte di Cassazione (18123/ 2020 del 31.08 2020) che mette nero su bianco che lo Stato non riconosce alcun compenso ai poveracci in caso di media conciliazione obbligatoria, perché non esiste una espressa previsione di spesa. Mi pare che, al di là della obiettiva lacuna normativa che ha portato la Suprema Corte a decidere così, esista una flagrante violazione dell’architrave della Costituzione che è l’articolo 3 che sancisce, come sanno anche le matricole della facoltà di Giurisprudenza, non solo il principio di uguaglianza formale tra persone, ma anche il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono l’eguaglianza sostanziale. Infatti in certe materie, molto frequenti nel diritto civile (dalle eredità, al condominio, alla responsabilità medica, alle cause per diffamazione a mezzo stampa) la media conciliazione non è un “optional” bensì un obbligo di legge per chiunque voglia far causa. Oltre tutto giustamente per parteciparvi occorre un avvocato. Però se uno è povero come Salvatore e l’avvocato non se lo può pagare lo Stato fa spallucce e lo costringe di fatto a rinunciare a tutelarsi, oppure a trovare un avvocato che perde tempo e soldi gratis. È una ingiustizia palese, oltre tutto clamorosa visto che in alcune materie lo Stato (a torto o a ragione non mi interessa discuterlo) il patrocinio a sue spese lo regala a tutti, anche miliardari (casi di violenza sessuale o richiesta di asilo). Dietro questa abnormità c’è il concetto, giustamente vituperato dall’Avvocatura, che la giustizia civile sia un servizio per le imprese possibilmente grandi e preferenzialmente multinazionali e che i cittadini nei Palazzi di Giustizia siano degli utenti sgraditi. De minimis non curat Praetor, si insegnava un tempo. Ma non possono e non debbono esistere persone minime per uno Stato di Diritto e soprattutto la valutazione del concetto di minimo è relativa. Cinquecento euro per un magistrato al massimo della carriera sono una somma trascurabile, per una madre monoreddito che lavora in un fast food sono un mese di stipendio e il sottile distinguo tra disperazione e sopravvivenza. Ci meravigliamo che la società nelle vastità immense di quelle che chiamiamo periferie, ma che statisticamente sono la parte più numerosa del Paese, sia violenta e inquieta. Lo sarà sempre di più se i Palazzi si chiudono nelle loro torri laccate di avorio, video chat e smart work, mentre “il popolo minuto” non ha più nemmeno diritto di entrare in un’aula di giustizia e non è nemmeno ammesso a conciliare una lite. Salvatore non conta più niente. Può starsene a casa senza disturbare chi decide e chi giudica. Salvatore non ha più dignità, è interdetto di fatto dall’esercizio dei suoi diritti. Non gli ho chiesto il saldo della notula, del resto posso farne tranquillamente a meno. Ma gli rimane il senso di smarrimento e imbarazzo: “Se lo avessi saputo, avvocato, non l’avrei disturbata”, mi ha detto. La prossima volta subirà un torto in silenzio, le statistiche dei Tribunali produrranno il bel risultato dell’azzeramento dell’arretrato e nei salotti buoni si saluterà con favore la ritrovata efficienza delle imprese. Sembra di essere finiti dentro la trama dei Malavoglia, con più di cento anni di ritardo e tanta solitudine. Cesare Battisti sarà trasferito a Rossano in Calabria, ma resta in “Alta Sicurezza” agi.it, 12 settembre 2020 Cesare Battisti sarà trasferito nella Casa di reclusione di Rossano (Cosenza), in cui è previsto il circuito di “alta sicurezza”, a differenza del carcere di Oristano in cui non vi è un reparto idoneo. È quanto apprende l’AGI. Ma quella del terrorista dell’ex gruppo “Proletari armati per il comunismo”, in latitanza per 37 anni prima dell’arresto e dell’arrivo in Italia il 14 gennaio del 2019, è tutt’altro che una vittoria a seguito delle veementi proteste degli ultimi giorni. Battisti, infatti, come tutti i condannati per reati connotati da finalità di terrorismo, è assegnato al regime penitenziario dell’alta sicurezza (nello specifico, quello denominato “AS2”). E, dal giorno del rientro in Italia, è ristretto presso il carcere di Oristano, dove - pur non essendo presente un reparto destinato ai detenuti “alta sicurezza” - ha trascorso il periodo di isolamento di sei mesi previsto dai provvedimenti giudiziari con cui è stato condannato. Lo scorso 18 maggio, in considerazione del tempo trascorso dai reati per cui è stato condannato, la sua difesa aveva avanzato istanza di “declassificazione”, chiedendo che Battisti fosse collocato in un circuito detentivo di livello inferiore (passando quindi da “alta sicurezza” a “media sicurezza”) e che fosse di conseguenza trasferito presso il carcere di Milano-Opera o Roma-Rebibbia. Le richieste della difesa di Battisti, però, il 24 giugno sono state rigettate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), su parere conforme della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Quindi nessuna indulgenza per Battisti, che rimarrà in regime di “alta sicurezza” e non sarà trasferito in un carcere come Opera a Milano o Rebibbia a Roma, ma verrà trasferito a Rossano, in provincia di Cosenza, una località certo disagevole da raggiungere. Il trasferimento, deciso già da un paio di mesi, non è tuttavia stato ancora eseguito dal momento che, così come accade per ogni detenuto nella fase di emergenza sanitaria, il Dap è in attesa che presso l’Istituto di Cosenza risulti libero un posto in cui far trascorrere a Battisti l’isolamento preventivo per Covid-19. Proprio oggi le parole di Battisti affidate in un incontro col suo assistito nel carcere di Massima, a Oristano, in cui spiegava di sentirsi “sequestrato”. “Il sequestro è iniziato in Bolivia e continua oggi nell’isola di Sardegna. Sono ostaggio dell’esecutivo e del governo e per tanto mi sento, oltre che un prigioniero politico, prigioniero di una sporca guerra tra lo Stato e la lotta armata e no”. Da qui la decisione di iniziare, quattro giorni fa, lo sciopero della fame che potrebbe essere legata proprio al rigetto di passare alla “media sicurezza”. Infatti Battisti, tramite il suo legale, ha precisato che: “La guerra delle istituzioni nei miei confronti si manifesta con un isolamento illegittimo e una classificazione (il regime di alta sorveglianza, ndr) retroattiva di 40 anni”. Il Dap s’accanisce su Stilo, la sua vita è in pericolo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 settembre 2020 Dopo nove mesi di sofferenze, l’avvocato calabrese che ha problemi di cuore e ha tentato due volte il suicidio, è stato portato in un istituto sovraffollato e a rischio. Intanto cadono le accuse contro di lui. Spostato come un pacco postale o come un sacco di patate. L’avvocato Francesco Stilo, detenuto in attesa di giudizio gravemente malato, è stato trasferito all’improvviso nella notte tra mercoledì e giovedì da Opera al carcere di Civitavecchia. Di nascosto e all’insaputa di parenti e difensori, come si fa quando la notte è buia e tempestosa. Non pare esserci motivo plausibile, per questo spostamento e per la destinazione scelta, ma basta informarsi un po’ per scoprire che proprio a Civitavecchia il Dap intende aprire una seconda sezione ad alta sicurezza, come confermato dal vicepresidente Petralia nei giorni scorsi. Stiamo parlando di un istituto di pena sovraffollato (490 detenuti con una capienza di 311, di cui metà stranieri), privo di direttore dal mese di febbraio, con la squadra degli agenti di polizia penitenziaria perennemente sotto organico e spesso (l’ultima volta due settimane fa) vittime di assalti da parte di detenuti con comportamenti particolarmente aggressivi. Un carcere dove non esiste un centro clinico, soprattutto. Il che vuol dire mettere a rischio ulteriore, dopo nove mesi di sofferenze e corse notturne al Pronto Soccorso, la vita già appesa a un filo dell’avvocato Francesco Stilo. Il suo fascicolo sanitario è ben più corposo di quello giudiziario. Dove, dopo la scarcerazione dei suoi tre presunti “complici”, resta solo la tenuità esile e incomprensibile del concorso esterno in associazione mafiosa. Il reato che non c’è, quello cui ci si aggrappa quando non ci sono prove né indizi per qualcosa di più concreto. Che l’avvocato di Catanzaro sia cardiopatico in modo grave, che corra il rischio di dissecazione di un ematoma all’aorta toracica, che soffra di crisi di panico, ipertensione e claustrofobia, lo sanno bene i diversi medici, periti di parte ma anche d’ufficio, che lo hanno visitato in questi mesi nel centro clinico del carcere di Opera. Finora non gli sono stati concessi gli arresti domiciliari, ed è già preoccupante. Ma il motivo del suo trasferimento, oltre a tutto in un istituto in cui gli stessi operatori penitenziari dicono che è un luogo a rischio, dove oltre alle aggressioni nel passato si sono verificati parecchi suicidi (lo stesso Francesco Stilo ci ha già provato due volte) e dove non esiste un certo clinico, non è chiaro. O forse lo è fin troppo, a leggere un documento del Dap, indirizzato alla Direzione del carcere di Bologna (sua destinazione prima di quella di Civitavecchia), in cui si mettono addirittura in guardia gli agenti a causa “dell’elevata pericolosità del soggetto”. Un vero allerta perché si teme che nel corso della traduzione il prigioniero possa scappare, magari con l’aiuto di complici. “Si segnala che trattasi di soggetto appartenente all’associazione per delinquere di tipo mafioso denominata Ndr”, cioè ‘ndrangheta. Così c’è scritto. C’è da domandarsi se il burocrate che ha vergato questo capolavoro, o che ha usato un documento prestampato, trattando Francesco Stilo come se fosse un capobastone della portata di Riina o Provenzano, si sia reso conto di quello che stava facendo. E anche dei rischi ulteriori che il detenuto, segnalato in quel modo, avrebbe potuto correre, visti i suoi disturbi psicologici e psichici. L’avvocato di Catanzaro è uno dei legali più conosciuti e stimati in Calabria. Certo, è uno di quelli che danno fastidio, per almeno due buoni motivi. Il primo perché è uno che vince le cause, fa il processo per davvero e non si rimette alla clemenza della corte. E il secondo è dovuto al fatto che, esercitando la professione in Calabria, ha molte occasione per assistere persone, colpevoli o innocenti, imputate per reati di mafia. Un fatto gravissimo agli occhi di quei pubblici ministeri che guardano l’esistenza dei difensori come soggetti processuali superflui e fastidiosi, perché preferirebbero avere a che fare con l’indagato o l’imputato nudo e crudo. E nei processi di mafia, magari più disponibile a trasformarsi in “pentito”. E si sa che il collaboratore di giustizia, in assenza di vere indagini, è spesso l’unica fonte di prova per l’accusa. C’è poi il motivo principe che tiene legato l’avvocato Francesco Stilo al processo Rinascita-Scott iniziato ieri con l’udienza preliminare nell’aula bunker del carcere romano di Rebibbia. E sta nelle parole del procuratore Nicola Gratteri, che vuole a tutti costi alla sbarra almeno un paio di quelli che lui chiama “colletti bianchi”. Per non passare alla storia solo come uno che ha sconfitto la ‘ndrangheta di quattro pastori dell’Aspromonte. Sardegna. Più detenuti nelle carceri, meno nelle colonie penali lagazzettadelmediocampidano.it, 12 settembre 2020 È quanto ha dichiarato all’Ansa Maria Grazia Caligaris, dell’associazione Socialismo Diritti Riforme commentando i dati riferiti al 31 agosto, forniti dal Ministero della Giustizia. “Sono 563 a fronte di 561 posti, i detenuti nel carcere di Uta mentre sono 266 per 263 posti, quelli ospitati nel carcere di Massama. Anche se l’eccedenza è contenuta, testimonia la condizione di difficoltà che ancora una volta caratterizza la vita negli Istituti Penitenziari rispetto alle Colonie” ha puntualizzato Maria Grazia Caligaris. Presenze decisamente al di sotto della disponibilità dei posti nelle colonie penali sarde: 271 detenuti, di cui 200 stranieri su 613 posti disponibili. Dai dati analizzati dall’associazione emerge che la presenza più alta di stranieri si ha nella colonia di Is Arenas dove su 70 detenuti a fronte di 176 posti, 58 sono stranieri. A seguire, su 320 posti disponibili nella colonia penale di Mamone ci sono 133 reclusi di cui 106 stranieri mentre a Isili gli stranieri detenuti sono 36 su 68 a fronte di 117 posti. Significativi i dati messi ancora in evidenza dall’associazione rappresentata dalla Caligaris che a fronte di una popolazione carceraria che conta in Sardegna 2.051 reclusi, 280, pari al 13,6% sono in attesa di giudizio, dato inferiore alla media nazione del 17,7%. Liguria. Regionali. Carpi: “In campo anche se detenuto: così combatto la giustizia storta” di Emanuele Rossi Il Secolo XIX, 12 settembre 2020 Quello di Carlo Carpi è un caso unico nella storia delle elezioni regionali: un candidato presidente che si presenta mentre è detenuto in carcere. Trentasette anni, imprenditore, Carpi è in carcere a Sanremo dal primo luglio del 2019, dove sta scontando 1 anno e 10 mesi (ne mancano cinque) per diffamazione, calunnia e stalking contro un magistrato genovese e calunnia contro un avvocato. Si è candidato alla presidenza della Regione Liguria appoggiato dal “Gruppo radicale Adele Faccio” (Graf) di Imperia, che ha raccolto le firme per la lista in provincia di Imperia e di Genova. Le dichiarazioni di Carpi sono state raccolte tramite componenti della lista. L’organizzazione della stessa è stata curata da Gian Piero Buscaglia. Legalità (e attenzione al problema delle carceri), antiproibizionismo, ambiente e innovazione sono i punti dello stringato programma con cui si presenta alle Regionali. Risponde alle nostre domande inoltrate tramite il suo legale. Chi è Carlo Carpi? Quali sono le sue precedenti esperienze politiche? “Sono un imprenditore di 37 anni, laureato a pieni voti in Economia, specializzato in Finanza presso l’Università di Genova. Parlo quattro lingue e tratto acciaio e derivati petroliferi per conto di primarie aziende. Convivo con Cornelia Matei alla quale devo pubblicamente fare un plauso per come mi ha supportato, insieme alla mia famiglia e a tantissimi amici in questo anno assai difficile. Da sempre frequento il mondo dell’associazionismo, ricordo con piacere la mia esperienza di portiere nelle giovanili del Genoa. Sono autore del trattatello politico “La Società - l’arte del suo controllo” edito dalla Tigulliana. In prospettiva delle attuali elezioni regionali sono stato candidato presidente di Municipio Genova Centro ovest, candidato sindaco di Imperia e di Sanremo a capo di liste civiche”. Lei è candidato da detenuto, questo è un caso unico in Italia? “La legge Severino era stata emanata proprio per impedire che i condannati potessero essere eletti: si è posto il limite a due anni di pena perché a quella soglia la stessa può essere sospesa. La forza propulsiva della mia comunicazione sta proprio nel dimostrare l’accanimento giudiziario nei miei confronti. Mi ritengo un detenuto politico. Citando Churchill, si usa il carcere quale “segreta intimidazione, tortura, ricatto” per farmi ritrattare le mie dichiarazioni”. La sua è anche una battaglia per le condizioni delle carceri in Italia? “Il carcere in Italia non soddisfa minimamente i presupposti per i quali nasce: non contiene la vera pericolosità sociale. Ricordo i due miliardi di euro spariti dalla Carige, il caso Qui Ticket, la tragedia del Ponte Morandi. Inoltre, non contempla in concreto alcun progetto di formazione professionale e inserimento sociale”. Se dovesse essere eletto, quali sono le sue idee per la Liguria? “Occorre nominare il Garante dei detenuti regionale, vietare le nomine e gli incarichi ai magistrati (anche pensionandi) e ai loro congiunti da parte della Regione e delle sue partecipate. E istituire un fondo di garanzia per giovani e piccoli imprenditori”. Quale ritiene sia l’obiettivo concreto per la vostra lista? “Il principale obiettivo è smantellare la terra di mezzo trans-istituzionale. Non sono accettabili sentenze senza motivazioni o contenenti affermazioni letteralmente opposte ai documenti citati come denunciato da una coraggiosa inchiesta del giornalista Marco Delpino”. Modena. Detenuti morti al Sant’Anna, il mistero delle visite mediche di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 12 settembre 2020 Quattro senatori Pd interrogano il ministro Bonafede sulle rivolte nelle carceri. Il quesito: “Sono stati fatti accertamenti prima di trasferire persone gravi?” Accertare se siano state eseguite le visite mediche necessarie per il nulla osta sanitario per il trasferimento dei detenuti verso altri istituti, in modo che sia chiarito che non vi siano state eventuali responsabilità o negligenze. Accertare anche se ci sia in corso un’indagine interna condotta dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per capire come sia stato possibile che i detenuti a Sant’Anna siano riusciti ad entrare in possesso di metadone e psicofarmaci in quantità letali. Queste sono le due domande sulla rivolta in carcere dell’8 marzo a Modena che quattro senatori del Partito Democratico hanno posto al ministro di Grazia e Giustizia Alfonso Bonafede attraverso un’interrogazione parlamentare. Il documento, firmato dai senatori Franco Mirabelli, Monica Cirinnà, Vanna Iori (di Reggio) e Anna Rossomando (vicepresidente del Senato), chiede al ministro di fare chiarezza sui decessi dei 13 detenuti avvenuti in varie carceri italiane nel corso e dopo la rivolta e in particolare si focalizza sui nove morti di Modena. San Gimignano (Si). Pestaggi, citati i responsabili civili di Giustizia e Salute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 settembre 2020 Presunte violenze sui detenuti, prima udienza preliminare per 5 poliziotti e un medico. Giovedì scorso si è celebrata la prima udienza preliminare per decidere il rinvio a giudizio dei cinque poliziotti più un medico operanti nel carcere di San Gimignano. I sei sono coinvolti nella vicenda del presunto pestaggio a un detenuto - il reato contestato è quello di tortura - che poi, secondo ricostruzioni, venne lasciato in una cella ferito e svenuto. Gli agenti avrebbero abusato dei poteri o comunque violato i doveri inerenti alla funzione o al servizio svolto, con il pretesto di dover trasferire coattivamente il detenuto tunisino in isolamento da una cella ad un’altra, con minaccia grave, violenza e “agendo - si legge nell’ordinanza - con crudeltà e al solo scopo di intimidazione nei confronti del medesimo e degli altri detenuti in isolamento, cagionavano a quest’ultimo acute sofferenze fisiche e lo sottoponevano ad un trattamento inumano e degradante”. Il fatto sarebbe - come riportato in esclusiva su Il Dubbio su segnalazione dell’associazione Yairaiha Onlus - avvenuto l’11 ottobre del 2018. Il malcapitato è un tunisino, classe 1988, condannato - non in via definitiva a un anno di pena da scontare. In realtà è finito in custodia cautelare in carcere, perché aveva trasgredito alle misure domiciliari. Durante l’udienza preliminare sono state accolte le costituzioni di parte civile. C’è il garante nazionale delle persone private della libertà, nella persona del legale rappresentante Mauro Palma, assistito dall’avvocato Michele Passione del foro di Firenze. Si è costituita parte civile anche l’associazione L’Altro Diritto, nella qualità di garante locale del carcere e rappresentato da Sofia Ciuffoletti. Parte civile anche colui che è stato vittima del presunto pestaggio e assistito dall’avvocata Raffaella Nardone del foro di La Spezia. Si è costituito parte civile anche uno dei detenuti testimoni dell’accaduto assistito dall’avvocata Caterina Calia del foro di Roma. Non manca l’associazione Yairaiha Onlus, rappresentata da Sandra Berardi e assistita dall’avvocata Simonetta Crisci del foro di Roma. C’è anche l’associazione Antigone, nella persona del presidente Patrizio Gonnella, assistita dall’avvocata Simona Filippi del foro di Roma. Lo svolgimento dell’udienza preliminare si svolgerà in più fasi. Soprattutto perché alcuni rappresentati delle parti civili hanno chiesto è ottenuto la citazione del responsabile civile, sia del ministero della Giustizia che della Salute. La citazione di quest’ultimo ministero è dovuto dal fatto che come imputato c’è un medico, il quale però ha chiesto l’abbreviato. Le posizioni quindi sono momentaneamente separate, anche se con molta probabilità potrebbero essere riunite il giorno che si dovrebbe concludere l’udienza preliminare, ovvero a fine dicembre. La prossima udienza è stata fissata per il 15 ottobre. Milano. Il giudice di pace avanti a ritmo lento. E le cause slittano di Gianni Santucci Corriere della Sera, 12 settembre 2020 Prima dell’epidemia, negli uffici dei giudici di pace si lavorava al ritmo di cinque udienze e 60 fascicoli circa alla settimana. Lo stesso volume di attività che i magistrati onorari avevano ripreso da martedì. Ma dal pomeriggio è subentrata la drastica limitazione che era stata studiata come massima cautela nei mesi di giugno e luglio: una sola udienza a settimana, e cinque fascicoli. Non accade al tribunale ordinario e non avviene neppure in nessun altro ufficio del giudice di pace d’Italia, fatta esclusione per Napoli. Così adesso la maggior parte dei magistrati si chiede: “Perché il tribunale riprende a pieno regime, sui trasporti pubblici non ci sono quasi più limitazioni, le scuole riaprono, e solo il nostro lavoro deve restare a “regime minimo”?”. Alle 9 del mattino, la ripresa. A metà pomeriggio, il (nuovo) blocco. Accade tutto nel giro di poche ore, martedì scorso, quando i giudici di pace di Milano (non avendo ricevuto indicazioni contrarie) riprendono la loro attività giudiziaria regolare, pur con tutte le precauzioni anti-Covid. Lastra di plexiglass di fronte ai tavoli dei giudici, gel sulle scrivanie per pulire le mani prima di toccare qualsiasi carta, mascherine per tutti, distanziamento nelle stanze, pur piccole, e nei corridoi. Al pomeriggio però, negli uffici di via Francesco Sforza, la “Fase 3” della gestione dell’epidemia (la completa ripresa con precauzioni) viene bloccata da un provvedimento del presidente del Tribunale ordinario Roberto Bichi: e fa una capriola all’indietro col ritorno immediato alla “Fase 2”, quella con pesanti limitazioni che era stata stabilita alla fine del lockdown. In numeri, cosa significa? Prima dell’epidemia, nel Civile, ognuno dei quaranta giudici di pace di Milano teneva in media due o tre udienze a settimana, in cui trattava circa 15/20 fascicoli per udienza. Dunque, in totale, una media di almeno 50/60 fascicoli a settimana. E questo è il volume di attività che i magistrati onorari della Guastalla avevano ripreso da martedì mattina. Dal pomeriggio, però, la drastica limitazione che era stata studiata come massima cautela nei mesi di giugno e luglio: dunque, una sola udienza a settimana, con soli 5 fascicoli. Non accade al Tribunale ordinario (pur con tutte le difficoltà della situazione), e non avviene neppure in nessun altro ufficio del giudice di pace d’Italia, ad esclusione di Napoli. E la maggior parte dei magistrati oggi si chiede: “Perché? Perché il Tribunale riprende a pieno regime, sui trasporti pubblici non ci sono quasi più limitazioni, le scuole riaprono, e solo il nostro lavoro deve restare a “regime minimo”?”. La decisione ha due pesanti ricadute. La prima, generale, su tutte le persone che attendono una decisione su questioni spesso decisive per la propria esistenza: cartelle esattoriali da decine di migliaia di euro, sospensioni della patente, ricorsi contro le multe, sinistri stradali sotto i 25 mila euro, mancati rimborsi per “vacanze rovinate”. Molte di queste cause in programma da marzo a maggio scorsi (l’attività è rimasta del tutto azzerata per l’emergenza sanitaria dal 6 marzo all’8 giugno), e che già all’epoca erano state rimandate a settembre e ottobre, in questi giorni vengono rinviate di nuovo, e slittano a dicembre o gennaio 2021, in alcuni casi anche oltre, fino alla prossima primavera inoltrata. Per avere un quadro complessivo, nel trimestre del lockdown l’ufficio del giudice di pace nel settore civile ha definito solo 1.019 processi, a fronte dei 3.724 dei primi tre mesi dell’anno. I processi pendenti sono 15.868, rispetto ai 14.854 del trimestre precedente. Nel penale, tra marzo e maggio, sono stati chiusi solo 9 processi contro i 160 di febbraio (quelli accumulati oggi sono 1.869 contro i 1.400 di febbraio). Ripartire (davvero) significava recuperare, e tenere il “servizio” al consueto livello. Il secondo aspetto critico riguarda invece i giudici di pace, che sono magistrati, ma senza alcuna stabilità di lavoro, senza previdenza, senza maternità, senza malattia, senza ferie, una professione al servizio dello Stato senza alcun riconoscimento dei diritti del lavoro: e pagato “a cottimo”. I giudici di pace fanno un lavoro “stabile”, al servizio della cittadinanza, ma se non lavorano o lavorano in misura ridotta (per qualsiasi causa) non vengono retribuiti. Ma a volte capita, come in questo periodo, che non vengono retribuiti neppure se hanno lavorato: lo stipendio di agosto (relativo a giugno) non è stato versato. Disguidi. Problemi organizzativi dal ministero. I magistrati hanno scritto al premier Giuseppe Conte e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Nessuno ha risposto. Reggio Calabria. Le Gomorre calabresi, una sfida per la politica e per le agenzie educative di Mario Nasone strill.it, 12 settembre 2020 La storia scoperta dai carabinieri di Reggio Calabria del ragazzo del rione Sbarre, coinvolto in un giro di spaccio e sottoposto a tortura da una banda di malavitosi, ripropone esattamente le stesse immagini e dinamiche che abbiamo visto nella serie TV Gomorra. Un bambino di tredici anni, che per fortuna grazie all’intervento tempestivo del Tribunale per i minorenni è stato tutelato assieme ai suoi fratellini. Uno piccolo spaccato delle nostre Scampie calabresi, fatto di quartieri dormitorio degradati, sprovvisti e di opportunità soprattutto per i bambini e gli adolescenti, una vicenda che non rappresenta un fatto isolato ma è solo la punta di un iceberg che vede un sommerso fatto di un disagio diffuso, di abbandono educativo che colpisce soprattutto tanti adolescenti che vivono nei quartieri più rischio della città di Reggio e non solo pensiamo ad esempio alla Ciambra di Gioia Tauro. Quartieri come Archi, Arghillà, Ciccarello, Sbarre, dove è facile vedere minori che si dedicano al traffico delle armi e della droga, al taroccamento delle auto e dei motorini rubati, in pieno giorno, soldati al servizio dei clan che li utilizzano come manodopera a basso costo all’interno della loro organizzazione criminale. Difronte a queste vicende non basta lo sdegno ma serve una rinnovata presa di coscienza che provochi risposte a questo malessere diffuso che il Covid 19 ha ulteriormente aggravato con l’aumento della dispersione scolastica e delle povertà educative che ha toccato minori appartenenti alle fasce sociali più vulnerabili che, senza risorse e strumenti, non sono stati raggiunti dalla didattica a distanza e si trovano ancora più marginalizzati. Per questo serve soprattutto una vera e forte alleanza educativa tra scuole, associazioni, chiesa ed istituzioni in grado di costruire una comunità educante che intercetti questi ragazzi a rischio garantendo loro un progetto educativo e di accompagnamento. Un lavoro che in Calabria è stato avviato, a Reggio, in provincia di Cosenza, nella Locride, attraverso delle reti di Alleanze educative tra scuole e di associazioni, Tribunale per i Minorenni e Questura e che ha permesso di intercettare ed aiutare tanti ragazzi e famiglie, con la scuola che ha svolto una funzione di antenna e di coinvolgimento di altre agenzie educative nell’ottica di una comunità educante. Un lavoro da rafforzare ed estendere in tutta la Calabria come stanno cercando di fare le più importanti organizzazioni che si occupano di infanzia e adolescenza attraverso l’attivazione della rete regionale Con i minori e le famiglie. Ma il contrasto alle povertà educative ha bisogno di investimenti da parte della politica regionale che finora non si sono visti, e la decisione della Giunta regionale di proporre un piano sociale regionale è importante se all’interno di esso saranno previsti interventi per dotare tutte le zone della Calabria di servizi di sostegno alle famiglie, di educativa domiciliare, di centri di aggregazione giovanili, della scuola a tempo, e quindi di operatori sociali indispensabili come educatori, assistenti sociali, psicologi. L’episodio di Sbarre può essere rimosso come altri dalla coscienza collettiva o può rappresentare una scossa per rimettere al centro la vita dei ragazzi e la loro speranza di un futuro diverso. *Presidente Centro Comunitario Agape Gorizia. Un carcere modello: il progetto all’atto finale friulioggi.it, 12 settembre 2020 Il progetto di ampliamento del carcere di Gorizia. Un carcere modello con maggiori spazi per guardie e detenuti e nuovi servizi a Gorizia. Il progetto è stato presentato dal sindaco Rodolfo Ziberna. All’attuale casa circondariale di Gorizia sarà accorpata l’ex scuola elementare Pitteri che sarà venduta dal Comune al ministero di Grazia e Giustizia per 490mila euro. Un atto che consentirà alla prigione di via Barzellini di allargarsi e di realizzare una struttura complementare con nuovi ambienti che miglioreranno sicuramente l’attuale situazione carceraria con una spesa complessiva di 4.500.000 euro. “Dovremmo essere arrivati all’atto finale di questo progetto - spiega il sindaco, Rodolfo Ziberna. Si tratta di un’opera che abbiamo perseguito con grande tenacia perché porta benefici molteplici per la nostra città a partire dal fatto che con questo potenziamento si scongiura la chiusura dell’attuale carcere e del tribunale più volte paventata in passato. Poi si recupererà un edificio storico, in cui sono cresciute generazioni di goriziani, salvandolo dall’abbandono. Al suo interno saranno reperiti spazi che miglioreranno la vita degli agenti e dei detenuti attraverso il miglioramento di servizi ma anche con la realizzazione di laboratori e altre aree attrezzate. In sostanza si fornisce all’attuale casa circondariale quell’ampliamento tanto ricercato che le permetterà di trasformarsi in un carcere modello di cui Gorizia potrà essere orgogliosa e, contestualmente, recuperare un’area e una struttura in forte degrado”. Milano. Sartoria San Vittore, tornano i turbanti benefici realizzati dalle detenute di Antonella Barone gnewsonline.it, 12 settembre 2020 Sono allegri, fantasiosi e pratici i turbanti confezionati dalle detenute della Sartoria San Vittore, pensati per le donne che devono affrontare una malattia oncologica ma adatti a tutte quelle che amano i colori. Realizzati con tessuti naturali, i turbanti evocano acconciature etniche, quasi una sfida alle tinte più sobrie che spesso si associano alla malattia. Chi li acquista contribuisce a sostenere le attività dell’associazione Go5- per mano con le donne, destinate alle pazienti dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, Fondazione Irccs. Il progetto “La vita sotto il turbante”, che prende spunto dall’iniziativa Turbanti meravigliosi che lo scorso anno ha avuto il patrocinio del Comune e della Camera Penale di Milano, nasce dalla collaborazione della Onlus GO5 con la cooperativa Alice, impegnata, con la sua Sartoria San Vittore, nel reinserimento lavorativo delle detenute. “Un tempo le donne che dovevano sottoporsi a cure si vergognavano quasi della malattia, la nascondevano sotto trucchi pesanti e parrucche. Oggi il turbante viene portato con disinvoltura - dice Francesca Brunati, tra le fondatrici di Go5 - e invia un messaggio positivo: è divenuto il simbolo della volontà di farcela”. “Indossare il turbante può diventare un piccolo rito per prendersi cura di sé, anche al tempo della chemioterapia, oltre a essere una accessorio trasversale che può essere portato da tutte le donne” aggiunge Francesca che lancia anche un appello ad aziende tessili e a privati perché donino garze, cotoni, jersey o altri tessuti, purché naturali. “La vita sotto il turbante” è una delle iniziative che saranno presentate domenica 13 settembre alle 17, a Milano, nel Giardino condiviso San Faustino, nell’ambito della manifestazione “I talenti delle donne 2020”, organizzata dal Comune di Milano. “Dalla sospensione delle attività per il lockdown la nostra associazione è uscita ampliata negli intenti e nel campo d’azione. All’inizio del progetto eravamo presenti nel solo reparto di ginecologia, oggi operiamo in tutto l’Istituto Nazionale dei Tumori e, in generale, le nostre iniziative sono pensate per tutte le donne malate. Inoltre, collaborando con la Cooperativa Alice, abbiamo creato un ulteriore e stabile canale di solidarietà che arricchisce il progetto, contribuendo a sostenere il lavoro delle detenute”. I proventi della produzione di turbanti - che si potranno trovare durante la manifestazione di domenica in cambio di una donazione minima di 25 euro, oppure acquistare in punti vendita multibrand (consorzio Viale dei Mille1 e Bottega delle Associazioni, Spazioisola, Via Confalonieri, 3) - saranno destinati a un progetto di psico-oncologia online post Covid, con il coordinamento della struttura di psicologia clinica della Fondazione Irccs Istituto Nazionale Tumori di Milano. All’evento del Giardino San Faustino, introdotto da Luca Costamagna, assessore alla cultura e alle politiche sociali del Municipio 3 di Milano, interverranno, tra gli altri, Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale di San Vittore, Diana De Marchi, Presidente della Commissione Cultura Pari Opportunità del Comune di Milano, e Claudia Borreani, coordinatrice della struttura di psicologia clinica dell’Irccs. Sul palcoscenico, allestito all’interno del giardino, andrà in scena il reading teatrale “Con un filo di voce. Storie di solidarietà femminile”. Le attrici Livia Rossi, Noemi Radice e Josephine Capranica leggeranno appunti, riflessioni, versi delle donne detenute coinvolte nel progetto e delle pazienti dell’Istituto Tumori. Tra queste ultime Martina Cimmino, testimonial di tanti modelli di turbanti ma anche autrice e cantante di grande talento. Le attrici daranno voce alle sue ballate restate incompiute perché la malattia non ha concesso a Martina, scomparsa a diciassette anni, il tempo di comporre la musica. “Credo che far conoscere la sofferenza di altre donne alle detenute che pure vivono una condizione dolorosa, anche se per motivi molto diversi, e offrire loro l’opportunità di creare qualcosa di utile aumenti il valore di questa iniziativa - conclude Francesca Brunati -. Dietro un turbante non c’è solo la volontà di guarire di chi lo indossa, c’è un progetto d’integrazione sociale che aggiunge la forza della solidarietà”. Bologna. La radio che trasmette cultura nelle carceri: oggi Eduradio sbarca a Faenza di Samuele Marchi ilbuonsenso.net, 12 settembre 2020 Un progetto nato dagli operatori del carcere della Dozza di Bologna per restare in contatto con i detenuti nonostante le limitazioni di accesso dovute al lockdown e per trasformare l’unico mezzo tecnologico presente in tutte le celle, tv e radio, da mezzo generalista a strumento integrato nel progetto educativo, al servizio di insegnanti, psicologi, educatori. È nata con questo spirito “Liberi Dentro – Eduradio”, “una voce amica e solidale” che porta in carcere - sia come radio sia come piattaforma televisiva - contenuti artistici, culturali, lezioni dei docenti, esperienze, interviste e tanto altro prodotto da volontari presenti in varie città dell’Emilia-Romagna, tra cui Faenza stessa, a supporto e fruizione dei carcerati. Una radio per portare approfondimenti e cultura nelle carceri - Grazie infatti al contributo di tante associazioni giovanili, anche la città manfreda partecipa a pieno titolo nel progetto e ha già una puntata all’attivo e tante altre idee da mettere in campo. Proprio per coinvolgere e presentare la realtà Eduradio a tutta la cittadinanza, sabato 12 settembre all’Arena Cinema Europa (corso Europa, 79) alle 20.30 sarà organizzato un evento pubblico e gratuito in cui sarà proiettata la una nuova puntata di Eduradio realizzata dalle associazioni faentine. Ospiti dell’evento saranno, in collegamento da Bologna, fra Ignazio De Francesco e Caterina Bombarda, promotori del progetto; e Roberto Lolli, presidente di Avoc Associazione Volontari Carcere. Tante associazioni faentine collaborano al progetto - Per la qualità della sua proposta, il progetto Eduradio è stato presentato ufficialmente anche al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Tra le associazioni faentine partecipanti si segnalano: Fronte Comune, Ami - Amici di un mondo indiviso, Borderlain, Penny Wirton, Farsi Prossimo, Torre dell’Orologio, Asp Romagna Faentina, circolo Arci Prometeo, For Africa, Onde Radio, Occhi di un altro mondo di Radio Sonora, Acsè. Willy, la rabbia dilaga in un’Italia che non educa più i suoi figli di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 12 settembre 2020 È l’odio per l’odio, epidemia sottovalutata, a fare da solvente a quella colla sociale che ha fatto di noi una democrazia rispettabile e rispettata. Minimizzando, si diventa complici di una mutazione di cui la notte di Colleferro è una sirena d’allarme che fingiamo di non sentire. Forse abbiamo un problema più urgente del Recovery Fund, dell’esito del referendum o di chi vincerà alle prossime Regionali. Persino più urgente dell’onda rimontante dei contagiati dal Coronavirus. Il problema è la rabbia, che sta sradicando le protezioni sociali che la contenevano e dilaga senza freni, senza limiti. Il problema è che cosa stiamo diventando come Paese, rassegnati al peggio. Il problema, per esempio, è Willy Monteiro Duarte, straziato di botte e lasciato lì a rantolare, rannicchiato come un feto, in una piazza di Colleferro, che è intorno a Roma ma potrebbe essere ovunque. Willy pestato a sangue e a morte da tre o quattro balordi tatuati, appena più adulti di lui, scesi da un suv nero per sistemare a modo loro un inizio di rissa. Lui che prova a rialzarsi da terra dopo ogni scarica di colpi, facendosi forza sulle braccia, fino alla botta letale. Aveva cercato di smorzare gli animi appena si erano accesi, in soccorso di un amico finito sotto il tiro dei nuovi selvaggi. Dai, smettetela, andiamo via. “Non dimenticherò mai il rumore del suo corpo che cadeva”, dirà un testimone. Sono le tre di notte, finirà di spegnersi alle cinque, squassato da una furia senza causa, senza senso. La fine tragica di un sabato italiano, ma di un’Italia brutta e cattiva che non vogliamo riconoscere, più indifferenti che allarmati. Il funerale di Willy, oggi, è il funerale di una nazione che non sa più educare né proteggere i propri figli, dove accelerano, come ha scritto su questo giornale Walter Veltroni, i rischi di scollamento. Ed è l’odio per l’odio, epidemia sottovalutata, a fare da solvente a quella colla sociale che ha fatto di noi una democrazia rispettabile e rispettata. L’odio per chi è diverso, per chi viene da fuori, per chi è grasso, per chi è debole, per le donne, per chi ha un handicap, per chi prova ad opporsi alla legge del più forte, che non rientra, non ancora almeno, tra le leggi che come nazione ci siamo dati. Guardatela e riguardatela, per favore, la foto di Willy Monteiro Duarte a scuola, con una camicia di jeans, la sfumatura alta dei capelli crespi, così sorridente e felice, così dolce verso la vita e i compagni che gli stavano accanto. Aveva 21 anni, lavorava come apprendista cuoco e sognava di diventare calciatore. Era un ragazzo buono, italiano di Capo Verde, che è come dire italiano di Ascoli o di Biella. Forse non c’entra nemmeno il colore ambrato della sua pelle, anche se il colore della pelle ricomincia a fare la differenza, in peggio per chi non è bianco bianco. Cronache di questi giorni. A Lecce, alla cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria a Yvan Sagnet, camerunense, attivista per i diritti dei braccianti, il centrodestra (centro?) ha abbandonato l’Aula comunale per protesta. In un meeting a Ostrava, Yeman Crippa, azzurro di mezzofondo, trentino nato in Etiopia, stabilisce il nuovo record nazionale sui 5 mila metri e dai social gli augurano di “fare la fine di Zanardi” (che tra l’altro, grazie al cielo, sta migliorando). Luca Caprini, consigliere comunale della Lega a Ferrara, poliziotto e sindacalista, è indagato per aver messo un “mi piace” a un post su Facebook dove s’inneggiava a Hitler e ai forni crematori per attaccare il cantante Sergio Sylvestre, americano nero, colpevole di aver storpiato l’Inno di Mameli a una partita di calcio. La frase che ha attirato il suo like: “Ma quel signore con i baffi che adoperava i forni non c’è più?”. Si dirà: immondizia da social, sfogatoio di pessimi umori e peggiori istinti. E minimizzando, circoscrivendo, sminuendo i teppismi nazistoidi a goliardate o a esuberanze di una gioventù in cerca di un futuro più glorioso di quello che si prospetta, si diventa complici di una mutazione di cui la notte di Colleferro è una stazione non secondaria, una sirena d’allarme che fingiamo di non sentire. In una delle interviste che ha gentilmente concesso per i suoi freschi novant’anni, Liliana Segre, senatrice a vita e vittima di Auschwitz, non minimizza: “La fine di quel ragazzo è un naufragio della civiltà”. Poi ricorda in che modo nascono gli incubi della storia: “Io purtroppo ho visto come si comincia a odiare qualcuno e come si insegna a farlo, mettendo prima la persona in ridicolo, poi facendo del bullismo. E dalle parole violente, il passo successivo sono i fatti violenti, finché si arriva ad ammazzare”. Gli ebrei nella Germania che sarà hitleriana erano lo 0,75 per cento della popolazione. Si riuscì a convincere i tedeschi che la causa principale dei loro problemi erano proprio gli appartenenti a quella minuscola percentuale. Si è riacceso in questi giorni tristi, tra fiaccolate per Willy e frasi di circostanza dei leader politici, un dibattito ammuffito: l’esecuzione a calci e pugni di quel ragazzo buono è uno dei segni del ritorno di una certa mentalità fascista? Come se certificare in quale categoria storica rientri la notte della vergogna di Colleferro possa mettere qualche anima in pace. Certo, l’armamentario di tante parole seminate anche in questa campagna elettorale tende ad alimentare il fuoco sempre più ardente della rabbia, piuttosto che sopirlo. Documentatissime inchieste sul campo (Paolo Berizzi le ha concentrate nel suo ultimo libro) dimostrano come molte palestre di combattimento estremo, tipo quelle frequentate dagli arrestati per la mattanza di Willy, siano incubatrici dell’ultradestra, specie giovanile. I titoli di alcuni giornali, per esempio sull’aggressione a Salvini da parte di una donna congolese che gli ha strappato camicia e rosario, scherzano anche loro col fuoco, con la responsabile dell’ingiustificabile assalto che diventa la “nera” (meglio di “negra”, se ci accontentiamo). Si prepara un nuovo fascismo? Tanti atteggiamenti e altrettante omissioni contribuiscono, e non poco, al lievitare di un fenomeno che promette strappi violenti ai sentimenti e ai valori condivisi, almeno fino a non molto tempo fa, dal nostro Paese. Questo fenomeno si potrebbe chiamare “sfascismo”, parente dell’Italia in orbace, del menefrego, della presunta (molto presunta) superiorità italica, ma con una caratteristica che le masse docili al Duce non avevano: l’infedeltà a tutto e a tutti, fuorché a sé stessi, e al proprio branco. È nutrito, lo sfascismo, da una insofferenza quasi fisica a qualsiasi regola, comprese le mascherine. Si lascia riempire da parole d’ordine che semplificano, fino a brutalizzarla, la complessità del momento che il mondo vive, e l’Italia più di altri soffre. E si nutre di sogni, lo sfascismo, tutto sommato meschini: molti soldi con poca fatica, zero senso del dovere, nessuna disponibilità al passo lento del sacrificio. Sono cuori, tanti cuori pieni di niente, che andrebbero sanificati, come gli ambienti adesso che c’è il virus. Ma troppo pochi e troppo poco ci provano. Accanto alla fotografia di Willy, provate a mettere una di quelle dei suoi presunti carnefici, con le facce feroci su corpi scolpiti, con abiti, accessori e ambienti poco compatibili con redditi guadagnati in onestà: balza all’occhio che sono due Italie che non possono comunicare e forse nemmeno coabitare. La tragedia è che la seconda sta avanzando spavalda, ma sembra che la cosa preoccupi soltanto gli incrollabili affezionati ai rudimenti della Costituzione, alla Carta dei diritti dell’uomo e della donna. Il fatto che il premier Conte partecipi ai funerali di Willy Monteiro Duarte, indossando l’ideale camicia o maglietta bianca come richiesto da suo padre Armando, ci fa sentire meno soli, appena un po’ consolati. Migranti. Europa, accoglienza in ordine sparso. Proteste a Lesbo di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 12 settembre 2020 Moria. Dieci paesi Ue si distribuiranno i profughi. Altri inviano materiale, che l’isola non vuole. La popolazione locale cerca di bloccare la costruzione di un nuovo campo a qualche chilometro dal porto di Mytilene. Di fronte alla catastrofe di Lesbo, ieri sono saliti a dieci i paesi Ue che si sono uniti all’iniziativa franco-tedesca della vigilia, per accogliere 406 minori non accompagnati, già evacuati e trasferiti dall’isola nella Grecia continentale: oltre a Francia e Germania, che ne accoglieranno 100-150 ciascuno, l’Olanda si è detta disposta ad accogliere un centinaio di persone (il 50% minorenni), mentre Finlandia, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Croazia e Portogallo hanno dato la loro disponibilità. A questa lista si aggiunge la Svizzera (mercoledì la Norvegia aveva proposto di accogliere una cinquantina di persone). I 10 Paesi Ue comprendono gli 8 che già partecipano al programma a favore dei minorenni rifugiati, sulla carta destinato a 2mila persone, nei fatti realizzato soltanto per 640 finora. Altri paesi si limitano ad aiuti materiali: la Polonia ha annunciato ieri l’invio di 156 unità di abitazione attraverso il meccanismo di protezione civile della Ue. La commissione ha deciso ieri di inviare aiuti supplementari alla Grecia, rafforzando un programma lanciato nel marzo scorso, a cui hanno risposto 17 paesi, e che si è tradotto nell’invio di materiale come tende, materassi, coperte. Inoltre, da aprile Austria, Repubblica ceca, Danimarca, Olanda e Francia hanno inviato a Lesbo 4 container di medicine e una postazione medica mobile. Molti paesi rifiutano l’accoglienza e optano per l’aiuto economico, per ragioni di politica interna. È il caso dell’Austria, per esempio, dove in queste ore il dramma di Moria sta creando forti tensioni nell’alleanza di governo tra i popolari di Sebastian Kurz e i Verdi. La Ue manda materiale, ma a Lesbo non lo vogliono, la popolazione locale cerca di bloccare la costruzione di un nuovo campo a qualche chilometro dal porto di Mytilene, la situazione è sempre più violenta. L’obiettivo dei poteri locali di Lesbo e di molti abitanti è impedire che i rifugiati possano restare nell’isola: da 5 anni conviviamo con questa situazione, dicono, adesso tocca ad altri nella Ue far fronte alla presenza dei migranti. Il commissario alle Migrazioni, il greco Margaritis Schinas, ha sottolineato ieri che “Moria è un richiamo severo a tutti i paesi membri, abbiamo bisogno di solidarietà nelle politiche migratorie”. Ha l’ardire di dirlo anche il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis, accusato di aver intasato e bloccato i rifugiati nel campo di Moria e di sbandierare “legge e ordine” inumani: “L’Europa deve passare dalle parole agli atti di solidarietà”. Per Angela Merkel, la “catastrofe” di Moria può permettere “infine” di arrivare a una politica comune delle migrazioni, dopo “un primo passo” con l’iniziativa franco-tedesca “a cui altri dovranno seguire”. Cinque anni dopo la crisi dei rifugiati dalla Siria, dopo anni di blocco della riforma del sistema di Dublino II, dopo aver più volte rimandato la scadenza, a fine mese la Commissione dovrebbe presentare un nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, per un coordinamento delle politiche e un diritto d’asilo comune. Nella Ue la pressione migratoria è diminuita drasticamente con la crisi del Covid, anche se i ritorni forzati nei paesi d’origine sono stati praticamente bloccati. Nell’Unione ci sono oggi 878mila procedure in corso in seguito a domande d’asilo. La Brexit aprirà un altro fronte. Dal 1° gennaio 2021 la Gran Bretagna non sarà più tenuta a rispettare le regole di Dublino e si apre quindi un baratro, in particolare con la Francia, che diventerà “paese periferico”. La questione dei migranti non è menzionata nell’accordo di divorzio tra Ue e Gran Bretagna, ma Londra, che vuole riprendere il controllo delle proprie frontiere, ha già fatto sapere che estenderà la politica dei charter, per respingere e rimandare nella Ue i clandestini arrestati sul suo territorio. Quest’anno, 5.400 persone sono riuscite a passare la Manica sulle small boats (ieri una cinquantina di migranti sono stati soccorsi dai gendarmi su due imbarcazioni di fortuna e riportai in Francia). Nel 2019, 24mila erano state intercettate su camion in coda per il tunnel sotto la Manica. Colombia. Il presidente Duque minimizza gli omicidi in serie della polizia di Claudia Fanti Il Manifesto, 12 settembre 2020 Dopo l’assassinio dell’avvocato Ordóñez proteste, e altre morti, in 15 città del Paese. Julieth Ramírez, 19 anni, studentessa di psicologia, stava tornando a casa con un’amica quando, trovatasi in mezzo alle proteste, si è all’improvviso accasciata al suolo, raggiunta al cuore da uno sparo. È morta sul colpo. Cristian Camilo Hernández, 26 anni, due figlie di 2 e 7 anni, stava realizzando la sua ultima consegna a domicilio della giornata, nel quartiere di Verbenal. È allora che, secondo un testimone, sarebbe stato fermato e trascinato via da due poliziotti, che poi gli avrebbero sparato in testa. Julieth e Cristian sono appena due delle almeno dieci vittime della violenta repressione delle proteste esplose in Colombia in seguito alla morte di Javier Ordóñez, ucciso dalle scariche elettriche e dai colpi inferti da due agenti della polizia di Bogotà. Quasi tutti giovani dai 17 ai 27 anni, come soprattutto giovani sono le vittime dei nuovi massacri che stanno insanguinando il paese, quelli che il presidente Iván Duque insiste a definire “omicidi collettivi”. La violenza poliziesca dilaga per la capitale, trasmessa in diretta attraverso i video pubblicati dai media indipendenti e rilanciati dalle reti sociali. Filmati che mostrano una donna che cade a terra ferita e una decina di poliziotti che piomba su di lei e sul suo soccorritore colpendoli selvaggiamente, o un agente che corre sparando ad altezza uomo contro i manifestanti, tra tanti esempi di uso indiscriminato di armi da fuoco da parte di membri della polizia in almeno quattro località della capitale (Verbenal, Suba, Kennedy e Bosa). Qualcuno si ostina a chiamarle “mele marce”. “Apprezziamo il lavoro della nostra forza pubblica”, ha assicurato il presidente Duque, invitando a ricondurre “questi fatti” a casi individuali e mettendo in guardia dal rischio di “stigmatizzare” la polizia. E lo stesso tono ha usato il ministro della Difesa Carlos Holmes, denunciando una campagna di delegittimazione delle forze dell’ordine. Ma non la pensano sicuramente così le migliaia di persone che giovedì, per il secondo giorno consecutivo, hanno dato vita a una quindicina di manifestazioni nella sola Bogotà, più ad altre a Cali, Medellín, Pasto e in altre città del paese, chiedendo giustizia per i morti e condanne esemplari per i responsabili degli assassinii, delle cariche violente, degli arresti arbitrari, delle aggressioni a giornalisti indipendenti e difensori dei diritti umani. Mentre le Ong esigono che vengano sospesi immediatamente tutti gli agenti operativi a Verbenal, dove la repressione è stata più brutale, oltre al comandante della polizia di Bogotà. È una mobilitazione, quella innescata dall’omicidio di Ordóñez, che risente indubbiamente del clima di esasperazione già tradottosi nel grande sciopero nazionale proclamato a novembre dalle principali organizzazioni sindacali e studentesche contro le misure ultraliberiste del governo Duque. E ciò prima che la pandemia, con i suoi circa 700mila casi di contagio e gli oltre 22mila morti, aggravasse ulteriormente il quadro, non solo esercitando un impatto devastante sui settori più poveri della popolazione, ma anche provocando un parallelo aumento delle violenze sia paramilitari che poliziesche. È quanto denuncia anche il rapporto “Il malgoverno dell’apprendista: autoritarismo, guerra e pandemia” diffuso il 9 settembre da più di 500 organizzazioni come bilancio del secondo anno del governo Duque. Un anno caratterizzato, secondo il rapporto, da una chiara involuzione rispetto alla difesa diritti umani, dall’aumento della violenza e delle disuguaglianze, da “una pericolosa concentrazione di potere” nell’esecutivo - 164 decreti legge in tre mesi, solo 11 dei quali relativi al sistema di salute - e da “attacchi all’indipendenza della giustizia”. Bolivia. “Il sistema giudiziario usato per perseguitare gli oppositori dei successori di Morales” La Repubblica, 12 settembre 2020 Un rapporto di 47 pagine, “Justice as a Weapon: Political Persecution in Bolivia”, di Human Rights Watch documenta casi di accuse infondate o sproporzionate, violazione della libertà dell’attuale governo. Il governo ad interim della Bolivia sta abusando del sistema giudiziario per perseguitare soci e sostenitori dell’ex presidente Evo Morales, che a sua volta deve affrontare accuse di terrorismo, che sembrano essere politicamente motivate. Lo riferisce Human Rights Watch in un rapporto pubblicato oggi. Un rapporto di 47 pagine, “Justice as a Weapon: Political Persecution in Bolivia”, documenta casi di accuse infondate o sproporzionate, violazioni del giusto processo, violazione della libertà di espressione e uso eccessivo e arbitrario della detenzione preventiva nei casi perseguiti dal governo. Human Rights Watch ha anche trovato esempi di abuso del sistema giudiziario contro gli oppositori di Morales, durante il suo governo. Quell’indipendenza dei PM dal potere politico che manca. “I pubblici ministeri (PM) possono e devono indagare se dispongono di informazioni credibili che qualcuno, inclusi ex funzionari governativi, ha commesso un crimine”, ha detto José Miguel Vivanco, direttore per le Americhe di Human Rights Watch. “Ma è fondamentale che i funzionari della giustizia operino in modo indipendente e rispettino i diritti fondamentali” Morales è stato costretto a dimettersi nel novembre 2019 ed è fuggito dal Paese tra le proteste a livello nazionale scatenate dalle accuse di frode elettorale - ora contestate - e dopo che i comandanti delle forze armate e della polizia gli hanno chiesto di dimettersi. Le pressioni dell’attuale governo sui pubblici ministeri. Jeanine Áñez, ex senatrice diventata presidente ad interim, ha avuto la possibilità di rompere con il passato e garantire l’indipendenza giudiziaria. Invece, il suo governo ha pubblicamente fatto pressioni su pubblici ministeri e giudici per promuovere i suoi interessi, portando a indagini penali su oltre 100 persone legate all’amministrazione Morales e ai sostenitori di Morales per presunta sedizione o terrorismo. Molti altri sono indagati per presunta appartenenza a un’organizzazione criminale, abbandono dei doveri e altri crimini. Molti dei casi sembrano essere politicamente motivati. Accuse di terrorismo: è bastata una telefonata a Morales. Human Rights Watch ha esaminato migliaia di documenti del tribunale e rapporti di polizia in 21 di questi casi e, nel febbraio 2020, ha avuto accesso al fascicolo completo delle indagini sul terrorismo contro Morales, composto da oltre 1.500 pagine. Human Rights Watch ha anche intervistato 90 persone, tra cui il ministro dell’Interno Arturo Murillo, il difensore civico Nadia Cruz, pubblici ministeri, avvocati della difesa, partecipanti a blocchi stradali e manifestazioni - sia a favore che contro Morales - testimoni di violenza e parenti dei manifestanti uccisi. I pubblici ministeri hanno accusato alcune persone di terrorismo semplicemente per aver avuto contatti telefonici con Morales, ha rilevato Human Rights Watch. Altri sono stati accusati di crimini per aver esercitato la loro libertà di espressione criticando il governo online. Il rapporto descrive tre casi, tra gli altri. 1) - I pubblici ministeri hanno accusato Patricia Hermosa, avvocato ed ex capo del personale di Morales, di terrorismo, finanziamento del terrorismo e sedizione basata esclusivamente sul suo contatto telefonico con Morales dopo le sue dimissioni. È stata arrestata il 31 gennaio 2020 ed è stata tenuta in custodia cautelare fino al 5 agosto senza accesso alle cure mediche durante la gravidanza. Ha avuto un aborto spontaneo a marzo. 2) - I pubblici ministeri hanno accusato un sostenitore di Morales, Mauricio Jara, di sedizione, istigazione a commettere un crimine e crimini contro la salute pubblica, apparentemente in base al suo esercizio della libertà di parola. Come prova della sua attività criminale, la polizia ha affermato che Jara aveva definito il governo “un tiranno” e “dittatoriale”, aveva definito l’uccisione nel novembre 2019 di almeno 10 manifestanti a Senkata un “massacro”, aveva “informato male” gli altri e aveva ha esortato le persone a protestare. Attualmente è tenuto in custodia cautelare. 3) - A seguito delle leggi boliviane che scoraggiano formalmente la detenzione preventiva, il giudice Hugo Huacani ha concesso gli arresti domiciliari a Edith Chávez, una domestica di un ex funzionario dell’amministrazione Morales il cui caso è anche descritto nel rapporto. Ore dopo, due avvocati del governo hanno denunciato il giudice alla polizia per una possibile “mancanza di indipendenza”. La polizia ha arrestato il giudice e lo ha trattenuto fino al giorno successivo, quando un altro giudice ha stabilito che il suo arresto era illegale. Il ministero dell’Interno ha sporto denuncia penale contro il giudice Huacani per presunta inadempienza e per aver emesso decisioni che violano la legge. L’accusa di terrorismo allo stesso Morales. Morales, che è in esilio in Argentina, è stato accusato di terrorismo e finanziamento del terrorismo, ciascuno punibile fino a 20 anni di carcere. Morales sta anche affrontando indagini penali in altri casi, sebbene le accuse non siano state ancora presentate. Le accuse di terrorismo contro Morales si basano su una telefonata del novembre 2019, fatta pochi giorni dopo che Morales ha lasciato l’incarico, in cui una persona sospettata di essere Morales ha esortato un associato a mobilitare i manifestanti per bloccare le strade nelle città e impedire l’ingresso di cibo. La persona dice che devono “combattere, combattere, combattere” e giura di “intraprendere una dura battaglia contro la dittatura”. Il blocco delle strade. I manifestanti in Bolivia usano spesso i termini “lotta” e “battaglia” per riferirsi alle loro manifestazioni. Il blocco delle strade è anche un mezzo di protesta comune in Bolivia e in altri paesi della regione. Sia i manifestanti “anti”, che quelli “pro” Morales hanno bloccato le strade durante i disordini di ottobre e novembre. Dopo le dimissioni di Morales il 10 novembre, i suoi sostenitori hanno intensificato le proteste, bloccando le strade principali e provocando carenze di carburante e cibo che hanno provocato picchi di prezzo in alcune aree. Pakistan. Sciopero della fame per Asif e per altri 24 cristiani in carcere Avvenire, 12 settembre 2020 Il partito nazionale cristiano di Karachi ha organizzato l’iniziativa per sostenere Asif Pervaiz, il cristiano condannato a morte per blasfemia e altri 24 fedeli in prigione con la stessa accusa. Una giornata di sciopero della fame è stata organizzata il 9 settembre scorso dal National Christian Party (Ncp) di Karachi per sostenere Asif Pervaiz, il cristiano che in Pakistan è stato condannato a morte per blasfemia e per altri 24 cristiani in prigione perché accusati dello stesso crimine. Il partito cristiano, come riporta l’agenzia Asia News, chiede la revisione della legge e anche che siano previste pene per chi, per ben altre motivazioni, lancia false accuse di blasfemia. Il presidente del Ncp, Shabbir Shafqat, ha fermamente condannato la sentenza alla pena capitale di Asif Pervaiz. Il 37enne è stato accusato di aver inviato al datore di lavoro degli Sms contenenti presunte offese all’islam e al profeta Maometto. Le accuse di blasfemia gli erano state mosse proprio dal suo capo, un musulmano, che aveva cercato invano di convincere Pervaiz a convertirsi. Shabbir Shafqat ha anche denunciato che la sentenza di morte è frutto di pressioni esercitate sulla giustizia. Il risultato sono verdetti mossi dalla discriminazione. Nel caso di Pervaiz, non è stato provato che i messaggi siano stati inviati da lui. Non c’è stata alcuna inchiesta forense per verificare il telefono da cui gli sms sono partiti. La polizia ha tratto le conclusioni esclusivamente in base alle dichiarazioni dell’accusa. “Ho molto timore per il futuro delle minoranze in Pakistan”, ha detto il presidente del Ncp. “Questi casi stanno spingendo molti membri delle minoranze a lasciare il Paese. Dobbiamo pregare per la nostra nazione, per le forze dell’ordine in Pakistan e per il sistema giudiziario”, ha aggiunto. Lo scorso 8 settembre è intervenuta anche la Commissione Onu per i diritti umani chiedendo al governo pachistano di prendere misure immediate e concrete che evitino la manipolazione della legge sulla blasfemia. È stato anche chiesto che sia assicurata la protezione a giornalisti e difensori dei diritti umani soggetti a minacce. Il giorno in cui Asif Pervaiz è stato condannato a morte, il portavoce Onu per i diritti umani, Rupert Colville, ha detto di seguire con crescente preoccupazione i numerosi casi di incitamento alla violenza, online e offline, contro reporter e attivisti dei diritti umani in Pakistan, in particolare contro donne e minoranze. “Nello specifico sono preoccupanti le accuse di blasfemia che espongono gli accusati a immediati rischi di violenza”, ha aggiunto il portavoce.