“Il carcere non serve e io l’ho capito solo ora” Venerdì di Repubblica, 11 settembre 2020 Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, in un libro spiega ai ragazzi perché le regole vanno rispettate. E in questa intervista spiega che cambiare idea non è un reato. Dottor Gherardo Colombo, un altro libro sulle regole, dedicato ai giovani. Ma lo si pubblica in un Paese in cui la sua stessa autobiografia di magistrato, riportata all’inizio del volumetto, dimostra che molte persone di potere riescono a sfuggire alle regole che seguono i cittadini comuni. La possiamo definire un ostinato ottimista? “Un altro libro sulle regole, per i ragazzi che vanno a scuola, e magari anche per qualche adulto, perché non è vero che i cittadini - come lei dice - comuni seguono le regole al contrario delle persone di potere. Ce ne sono che sì, ce ne sono che no. Come anche tra le persone di potere. Secondo me l’osservanza delle regole dipende molto dal comprenderle. Il libro, “Anche per giocare servono le regole”, cerca di spiegare perché è necessario osservare le regole che stanno nella Costituzione se vogliamo vivere armoniosamente, così come è necessario rispettare le regole di qualsiasi gioco se vogliamo concluderlo positivamente. Che ogni tanto qualcuno si avvantaggi barando dipende dalla disponibilità degli altri a farsi imbrogliare”. Lei è nato nel 1946, stesso anno della nascita della Repubblica Italiana e racconta come la Costituzione poggi i suoi articoli sui diritti dei cittadini e sulla necessità di sorpassare, attraverso le libertà, gli abusi di potere della dittatura. Oggi dove si annidano gli abusi di potere? “Lei pensi agli abusi di potere di chi ricopre cariche pubbliche. Quegli abusi avvengono perché esiste un modo di pensare molto diffuso secondo il quale del potere, anche di quello tra privati, si può abusare quando lo si ha. Succede da parte dei mariti verso le mogli, dei genitori verso i figli, dei monopolisti sul mercato, degli evasori fiscali (anche di piccoli importi) quando usano i servizi che le risorse pubbliche permettono. Abusano del potere i caporali, i mafiosi, e che più ne sa più ne metta. Gli abusi dipendono dal fraintendimento della parola libertà e dall’uso distorto che se ne fa. Crediamo che libertà sia sinonimo di onnipotenza ed abusiamo in conseguenza del potere che la libertà ci dà”. Un nostro antico proverbio dice: fatta la legge, trovato l’inganno. Non lo trova adatto a descrivere una componente dello spirito italico? “La legge, il più delle volte, non viene applicata se non è in sintonia con la cultura. Succede solo, e solo a volte, nelle dittature, che si rispetti una legge che va contro il comune modo di pensare. Ma tante regole, che non stanno nelle leggi, gli italiani le rispettano, qualche volta anche volentieri. Era così, e temo sia ancora così, purtroppo, per le regole del sistema della corruzione, per esempio”. Eppure, nel libro lei rivendica l’importanza dei “martiri”, nel senso di testimoni, di quelli che sanno opporsi alle leggi sbagliate. Ma chi si è opposto ai decreti Salvini non è che se la sia passata sempre bene... “Opporsi alle leggi ingiuste - nel nostro sistema sono ingiuste quelle che contraddicono la Costituzione, e cioè quelle che non rispettano le persone, qualunque esse siano - è il sistema per progredire. Spesso il progresso è passato attraverso trasgressioni di leggi ingiuste, e chi le ha compiute ne ha pagato il prezzo. Come Rosa Parks, per esempio. Perché però si modifichino le consuetudini ci vuole tempo, a volte anche molto. Uno dei più grandi nemici del cambiamento sta in una frase: “Si è sempre fatto così”. Noi cittadini comuni siamo fuorviati però da molte - diciamo così - “interferenze”. Per esempio, leggere le intercettazioni del cosiddetto caso Palamara, con le carriere dei magistrati decise in un hotel d’accordo con i politici, ti fa dire: ma di chi ci possiamo fidare? Lei stesso, ai tempi di Mani pulite, con Ilda Boccassini, aveva processato giudici che truccavano le sentenze in cambio di denaro e favori... “Non è che fare il magistrato sia garanzia di affidabilità. Succede addirittura che qualcuno, per diventarlo, sia stato scoperto a barare già durante il concorso...”. Uno slogan dei sovranisti riguarda “la certezza della pena”, che si traduce con “vanno messi e tenuti in galera quelli che commettono reati”. Lei, viceversa, spiega di essere cambiato e che il carcere porta al limite più “obbedienza” nel condannato, ma non risolve nulla. Nella vita si può cambiare, ma da magistrato lei non era ritenuto un “tenero” e certamente s’è opposto al rilascio di detenuti... “Cerchiamo di non confondere i piani: la pena è certa se, come da noi, sono certi, e fissati per legge, i parametri per applicarla. Come lei nota qualcuno pensa che - invece - certezza della pena voglia dire carcere, e carcere severo. Io oggi penso che il carcere non aiuti - se non marginalmente - ad aumentare la sicurezza dei cittadini, e che così come è applicato non rispetti la Costituzione. Se dice che ci ho messo un po’ per rendermene conto ha perfettamente ragione”. Questo, come ha detto di recente Mario Draghi, non sembra un “Paese per giovani”… “Credo anch’io che questo non sia un Paese per giovani, per una serie di motivi. Tra i quali che se ne “producono” pochi. Gli adulti tendono a educarli alla dipendenza, anche esonerandoli dalle responsabilità, dipendendo a loro volta consistentemente dalle posizioni di potere che hanno raggiunto”. Ai tempi di Tangentopoli, lei propose una sorta di patto: diteci come stanno le cose intorno a corruzione e concussione, le si accerta, si fa un condono, chi ha sbagliato lascia la vita pubblica. Non venne accettato. E il potere politico, non solo in Italia, non vuol farsi processare perché non mette al primo posto le regole e la verità, non trova? “Si sarebbe sgretolato un sistema di potere vecchio di secoli, che mi pare continui a piacere tanto a chi è oggi feroce nei confronti di quelle indagini, ma accuratamente evita di ricordarsi della proposta di allora, di uscire dal sistema della corruzione attraverso una strada alternativa all’applicazione del diritto penale, che fino a prova contraria vige anche per i white collar crimes: chi racconta come sono andate le cose, restituisce quel che ha preso, si allontana per qualche tempo dalla vita pubblica è esente dalla pena, non va in carcere”. Può suggerire un articolo di legge che aiuti la politica al rispetto delle regole? “C’è già la Costituzione, l’articolo 3 che dice che tutti siamo importanti quanto gli altri, indipendentemente, tra l’altro, dal genere, dall’etnia, dalla religione, dalle opinioni politiche, dal lavoro che facciamo. E c’è tutta la Costituzione, che non fa altro che ribadire, dall’inizio alla fine, il valore di ogni persona. Se davvero si pensasse che ognuno va rispettato, non ci sarebbe bisogno di altre regole per svolgere il proprio compito con “disciplina ed onore” (articolo 54), badando all’interesse di tutti”. “Johnny lo zingaro” e tutti gli altri (che non sono evasi) di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 settembre 2020 Sono ben 33.842 i detenuti ammessi nel 2019 a scontare segmenti delle proprie condanne in forme di pena alternative al carcere, ma se ne parla solo quando qualcuno di loro evade o commette reati. C’è “Johnny lo zingaro”, l’ergastolano Giuseppe Mastini, di cui parlano tutti perché è evaso da un permesso a Sassari. E poi ci sono però gli altri 33.842 (non) “Johnny lo zingaro”, ammessi nel 2019 a scontare segmenti delle proprie condanne in forme di pena alternative al carcere, e di cui si parla appunto solo quando qualcuno di loro evade o commette reati, e solo per invocare allora il ritorno a una esecuzione interamente carceraria della pena. In realtà già il fatto che le misure alternative revocate siano state nel 2019 il 5,7% del totale smentisce il luogo comune di un “liberi tutti”, ma ancor più interessanti sono le ragioni delle revoche. Di tutti gli affidamenti in prova ai servizi sociali nel 2019 è stato revocato il 4,3%, ma solo lo 0,3% perché la persona era fuggita e solo lo 0,6% perché era tornata a delinquere; idem per le detenzioni domiciliari (0,7% sia per evasione sia per altri reati, su un totale del 7,3%), e le semilibertà (0,9% per evasione e 0,7% per nuovi reati, a fronte di un totale dell’8,2%). Il grosso delle revoche è invece per l’”andamento negativo” della misura alternativa (rispettivamente 2,5%, 3,3% e 5%), segno che il sistema nel suo complesso sa distinguere i volonterosi dai furbi. Inquadrare statisticamente i singoli fallimenti (come l’evasione di “Johnny lo zingaro”) non significa certo barricarsi dietro i dati per ignorare che “quello” zero-virgola, quando si verifica, pesa come un macigno per chi ne sia aggredito nel fisico o nel patrimonio, e per la fiducia della collettività nella giustizia oltraggiata da beffarde evasioni e ricadute criminali. Ma anche i fans del “marcire in cella”, oltre a confrontarsi con la maggiore recidiva criminale di chi sconta la pena tutta in carcere (68%) rispetto a chi invece ne sconti una parte in qualche misura alternativa (19%), dovrebbero ammettere che periodi lunghissimi di sola carcerazione (come i già 40 anni del 60enne Mastini) dimostrano di non saper dissuadere da fughe o commissioni di nuovi reati: tanto che a fine 2017 c’erano 35.222 detenuti con già altre condanne alle spalle, e addirittura oltre 6.000 con più di 5 precedenti carcerazioni. E così magari, invece di attardarsi a “buttare la chiave”, potrebbero accorgersi della contraddizione di chi non si domanda quale sicurezza sociale possa mai dare un sistema che pretenda che il condannato sconti tutta e solo in carcere la sua pena, ma trova poi perfettamente normale a fine pena farlo tornare libero di colpo, da un giorno all’altro. Pericoloso come (se non più di) quando in carcere era entrato. “Cesare Battisti ha ragione, il carcere non può essere un inferno” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 11 settembre 2020 Parla il regista Marco Bellocchio. Di violenza e non violenza, di storie difficili, hanno sempre parlato i film di Marco Bellocchio. Il regista, Leone d’Oro alla carriera, è da sempre attento ai diritti degli ultimi. Una sensibilità che lo ha portato, dopo aver conosciuto Pannella, ad avvicinarsi alla galassia radicale tanto da candidarsi in parlamento con la Rosa nel Pugno. Non a caso, mentre i suoi colleghi sono presi tra gli ingranaggi della Mostra del Cinema di Venezia, Bellocchio è l’unico a dedicare un pensiero originale alla protesta nonviolenta di Cesare Battisti, al terzo giorno di uno sciopero della fame e delle cure a oltranza. “Una protesta legittima”, ha detto, soprattutto perché “contraddice la condotta violenta della sua militanza terroristica. Per questo ha una sua nobiltà, in quanto non violenta”. “Essere in carcere con l’ergastolo e chiedere un trattamento più umano con una protesta non violenta come lo sciopero della fame di Gandhi e Pannella è una manifestazione di resistenza umana”, dichiara al Riformista. “Una prova che nobilita chi, sbagliando, ha usato la violenza nel passato e oggi ammette la superiorità della non violenza. Un gesto che non ha bisogno dell’approvazione di nessuno, e tanto meno della mia, ma che non merita neanche la condanna che leggo”. È la prima volta che parla di Cesare Battisti. La colpisce la pena all’isolamento diurno, che sta scontando nel carcere di Oristano? Mi colpiscono, anche se non sono cattolico, le conversioni. Cesare Battisti era un violento che diventa un non violento. Non voglio entrare nel merito della sua vicenda, né della condanna e del modo in cui vedo che la pena viene inflitta. Altri possono commentarlo meglio di me. E faccio presente che non l’ho mai appoggiato, negli anni che furono. Neanche quando tanti intellettuali lo appoggiavano. Non ho mai detto che la giustizia su di lui ha sbagliato. Penso però che il carcere debba essere un luogo umano e non infernale, tutto qui. L’occhio del regista è attento alla sofferenza. Lei la ha analizzata in tutte le sue opere, da Pugni in tasca in avanti... La sofferenza appartiene a ciascuno di noi, e tutti siamo attenti a scansarla e a negarla. Ma poi la viviamo, e quasi speriamo di scansare la nostra addossandola a qualcun altro. Penso che in questi tempi di pandemia e di angoscia diffusa la paura dell’altro sia aumentata. Abbiamo paura dell’altro al punto da temere che la sua sofferenza possa trasmettersi a noi, come un contagio. A quali categorie dell’altro sta pensando? L’altro che soffre e ci fa paura: gli immigrati, su tutto. I poveri. Gli anziani. I malati. E i detenuti, appunto. Come se la pandemia riguardasse gli ultimi, che hanno difficoltà a curarsi, più che i ricchi. Cosa falsa oltre che sbagliata. Ed è falso e sbagliato cavalcare il populismo di chi pensa che trattare male i carcerati possa far parte della pena, come una integrazione di sofferenza suppletiva. Non bastano gli anni in carcere, o meglio ancora l’ergastolo. Bisogna che siano vissuti con tutte le difficoltà e le pene possibili, nella maniera più afflittiva possibile. Un supplemento afflittivo funzionale a fugare la rabbia e la paura? La gente guarda a problemi reali più vicini e più immediati, ma quando viene a conoscenza delle condizioni di vita in carcere, si gira dall’altra parte. Ma c’è qualcuno che cavalca la sofferenza, ne ricava un vantaggio elettorale, mostrando i muscoli. Si fa il contrario di quel che dovrebbe farsi, e cioè si disarticola la società piuttosto che compattarla, riannodarla. La vede spaccata? In che modo? La nostra è una società sempre più aggressiva. E c’è anche un altro tema, generazionale. Vecchi e giovani è un tema mai risolto. Si richiede ai giovani un tipo di responsabilità che esige una grande solidarietà. Si richiede sicurezza sanitaria, prudenza in tutti i comportamenti, sobrietà nelle relazioni, distanza fisica. Ma i giovani vogliono vivere. Peccato che in questa Italia trascinata gli intrecci famigliari sono ancora così importanti, tanto che ci sono continui contatti tra nonni e nipoti, tra chi porta a casa la pensione e chi aspetta l’argent de poche per uscire la sera. È sbagliato per i giovani e sempre più pericoloso per gli anziani. Nei suoi film ha indagato la violenza, la brutalità. È colpito dall’omicidio di Willy, a Colleferro? Penso che in troppi, non solo tra i giovani, vivano oggi troppo alla leggera. Si parla e si agisce senza pensare, senza freni. Ecco, si vive tutto senza freni. Come fosse tutta fiction? È come se la sovraesposizione alle immagini avesse reso tutti attori. Chiunque si sente un attore sulla scena, anche nella vita di tutti i giorni. Tanta televisione, tanti video, tanti social network portano le persone a comportarsi in modo irrazionale. Anche nelle semplici espressioni: si passa subito all’offesa, all’insulto, alle minacce e all’aggressione verbale, che poi può diventare fisica. Ci si esprime in pubblico senza più ritegno, senza vergogna. Colpa della rete? È un effetto, come dice Sartori, della videocrazia? La rete ci rende disponibile un oceano di informazioni, in cui tutti dicono tutto - spesso scambiando il falso per il vero - e sono permesse le cose più orrende. Sui social network le parole escono in libertà, le conversazioni trascendono immediatamente. E forse anche la televisione ha le sue colpe. Quali? Aver dato appunto a tutti la presunzione, la falsa illusione di potersi trasformare in attori. La cosa riguarda anche il mondo dell’informazione: appena succede qualcosa a un cittadino, che scompare o muore, ecco che la televisione ne mostra tutte le foto personali, prese appunto dai profili social. Abbiamo tutti una seconda immagine, quelle della vita privata. La televisione ha abbattuto un filtro, mostra la vita privata di chiunque senza filtri, tanto che chiunque si sente il potenziale protagonista di un momento pubblico. Come diceva Andy Warhol. A ognuno un quarto d’ora di celebrità… E questo rischia di trasformare la percezione della realtà. Perché il bisogno di arrivare alla notorietà televisiva rischia di trasformare ad esempio qualche giovane sfaccendato in un antieroe. Anche la politica è diventata un’arte performativa? Sì perché senza la televisione non esiste il consenso. Chi ha il potere va in tv, chi va in tv ha il potere. E chi non va in tv per qualche settimana scompare dalle agende della politica. Poi ci sono anche figure che hanno un rapporto diretto con il territorio, il collegio e hanno meno bisogno di essere presenti mediaticamente. Ma è come se il passaggio televisivo certificasse il potere. Lei non va mai in tv. Come mai? Appunto perché riconosco di non essere adatto a parlare di tutto. Se esce un mio film, vado a parlarne. Poi niente più. C’è invece una compagnia di giro in Italia, fatta da cinquanta o sessanta persone che sono sempre costantemente in televisione. Fanno spettacolo, come Sgarbi. Ha quel ruolo. È come nel casting di un film, ciascuno viene selezionato per interpretare un personaggio che piace a una fetta di pubblico. E così ecco Mughini, Cacciari, Salvini e perfino Renzi e Calenda. Trovano il loro palcoscenico. Alzano i toni, chiamano l’applauso. Ma quando nei talk show va via l’uno e parla l’avversario, tutti applaudono lo stesso. Perché celebrano il momento performativo, non le idee nello spessore del loro contenuto. A inventare la televisione di massa come la conosciamo oggi è stato Silvio Berlusconi, che oggi lotta per guarire dal virus. Nel bene e nel male ha sdoganato l’immagine, come abbiamo detto, e l’ha resa pubblica. Ha portato il video nelle case di ciascuno. Giudicherà la storia. Oggi voglio solo augurargli ogni bene, una totale guarigione e lunga vita. Anche perché abbiamo quasi la stessa età. “Ora i pm usino i trojan con cautela o salta anche il diritto di difesa” di Errico Novi Il Dubbio, 11 settembre 2020 Intercettazioni. Parla Santalucia, il magistrato che ha scritto il primo testo della riforma. Il giudice di Cassazione ed ex capo dell’ufficio Legislativo di via Arenula: il decreto appena entrato in vigore ha allargato troppo l’uso dei virus spia. È il padre della riforma. Se non il padre putativo, lo è sotto il profilo tecnico. Certo davvero pochi possono esprimersi con più cognizione di causa sul doppio decreto intercettazioni meglio di lui, Giuseppe Santalucia. Magistrato, oggi in servizio presso la prima sezione penale della Cassazione, è stato il capo dell’ufficio Legislativo di via Arenula all’epoca in cui ministro della Giustizia era Andrea Orlando. È Santalucia che ha scritto materialmente il primo decreto, firmato a fine 2017 dall’ex guardasigilli ma entrato in vigore solo, col Dl Bonafede che l’ha “integrato”, lo scorso 1° settembre. “Devo dire che nel complesso l’ultimo decreto non ha stravolto l’ambizione originaria: evitare cioè che negli atti venisse riversata l’intera, enorme mole delle conversazioni intercettate. Flusso in cui finiva tutto, inclusi i brani relativi a questioni personali”. Ma la riforma, consigliere Santalucia, nella versione definitiva di fatto in vigore da pochissimi giorni è anche altro: trojan a strascico, innanzitutto... Allora, due concetti chiave. Primo: non è possibile regolare le norme sul procedimento penale a colpi di aggettivi e sfumature semantiche. Voglio cioè dire che l’applicazione della legge, anche nelle indagini condotte col trojan, anche quando il trojan è adottato per le ipotesi di corruzione, è essenzialmente affidata alla professionalità di giudici e pm. Le intercettazioni devono essere indispensabili alla prosecuzione delle indagini, e la richiesta di autorizzarle deve contenere le ragioni specifiche di tale assoluta necessità. Vale per le captazioni chieste nell’inchiesta di partenza, ma ora che il ddl di conversione del febbraio scorso ne ha consentito l’uso anche per indagini non connesse alla prima, l’indispensabilità va preservata. Come? Dipende dalla professionalità dei pm e dei giudici, dal rigore della loro azione. Dubito si possa inserire nelle norme un aggettivo che miracolosamente si sostituisca al requisito della professionalità. Il secondo concetto? Probabilmente le disposizioni introdotte con il nuovo decreto sono un po’ espansive, riguardo i virus spia. A me sembra così, considerato il testo del decreto legislativo da noi predisposto a fine 2017. Però vede, non esiste la formula giusta per scolpire il perimetro. O una determinata attività viene vietata o si deve confidare nella correttezza con cui viene condotta. I penalisti dicono: i presupposti andavano resi più stringenti, sono stati invece allargati... Altro aspetto che chiama in causa la professionalità è la durata delle intercettazioni. La legge prevede un limite massimo iniziale, di 30 o 40 giorni, in base alla gravità delle ipotesi di reato. Dice poi che il pm può chiedere proroghe. Ebbene, è mai possibile che sia indispensabile chiedere ed eseguire, proroga dopo proroga, intercettazioni per due anni? Direi di no. Quindi se il magistrato obbedisce a un principio di correttezza, lo strumento delle intercettazioni resta nell’equilibrio. Altrimenti saltano anche altri aspetti. Ecco: come fa la difesa ad ascoltare due anni di intercettazioni, considerato che ora quelle ritenute irrilevanti non vengono trascritte? È il punto di snodo, in cui si incrociano l’utilizzo dei trojan e i limiti di trascrivibilità, introdotti dalla riforma del 2017, e poi mantenuti, a tutela della privacy. Sì consigliere, è l’epicentro di tutta la storia... L’avvocatura non si è mai lamentata del fatto che, in base alla legge dell’88, il tempo concessole per valutare le intercettazioni era stabilito dal pm. Ora è stato introdotto un termine certo di 30 giorni e prevista la possibilità di una proroga. La prassi ci dirà se il termine è insufficiente, e se sarà necessario rimodularlo. Certo, se il pm deposita un materiale intercettato nel corso di due anni, è ovvio che se l’avvocato vuole esaminare nella sala d’ascolto della Procura i brani ritenuti dall’accusa non rilevanti, è impossibilitato. Riecco ancora la centralità del rigore degli inquirenti e dei giudici che ne autorizzano le intercettazioni. Chiaro. Tutto discende d’altronde dalla novità della trascrizione limitata ai brani essenziali: la riforma in questo è fedele al primo schema da lei disegnato? Direi di sì. Viene mantenuta l’impostazione, resta fisso l’obiettivo. Vanno trascritte solo le comunicazioni intercettate necessarie ai fini probatori. E, nelle richieste del pm e nelle ordinanze cautelari del gip, vanno riportati solo i brani essenziali, come previsto da voi tre anni fa. Esatto: è una norma rafforzativa. Non puoi citare tutto, ma solo l’essenziale, perché poi sono proprio le ordinanze, di cui le ultime norme hanno definitivamente chiarito la pubblicabilità, il veicolo attraverso il quale passano ai media i contenuti lesivi della riservatezza altrui, terzi non indagati inclusi. E non è più la pg a decidere cosa trascrivere, giusto? Tutt’altro. Sul piano della selezione del materiale da riportare nei cosiddetti brogliacci, cioè i riassunti, il testo del 2017 era più puntiglioso, per così dire, e chiaro nel rimettere la scelta al pm. Stabiliva che la polizia giudiziaria trascriveva i brani rilevanti. Di fronte al materiale ritenuto a prima vista non rilevante, la pg non decideva certo autonomamente, come invece è stato detto, di escludere e destinare all’archivio segreto quelle intercettazioni. Doveva annotare in un verbale, trasmesso al pm, l’esistenza di quel brano intercettato, e per titoli, il suo contenuto. Di fatto diceva al magistrato: verifica e decidi tu se va trascritto. La norma è stata leggermente attenuata. Stabilisce che non c’è questo meccanismo della pg che chiede al pm “valuta se dobbiamo trascrivere”. Il decreto convertito a febbraio scorso stabilisce un potere di vigilanza del magistrato inquirente sulla effettiva essenzialità delle trascrizioni e sull’assenza di materiale lesivo della privacy. Di fatto, si prevede che ogni pm valuti come impartire direttive alla polizia giudiziaria. Ultimo aspetto, non per importanza: le intercettazioni dell’avvocato. Resta possibile per il pm sentire cosa si dice con l’assistito. Il Cnf, in particolare col presidente Mascherin, si è battuto e tuttora si batte affinché si interrompa la registrazione, se c’è il difensore.... Non sono uno specialista di procedure telematiche, ma temo non esista ormai la modalità tecnica per interrompere deliberatamente l’acquisizione delle comunicazioni. Non c’è più l’operatore con le cuffie ma server che in automatico riversano di continuo telefonate e comunicazioni in altro modo captate. Attivare un interruttore è impossibile. D’altra parte credo che il difensore, nei casi sicuramente rari in cui è colluso, non possa nascondersi dietro una simile immunità. Davvero c’è un equilibrato bilanciamento degli interessi costituzionalmente tutelati, nel sacrificare la segretezza della strategia difensiva per i rarissimi casi, si contano sulle dita di una mano, in cui l’intercettazione svela complicità fra difensore e assistito? Io credo non si possa prevedere un’immunità assoluta, ripeto. Credo anche che la quasi totalità dei difensori, se si deve concordare strategie difensive delicate, non lo faccia al telefono. A volte è il cliente a mettere in difficoltà... È plausibile, ma l’ipotesi di interrompere manualmente la registrazione non è più tecnicamente realizzabile, a mio giudizio. La riforma, quella da noi preparata nel 2017 e poi integrata dal Dl del 2020, aggiunge, all’inutilizzabilità delle intercettazioni dell’avvocato, la non trascrivibilità del loro contenuto e la successiva distruzione. Credo che oltre non si possa andare. Il giustizialismo è il facile sfogo dei leoni da tastiera di Nicola Quatrano Corriere della Sera, 11 settembre 2020 Non mi è mai troppo piaciuta l’espressione “garantista”, perché mi sembra voglia significare troppo, o troppo poco. Il giudice deve essere “garantista” a prescindere, è il suo mestiere. Se non lo è, non è un giudice “non garantista”, semplicemente non è un giudice. Al contrario, il pubblico ministero e l’avvocato non devono essere “garantisti”: entrambi sostengono una tesi, accusatoria o difensiva, e l’unico limite è il rispetto della legge e della deontologia; sarà poi il giudice “garantista” a decidere. I cittadini normali possono essere “garantisti” o meno, sono fatti loro. Qui il limite è soprattutto di ordine logico, perché l’esperienza di centinaia di processi finiti con il riconoscimento dell’innocenza di persone a suo tempo arrestate fa seriamente dubitare della ragionevolezza di chi oggi si accontenta di un avviso di garanzia o di una misura cautelare per bollare qualcuno come colpevole. La cosa si complica ulteriormente quando si confonde tra giudizio morale e vicenda giudiziaria che dovrebbero essere tenuti ben distinti. Si può essere infatti “innocenti” e moralmente spregevoli, perché le regole morali sono molto più esigenti di quelle giuridiche. E può accadere il contrario, come dimostrano i tanti “pregiudicati” di epoca fascista (da Pertini a Terracini) che hanno fatto onorevolmente parte dell’Assemblea Costituente. Anche il recente avviso di garanzia al governatore Vincenzo De Luca dovrebbe ragionevolmente essere accompagnato da un giudizio di attesa. Eppure l’opinione pubblica si è divisa tra colpevolisti per professione e innocentisti per vocazione. In questo caso, peraltro, non c’è nemmeno “giustizia a orologeria”, perché “a orologeria” è stata piuttosto la notizia giornalistica, in campagna elettorale, di un’indagine nata anni fa. No, la questione non si esaurisce mai nella contraddizione tra “garantismo” e “giustizialismo”, c’è sempre qualcosa di più profondo che sfugge a simili semplificazioni. E si tratta, credo, dell’uso che del “garantismo” e del “giustizialismo” viene fatto, che è un uso eminentemente politico. Negli anni 1990, la sinistra riuscì ad approdare finalmente al governo, cavalcando l’ondata giustizialista di Tangentopoli. Un risultato che non aveva mai prima ottenuto con metodi schiettamente politici. E oggi le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si giocheranno probabilmente sulle contrapposte sponde del “Law & Order” (Legge e Ordine) agitato dal presidente repubblicano uscente, Donald Trump, e delle proteste del movimento Black Lives Matter contro il razzismo della polizia, cui si sono allineati i democratici. In ballo, ancora una volta, non ci sono i grandi valori, ma qualcosa di molto più concreto: la presidenza degli Stati Uniti. Il problema è che l’uso politico del giustizialismo tenderà inevitabilmente ad accentuarsi. L’Occidente (e non solo) deve confrontarsi con una situazione di grave fragilità sociale e una crisi economica di impreviste dimensioni, la gente vive una situazione di grave incertezza, tra Covid e disoccupazione, impaurita dalle fibrillazioni internazionali e i rischi di guerra sempre incombenti. In questo quadro, la canea giustizialista è una formidabile occasione di sfogo ed è facilissima: prende di mira persone in carne e ossa, messe a disposizione dalla cronaca giudiziaria, esonerando dalla fatica di analizzare le cause e di individuare i veri responsabili del disastro che stiamo vivendo. Nei social network possiamo urlare tutta la nostra rabbia contro il catalizzatore di turno del rancore sociale, sia esso il presidente della Regione, raggiunto da un avviso di garanzia, o i ragazzi del “branco”, protagonisti dell’ultimo fatto di cronaca di Colleferro. Possiamo chiederne l’impiccagione o lo squartamento immediato e senza processo, vendicandoci dei successi elettorali del primo o anche solo del fastidio che ci provocano le immagini da stupidi bulli che i secondi hanno postato sui loro account di Facebook. Tutto questo serve in realtà al Potere, dà sfogo a frustrazioni che potrebbero altrimenti pericolosamente dirigersi contro obiettivi più concretamente politici. Garantisce in qualche modo il mantenimento della stabilità. Ebbene non è una novità né un’invenzione recente, è solo la versione (nemmeno tanto 2.0) del panem et circenses di cui scriveva Giovenale e che trova oggi una variante post-moderna nell’intreccio tra sussidi di Stato (fatti a debito) e l’incanalamento del rancore sociale verso il capro espiatorio di turno. In quel Colosseo moderno che sono i social network. La lapidazione dei “mostri di Colleferro”? Moderni “circenses” per sedare il popolo di Nicola Quatrano* Il Dubbio, 11 settembre 2020 La definizione è bell’e che pronta, ed è “panem et circenses” (lat. “pane e giochi del circo”) e ce la fornisce nientemeno che l’avvocato (ma soprattutto poeta) Decimo Giunio Giovenale, vissuto intorno al 100 dc. L’Enciclopedia Treccani ci informa poi che l’espressione (contenuta nella Satira X, 81) “sintetizza le aspirazioni della plebe romana nell’età imperiale; viene ripetuta talvolta, ironicamente o anche in senso polemico, con riferimento ad atteggiamenti analoghi, reali o presunti, del popolo o a metodi politici bassamente demagogici”. Cos’è il “panem” di oggi? Ma naturalmente i sussidi, quelli distribuiti a pioggia e fatti a debito. E i “circenses”? Lo spettacolo, elargito dal sistema mediatico, del “mostro” di turno che i bravi cittadini possono (eufemisticamente, per fortuna) fare a pezzi in quel Colosseo moderno che sono i social network. E i media vi giocano un grande ruolo. Coi cronisti spediti in borgate frequentate solo per l’occasione, a caccia di commenti che possano aizzare ancor di più la furia popolare, messi a spulciare, con poliziesca diligenza, gli account del mostro di turno, alla ricerca di foto che lo ritraggano in atteggiamenti da bullo… quando non si ha la fortuna ritrovarselo ripreso con una pistola (vera o finta) tra le mani. Slurp… E va bene che nessuno più compra i giornali, e che bisogna pur inventarsi qualcosa per vendere, ma questa non è una buona ragione per mettersi a fare concorrenza a Facebook, una piattaforma che si nutre di rancore sociale e che venne creata, non a caso, da Zuckerberg, con l’idea di vendicarsi di una ragazza che lo aveva respinto e metterla alla berlina (così almeno ci racconta l’ex amico Ben Mezrich). Quanto accaduto nei giorni scorsi a Colleferro non si sottrae al copione sperimentato già centinaia di volte. Il brutale assassinio del povero Willy Monteiro Duarte ha scatenato un’ondata di odio contro i presunti assassini, che mi pare abbia poco a che vedere con sentimenti di pietà per la vittima e solidarietà con la sua famiglia (chiusa peraltro in un dignitosissimo silenzio, pur essendo l’unica ad avere “diritto” a sentimenti di vendetta). I feroci commenti che appaiono sui media sociali, rilanciati da quelli più autorevoli, le animose richieste di pene esemplari prima ancora che i fatti vengano interamente chiariti, di esecuzioni senza processo, le imprecazioni contro i presunti assassini, manifestate con atteggiamenti bulleschi non diversi da quelli esibiti dai suddetti “mostri” nelle foto recuperate dai loro account, sembrano piuttosto evocare una feroce voglia di sangue, un desiderio di spettacoli cruenti degni del Circo Massimo (i “circenses”, appunto). E non è questione che si risolva in termini di “garantismo” e “giustizialismo”. C’è qualcosa di più e di più profondo. E si tratta, io credo, dell’uso che del “giustizialismo” viene fatto, che è un uso eminentemente politico. “Panem et circenses” sono strumenti di stabilità sociale, servono al Potere, danno sfogo a frustrazioni che potrebbero altrimenti pericolosamente dirigersi contro obiettivi più concretamente politici. E l’uso politico del giustizialismo tende inevitabilmente ad accentuarsi, quanto più ci si deve confrontare con una situazione di grave fragilità sociale e con una crisi economica senza facili vie di uscita, con un sentimento diffuso di incertezza, con la paura per le gravi fibrillazioni internazionali e i rischi di guerra. In questo quadro, la canea giustizialista costituisce un formidabile diversivo, ed è facilissima da governare: prende di mira persone in carne ed ossa, messe a disposizione dalla cronaca giudiziaria, esonerando i cittadini dalla fatica di analizzare le cause e di individuare i veri responsabili del disastro che stiamo vivendo. Nei social network possiamo urlare tutta la nostra rabbia contro i catalizzatori di turno del rancore sociale, possiamo chiederne l’impiccagione o lo squartamento immediato, vendicandoci - tramite loro - di tutti i guai che ci assillano, illudendoci così di ottenere giustizia. Nel 1974, Heinrich Böll scriveva “L’onore perduto di Katharina Blum”, un romanzo che prendeva di mira il giornale Bild. Nel racconto la donna, che diversamente forse dai due “mostri” di oggi era innocente, viene perseguitata da un giornalista a caccia di scoop, cinicamente pronto a piegare ogni verità alle esigenze di tiratura. Boll voleva stigmatizzare la stampa cosiddetta “scandalistica”. Cosa farebbe oggi, che anche i giornali più autorevoli usano le stesse pratiche? *Avvocato penalista ed ex magistrato “Indignarsi è un diritto, ma l’opinione pubblica non può essere il giudice” di Angela Stella Il Riformista, 11 settembre 2020 Intervista a Gian Domenico Caiazza. “Il clima è quello tipico di un Paese che ha smarrito la cultura civile e liberale. L’avvocato, in un contesto imbarbarito dai processi che si svolgono parallelamente sui media, diventa un ostacolo alla giustizia sommaria, quindi da minacciare ed eliminare”: così Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, commenta le minacce di morte ricevute da Massimiliano e Mario Pica, legali di tre indagati per la morte di Willy Monteiro Duarte. Avvocato Caiazza com’è possibile che un avvocato venga minacciato nell’esercizio della sua funzione? In questo Paese si confonde il diritto sacrosanto all’indignazione e al volere giustizia per fatti così orrendi ed insensati con la giustizia sommaria, che porta ad emettere sentenze sulle responsabilità individuali prima che lo facciano i giudici. Lo si fa poi senza conoscere i fatti o conoscendoli parzialmente, e considerando pregiudizialmente le posizioni difensive come irrilevanti. Il punto di vista dell’indagato diviene sempre non credibile per definizione: non mi riferisco al caso di Colleferro in particolare, si tratta di un atteggiamento costante. In più qui c’è la pretesa di dare giudizi di responsabilità sulla base della tipologia di persone coinvolte. Nel caso di cui stiamo discutendo gli indagati hanno determinate caratteristiche sociali, culturali, comportamentali, fisiche: si pensa che ciò abbia una ricaduta automatica nel giudizio di responsabilità. Bisogna invece lasciare fare il mestiere di giudice a chi lo deve fare ed evitare di pronunciarci prima che lo facciano loro. In questo clima è coerente che il difensore venga minacciato: osa rappresentare una realtà diversa da quella prevalente, e per questo viene rappresentato come complice del proprio assistito. Le minacce agli avvocati purtroppo sono aumentate negli ultimi anni... In Italia è cresciuta enormemente la deriva populista e giustizialista, c’è insofferenza verso le regole del Diritto. È sempre più diffusa l’idea che i temi della giustizia penale debbano essere affrontanti dal punto di vista della pancia della pubblica opinione. Se questa è la regola prevalente, allora cresce anche il pericolo per gli avvocati di fare il loro mestiere. Nel momento in cui scriviamo ancora non ho letto messaggi di solidarietà del Ministro Bonafede verso gli avvocati minacciati. E se non erro non ci sono state neanche in passato per episodi simili. Bonafede esprime un punto di vista politico e culturale, quello che lo ha portato a diventare Ministro, che appartiene a quelle dinamiche populiste di cui stiamo parlando. Lei su Facebook ha scritto: “Sarà bene che tutti voi leoni da tastiera, ma ancor di più voi cronisti, editorialisti, opinionisti, scatenati in questi giorni - con qualche eroica eccezione - nel pronunciare sentenze definitive di condanna, vi ficchiate in testa una volta per tutte che in dubio pro reo è la regola fondativa della Giustizia penale”... La qualità della comunicazione giornalistica ancora una volta insegue la pancia, cerca consensi facili e avalla questo desiderio di giustizia sommaria. La responsabilità è quindi principalmente dei mezzi di informazione che dovrebbero saper discernere, ma anche della politica che cavalca qualunque occasione nella quale si possa incontrare il consenso. Un’altra polemica di cui ci siamo occupati in questi giorni è quella riguardante la magistratura di sorveglianza, dopo l’evasione di Johnny lo Zingaro... I magistrati di sorveglianza hanno forse il compito più delicato dell’intero sistema giudiziario, che è quello di lavorare sulla fase di recupero sociale del detenuto. Di provvedimenti come quelli per Giuseppe Mastini ce ne sono migliaia al giorno: però si dà la notizia dell’unico caso in cui qualcuno non rientra dal permesso, celando il fatto che per altri migliaia di casi invece procede tutto regolarmente. Si fornisce così un messaggio squilibrato e falso. È fisiologico che tra le persone che si avvicinano a scontare la pena in forma diversa da quella carceraria ci sia qualcuno che venga meno al suo impegno. Mettere in croce i magistrati di sorveglianza perché una irrisoria percentuale di detenuti sfugge al sistema è sintomatico di quel clima di cui discutevamo. Il Garante Palma ricordava nell’ultima conferenza stampa che i suicidi in carcere sono in aumento. Se la stessa attenzione riservata ai giudici di sorveglianza venisse indirizzata anche verso questa problematica sarebbe importante... Certo, appunto. Vede la grande responsabilità dell’informazione? Tutto dipende da quale notizia scegli di dare: se decidi di raccontare solo di quell’uno su mille che non rientra in carcere sottrai alla riflessione collettiva il problema dei suicidi non solo dei detenuti ma anche degli agenti penitenziari. Questa polemica segue a quella dei “boss e mezzi boss” ancora in detenzione domiciliare. Abbiamo chiesto al Ministero della Giustizia di conoscere quando sarebbe giunto il loro fine pena, per quali reati sono detenuti e quando e perché si è aperto il fascicolo con la richiesta di detenzione domiciliare. Ci hanno detto che è impossibile perché è un lavoro immane... Questo è il problema: non si parla dei fatti ma si procede per allusioni. È bastato che il Dap facesse una indagine approfondita per venire a sapere che il numero degli scarcerati si era dimezzato. Sarebbe anche interesse del Ministro in questo momento avere un quadro preciso e rispondere a queste vostre richieste. Si capirebbe che il concetto di “boss e mezzo boss” è qualcosa di ridicolo. Sappiamo benissimo che in alta sicurezza ci sono anche semplici corrieri alle associazioni criminali: persone che devono sicuramente scontare la loro pena ma che sono a tutto concedere di medio calibro criminale. Qualche anno fa chiedemmo anche di sapere quante sono le misure cautelari richieste dal pubblico ministero rispetto a quelle effettivamente disposte dal gip. Anche questo dato è impossibile da conoscere... Non glielo diranno mai, forse il Ministero neanche conosce questi dati perché non riesce a raccoglierli. O forse non vogliono darceli perché ci permetterebbe di avere un quadro più completo e attendibile dei meccanismi di funzionamento dell’istituto delle misure cautelari... Forse non vogliono raccogliere questi dati o forse non gli vengono trasmessi dalla Procure o dagli uffici del gip. Qui c’è un problema generale di accesso ai dati dell’amministrazione giudiziaria. Si tratta di uno dei temi a cui vogliamo dedicare la nostra iniziativa nei prossimi mesi. Lo dissi già nel mio programma elettorale: crediamo che i dati statistici non siano una proprietà riservata del Ministro di Giustizia ma siano dati che devono essere facilmente e chiaramente accessibili alla pubblica opinione, ai giornalisti, alle associazioni, ai partiti politici. Non riusciamo ad avere informazioni neanche con le interrogazioni parlamentari. Si tratta di un fatto assurdo che non ha nulla a che fare con la riservatezza: non chiediamo nomi e cognomi, o posizioni individuali ma dati statistici. Sapere quante sono le misure cautelari richieste e quelle concesse deve essere un dato alla portata di mano di tutti. Questa deve essere una grande battaglia di civiltà. Del caso Battisti cosa pensa? La Cassazione ha confermato per lui l’isolamento... Non conosco i dettagli del caso ma dico che Battisti deve godere dei diritti di tutti i detenuti, come umanità della pena in quanto essa non è una vendetta. Ieri l’Ucpi ha organizzato una conferenza stampa “Per Ebru, per Aytac, per la difesa dei diritti umani in Turchia”. Forse tutto questo sarebbe stato evitabile se la Turchia fosse nell’Unione Europea... Questa è un’antica battaglia radicale, possiamo dire visionaria, che forse avrebbe modificato questa storia. Purtroppo oggi abbiamo una Turchia dove i diritti fondamentali sono fortemente messi in discussione e dove gli avvocati sono veramente in pericolo. Ricordo che la collega turca che è morta in carcere - perché non si abbia l’idea che siamo sideralmente lontani dalla Turchia - era stata arrestata per concorso esterno, per favoreggiamento di una associazione terroristica della quale non faceva parte. Né più né meno che il concorso esterno nel reato dei propri assistiti con cui abbiamo iniziato questa intervista. Questo è un fatto allarmante verso il quale le nostre cronache giudiziarie sono del tutto estranee. Cassazione sul caso Battisti: la tortura è lecita di Piero Sansonetti Il Riformista, 11 settembre 2020 Nessun motivo di sicurezza però viene lasciato in isolamento. La legge, pare, dice così. Perché? È perfido e merita la vendetta. La Cassazione ha deciso che Cesare Battisti deve restare in isolamento. Perché? Perché le leggi italiane, a quanto pare, lo permettono. Cioè permettono che una persona sia messa in condizioni di detenzione contraria ai principi di umanità. Non mi sembra esagerato usare la parola “tortura”: se qualcuno decidesse che devo stare nella cella di una prigione, isolato, senza poter vedere nessuno, senza poter mai parlare con gli altri detenuti, io penserei che mi stanno torturando. Dice l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. È chiaro che tenere una persona, condannata all’ergastolo, e per di più in cattive condizioni di salute, per mesi e mesi, forse per anni, in isolamento, vuol dire imporgli una pena contraria al senso di umanità e che non tende a educarlo. E quindi che tenere in isolamento una persona per mesi o anni è in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Però la Cassazione ha stabilito che non è in contrasto con le leggi speciali degli anni 80 e 90, varate per combattere il terrorismo e la mafia in un periodo di particolare estensione e violenza di questi due fenomeni. Il fenomeno terroristico (interno) in Italia è scomparso nel secolo scorso. I reati per i quali è stato condannato Cesare Battisti risalgono a più di 40 anni fa. Non esiste neanche l’ombra della necessità dell’isolamento per motivi di sicurezza. L’isolamento è stabilito solo come pena aggiuntiva, di evidente ferocia. La decisione della Alta Corte pone ora l’Italia nell’elenco dei paesi dove la tortura è ammessa e non è riconosciuta la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948. La Cassazione ha detto di sì: la tortura in Italia esiste ed è legittima. Può essere applicata anche per pura vendetta, non solo per esigenze investigative (cosa che avviene assai spesso) o di sicurezza. E dunque Cesare Battisti deve restare in regime di isolamento nel carcere duro di Oristano, non rompere le scatole, accettare democraticamente la sua pena, rischiare la vita perchè costretto a un vitto non compatibile con le sue condizioni di salute, e per di più pagare 3000 euro di ammenda per avere osato chiedere l’applicazione della Costituzione. La Cassazione ha stabilito che né la Cassazione né la dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo hanno la prevalenza sulle leggi speciali italiane. Varate per altro, come leggi di emergenza, al tempo della lotta armata, prima che la lotta armata si concludesse, nel secolo scorso. È così, niente da fare. Battisti sta scontando una pena all’ergastolo (sebbene in più occasioni la stessa Corte Costituzionale abbia messo in discussione la pena perenne) per alcuni reati gravissimi (omicidio) per i quali è stato condannato in contumacia (e con processi svolti in modo francamente assai discutibile e conclusi sulla base delle accuse dei pentiti) commessi circa 40 anni fa, quando alcuni dei giudici che oggi decidono su di lui non erano ancora nati o andavano alle elementari. Ha vissuto all’estero, latitante, per 37 anni, poi è stato arrestato dalla polizia boliviana e consegnato all’Italia. Per molti anni, prima le autorità francesi e poi quelle brasiliane, avevano negato l’estradizione perché avevano giudicato i processi italiani irregolari, e quindi irregolari le condanne. Battisti si è sempre dichiarato innocente, fino a quando è stato catturato. Poi, qualche mese dopo l’arresto - molto esibito dai ministri dei 5 Stelle e della lega che all’epoca governavano beatamente insieme, ispirati agli stessi principi giustizialisti che li spinsero a dichiarare ai giornalisti: “marcisca in carcere”. Battisti rese invece un’ampia confessione davanti ai magistrati. La confessione ricostruì tutta la sua vicenda esattamente negli stessi termini nei quali l’avevano ricostruita le condanne. Neanche un dettaglio diverso. In questo modo, a norma di legge, Battisti ottenne la possibilità di essere ammesso ai benefici carcerari e agli eventuali sconti di pena che non sono ammessi per i condannati non pentiti e non rei confessi. La confessione, però, finora non è servita a molto. Battisti ha chiesto che finisca l’isolamento e quindi di poter scontare la pena in un regime carcerario normale, ma gli hanno detto di no. Ha chiesto una alimentazione compatibile con le sue condizioni di salute, ma gli hanno detto di no. L’altro giorno ha iniziato uno sciopero della fame e delle medicine, per rivendicare i suoi diritti - cioè i diritti che spettano agli esseri umani e che spesso vengono riconosciuti anche ai viventi non umani - senza che nessuna autorità ne prendesse atto e ottenendo - come ha osservato Iuri Maria Prado proprio qui sul nostro giornale - contumelie e insulti da una buona parte del mondo politico, soprattutto da parte della destra garantista. (Garantista? diciamo così: garantista…). Ora la Corte di Cassazione ha stabilito che le sue richieste sono contro la legge. E che Battisti può restare lì dov’è. Rivalutando in questo modo, e sdoganando, e dando valore giuridico alle dichiarazioni di Matteo Salvini delle quali abbiamo scritto poche righe fa: “Marcisca in carcere”. Nessuno può sperare che qualcuno si muova per difendere i diritti di questo detenuto, che da sempre è stato indicato, qui in Italia, come il male assoluto. Recentemente è stato scaricato, in modo un po’ goffo, anche dall’ex presidente Brasiliano Lula. Persino gli intellettuali italiani e francesi, che qualche anno fa avevano speso qualche parola a suo favore, e contro i processi sommari che si svolgevano in Italia degli anni ottanta, sono tutti spariti. Ora però la Cassazione pone un problema che va oltre la stessa sorte di Battisti (il cui destino e la cui vita, comunque, non possono essere abbandonati al disinteresse generale): la legittimità di regimi carcerari che possono essere paragonati alla tortura. A me è capitato varie volte, per esempio, di discutere con alcuni magistrati “rigorosi” del 41 bis. Mi è successo di farlo anche con un monumento della magistratura come Giuseppe Pignatone, qualche anno fa. Pignatone mi ha detto: “Il 41 bis è solo un regime di sicurezza che serve a impedire che i capi della mafia (o del terrorismo) continuino a dirigere le loro organizzazioni”. Dunque, motivi di sicurezza. Di protezione della società. Pignatone si è sempre rifiutato di chiamare il 41 bis “carcere duro” (cosa che invece fa, con una certa disinvoltura, il meno sofisticato Gratteri). Ecco, c’è qualcuno al mondo che può immaginate che ci sia il rischio che Battisti, dal carcere, diriga la lotta armata? Siccome non c’è, la teoria Pignatone ora svanisce. La Cassazione ha proclamato il diritto alla vendetta e alla ferocia. Liberazione anticipata a Cesare Battisti? La decisione presa è legale e giusta di Luca D’Auria* Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2020 Il resto è pura polemica da social. Sono naturali e comprensibili le doglianze dei parenti delle vittime di Cesare Battisti alla notizia che al terrorista ed ex latitante sia stata concessa la liberazione anticipata. Ma quanto è accaduto dal punto di vista giuridico, e cioè il riconoscimento della “buona condotta” con conseguente riduzione, nel computo finale, della pena da scontare, è non solamente un fatto preveduto dalla legge e dunque perfettamente in linea con l’ordinamento, ma anche umanamente giusto. Non ha nulla a che vedere con il concetto abusato di “certezza della pena” e una sua presunta violazione. Anche per questo principio, al pari di quanto accade con quello di legalità, un traguardo dell’evoluzione del diritto subisce, nel linguaggio della polemica senza fine, una metamorfosi radicale così da trasformarsi in un grimaldello concettuale per soddisfare il desiderio del “pugno duro” e del giustizialismo facilone. Finché esisterà la Costituzione e non saranno promosse consultazioni popolari per “ridurre il numero delle garanzie” (vedasi il tormentato capitolo sulla prescrizione) la pena deve continuare ad essere finalizzata alla rieducazione del condannato (e questa è una conquista decisiva dello Stato di diritto). Chi è contrario a questa lettura della punizione dovrebbe andarsi a rileggere un po’ di storia del pensiero giuridico e rendersi conto di come andavano (e potrebbero ancora andare) le cose prima dell’introduzione del dogma per cui la pena non è una vendetta rusticana, ma deve porre come scommessa decisiva la “guarigione della società” (per parafrasare Durkheim). Ripeto: l’unica presa di posizione umanamente comprensibile è quella dei parenti delle vittime (anche se temo che questo umanissimo dolore venga strumentalizzato dal tentativo dei media di fomentare frizioni sociali). Il resto è pura polemica da reti sociali: un mondo dove, in nome di un ulteriore travisamento tipico della contemporaneità, viene proiettato il concetto di libera espressione di parola verso l’abuso di parola e dei commenti più estemporanei, provocatori e, assai spesso, privi di fondamento tecnico (giuridico se si discute di questioni di diritto, medico se di medicina e così via). La grande illusione di una maggiore democraticità delle società di oggi, fondate sulla possibilità di “dire tutto su tutto da parte di tutti” sarebbe vera se questa sorta di diritto “di tribuna” venisse esercitato - non dico con competenza - ma almeno con il rispetto delle forme espressive del rispetto e dell’educazione. Come già accennato in altri post, la società al tempo dei social si forgia intorno al linguaggio del turpiloquio dei concetti che, oramai, non investe solamente alcuni ribelli (ben venga questa categoria quando è portatrice di idee innovative) ma diviene la via normale di esprimersi. In questo senso la vicenda di Cesare Battisti non differisce certamente da tutte le altre. Forse è addirittura più roboante, in quanto fa gioco reinventare un’attualità sociale a fatti storicamente datati, rispetto ai quali coloro che ne parlano con veemenza poco o nulla ne sanno. In questo quadro generale mi sono chiesto se, sfruttando un presunto diritto di cronaca, non siano i giornalisti stessi a creare e ricreare polemiche e contrasti per alimentare un capitolo nuovo della tanto gustosa e vertiginosa pop justice di cui spesso scrivo nei miei post. La vicenda dell’ex terrorista Battisti - dati i suoi trascorsi di rivoluzionario di estrema sinistra - fa gioco in questa realtà politico-sociale in cui la nuova fenomenologia mediatica della destra del XXI secolo è caratterizzata da tratti linguistici che vengono raccontati come “chiari” e “rivolti alla gente” quando, assai spesso, sono piuttosto caratterizzati da toni che ricordano un “pugno nello stomaco” (seppur vengano costantemente conditi da ideologie familistiche, legalitarie e patriottiche). In verità Cesare Battisti non è libero e certamente non lo potrà essere per numerosissimi anni. La liberazione anticipata per buona condotta consiste nella decurtazione di un numero di giorni fissi ogni semestre che verranno scalati dal “fine pena” (cosiddetto “mai” nel gergo carcerario, nel caso di un ergastolano). I drammatici errori e gli orrendi delitti di cui si è macchiato Battisti hanno trovato lo Stato capace di reagire, seppure in ritardo e dopo una lunga latitanza. Una volta che è stato raggiunto questo scopo, e cioè la carcerazione, Cesare Battisti è diventato un detenuto come ogni altro (condannato all’ergastolo). Finché la giustizia ha un senso i suoi principi non devono subire rivolgimenti, e anche la liberazione anticipata è un principio che deve essere assicurato per consentire a chi ha “sbagliato” di redimersi. Questo è un principio che ha le proprie radici nel messaggio cristiano e proprio chi difende quei valori con forza e orgoglio dovrebbe farsi primo portatore di questi valori. *Avvocato e docente di Diritto In carcere ridotto il rischio di contagio Covid-19 di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2020 Negati gli arresti domiciliari all’accusato di mafia giovane e senza patologie. Non è servito all’accusato di associazione mafiosa, detenuto in via cautelare, sottolineare il rischio carcere in periodo Covid-19 per ottenere gli arresti domiciliari. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 25831 della Quinta sezione penale, depositata ieri, ha dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo tra l’altro che non esiste il pericolo di una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in merito alla tutela contro trattamenti inumani e degradanti nei confronti di chi si trova in una situazione di restrizione fisica in carcere nel tempo della pandemia. La difesa aveva messo in evidenza come l’accusato del reato previsto dall’articolo 416 bis del Codice penale fosse detenuto nel carcere di Voghera, in una delle zone cioè a maggiore rischio Covid-19, ricordando le condizioni di promiscuità sostanziale in cui vivono tutte le persone lì incarcerate, la presenza di casi di contagio accertati fra i detenuti del reparto, compresolo stesso cappellano, poi deceduto. La Corte ha respinto la richiesta di sostituzione della detenzione con gli arresti domiciliari, ricordando innanzitutto le valutazioni già critiche del riesame che aveva messo in luce l’assenza di documentazione sui casi di contagio segnalati, valorizzando invece la giovane età del detenuto e la mancanza di particolari e gravi patologie. Per la Cassazione è solo “paradossale” la tesi difensiva per cui l’emergenza sanitaria renderebbe la permanenza in carcere di per sè pericolosa in modo insostenibile per qualsiasi detenuto, a prescindere da età o stato di salute o anche dalle concrete condizioni di carcerazione perchè queste sarebbero comunque incompatibili con le condizioni di distanziamento che il sovraffollamento cronico degli istituti di detenzione impedisce. Di più, la Corte dà merito al Governo di avere messo in campo tutte le misure possibili per fronteggiare la pandemia sia in termini generali, con il lockdown nazionale, sia nelle carceri con le misure indirizzate a favorire gli arresti domiciliari per i detenuti con non più di 18 mesi di pena residua ancora da scontare. Inoltre, per la sentenza a riprova dell’attenzione dello Stato ci sono anche le polemiche scoppiate proprio per la collocazione agli arresti domiciliari di molti detenuti in presenza di concreti pericoli per la loro salute. E a riprova della bontà delle scelte fatte dal Governo, ci sono i nmeri che attestano una significativa minore diffusione del contagio nelle carceri, rispetto a ospedali e residenze anziani. “Gip e giudice del Riesame sono la stessa persona: come può essere libero da pregiudizi?” di Simona Musco Il Dubbio, 11 settembre 2020 Il penalista Romeo, ai domiciliari da luglio dopo una carcerazione di 18 mesi, solleva la questione di legittimità. Si trova ai domiciliari da luglio, dopo una carcerazione durata 18 mesi e terminata una volta stabilito in Tribunale che l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa era insussistente. Ma ora l’avvocato del foro di Torino Carlo Maria Romeo, 62enne di origini calabresi, ha deciso di “sacrificare” il procedimento in corso per tornare in libertà pur di affermare un principio di diritto. E per farlo ha autorizzato i suoi difensori - Oreste Romeo e Stefania Nubile - a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 34 comma II del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’incompatibilità alla funzione di giudice del Riesame del gip che abbia pronunciato il decreto di autorizzazione o proroga delle intercettazioni, per contrasto con gli articoli 3, 24, 25, 27 e 101 della Costituzione. Romeo è stato condannato a 4 anni e 6 mesi per tentata estorsione e per aver fatto da intermediario di una cessione di 500 grammi di cocaina tra due suoi clienti l’avvocato nell’ambito dell’inchiesta antimafia “Geenna”, reati per i quali si è sempre dichiarato innocente. Dallo scorso 23 luglio il penalista si trova ai domiciliari, dai quali si è rivolto al Tribunale della Libertà di Torino per ottenere la piena scarcerazione. Ma il presidente del Collegio feriale designato a trattare la questione - la giudice Loretta Bianco - ha in precedenza firmato come Gip il decreto di proroga di autorizzazione ad operazioni di intercettazione nel medesimo procedimento penale avviato nei confronti del penalista. Ruoli incompatibili, secondo i legali di Romeo. E nonostante tale ipotesi di incompatibilità non sia espressamente prevista dall’articolo 34 del codice di procedura penale, la Corte costituzionale, soprattutto nei primi anni dall’entrata in vigore del codice Vassalli, si è già espressa su una questione analoga, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’articolo 34, comma II nella parte in cui non prevede, nel processo penale a carico di minorenni, l’incompatibilità alla funzione di gup del giudice che come componente del tribunale del Riesame si sia pronunciato sull’ordinanza che dispone una misura cautelare personale nei confronti dell’indagato o dell’imputato (sentenza 18/7/1998, numero 290). Una pronuncia che trova la sua ratio nel principio del “giusto processo” e che evidenzia come “la sostanziale duplicazione di attività decisionali” costituirebbe “ragione di pregiudizio “effettivo o potenziale per la funzione decisoria del giudice”. Conclusione, secondo la difesa di Romeo, non distante da quanto si sta verificando nel caso del penalista. “È davvero singolare che nello svolgimento dell’ordinaria attività giudiziaria non si tenga conto alcuno del fatto che la Consulta, già da tempo, abbia statuito che i sopra menzionati provvedimenti implicando giocoforza una valutazione nel merito dell’ipotesi accusatoria, finiscono per minare in radice l’imparzialità del Gip, che nelle sue successive valutazioni si troverebbe ad essere condizionato “dalla cosiddetta forza della prevenzione, e cioè da quella naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento”“, afferma Oreste Romeo. Da qui la decisione di sollevare la questione di legittimità, un atto non indolore, in quanto determinando la sospensione del procedimento in materia di libertà personale si tradurrebbe in un ulteriore allungamento dei tempi prima di poter eventualmente tornare in libertà. Ma Carlo Maria Romeo “è intenzionato a sacrificare il proprio interesse processuale per combattere comunque una battaglia di civiltà giuridica che riguarda tutti i cittadini - continua il fratello. Oggi, in Italia, l’unica certezza che la “Giustizia” sembra poter assicurare è solo quella della custodia cautelare in carcere, applicata con facilità e leggerezza tali da minare le fondamenta della democrazia”. Prato. “Mio padre ha il cancro ma non gli permettono di curarsi in ospedale” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 settembre 2020 La preoccupazione di Veronica Sposato, figlia di Giuseppe recluso a Prato in attesa di giudizio definitivo. Rigettate tutte le istanze presentate dagli avvocati. Da tre anni è detenuto, in attesa di giudizio definitivo, in condizioni gravi di salute. Per i giudici però è compatibile con la detenzione. Eppure Giuseppe Sposato - attualmente recluso nel carcere di Prato - ha tre by-pass aortocoronarici, e con la coronaria destra in stenosi, è un soggetto diabetico in trattamento insulinico con una possibile e grave patologia neoplastica al colon. Un tumore che non si è riuscito a diagnosticare per la scarsa visibilità del campo oggetto d’indagine. In altri termini, la sonda non ha potuto avanzare nel suo percorso per esplorare completamente il colon per la presenza di qualche ostacolo, probabilmente dovuto alla presenza di qualche massa non meglio definita. A tutto ciò, si aggiunge anche una relazione sanitaria del 22 luglio scorso che fa capire la gravità della situazione quando si afferma che “(..)Si tratta di paziente cardiopatico quindi con un rischio maggiore…”, senza considerare quanto, invece - come scrivono gli avvocati Antonio Romeo del Foro di Palmi e Luca Cianferoni del Foro di Roma nella richiesta di appello cautelare contro il rigetto emesso dalla corte d’appello di Reggio Calabria - “risulta più chiaramente dalle consulenze della difesa, dalle quali non solo emerge il fondato sospetto che lo Sposato possa già essere ammalato di tumore al colon, ma anche sotto il profilo cardiaco, vengono evidenziate, dal professor Carlino, diverse allarmanti criticità che possono mettere l’appellante in serio pericolo di vita. Una tra le tante, la non eseguita rivascolarizzazione chirurgica della coronaria di destra, che sviluppa frequenti episodi di precordialgia”. Ma chi è Sposato? Un imprenditore nel settore edilizio di un centro della piana di Gioia Tauro, Taurianova. Una indagine della Dda di Reggio Calabria del 2017 lo ha tratto in arresto con l’accusa di essere uno dei capi di una organizzazione mafiosa. Una vicenda processuale complicata, anche perché una sentenza parallela, che riguarda un altro imputato (che secondo l’accusa faceva parte della medesima associazione mafiosa) non appellata dalla Procura di Reggio Calabria, quindi definitiva, ha, però, stabilito che quella organizzazione mafiosa non c’è. Un giudice lo ha condannato in primo grado a 14 anni di reclusione, decidendo sul fascicolo della Procura col rito abbreviato. La sentenza è stata appellata e lui rimane, quindi, con la presunzione di innocenza. Ma al di là dell’innocenza o colpevolezza, qui entra in campo il diritto alla salute. Sposato giace ora, gravemente malato, in carcere da quel giorno che è stato tratto in arresto. Come detto, soffre di gravi patologie e con un sospetto tumorale che però non è stato accertato perché non hanno potuto completare l’indagine con la sonda. L’allarme è alto ed i difensori propongono diverse istanze ai giudici per mandare a casa, a curarsi, il loro assistito. Ma puntualmente le istanze vengono tutte rigettate sul presupposto (offerto dalla direzione sanitaria del carcere dove il detenuto è imprigionato) che ogni cura viene garantita intra moenia e che il quadro clinico è assolutamente compatibile col regime carcerario. Da ultimo, in data 22 luglio 2020, dopo le tante insistenze dei difensori, viene ripetuta una TC addome completo ed il referto, questa volta, non lascerebbe spazio a dubbi. Il medico esaminatore testualmente scrive “…sembra apprezzarsi nel tratto medio- distale del viscere, in fossa iliaca a sinistra, un restringimento concentrico del lume per un’estensione di 2-3 cm in rapporto ad irregolare ispessimento delle pareti: reperto di possibile natura neoplastica, non potendone escludere la natura funzione in rapporto alla scarsa distensione del viscere, e comunque meritevole di approfondimento diagnostico”. Davanti ad un quadro così allarmante, la Relazione sanitaria del carcere di Prato mandata alla Corte di Appello di Reggio Calabria esclude le patologie neoplastiche e quest’ultima recepisce tale informazione per rigettare l’ennesima istanza. Veronica, la figlia di Sposato, è preoccupata. Denuncia a Il Dubbio che suo padre dimagrisce progressivamente giorno dopo giorno e le ossa hanno preso il sopravvento sulla pelle. Un quadro allarmante, per questo i legali Romeo e Cianferoni hanno chiesto di anticipare l’udienza camerale per discutere della loro richiesta. Ovvero riformare l’ordinanza di rigetto che c’è stata il 28 agosto scorso e chiedere la sostituzione della misura cautelare con quella degli arresti domiciliari o ospedalieri presso un centro multi-specialistico di alto livello. La preoccupazione dei familiari è che si potrebbero prospettare due soluzioni: lasciarlo morire in carcere o mandarlo a casa o in un centro specializzato per curarsi se avrà il tempo per farlo. Ora si è in attesa della fissazione dell’udienza. Ai giudici spetta l’ultima parola. Napoli. Il grido di Margherita, incatenata per il figlio: “Chiediamo giustizia per Antonio” di Rossella Grasso Il Riformista, 11 settembre 2020 “Mio figlio tossisce sangue e allora mi sono legata qua, davanti al carcere, e ci resto finchè non lo curano”. Così la signora Margherita Lapicca che con le catene ai polsi ha chiesto a gran voce giustizia per suo figlio Antonio Avitabile, 44 anni, detenuto a Poggioreale. “Mio figlio sta tossendo sangue tutti i giorni - continua la signora - Voglio che lo curano, non mi devono prendere in giro. Per questo motivo resto qua notte e giorno se necessario. Le mamme per i figli fanno tutto e lo farò anche io”. Due mesi fa l’uomo è stato portato all’ospedale per effettuare una laringoscopia, mentre i primi giorni di agosto è stato sottoposto ad una gastroscopia. Ad oggi si attendono ancora dei risultati che sono stati segnalati come urgenti. Nel frattempo, si sono verificati vari episodi di perdita di sangue dalla bocca e la famiglia Avitabile teme che si tratti di un tumore. “Se non vengono fatti subito accertamenti le condizioni di Antonio potrebbero peggiorare fino a diventare irreparabili”, dice l’avvocato Michele Riggi, che difende il detenuto. “Mio figlio ha solo 44 anni, ha sbagliato e deve pagare. Voglio solo che me lo curate - grida Margherita - Mio figlio non può morire così giovane per colpa loro, può essere salvato”. La signora racconta che nell’ultimo mese il figlio è dimagrito di 25 chili e ha difficoltà a parlare e respirare. Gli accertamenti sono in corso però procedono con estrema lentezza. “Ringrazio la dottoressa Mauro del carcere e il direttore che si stanno prendendo cura di mio figlio, ma non possiamo aspettare ancora - dice - Quattro anni fa lo hanno portato all’ospedale Don Bosco. È scappato, ma poi è stato ripreso. Ha sbagliato e ha pagato. E questo glielo stanno facendo pagare ancora di più adesso che ne ha molto bisogno. Curatelo, ve ne prego”. “Temiamo che Antonio abbia un tumore perché nel 2014 già gli erano state riscontrate delle neoplasie alla laringe - spiega l’avvocato Riggi - questa cosa non è stata monitorata e oggi la situazione potrebbe essere molto peggiorata. Se questo ragazzo ha un tumore galoppante e passano giorni, e passano settimane, questa malattia progredisce sempre di più, fino a diventare inarrestabile, irrecuperabile e non più curabile”. “Chiediamo che sia fatta giustizia ma soprattutto che sia tutelato il diritto alla salute - conclude Riggi - più volte declamato dall’ordinamento costituzionale, dall’Europa, dall’ordinamento penitenziario, dal famoso articolo 11 di cui tanto si parla, la Carta per i diritti Sanitari dei Detenuti. Ma nei fatti tutto questo non viene assolutamente riconosciuto”. I garanti per i detenuti Pietro Ioia e Samuele Ciambriello stanno monitorando attentamente la vicenda andando spesso a trovare il detenuto e offrendo supporto alla famiglia distrutta dalla preoccupazione. Gli Avitabile sospettano anche che il loro Antonio venga curato con farmaci inappropriati. “Sai come la chiamano qua dentro questa pillola? Padre Pio - dice Margherita - La danno a tutti i poveri detenuti. Loro pensano che è una compressa della morte. Poveri detenuti”. Margherita è rimasta incatenata per qualche ora fuori alle porte del carcere. Ma il direttore Bernini dopo poco ha voluto incontrare la mamma insieme al Direttore Sanitario del carcere, Irollo, e a Ciambriello, garante regionale dei detenuti. Margherita è uscita soddisfatta dal colloquio avuto: il direttore del carcere si è preso l’impegno di seguire attentamente la vicenda. C’è anche l’ipotesi di ricoverarlo subito al padiglione San Paolo (la zona dedicata a chi necessita di assistenza sanitaria), in attesa di fare gli accertamenti clinici. Napoli. Poggioreale, non solo Covid: dopo la scabbia ora è allarme sifilide di Viviana Lanza Il Riformista, 11 settembre 2020 Un caso di sifilide al padiglione Roma di Poggioreale, quello che ospita i cosiddetti “sex offender”, detenuti cioè accusati di reati sessuali. Si tratta di un detenuto arrivato di recente dal carcere di Rebibbia. Il caso è unico e isolato, visto che tra gli altri detenuti del padiglione nessuno risulta aver contratto la malattia venerea, ma basta, tuttavia, a far tornare alta l’attenzione sulle condizioni di salute e di igiene nell’istituto di pena della città, anche alla luce dei tre episodi di scabbia rilevati nei giorni scorsi nel padiglione Milano, quello che ospita persone accusate di reati cosiddetti comuni: i tre detenuti in questione si trovano ora isolati e curati nella sezione specializzata del carcere che fornisce assistenza intensiva nel padiglione San Paolo di Poggioreale. Sebbene tempestivamente affrontati e circoscritti, questi episodi riscontrati nel carcere di Poggioreale, il più grande e affollato d’Italia, riaccendono il dibattito sulla tutela della salute all’interno degli istituti di pena. Un tema complesso e delicato, che induce a fare i conti con la gestione delle risorse, con l’organizzazione del settore, con il degrado del mondo fuori, con le difficoltà di igiene e pulizia dentro le celle, con il sovraffollamento e con le criticità strutturali, con le condizioni di vita dei detenuti, con i problemi legati alla gestione di situazioni tanto vaste e varie come quelle che caratterizzano il mondo dietro le sbarre. Da quest’anno ci si è messo anche il Covid a pesare sulla gestione sanitaria delle carceri campane, e nazionali. Sebbene nelle carceri cittadine la situazione epidemiologica sia stata sempre tenuta sotto controllo (da quando è scoppiata l’epidemia si sono verificati quattro contagi tra i detenuti a Santa Maria Capua Vetere più due tra medici e infermieri dello stesso penitenziario, più due casi tra gli agenti della penitenziaria a Secondigliano), l’allarme contagi è sempre in agguato. E proprio per questo i colloqui dei detenuti continueranno a svolgersi con le misure di sicurezza anti-Covid. In più da ieri si è deciso di far partire uno screening sanitario per chi lavora e per chi vive in carcere. “Screening sanitario per il personale di polizia penitenziaria del carcere di Poggioreale, per tutti i detenuti che ne faranno richiesta e per gli stessi operatori sanitari”, fa sapere l’Osapp, l’organizzazione sindacale autonoma polizia penitenziaria. Si parte con gli agenti che lavorano all’interno della struttura detentiva. L’iniziativa, come sottolinea Luigi Castaldo, vice segretario nazionale dell’organizzazione sindacale, “è stata fortemente voluta dai sindacati di polizia penitenziaria e in particolar modo dall’Osapp” e realizzata “grazie alla sinergia tra il direttore del carcere di Poggioreale Carlo Berdini e il dirigente medico Vincenzo Irollo, con il supporto dell’area sanitaria penitenziaria del Salvia”. “Lo screening ricopre un’elevata importanza sul fronte della prevenzione medica e della sicurezza negli ambienti di lavoro”, aggiunge Castaldo evidenziando che l’iniziativa del direttore Berdini e del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone, e possibile grazie alla direzione generale dell’Asl Napoli 1, “soprattutto in questo travagliato periodo storico epidemiologico, non ha eguali visto il forte dispendio di risorse al fine di prevenire e scongiurare eventuali focolai”. Isernia. Detenuto morto nel carcere, ripreso il processo: in Corte d’Assise medici testimoni ilgiornaledelmolise.it, 11 settembre 2020 È ripreso ieri mattina in Corte d’Assise a Campobasso il processo per la morte di Fabio De Luca, detenuto del carcere di Isernia che morì dopo alcuni giorni di ricovero in seguito alle ferite riportate in cella nel novembre di cinque anni fa. Per quella morte sono sotto processo con l’accusa di omicidio tre detenuti dello stesso penitenziario. Il processo di Campobasso riguarda due di loro, il terzo ha scelto il rito abbreviato e l’iter giudiziario sta andando avanti al tribunale di Isernia. In apertura di udienza è stata proprio acquisita una perizia che arriva dal processo in corso a Isernia. Sono stati poi sentiti due testimoni, due medici: il primo Marcello Baldassarere del carcere di Isernia, il secondo Giovanni Luciani del Gemelli di Roma. Quest’ultimo ha riferito che De Luca aveva una frattura alla mandibola che lo stesso dottore aveva accertato a Roma, prima dei fatti accaduti nel carcere molisano. Una frattura dunque non riconducibile alla presunta aggressione subita in cella. Su fronti opposti le tesi di accusa e difesa sull’accaduto: per la procura l’uomo morì in seguito ad un pestaggio; per la difesa, affidata agli avvocati Roberto D’Aloisio. Nicola Bonaduce e Lorenzo Marcovecchio, invece si trattò di un incidente, una caduta dal letto a castello del carcere, dove il 45enne salì per recuperare una gruccia. Si torna in aula il 5 novembre per ascoltare i periti delle parti. Torino. “Chi ha varcato la soglia”, un progetto per raccontare l’esperienza col carcere italiachecambia.org, 11 settembre 2020 Raccontare, descrivere e narrare la propria esperienza col carcere: “Chi ha varcato la soglia” è un progetto di Cascina Macondo di Riva presso Chieri che, per il 2020, ha lanciato un invito a detenuti e loro familiari, ex detenuti, direttori di carceri, educatori, giudici, medici, associazioni culturali o giornalisti, affinché condividano un racconto o una storia personale sul carcere. Fëdor Dostoevskij disse che il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni. Ed è proprio dai molti sguardi che hanno visto le prigioni che è possibile capire il grado di civilizzazione della nostra società e ricavarne riflessioni utili e suggerimenti che potrebbero migliorare il carcere e, di conseguenza, anche la società. Nell’ambito del progetto di scrittura e lettura ad alta voce “Vite Parallele” si invitano tutti coloro che hanno “varcato la soglia” ad inviare un proprio testo autobiografico, per raccontare, descrivere e narrare la propria esperienza in e con la prigione. Il progetto è un’idea dell’associazione di promozione sociale Cascina Macondo di Riva presso Chieri, nata nel 1993 da un gruppo di artisti che proponevano in strada performance musicali e letture poetiche, che con gli anni è andata specializzandosi nell’arte dell’insegnamento e della formazione, con il contributo dell’UBI - Unione Buddisti Italiani e in collaborazione con il Centro Hokuzenko di Torino. La sezione “Chi ha varcato la soglia” del progetto Vite Parallele, è nata a seguito delle restrizioni del coronavirus che hanno sospeso in carcere le lezioni dirette di scrittura con i detenuti e gli agenti penitenziari. Un modo dunque di lavorare a distanza e utilizzare le possibilità del web. Per soglia si intende quella del carcere: detenuti e loro familiari, ex detenuti, garanti dei detenuti, agenti penitenziari, direttori di carceri, educatori, giudici, avvocati, medici, sacerdoti, docenti, associazioni culturali, giornalisti, e quant’altri, a qualunque titolo, hanno varcato la sua soglia. Come si legge dalla presentazione del progetto, “questo periodo che abbiamo vissuto, e ancora stiamo vivendo, segnato dalle molte e particolari restrizioni e divieti causati dall’emergenza coronavirus, ha forse innescato un’ampia riflessione sul nostro modo di vivere, suggerendo ragionamenti, considerazioni e spiragli su un modo diverso di concepire le relazioni umane”. In questo modo il progetto intende “svelare” il carcere attraverso i molteplici sguardi e le testimonianze di coloro che, a vario titolo, ne hanno oltrepassato la soglia e lo hanno vissuto al suo interno. Il progetto vuole dare l’opportunità di “dire e raccontare” un momento della propria esperienza del carcere, un fatto o un evento significativo della propria vita in carcere e, quindi, mettendo a confronto i diversi punti di vista, svelare il carcere, “con l’augurio che le molteplici storie personali, condivise, possano essere spunto di riflessione, arricchimento morale, intellettuale e letterario”. I testi (lunghezza massima una pagina, carattere Times New Roman - corpo 12 - margini su tutti i lati della pagina cm 2,0 - interlinea singola - totale circa 3.600 caratteri, spazi inclusi), dovranno pervenire entro il 30 settembre 2020 per posta tradizionale o per posta elettronica in formato word a: “Chi ha varcato la soglia” - Cascina Macondo, Borgata Madonna della Rovere, 4, 10020 Riva Presso Chieri (To) - email: info@cascinamacondo.com - cell. 3407053284 - tel. 0119468397. I testi pervenuti verranno pubblicati sul sito web, sul canale You Tube, sulla newsletter settimanale “Frecciolenews” di Cascina Macondo, e su altri canali web e testate giornalistiche. Letti ad alta voce dal gruppo “I Narratori di Macondo” verranno messi in onda sui social network e diffusi da molte radio sparse sul territorio nazionale. “Vi racconto San Vittore, che è un pezzo di Milano. Io ora soffro di carcerite” di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 11 settembre 2020 Giacinto Siciliano è nato a Lecce nel 1966. È sposato e ha tre figli. Dopo la laurea in Giurisprudenza ha partecipato al concorso per direttore di istituto penitenziario, piazzandosi al primo posto in graduatoria. Primo incarico, nel 1993, la vice direzione del carcere di Monza, poi ha lavorato a Busto Arsizio, Trani, Sulmona e Milano Opera dove è rimasto per dieci anni gestendo profondi cambiamenti. Nel 2017 è tornato a San Vittore che aveva già diretto per un brevissimo periodo in precedenza. La famiglia di Giacinto Siciliano sta in galera da tre generazioni. Lui, leccese di 54 anni, dirige San Vittore a Milano come fece il padre negli anni di piombo. Suo nonno fu comandante degli agenti di custodia in diversi istituti di pena. Non le bastava essere cresciuto nell’alloggio di servizio di un istituto di pena, doveva fare anche lei il direttore? “Pensi che è stato un caso. A 28 anni partecipai al concorso convinto da un’amica e lo vinsi. Forse ero un predestinato”. Ed ora? “Soffro di carcerite”. Che malattia è? “Quella che ti prende quando vivi il carcere dall’interno”. Una missione? “Un lavoro, e una passione”. Qual è la prima cosa che ha imparato da bambino in carcere? “Il rispetto delle regole”. Ciò che per lei è una scelta, ai detenuti va imposto con le sbarre? “Secondo me no. Un tempo ero convinto che le regole si potessero imporre. Certo, è un meccanismo che può funzionare, però poi ti accorgi che le persone rispettano le regole finché gli stai addosso, ma non vedono l’ora di scappare quando ti volti. La sfida è trovare il modo che scelgano di mettersi dalla parte dello Stato perché alla fine il 90 % delle persone esce dal carcere”. Cioè? “Tranne che per pochi ergastolani, la pena prima o poi finisce. Quindi, bisogna fare in modo di sfruttare il tempo in carcere affinché la persona capisca che le regole vanno rispettate a prescindere dal fatto che qualcuno impone di farlo”. Se tutti lo facessero le carceri sarebbero inutili. Invece non è così... “Non bisogna pretendere di eliminare la devianza, ma avere l’obiettivo di lavorare su chi sta in dentro”. Il carcere è comunque mura e sbarre. Nel suo libro, “Di cuore e di coraggio” (Rizzoli) lei stesso scrive che “è brutto” e “non c’è nulla che possa farlo diventare bello”... “È sbagliato pensare che si possa trasformare il carcere in una cosa bella, però sono convinto che la bellezza sia un modo di pensare. Devi portare le persone a pensare e a guardare al bello se vuoi che vedano il bello che è in loro”. Infatti, scrive che chiunque “ha in sé una parte buona” e che “non bisogna guardare all’efferatezza del crimine commesso”. Un po’ buonista? “Assolutamente no. Nessuno dimentica ciò che il detenuto ha fatto. Bisogna capire come far sì che quando torna libero si comporti nel miglior modo possibile. Molti detenuti hanno paura della scarcerazione perché temono di rientrare in cella. Possiamo fare il miglior lavoro del mondo sul detenuto, ma se poi fuori non gli trovo una casa dove andare, chi lo segue e chi gli dà un lavoro c’è il rischio concreto che torni a rivolgersi alla criminalità”. C’è chi dice: nessuna indulgenza. Gettare via al chiave... “Dopo 27 anni di lavoro posso dire che i cambiamenti ci sono quando al detenuto si dà una possibilità. Se accetta, provi a portarlo da qualche parte. Al reato ci deve essere una risposta giusta in termini di pena che, però, da sola non basta perché, come dice la Costituzione, essa deve tendere al reinserimento del condannato nella società. Lo Stato non è vendetta, è costruzione”. I politici conoscono i problemi del carcere? “Forse manca un’idea seria di cosa sia. Non può essere lo stesso per i mafiosi, i detenuti normali e per gli extracomunitari. Forse bisogna fare delle scelte”. Lei vive sotto scorta, negli ultimi anni per le minacce di Totò Riina (il processo è finito a causa della morte del boss) per la sua gestione del carcere di Opera. Suo padre fu scortato per il pericolo di un attentato terroristico. Come convive con il rischio? “Lavorare in carcere significa anche sapere che rischi, ma non bisogna farsi schiacciare dalla paura”. Scrive che un direttore deve conoscere ogni angolo del carcere. Troppa familiarità può pregiudicare la freddezza nelle decisioni? “Essere presente, avvicinarsi non vuol dire perdere l’obiettività. Questo è un mondo complesso che non può essere controllato da dietro una scrivania. Il direttore deve dare risposte chiare, positive o negative che siano, senza incertezze. Il che non vuol dire accentrate tutto su di sé perché la gestione si fa con un gioco di squadra tra direttore, agenti e operatori”. Dal 2003 al 2007 ha diretto il carcere di Sulmona (L’Aquila). Era il carcere dei suicidi, come quello della direttrice Armida Miserere che lei fu chiamato a sostituire... “Ero amico di Armida, e questo inizialmente ha pesato emotivamente. Si verificarono una serie di suicidi che finirono all’attenzione dei media, anche se alla fine il numero era nella triste media degli altri istituti. Nella mia vita penitenziaria ho visto tante volte morire persone che conoscevo nonostante avessi lavorato tanto per evitare che accadesse. A Sulmona, carcere ad alta sicurezza con molti reclusi appartenenti ad organizzazioni mafiose, si innestò anche un meccanismo perverso al quale bisognava dare una risposta forte. C’erano parecchi detenuti che per ottenere qualunque cosa facevano finta di suicidarsi, forse dopo essere stati spinti da altri detenuti problematici. Trasferiti i secondi e proseguite iniziative che coinvolgevano quelli che rimanevano, la situazione migliorò”. Poi fu mandato ad Opera dove al regime duro c’erano boss del calibro di Riina, Gangi, Graziano, Spera. Gestione impegnativa? “Non particolarmente perché sul 41 bis c’è una normativa precisa. Ad esempio, ogni volta che il direttore incontra un detenuto anche per le contestazioni e le sanzioni disciplinari lo fa sempre alla presenza di personale di polizia penitenziaria. Tutto viene annotato e comunicato al Dipartimento e alla magistratura nella massima trasparenza”. Dal 2017 è a San Vittore. Perché dice che è un carcere speciale? “Ha un fascino particolare dovuto alla sua storia. La città lo sente come una propria parte”. Vuole portarci la bellezza. Come? “Migliorando la struttura, come si è già cominciato a fare”. Il 9 marzo scorso c’è stata una rivolta legata alla paura del coronavirus... “Sarebbe potuto succedere di tutto, invece grazie a Dio nessuno si è fatto male. Dopo la rivolta, tutti, detenuti compresi, abbiamo lavorato per evitare che a causa di quello che era accaduto il virus si espandesse. Alla fine i contagiati sono stati una ventina, una sessantina se si includono quelli arrivati con il virus da altri istituti”. Lei è finito con altri sotto processo a Roma per falso e mancata comunicazione all’autorità giudiziaria. Per l’accusa, informazioni dei detenuti mafiosi sarebbero arrivate ai servizi segreti senza informare la magistratura in base ad un presunto “Protocollo farfalla” tra Dap e servizi. Il processo si è concluso nel 2015 con una prescrizione alla quale lei non ha rinunciato, pur essendosi sempre dichiarato innocente. Perché? “È stata una vicenda traumatica finita con una sentenza che, di fatto, non ha accertato responsabilità. Quando il giudice ha chiuso il processo non ho potuto trattenere le lacrime di rabbia perché non era così che volevo finisse. Ero sicuro di poter dimostrare che non avevo nulla a che fare con quei fatti, ma dopo otto anni di indagini e udienze che hanno modificato la vita mia e della mia famiglia, davanti alla prospettiva di altri anni nelle aule di giustizia con la pressione mediatica come quella subita fino ad allora e di altre spese ingentissime, mi sentivo sfiancato. Avevo bisogno di mettere la parola fine. Chiudendo il processo il presidente della Corte disse: “Sarà la Storia con la S maiuscola a fare giustizia, perché la giustizia non sempre è quella amministrata dagli uomini”. Nel libro spiego cosa significhi per un servitore dello Stato essere imputato. Io ho la coscienza a posto”. Perché ha scritto un libro? “Faccio un lavoro difficile e bellissimo. Sono direttore ma sono innanzitutto uomo e padre. Spesso sono costretto a nascondere le mie emozioni in un contesto in cui bisogna essere freddi e imparziali. Ho deciso di fermarmi, guardarmi indietro, raccogliere ricordi e pensieri per raccontare il mondo del carcere dall’interno. L’ho scritto per i miei figli che, giovanissimi, leggevano che il padre era sotto processo, ma forse l’ho scritto anche per me stesso”. La dura scelta tra libertà e sicurezza di Chiara Saraceno* La Stampa, 11 settembre 2020 In questi mesi abbiamo fatto l’esperienza collettiva di due diversi conflitti nel campo dei diritti. Il primo riguarda un conflitto tra diritti -tra il diritto alla salute (alla sicurezza) e il diritto alla libertà, all’educazione, al lavoro, alla mobilità. Il secondo riguarda il conflitto tra “aventi diritto”: rispetto alle cure, rispetto alla protezione. Se il modo in cui questi conflitti si sono manifestati è nuovo, la potenziale conflittualità connessa ai diritti e all’avere diritti non lo è. Come ci ha insegnato Hobbes, quello tra libertà e sicurezza è un conflitto originario al vivere in società, pur declinato in modo sempre diverso. La soluzione non sta nell’optare per l’una o l’altro senza mediazioni, ma nel cercare l’equilibrio di volta in volta più ragionevole, più condiviso, meno lesivo dell’una o dell’altra. Nella consapevolezza che si tratta sempre di un equilibrio provvisorio e rinegoziabile, i cui costi vanno riconosciuti. Vale a livello collettivo, tra cittadini e Stato, tra collettività e i propri aderenti. Ma vale anche nelle relazioni interpersonali. Si pensi, ad esempio, alle relazioni genitori-figli, quando questi ultimi sono ancora in crescita, ove la preoccupazione per la loro sicurezza deve essere temperata da quella per lo sviluppo della loro autonomia e libertà. Oppure si pensi alle relazioni di cura verso persone fragili, dove troppo spesso si trascura l’importanza della libertà (oltre che del diritto alla dignità) per lo stesso stare bene. Due temi che si sono presentati in tutta la loro drammaticità in questi mesi. Un caso tutto moderno, mi sembra, di conflitto tra diritti, che di nuovo ha a che fare con la sicurezza, è quello tra diritto alla salute e diritto al lavoro. Può presentarsi nel caso specifico di una fabbrica o di una località, ma può diventare un fenomeno strutturale in un’epoca di politiche ambientali. Queste possono costituirne (forse) la soluzione nel medio-lungo periodo, ma non sempre nel breve e non per tutti. Chi salvare quando non ci sono risorse per tutti esemplifica bene il secondo tipo di conflitti - tra persone o gruppi rispetto ai diritti. Anche questo è un dilemma antico e, temo, diffusissimo in società più povere della nostra, non solo per quanto riguarda le cure sanitarie, ma il cibo e i beni essenziali, o quale figlio/a mandare a lavorare invece che lasciarlo a scuola per poter nutrire gli altri. In modo meno immediatamente drammatico, lo stesso tipo di conflitto è stato alla base della decisione di chiudere le scuole per contrastare l’epidemia, sacrificando il diritto dei più giovani all’educazione e alla socialità per proteggere gli adulti e gli anziani da loro come potenziali diffusori della stessa. Bobbio aveva rilevato questa dipendenza dei diritti di ciascuno dalla disponibilità di tutti di cedere una quota delle proprie risorse nel caso dei diritti sociali, in quanto questi sono finanziati dal bilancio pubblico. Questa dipendenza, a suo parere, ne fa un’eccezione rispetto a diritti civili e politici, che, invece, a suo parere sarebbero, per così dire, a costo zero. Non sono d’accordo. Il fatto che il riconoscimento dei diritti civili e politici non richieda impegni di spesa (cosa per altro, non sempre vera, visto che per darvi attuazione talvolta occorre mettere le persone in condizione di fruirne) non significa affatto che la loro affermazione e attuazione non dipenda dal raggiungimento di un consenso, che richiede anche che una auto-limitazione del proprio potere o diritti acquisiti. Per questo la loro conquista è sempre l’esito di conflitti, di norma maggiori nel caso dei diritti civili e politici che di quelli sociali. Riflettendo sui conflitti che possono darsi attorno ai diritti, Sen ha parlato di giustizia comparativa, contrapponendola a un’idea di giustizia basata su un principio di imparzialità astratto. Per realizzare azioni giuste occorre soppesare i diversi interessi e bisogni in gioco, consapevoli che qualsiasi decisione potrebbe ledere il diritto legittimo di altri, dandone atto e riconoscimento nell’argomentazione delle decisioni. A ben vedere, è la logica che sta dietro alle azioni positive: un maggior diritto riconosciuto temporaneamente a individui appartenenti a determinati gruppi a scapito di altri perché considerati in condizione di debolezza sociale. La democrazia gioca un ruolo importante nel dirimere di volta in volta questi conflitti, evitando che siano decisi in modo autoritario e sopraffattorio. Democrazia intesa come esercizio della ragione pubblica in cui gli interessi in gioco siano esplicitati e i loro portatori adeguatamente rappresentati. Solo attraverso il confronto tra “buone ragioni” (Habermas) e criteri, sui diritti che promuovono (e di chi) e quali (e di chi) invece negano, o sacrificano si può arrivare a un consenso, più o meno fragile e provvisorio, sulle dimensioni cui dare priorità per arrivare a decisioni comparativamente più giuste, o meno ingiuste, di altre. *Estratto della relazione di apertura al Festival Con-vivere, Carrara 10-13 settembre, dedicato a “Diritti”. Diciannove anni fa l’attacco terroristico che ha cambiato per sempre il mondo di Francesco Semprini La Stampa, 11 settembre 2020 Da allora si sono succedute guerre, crisi finanziarie, populismi e la prima pandemia. Ma si sono raggiunti anche importanti traguardi del progresso e tutto è diventato più veloce. “Stanno bombardando i Gemelli”. Sono bastate queste quattro parole urlate dall’altra parte del telefono per far calare le tenebre su una limpida mattinata di fine estate. Non una qualsiasi, ma quella di martedì 11 settembre 2001. Il cielo sopra New York era terso ed i raggi del sole mite sembravano indicare la strada verso il primo autunno, la stagione più bella della Grande Mela. Da poco mi trovavo negli Stati Uniti, prima per una vacanza-studio, posticipando il ritorno a Roma da uno a tre mesi, e poi sempre di più fino a varcare di nuovo i portoni dell’Università per affinare gli insegnamenti economici. Il giornalismo era un mondo ancora lontano ai miei occhi, lavoravo metà giornata con una società di costruzioni, quel martedì dovevamo andare in un cantiere a Red Hook, vecchio scalo industriale di Brooklyn. Invece squilla il telefono: “Stanno bombardando i Gemelli”, mi dice la persona che sarebbe dovuta venire a prendermi. Non gli ho creduto, era noto fare goffi scherzi, questo poi era inverosimile. Accendo la televisione su NY1, l’emittente che copre i cinque quartieri della Grande Mela. L’immagine è agghiacciante, la Torre Nord (quella con in cima la grande antenna) con un buco nel mezzo da cui uscivano fiamme e fumo. “Incidente o forse una bomba”, ho pensato, del resto era già successo otto anni prima con l’attentato ideato dallo “sceicco cieco” Omar Abd al-Rahman. L’ipotesi ha durata breve perché un aereo di linea (il secondo) giunge su Ground Zero: “così vicino, perché?”. Una frazione di secondo e il velivolo si trasforma in un missile con le ali scagliato sulla Torre Sud. La stretta al cuore è da paralisi: dalla terrazza del palazzo dove vivevo a Brooklyn, con una visuale su Lower Manhattan, ho seguito le fasi successive. Il panico, i soccorsi, la gente intrappolata ai piani alti che saltava dalle finestre. E poi il crollo della Sud, seguito dalla Nord, il frastuono delle sirene, il blocco delle linee telefoniche, la luce a intermittenza, le notizie sugli altri due dirottamenti. Ricordo la mattina dopo la notte insonne il manto bianco di fuliggine portata dal vento per chilometri e l’odore di bruciato che penetrava le narici. L’ultima immagine è la collina di detriti che dominava West Broadway, dove cinque giorni dopo sono andato a portare guanti e mascherine ai vigili del fuoco, polizia e volontari di ogni sorta. Il bilancio di quello che venne raccontato sulla prima pagina de La Stampa del 12 settembre come “Attacco all’America” fu di 2977 morti e oltre seimila feriti. Sin qui il mio 11 settembre, spartiacque che ha segnato però la vita di tutti, non solo negli Usa ma nel Pianeta intero. La storia del mondo si divide in prima e dopo quel martedì di fine estate. Sino a diciannove anni fa gli Stati Uniti non erano ufficialmente impegnati in nessuna guerra. Pochi di noi avevano sentito parlare di al-Qaeda o di Osama bin Laden, l’oggetto più futuristico che circolava era l’iPod, i social non esistevano, il pianeta Internet usciva dalla sua prima bolla e nonostante il vigore di Silicon Valley l’intelligenza artificiale non era ancora entrata dentro le case con la domotica. Venivano deportate la metà delle persone rispetto ad oggi, la sorveglianza del grande fratello era una frazione della sua dimensione attuale. E - forse cosa più difficile da credere - non ci eravamo mai dovuti togliere le scarpe per passare i controlli di sicurezza in aeroporto. Nulla più è come prima: in quasi quattro lustri ci sono stati cambiamenti ed eventi epocali che hanno stravolto il mondo. La crisi finanziaria del 2008, le “primavere” arabe e non, i relativi inverni post-rivoluzionari, i populismi e la recentissima pandemia che ha totalmente cambiato i rapporti di forza tra uomo e uomo e tra quest’ultimo e l’ambiente (in senso lato) in cui vive. Si sono raggiunti importanti traguardi che hanno velocizzato a loro volta cambiamenti a ritmi sempre più sostenuti, tanto da far emergere un elemento che più di altri caratterizza il post 11 settembre: l’accelerazione dei cicli e dei ritmi di vita. Tutto è molto più veloce, immediato, superato, archiviato, dalla durata media di un telefonino ai gusti in fatto di cucina, sino ad arrivare alla fenomenologia politica. E talvolta a farne le spese è la memoria: “siamo qui per non dimenticare”, è il mantra recitato al Memoriale di Ground Zero. Preso atto di questo elemento di novità, per ricostruire le dinamiche politiche ed economiche dell’ultimo ventennio a livello macro non si può non partire proprio dagli Stati Uniti. Dopo l’11 settembre e l’inizio della guerra al terrorismo, gli Usa (e i partner Nato tra cui l’Italia) si sono ritrovati nelle sabbie mobili dell’Afghanistan, la più lunga campagna militare della loro storia, superiore al Vietnam. Il bilancio dell’altra guerra post Torri Gemelle, quella in Iraq, non è stato certo brillante e solo il generale David Petraeus e la sua astuta strategia dell’Anbar sono riusciti a contenere i danni. Che in termini di vite umane però sono stati elevati. La lotta al terrore prosegue tutt’oggi e ha visto gli Usa presenti “boots on the ground” anche in Siria (e altrove in forme più o meno ufficiali) in chiave anti-Isis. Da un punto di vista politico, dopo il doppio mandato del repubblicano George W. Bush, si è assistito alla elezione del primo presidente afro-americano della storia Usa, il democratico Barack Obama, seguita da quella del primo inquilino della Casa Bianca populista e anti-establishment, il repubblicano sui generis Donald Trump. La crisi finanziaria, successiva al periodo delle vacche grasse in cui si è speso senza misura per finanziare sforzi bellici e rafforzare la sicurezza in senso lato, ha mostrato la grande fragilità di Wall Street strozzata da un devastante crisi di liquidità e le colpe della speculazione finanziaria senza freni. E ha consacrato la Cina quale principale concorrente degli Stati Uniti non solo sul piano economico, ma anche su quello politico e militare. Dal canto suo è l’Europa quella che porta ancora i segni più evidenti dello tsunami generato dalla grande bolla dei mutui subprime, quelli ad alto rischio e alto rendimento, di cui si era abusato, appunto, in America. Se Wall Street si è ripresa dalla crisi inaugurando una galoppata che dura tutt’ora, nel sud del Vecchio continente le ferite economiche restano ancora aperte specie dinanzi alle iniquità delle istituzioni di Bruxelles che hanno favorito l’approdo di certi Paesi ai lidi di sovranismo, nazionalismo e isolazionismo. Più in generale hanno favorito l’avvento del neopopulismo in diverse declinazioni, dapprima in Russia ed Est Europa e poi sempre più verso occidente fino ad arrivare a quelle di segno opposto dell’America Latina. Declinazioni di un protezionismo che percepisce il fenomeno delle migrazioni come un elemento di “pericolo”. La fuga dai Paesi di origine colpiti da guerre, carestie, repressioni e difficoltà economiche, in Asia come in Africa, ha subito una cronicizzazione con le “primavere 2.0”, quel movimento di liberazione da regimi oppressivi e governi autoritari favorito dalla diffusione dei social. Grazie a Facebook e Twitter per la prima volta in tempo reale si poteva vedere cosa stava accadendo in un’altra piazza, in un’altra città, in un altro Paese, accelerando il contagio della protesta. Alla fase iniziale di (quasi sempre) sana ribellione e speranza per una naturale transizione verso la democrazia, ne ha fatto seguito una di vuoto caotico creato dall’abbattimento di secolari Rais e colmato sovente da soluzioni belliche indicate ad arte da menti calcolatrici. Tali da inaugurare una nuova fase, quella dei conflitti regionali, asimmetrici, a bassa intensità e per procura. Dove, specie in Medio Oriente, ai vecchi ordini geopolitici è subentrato il settarismo che ha prodotto conflitti come in Siria e in Yemen. Mentre l’Africa, a partire dalla Libia per arrivare alla Somalia, passando per il Sahel, è divenuta ancora una volta terra di conquista. Dentro le nuove potenze emergenti, come Cina e Turchia, fuori gli africani vittime dei loro stessi governi, talvolta corrotti o incapaci, così come del sempre maggiore divario tra Nord e Sud del Pianeta causato da una globalizzazione a due velocità. Così alle tradizionali rotte della speranza se ne sono inaugurate di nuove, gestite da organizzazioni criminali talvolta sovrapposte o affiancate a quelle terroristiche. Queste ultime in fase di regressione (alcuni dicono in vista di una nuova fase) dopo l’uccisione di Abu Bakr al Baghdadi, il califfo dello Stato islamico che aveva preso in mano il testimone del terrore proprio da bin Laden, il regista dell’11 settembre 2001, ucciso dieci anni dopo gli attacchi alle Torri Gemelle nel suo nascondiglio di Abbottabad in Pakistan. La fine del califfato, da alcuni indicato come un nuovo spartiacque, è stato salutato dal mondo come un momento di svolta e di speranza: dopo 18 anni di guerra al terrore accompagnata da frenesia politica, economica e sociale, si chiudeva un capitolo lacerante della recente storia. La vittoria del bene sul male, dopo gli orrori causati della più criminale interpretazione dalla Sharia, sembrava riportare umanità e misericordia nel Pianeta. Un’illusione durata qualche mese, il tempo necessario affinché il mondo diventasse ancora una volta teatro di una nuova guerra. Una guerra globale contro un male invisibile, chiamato Coronavirus, una pandemia senza precedenti al passo con i tempi, globale: dall’Asia all’America passando per l’Europa, e poi in Africa e in Australia. Al di là delle polemiche sulle responsabilità e la gestione, appare chiaro che il conto da pagare a causa del Covid-19 sarà elevatissimo, con ricadute senza ritorno. Un altro cambiamento accelerato che come prima conseguenza ha l’ulteriore limitazione di libertà e mobilità, proprio come con l’11 settembre 2001 e le misure di sicurezza introdotte in tutte le dimensioni del trasporto. Paradosso, quest’ultimo, di quella globalizzazione che come manifesto ha l’esportazione della democrazia e il trasferimento a ciclo continuo di uomini e merci da un angolo all’altro del Pianeta. Un malfunzionamento che compromette anche le abitudini più elementari di un mondo che funziona sulle grandi distanze e la libertà di percorrerle. Anche nella maniera più elementare, ad esempio volare dall’America in Italia per rivedere i propri cari, come il sottoscritto. Perché dopo quella mattina di fine estate di 19 anni fa, ho deciso, per quanto possibile, di rimanere negli Stati Uniti. E diventare giornalista. Il sacrificio di Ebru Timtik ci ricorda che il diritto deve sempre prevalere sulla forza bruta di Daniela Piana Il Dubbio, 11 settembre 2020 Quando si arriva ad Istanbul dalla Grecia si osserva avvicinarsi un orizzonte trapuntato di azzurro e di oro ed è come se ci si sentisse a casa senza esserlo. Incrocio, crocevia, passaggio, coagulo: Istanbul è tante cose per chi ha occhi ed orecchie per ascoltare e guardare quanto di durevole esiste in questa grande avventura che chiamiamo dialogo fra le religioni, fra le culture, fra le arti. Giustiniano in fondo è la scintilla che incide su qualcosa che assomiglia ad un supporto materiale - la carta - il senso del primato della regola. Era il codice del diritto romano, la nostra comune radice. Ebru Timtik in quella transizione ci ha vissuto, ci ha protestato, facendo del suo corpo il supporto materiale di una scrittura quotidiana che le è costata la vita, quella del primato a qualunque costo del diritto. Una traiettoria individuale, certo molto nota, molto visibile nei media. Già l’associazione internazionale degli avvocati aveva invocato l’intervento delle Nazioni Unite per salvare lei e con lei gli avvocati che in Paesi attraversati come da una scossa tellurica e ripetuta che con puntuto accanimento si dirige a distruggere i pilastri dello stato di diritto dalla esperienza di depauperamento prima delle garanzie democratiche e poi dell’innalzamento in nome di qualche principio non universalizzabile ma comunque abbastanza generale da fare erigere leader autoritari di istituzioni che fanno del potere la razionalità e i limiti del diritto e non viceversa del diritto la ragione e i limiti del potere. La lettura della traiettoria del corpo di Ebru Timkit che si ostina a dire con ciò che di più di universale esiste, il corpo umano e la vita che in esso respira, l’essenza fondante del nostro essere insieme persone, ossia il vivere civile che si gestisce sulla base di regole che non giustificano ad alcuno la prevaricazione dell’altro, è un esercizio che dobbiamo necessariamente fare tutti. Non per erigere eroi, ma per avere occhi e orecchie sufficientemente attenti per discernere - perché è questa la facoltà chiave della dimensione sociale della legalità - quelle opzioni di comportamento che sono lesive della democrazia e dello Stato di diritto anche quando appaiono ben giustificate, ben descritte e quando ci appare che non vi sia altra possibilità - fra ciò che vale la pena fare perché garantisce una duratura vita civica da ciò che impone una compattezza artificiale nel nome di un ordine giustificato dalla definizione altrettanto artificiale di un noi e di un altro che, diciamolo, il 2020 ha di gran lunga messo in discussione. Esiste veramente un noi e un altro nella mappa stellare la cui metrica è quella della garanzia della vita e della incolumità fisica? Ebru Timtik ci parla di molte cose insieme che spesso dimentichiamo perché ricordarcene significa che dovremmo farci carico di scelte a volte difficili. Una donna, un avvocato, una voce alzata a difesa dei diritti e soprattutto del diritto ad un giusto processo. Non ad una giusta verità ma ad una giusta ed equa metodologia, quella del contraddittorio, per gestire conflitti diversità dissidi anche quelli più forti. Non è mica facile la pratica quotidiana di questa metodologia. Chiedetelo ad avvocati e giudici che sono pervasi ogni giorno dalla vertigine etica di porsi, di prendere posizione, sia nella difesa sia nel giudizio. Si tratta di una metodologia che richiede moltissima autonomia ed equilibrio - che sono poi la stessa cosa solo guardata da due prospettive diverse, l’una etico/ cognitiva, l’altra pratica e comportamentale - e che si acquista avendo ben presente che ci sono solo pochi luoghi sacri nel mondo materiale come nel mondo istituzionale dove si incontrano e stanno in equilibrio diversi punti di vista, diversi valori, diverse visioni di cosa è giusto, e questi sono nel mondo sociale tutelati dal primato del diritto. No, non è proprio il caso di passare a latere della traiettoria di Ebru Timkit, perché la sua storia di avvocato che ha speso la sua breve vita ed ha esaurito la sua forza fisica nello sciopero della fame ha in sé una storia che travalica i confini. La libertà processuale di uno è quella di tutti. Attaccate quella di una persona e metterete in pericolo quella di ciascuno. Per questo dovremmo ricordarcelo quell’avvicinarsi a Istambul dalla Grecia. Forse sarà un caso, una ventura non voluta della storia, ma lì sta la radice della nostra responsabilità per la tutela delle libertà, soprattutto laddove l’equilibrio fra lo stato di diritto e lo stato attraverso il diritto diventa labile, debole, e sono le sedi più nascoste, sono le situazioni più insospettate, quelle nelle quali come quando si naviga in mare aperto si svolta un attimo e si apre una insenatura che non ti attendevi e se non si hanno bene chiare le coordinate stellari ci si perde. A perderci però siamo tutti e tutte, non solo chi vive in quello specifico luogo. Per questo la storia di Ebru Timkit parla di tutti e ognuno di noi. Migranti. Moria, il campo adesso è lungo le strade di Carlo Lania Il Manifesto, 11 settembre 2020 A migliaia dormono all’aperto senza nessuna assistenza. Trasferiti 406 bambini. Il giorno dopo l’incendio che ha distrutto il campo profughi di Moria la Grecia è sempre più un Paese law & order. “Chiunque pensa di poter raggiungere la terraferma e poi viaggiare fino a in Germania lo dimentichi. Agli adulti non sarà consentito lasciare Lesbo”, ha chiarito fin dal mattino il viceministro per l’Immigrazione Giorgos Koumoutsakos parlando in televisione. Chi sperava, come pure era stato richiesto dalle istituzioni europee, che una parte dei richiedenti asilo venisse trasferita sul continente in modo da alleggerire la pressione sull’isola dell’Egeo, in questo modo è servito. L’ordine viene prima della pietà. Quello che rimane del campo di Moria (nella notte l’esplosione di alcune bombole ha provocato nuovi roghi subito spenti dai vigili del fuoco) è l’immagine della sconfitta dell’Europa nell’affrontare la questione migranti. Rimasti senza più nulla dopo aver perso tra le fiamme anche le poche cose che possedevano, 12 mila uomini, donne e bambini hanno passato la notte dormendo all’aperto in qualunque posto potesse offrire loro un minimo di riparo: nelle strade, nei parcheggi, alle fermate dei pullman. Alcune centinaia hanno raggiunto gli uliveti che si trovano nei dintorni dell’ex campo ormai incenerito. Tantissimi aspettano seduti sull’asfalto. Se l’inferno di Moria offriva quanto meno un bagno ogni 160 persone, adesso non hanno più neanche quello e sono in molti a spingersi nei villaggi alla ricerca di un po’ d’acqua. “Hanno bisogno di tutto, dai beni di prima necessità al supporto psicologico” spiega Vera Megali Keller, avvocato e attivista tedesca che si trova sull’isola. A rendere poi tutto ancora più complicato ci sono i blocchi stradali fatti da parte della popolazione locale, e che hanno reso difficile anche per le ong come Medici senza frontiera raggiungere gli ospedali in cui operano. La situazione si è sbloccata in serata quando almeno per lo staff di Msf è stato possibile ricominciare a lavorare. Tra i primi a essere curati c’era un bambino: “Ha la febbre alta, ha inalato fumo e gas lacrimogeni. Lui e la sua famiglia dormono sul ciglio della strada”, ha spiegato su Twitter l’ong. Le cose potrebbe migliorare un po’ oggi con il trasferimento di almeno duemila persone a bordo di tre navi, un traghetto e due imbarcazioni della Marina militare greca. Altre due navi sono in arrivo cariche di generi di prima necessità come coperte, tende e cibo. Dopo aver proclamato lo stato d’emergenza per l’isola, il governo ha assicurato che il campo di Moria non verrà ricostruito, senza spiegare però con cosa intenderebbe sostituirlo. Nel frattempo ieri si è lavorato per rimettere in piedi le poche tende sopravvissute alle fiamme. Per fortuna almeno i minori non accompagnati non si trovano più sull’isola. 406 sono stati prima trasferiti in strutture adeguate e sicure, e poi con tre voli portati nel nord della Grecia e alloggiati in ostelli in attesa del loro ricollocamento in Europa. Un piano messo a punto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Emmanuel Macron prevede il ricollocamento praticamente per tutti loro per ora in Germania, Francia e Olanda. “L’Europa non ignori quanto accaduto a Moria e non volti la faccia dall’altra parte”, ha chiesto ieri sera la presidente greca Katerina Sakellaropoulou sollecitando probabilmente il ricollocamento anche degli adulti dopo quello dei minori. Su questo, però, l’Europa sembra ancora lontana. Johansson: “Nuovo diritto d’asilo e quote. Così salveremo i migranti da altre Lesbo” di Marco Bresolin La Stampa, 11 settembre 2020 La Commissaria agli Affari Interni: quanto successo in Grecia rende ancor più necessaria la riforma della Convenzione di Dublino. “Purtroppo spesso si dice che ora in Europa non c’è una crisi migratoria, ma in realtà alcuni migranti si trovano ad affrontare quotidianamente situazioni di crisi. Lo abbiamo visto anche a Moria”. Per questo, avverte Ylva Johansson, è arrivato il momento di riprendere in mano il dossier della riforma di Dublino. La svedese, commissaria Ue agli Affari Interni, annuncia che il 30 settembre presenterà un nuovo “Patto per l’Immigrazione” di cui farà parte anche la riforma del diritto d’asilo. L’incendio che ha devastato il campo sull’isola greca - sostiene la svedese - dovrebbe far capire che così non si può più andare avanti. Come può l’Europa accettare che esistano campi come quello di Moria? “Già a dicembre, al mio insediamento, avevo definito inaccettabile e insostenibile la situazione nei campi sulle isole greche. C’erano più di 40 mila persone. Per questo abbiamo lavorato con le autorità greche per migliorare le condizioni e decongestionare le isole. Negli ultimi sei mesi il numero di migranti a Moria si è dimezzato, da 25 mila a 12 mila. Abbiamo iniziato a redistribuire i minori non accompagnati e continuiamo a farlo ogni settimana. Dodici Paesi li hanno accolti. I 400 che erano nel campo bruciato sono stati portati sulla terraferma e accolgo con piacere i recenti annunci di alcuni governi sulla redistribuzione”. Quel campo però è anche frutto delle decisioni Ue: la Commissione si sente responsabile? “I campi per i migranti sul territorio greco sono innanzitutto responsabilità delle autorità greche. La Commissione ha dato un grande sostegno, molti soldi. Abbiamo lavorato con le agenzie Onu. Certamente c’era una situazione con condizioni inaccettabili, ma questo è il risultato del fallimento del tentativo di trovare un accordo sulla politica di asilo e immigrazione comune. Per questo il 30 settembre lanceremo una nuova proposta”. La riforma di Dublino è fallita per le resistenze sulla redistribuzione obbligatoria: insisterete su questo? “Non voglio anticipare i contenuti del piano. Ma la questione è molto più ampia della redistribuzione. La situazione nelle isole greche non è dovuta soltanto a questo, ci sono anche altre questioni. Come la velocità delle procedure d’asilo oppure l’efficacia dei rimpatri”. Proporrete novità su tutti questi fronti? “Trovare un compromesso è un esercizio molto difficile, ma sono ottimista. Serve però un approccio olistico, bisogna prendere in considerazione tutti i diversi aspetti. La gestione delle politiche migratorie ha certamente elementi emozionali e credo che nessuno sarà felice del nostro piano. Nessuno dirà: è quello che volevo. Ma spero che tutti si impegnino per il compromesso. Non servono melodrammi, bisogna guardare la realtà e cercare un terreno comune. La situazione va affrontata in modo ordinato e con equità. Tra gli Stati ma anche nei confronti dei singoli”. Diverse inchieste giornalistiche hanno denunciato il comportamento della polizia greca e il respingimento di migranti: cosa intendete fare? “Sono molto preoccupata per la questione respingimenti. Ogni Stato deve indagare per far luce su ciò che accade ai propri confini. Chiedere asilo è un diritto fondamentale, perciò voglio introdurre nella proposta un meccanismo di monitoraggio al fine di garantirne il rispetto”. Chiudere il porto alla nave di una Ong come fa l’Italia non è una sorta di respingimento? “Credo che alla fine tutte siano state fatte sbarcare. L’Italia si sta assumendo grandi responsabilità sugli sbarchi e per questo c’è bisogno di solidarietà da parte degli altri Stati. Anche perché stiamo affrontando una situazione difficile per via dell’emergenza sanitaria”. Le tensioni nel Mediterraneo centrale sono anche legate al fatto che l’accordo di Malta, siglato un anno fa, si è rivelato un fallimento, non trova? “Non dimentichiamo che grazie a questo accordo siamo stati in grado di redistribuire duemila migranti. Però è vero che non è sostenibile. Perché non può basarsi esclusivamente sulla volontarietà. Servono elementi di obbligatorietà”. Droghe. Uso di cannabis e depressione: una “relazione pericolosa” di Elena Meli Corriere della Sera, 11 settembre 2020 L’utilizzo assiduo di cannabis continua ad aumentare fra chi ha disturbi dell’umore, come forma di “automedicazione”, e questo nonostante possa peggiorare i sintomi. Tanti credono che la cannabis faccia bene all’umore, favorisca il relax, sia utile in generale per il benessere mentale. È falso e per esempio può peggiorare i sintomi della depressione, che invece è una fra le condizioni più spesso associate alla scelta di consumarla. Al punto che oggi c’è una gran quantità di depressi che non disdegnano uno spinello, almeno negli Stati Uniti: lo segnala una ricerca pubblicata su JAMA Network Open secondo cui fra i pazienti con depressione il tasso di utilizzo di prodotti derivati dalla cannabis negli ultimi anni si è letteralmente impennato. Effetti collaterali - Stando agli autori, la prevalenza dell’utilizzo della cannabis è costantemente aumentata negli ultimi due decenni, del 98 per cento nel caso dell’uso sporadico almeno una volta al mese e del 40 per cento quello quotidiano: un dato che preoccupa perché questa sostanza può avere effetti collaterali consistenti e, per esempio, peggiorare i sintomi della depressione. Proprio questi pazienti però sono i più attratti dal consumo: “Il 50 per cento pensa che sia utile contro i disturbi dell’umore e l’ansia, appena il 15 per cento ha idea dei possibili rischi”, dice Deborah Hasin, la psichiatra della Columbia University di New York che ha coordinato l’indagine. “Così, circa un paziente su quattro riferisce di averla provata come auto-medicazione”. Errore di valutazione - La Hasin ha cercato di capire se la “moda” dell’uso da parte dei pazienti con depressione stia crescendo e per farlo ha valutato oltre 16mila persone, con e senza disturbo dell’umore, nei dieci anni dal 2005 al 2016. Uso molto aumentato I dati raccolti mostrano che siamo di fronte a una sorta di boom: la probabilità che una persona con depressione abbia consumato cannabis nel corso dell’ultimo mese è raddoppiata dal 2005, quella di un utilizzo giornaliero è addirittura triplicata. “Una tendenza che medici e psichiatri devono conoscere, visti i possibili rischi: servirebbero per esempio campagne informative per spiegare come e quanto la cannabis possa peggiorare il benessere mentale”, sottolinea Hasin. Una necessità condivisa da Patrizia Hrelia, già presidente della Società Italiana di Tossicologia e membro del direttivo della Società Italiana di Farmacologia: “La cannabis è percepita come una fra le droghe meno pericolose, ma non è affatto così. Conosciamo meglio gli effetti collaterali dell’abuso, ma pian piano si stanno accumulando anche dati sull’uso terapeutico e della cannabis light e, anche in questi casi i dosaggi possono diventare eccessivi: se una persona fuma dieci volte al giorno, si può arrivare a dosi consistenti anche con un prodotto a bassa concentrazione di tetraidrocannabinolo (il composto con effetti psicotropi che nella cannabis light deve essere inferiore allo 0,2 per cento, con una tolleranza che arriva al massimo allo 0,5, ndr)”. Rischi maggiori sotto i vent’anni - La cannabis come rilassante insomma non è una buona idea, soprattutto nei giovani come puntualizza Hrelia: “Al di sotto dei vent’anni si è in una fascia di vulnerabilità estrema ai danni cerebrali da cannabis: è stato dimostrato che l’impiego assiduo porta a un deterioramento della sostanza bianca in regioni che sono sede del ragionamento e delle capacità decisionali, arrivando fino a una riduzione sensibile del quoziente d’intelligenza. L’uso frequente della cannabis lascia per così dire una sorta di impronta’ sul cervello dei giovani”, conclude l’esperta. Birmania. Crimini contro i Rohingya, guai per Aung San Suu Kyi di Emanuele Giordana Il Manifesto, 11 settembre 2020 Un video registrato con la deposizione di due disertori dell’esercito birmano e ora in possesso della Corte penale internazionale dell’Aja inchioderebbe i militari birmani colpevoli della pulizia etnica contro la minoranza musulmana dei Rohingya. Ne ha dato notizia Al Jazeera che cita Fortify Rights, organizzazione che sostiene che i due hanno disertato in agosto dopo esser stati prigionieri dell’Arakan Army, gruppo separatista che agisce nello Stato birmano del Rakhine. Dove ora si trovino non si sa, ma si tratterebbe della prima pubblica ammissione di atrocità cui erano costretti i bassi ranghi dell’esercito. La notizia è stata diffusa l’8 settembre, giorno in cui è ufficialmente iniziata la campagna elettorale per le elezioni di novembre. Le indagini della Corte penale internazionale non sono le uniche: il Gambia, col sostegno dei 57 Stati membri dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, si è rivolto in novembre alla Corte internazionale di giustizia (Ijc) denunciando il Myanmar per aver violato, nel caso rohingya, la Convenzione sul genocidio del 1948. Ma ora anche Canada e i Paesi Bassi hanno espresso il loro sostegno all’azione del Gambia. Quanto ai militari, un’altra tegola è arrivata ieri da Amnesty International: documenti riservati rivelano come diverse imprese internazionali siano collegate al finanziamento delle forze armate birmane e di alcune unità direttamente responsabili di crimini ai sensi del diritto internazionale e di altre violazioni dei diritti umani. Lo sarebbero attraverso la Myanmar Economic Holdings Limited (Mehl), conglomerato birmano fondato dal regime militare nel 1990 e ancora diretto e posseduto da personale in servizio o in pensione. Le sue attività includono minerario, liquori, tabacco, abbigliamento, finanza in partnership con aziende locali e straniere tra cui la multinazionale giapponese della birra Kirin e il gigante dell’acciaio sudcoreano Posco. “Gli autori di alcune delle peggiori violazioni dei diritti umani traggono vantaggio dalle attività commerciali di Mehl, come il capo militare Min Aung Hlaing che possedeva 5.000 azioni nel 2011”, commenta Mark Dummett, del Business, Security and Human Rights di A.I. C’è’ poi un documento confidenziale che riguarda gli azionisti e condiviso con l’organizzazione Justice for Myanmar, le cui pagine web non si possono leggere nell’ex Birmania. Il documento dice che l’importo totale dei pagamenti dei dividendi in un periodo di 20 anni è stato di circa 18 miliardi di dollari: di questi, Mehl avrebbe trasferito circa 16 miliardi di dollari a unità militari. A Bruxelles intanto la Conferenza dei presidenti del Parlamento europeo ha deciso ieri di escludere formalmente la vincitrice del Premio Sakharov Aung San Suu Kyi dalla Comunità dei vincitori per non aver fatto nulla contro i crimini in corso contro la comunità rohingya. Nel 1990 il Parlamento europeo aveva assegnato il Premio Sakharov per la libertà di pensiero alla Lady, allora leader perseguitata dell’opposizione. Un anno dopo, veniva insignita del Nobel per la Pace. Messico. Non è un Paese per giornalisti: reporter decapitato nello Stato di Veracruz di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 11 settembre 2020 Julio Valdivia, 44 anni, negli ultimi mesi aveva seguito le proteste dei lavoratori nelle piantagioni di canna da zucchero che coprono a distesa la regione. È il terzo collega vittima dall’inizio dell’anno. Lo hanno trovato sul ciglio di una stradina che costeggia la linea ferroviaria. Un fagotto informe, piegato su sé stesso, il corpo segnato da ematomi, ferite e tagli. Con un dettaglio che ha fatto orrore: aveva la testa staccata dal corpo. Decapitato. Julio Valdivia, 44 anni, è l’ultimo giornalista assassinato in Messico. Dal 2014 lavorava per il Diario El Mundo di Corbóba, nello Stato di Veracruz. È il terzo collega rimasto vittima nel 2020 delle bande della criminalità che rendono il Messico un paese dove è impossibile fare informazione. Una quarta giornalista si è salvata per un soffio grazie all’intervento della sua scorta. Per Valdivia è stato diverso. Era una preda facile per i suoi assassini. Lo conoscevano tutti, girava disarmato, non aveva motivi per proteggersi anche se sapeva che nelle sue corrispondenze e reportage toccava temi sensibili. Cartelli e traffico di droga a parte, negli ultimi mesi aveva coperto le proteste dei lavoratori nelle piantagioni di canna da zucchero che coprono a distesa la regione, le battaglia per l’acqua che le diverse siccità avevano reso un bene introvabile e prezioso. E poi ancora i furti di carburante che sono diventati una vera emergenza in tutto il Messico, tanto che lo stesso presidente Obrador li aveva messi in cima alle priorità nella sua nuova campagna per la legalità. Julio Valdivia non aveva ricevuto minacce. Almeno, così sembra. Anche il suo direttore, Raúl Arroniz, è rimasto sorpreso da questo ennesimo, barbaro omicidio. “Siamo sconvolti per quello che è successo a Julio. Non ci risulta che fosse nel mirino della criminalità. È una perdita importante, anche sul piano professionale. Non si tirava mai indietro, perfino nelle situazioni più difficili e complicate. Un ottimo cronista”. Per dissimulare il suo assassinio, i killer hanno fatto trovare il corpo proprio a fianco la ferrovia. Volevano far credere che Julio fosse morto perché travolto da un treno che gli aveva tagliato la testa. Non è escluso che abbiano piazzato il cadavere proprio sulle rotaie facendo fare lo scempio al convoglio di passaggio. Ma è una circostanza che la Procura generale di Veracruz, titolare dell’inchiesta subito avviata, esclude. Le analisi dei periti forensi dimostrano invece che il cronista del Diario El Mundo è stato aggredito a Tezonapa, torturato e ucciso e poi portato a Motzorongo, un paese di 4 mila anime al confine con lo stato di Oaxaca. Piazzare la moto che usava il collega, di colore azzurro e con il logo del giornale, vicino al corpo è stato il tocco di questa macabra messinscena che non ha convinto nessuno. Julio Valdivia paga il prezzo del suo lavoro: seguire la realtà sul campo e raccontarla ai lettori. Senza cedere ai ricatti, alle pressioni, alle minacce che adesso, i suoi amici, a voce bassa, senza dettagli, dicono che aveva ricevuto. Per trovare un barlume di verità e tentare di dare giustizia al collega bisognerebbe raccogliere informazioni tra i lavoratori delle piantagioni, indagare sui furti di benzina e il contrabbando di combustibile, individuare tra chi aveva interesse a speculare sull’acqua che manca in vaste zone del Messico. Business redditizi per chi comanda davvero e detta legge. È quasi scontato, commentano gli investigatori, che dietro questo omicidio ci sia la mano dei Cartelli locali. Sono loro a controllare i settori emergenti. Ma sarà difficile che si arrivi a una verità quantomeno processuale. Negli ultimi 20 anni, ricorda Articolo 19, l’associazione dei giornalisti che si batte per la sicurezza tra gli operatori dell’informazione, sono morti 134 colleghi. Solo per un pugno di questi sono stati trovati i sicari. Mai i mandanti. Honduras. Un anno in carcere senza processo per aver voluto difendere un fiume mondoemissione.it, 11 settembre 2020 Protestavano pacificamente contro la miniera che inquina il fiume Guapinol. Dal settembre 2019 otto attivisti delle comunità locali si trovano in carcere accusati di reati sovversivi; e ora sono stati esclusi anche dal decreto “svuota carceri” varato dall’Honduras a causa del Covid. In carcere accusati di furto, incendio doloso aggravato e associazione sovversiva. E adesso esclusi anche dalla possibilità di beneficiare degli arresti domiciliari garantiti ad altri detenuti per evitare il contagio da Covid-19. E la sorte di otto attivisti della comunità di Guapinol, “rei” di aver organizzato proteste contro la miniera che sta trasformando il loro fiume in una colata di fango. Dall’Honduras - il Paese di Berta Caceres, la più nota tra quelli che abbiamo chiamato i martiri dell’enciclica Laudato Sì - arriva una nuova storia che racconta di come l’impegno per la custodia del creato oggi in alcune aree del creato può essere occasione di aperta persecuzione. Tutto comincia nell’estate del 2018 quando la comunità di Guapinol si mobilita contro la società mineraria Inversiones Los Pinares che - in un Paese dove il 35% del territorio è ormai in concessione per impianti minerari o energetici - ha ottenuto di poter aprire un nuovo scavo nell’area del Carlos Escaleras Mejia National Park, nel nord dell’Honduras. Il 27 ottobre 2018 sarebbe poi arrivato l’esercito a stroncare quella protesta. Accompagnando la prova di forza con l’emissione di 31 ordini provvedimenti giudiziari per altrettanti membri della comunità. Un primo gruppo di attivisti nel febbraio 2019 si presentò spontaneamente alle autorità, vedendo annullate le accuse nel giro di pochi giorni per manifesta infondatezza. Sorte diversa però è toccata un secondo gruppo consegnatosi - appunto - il 1 settembre 2019: da allora sono trattenuti in custodia cautelare in attesa di giudizio. E proprio in questi giorni è stato reso noto che la Corte d’appello ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dai loro legali. Non solo: nel frattempo l’Honduras, come tanti altri Paesi dell’America Latina, è stato durante colpito dall’emergenza Covid. E come successo in tanti Paesi il governo locale - conscio delle condizioni insostenibili delle proprie strutture carcerarie - ha varato un decreto che ha permesso a molti detenuti di uscire dal carcere. Ma anche questo beneficio è stato negato agli otto attivisti impegnati nella difesa del fiume Guanipol. E questo dà l’idea di quale grave “crimine” oggi sia considerato in Honduras opporsi a un progetto minerario. Tutto questo succede in un Paese che - nell’annuale rapporto curato da Global Witness - figura al quinto posto nel mondo per il numero di ambientalisti uccisi. Sono stati infatti ben 14 quelli colpiti a morte in Honduras nel 2019.