Marcello Bortolato: “Il vero pericolo è il giudice intimorito” di Valentina Stella Il Dubbio, 10 settembre 2020 Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze fa una lucida analisi sulle polemiche nate dalla fuga di Johnny Lo Zingaro: “Il giudice di sorveglianza, come tutti gli altri giudici, può sbagliare e ciononostante il sistema deve poter autocorreggersi, ma il vero pericolo è il giudice intimorito e questo clima francamente non garantisce la serenità delle nostre decisioni”. Si riaccende la polemica sulla magistratura di sorveglianza... Non sono affatto sorpreso. Ogni volta che capitano eventi di questo genere il desiderio di ricercare un colpevole è sempre molto forte. Il magistrato di sorveglianza è il naturale destinatario delle accuse perché si occupa di persone, con le loro variabili, e non di fatti. E valutare le persone, soprattutto i loro comportamenti futuri, non è mai semplice. Non posso entrare nel merito del provvedimento dei colleghi ma do per scontato che il magistrato abbia attentamente valutato i comportamenti passati e le plurime relazioni degli esperti dell’osservazione, per trarre elementi di responsabilità nel concedere nuovamente fiducia al detenuto. Il soggetto non era rientrato da un precedente beneficio però... Per questo era stato condannato a 8 mesi: un’evasione già considerata piuttosto lieve dal giudice di merito. Conformemente a un’importante pronuncia del 2010 della Corte costituzionale era stato riammesso comunque ai benefici valutando l’entità del comportamento di evasione, evidentemente valutata nel merito e ritenuta non ostativa, dopo un certo lasso temporale, per la riammissione. Ammetto che non sono decisioni facili, si ridà fiducia a chi l’ha già tradita una volta, ma le norme - e il buon senso - lo consentono. Del resto se il permesso ha un carattere senz’altro premiale, esso è pur sempre un istituto di rieducazione, è utile per coltivare i propri legami e soprattutto prepara il terreno per il dopo, per il progressivo cammino verso la libertà che non può essere negato, come sappiamo nemmeno all’ergastolano soprattutto se, come nel caso di specie, ha espiato già un lunghissimo periodo detentivo, pare più di 30 anni. Rispetto alla totalità di permessi che vengono concessi alla popolazione detenuta italiana, fanno notizia soltanto quelle pochissime volte in cui avviene un’evasione... La stragrande maggioranza di detenuti che rientrano non fa notizia: nessuno è a conoscenza che nel solo anno 2019 sono stati concessi ben 40.040 benefici ai detenuti. C’è certamente un rischio che deve essere calcolato, che non può però portare alla negazione del beneficio: il danno che così si verificherebbe - il pericolo cioè che le persone non siano più in grado di rientrare responsabilmente nel consesso sociale - è molto più elevato del rischio, tollerabile e tollerato, del mancato rientro. Il Fatto Quotidiano ha costruito la polemica paragonando il caso di Johnny lo Zingaro con quello di Pasquale Zagaria e attaccando così il Tribunale di Sorveglianza di Sassari... Direi che i due fatti non hanno, né possono avere, alcuna attinenza se non per una certa propaganda. Si tratta di due autorità completamente diverse: da una parte un collegio e dall’altra un magistrato da solo; da una parte il diritto alla salute, dall’altra uno strumento di rieducazione; da una parte una questione di costituzionalità sollevata prima di assumere la decisione definitiva, dall’altra un provvedimento già emesso. Nessuno poi mai ricorda che esso è impugnabile dal pubblico ministero, oggi addirittura nel termine ben più agevole 15 giorni. È di qualche giorno fa anche la polemica di Repubblica sui presunti “boss e mezzi boss” ancora fuori... Mi rifiuto di commentare una non-notizia, posto che a quanto mi risulta in questo Paese non si possono mettere in carcere le persone per decreto legge ma solo con provvedimento del giudice. L’unica vera notizia è che finalmente anche la stampa più informata, benché dopo molti mesi, ha ammesso che i presunti “boss” non erano 400 ma 200, che di questi 200 oltre la metà era in custodia cautelare (dunque, la magistratura di sorveglianza non c’entrava nulla) e che i veri boss (capimafia o ex) erano soltanto 4. Sarebbe bastato all’epoca informarsi presso i magistrati di sorveglianza ed avremmo evitato molte polemiche e dileggi anche provenienti da autorevoli intellettuali che ci hanno definito addirittura “giudici di badanza”. Il ministro Bonafede ha inviato immediatamente gli ispettori a Sassari. Possiamo dire che non c’è un clima sereno nella magistratura di sorveglianza nello svolgere il proprio lavoro? Mi sforzo di ricordare un periodo in cui la magistratura di sorveglianza abbia lavorato in un clima sereno: la giacchetta viene tirata da tutte le parti. È di due giorni fa un’interrogazione parlamentare che lamenta ritardi, lungaggini e rigidità nella concessione dei benefici mentre l’altro ieri i giudici di sorveglianza erano accusati di troppo lassismo o di buonismo compassionevole. Non ci sottraiamo alle critiche ma alla sistematica campagna denigratoria abbiamo il diritto di opporci. Il giudice di sorveglianza, come tutti gli altri giudici, può sbagliare e ciononostante il sistema deve poter autocorreggersi, ma il vero pericolo è il giudice intimorito e questo clima francamente non garantisce la serenità delle nostre decisioni. Perché è giusto che il Garante sia delle persone private della libertà di Associazione Antigone medium.com/@AntigoneOnlus, 10 settembre 2020 Non un capriccio linguistico per nascondere il reale lavoro del Garante, ma la necessità di dare conto di un ampio campo di intervento che riguarda la difesa dei diritti delle persone private, in modo legittimo e a norma di legge, della propria libertà personale. La nostra risposta ad un articolo di Nando Dalla Chiesa. Sul Fatto Quotidiano del 7 settembre abbiamo letto un articolo di Nando Dalla Chiesa che si apriva con questa considerazione: “Ma benedetti figli, non ce l’hanno un linguista? Non dico un Tullio De Mauro, ma una persona di buon senso che conosca l’italiano? Mi riferisco a chi in Parlamento, nei ministeri o altrove maneggia con straordinario sprezzo del ridicolo la nostra lingua per sfornare leggi e norme. Stavo giusto meditando su quale persona o situazione scegliere per queste ‘Storie italiane’ quando un telegiornale della sera ha rivoluzionato tutto. Parlando dello scandalo primaverile delle cinquecento scarcerazioni in massa di boss e trafficanti, il notiziario ha nominato un ‘Garante delle persone private della libertà’. Che una volta era prima di tutto Garante dei detenuti. I quali, a quanto pare, annoverano ora tra i loro diritti quello di non essere più chiamati tali. Una nuova, classica operazione di travestimento semantico”. Vorremmo spiegare, dal nostro modesto punto di vista, il perché di quella dicitura. Se apriamo lo Zingarelli - vocabolario scritto proprio da un linguista, ma gli altri non si discostano tanto da questa definizione - leggiamo alla voce ‘detenuto’: “Chi sconta una pena o una misura di sicurezza detentiva”. I detenuti costituiscono un sottoinsieme delle persone private della libertà di cui il Garante in questione è chiamato a occuparsi. Siamo qui nel solo ambito penale. Il Garante, tuttavia, copre istituzionalmente quattro diverse aree. Si affiancano a quella dei detenuti, l’area della detenzione amministrativa (i migranti senza documenti che vengono trattenuti nei Centri per il rimpatrio), l’area sanitaria (i trattamenti sanitari obbligatori o le residenze per anziani, dove le persone sono private della libertà de facto se non de iure) e l’area delle forze di polizia (anch’essa interna al penale, ma precedente quella della detenzione: la persona arrestata e trattenuta in caserma prima ancora dell’udienza di convalida non è ancora sottoposta a pena o misura di sicurezza detentiva e dunque non è ancora detenuta). La dicitura ‘Garante dei detenuti’ non rispecchia dunque i veri compiti di garanzia esercitati da questa figura. È eccessivamente limitata, coprendo una sola area sulle quattro che pertengono al suo mandato. Non credo dunque che si tratti di politicamente corretto, ma di una esigenza linguistica reale per la corretta comunicazione. L’articolo di Nando dalla Chiesa prosegue notando come purtroppo esistano nella società molte altre categorie di persone che sono private della libertà. “Di che libertà godono”, si chiede, “le giovani prostitute vittime di tratta a sedici, diciassette anni, tenute come bestie-bancomat dalle organizzazioni che le sfruttano?”. E ancora: “e gli ostaggi dei sequestri di persona? Se le parole hanno un senso il Garante delle ‘persone private della libertà’ deve occuparsi anche di tutti costoro”. Ci pare però che qui non si consideri un discrimine fondamentale: come figura istituzionale di garanzia, questo Garante deve supervisionare - dal suo punto di vista indipendente - sull’operato di altre istituzioni pubbliche. Deve cioè monitorare che la pubblica custodia, quella normata da leggi, sia effettuata in maniera, appunto, conforme alla legge. Per le vittime della tratta e per i sequestri di persona non c’è un garante ma c’è il codice penale. Si tratta di privazioni illegittime della libertà personale e non serve nessuno che ne controlli i criteri: vanno spezzate a monte. Le privazioni della libertà nelle quattro aree sopra elencate, invece, essendo conformi alla legge rispetto alla possibilità di tenere in custodia, possono (e devono: il Garante è figura prevista dalle stesse Nazioni Unite) venire controllate nella loro esecuzione. Speriamo di non aver fatto errori nell’apportare questo nostro piccolo contributo al dibattito. Mirabelli (Pd): fare luce sui 13 detenuti morti durante le proteste di marzo Ristretti Orizzonti, 10 settembre 2020 “Sei mesi dopo la rivolta nelle carceri italiane nel periodo del lockdown da Covid, è sceso il silenzio sulla morte a marzo di tredici detenuti, cinque solo nel carcere di Modena, quattro trasferiti da Modena presso altri istituti, uno alla Dozza di Bologna e tre nell’istituto penitenziario di Terni. In particolare i detenuti sarebbero stati vittime di abuso di sostanze stupefacenti trafugate durante la rivolta. Credo che, al di là di tutto, lo Stato italiano debba chiarire, soprattutto per le famiglie delle persone decedute, cosa è accaduto. Va fatta luce sugli accadimenti di quei giorni e sulle eventuali responsabilità e per questo ho rivolto un’interrogazione al ministro della giustizia Bonafede”. Lo dice il senatore Franco Mirabelli, Vicepresidente vicario del Gruppo del Pd e capogruppo dem in commissione Giustizia al Senato, che ha presentato un’interrogazione sottoscritta anche dalle senatrici Cirinnà, Iori e Rossoamando. “In particolare - prosegue Mirabelli - è necessario appurare se siano state eseguite le visite mediche necessarie al nullaosta per il trasferimento dei detenuti verso altri istituti e se sia o meno in corso un’indagine del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per chiarire come sia stato possibile che, nel carcere di Modena, i reclusi abbiano avuto accesso a metadone e psicofarmaci in quantità tali da risultare letali”. Il testo dell’interrogazione Interrogazione con richiesta di risposta urgente ai sensi dell’articolo 151 del Regolamento del Senato. Al Ministro della Giustizia premesso che: come ampiamente riportato dalle cronache, nel mese di marzo, la previsione del divieto di colloqui tra familiari e detenuti per contenere il rischio di contagio è divenuto pretesto per una sequenza di proteste in circa settanta carceri in tutto il territorio nazionale. Durante le rivolte hanno perso la vita 13 persone, cinque solo nel carcere di Modena, quattro subito dopo l’arrivo presso altri istituti, uno alla Dozza di Bologna e tre nell’istituto penitenziario di Terni. A tal proposito, si pensi, a titolo esemplificativo, al decesso di Salvatore Piscitelli, morto subito dopo l’arrivo presso l’istituto penitenziario di Ascoli Piceno, il quale, secondo quanto risulta all’interrogante, non sarebbe stato sotto posto ad alcuna visita medica prima del trasferimento; sui fatti avvenuti sono in corso le attività di indagine di diverse procure volte ad accertare se le proteste siano state causate anche da un disegno della criminalità organizzata e allo sfruttamento da parte della stessa del disagio dovuto alle condizioni di sovraffollamento in cui vive la popolazione carceraria, condizioni che, come noto, hanno procurato all’Italia, nel corso degli anni, diverse condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; in particolare, nell’istituto penitenziario di Modena i detenuti si sono riversati nell’infermeria dove hanno saccheggiato sia metadone che altri farmaci e psicofarmaci. Dagli esami autoptici è risultato poi che i decessi sono avvenuti per overdose, come affermato dal sostituto procuratore di Modena, dott. Giuseppe Di Giorgio “La causa esclusiva del decesso è collegabile all’abuso di stupefacenti, verosimilmente quelli sottratti dalla farmacia interna del carcere (...) Non sono stati riscontrati segni di violenza sui corpi”; rilevato che: come riportato dal blog Giustiziami, la direttrice pro-tempore del carcere di Modena, Maria Martone, in un’intervista avrebbe garantito che prima di essere trasferiti, tutti i detenuti sarebbero stati visitati presso il presidio sanitario allestito nel piazzale dell’istituto penitenziario modenese; tuttavia, secondo quanto riportato in due lettere scritte da detenuti e inviate a due giornaliste, una del blog GiustizaMi e l’altra all’agenzia stampa Agi, i detenuti non sarebbero stati sottoposti a visita medica prima della partenza per altri istituti, come invece sarebbe stato d’obbligo prima del trasferimento; sempre secondo quanto riportato dal blog Giustiziami fonti carcerarie hanno confermato le visite mediche, “fatte a tutti, magari in modo diverso dal solito e per questo non percepite come tali dai detenuti”; da un documento ufficiale emerge però una diversa ricostruzione. Infatti, l’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, nell’informativa integrativa girata il 23 marzo alla presidenza della Camera a proposito della fasi successive alla rivolta di Modena scrive che: “Le singole formazioni - di agenti del corpo di polizia penitenziaria - riuscivano a fiaccare la resistenza aggressiva e violenta dei ribelli, immobilizzare i più facinorosi, condurli all’esterno e a collocarli immediatamente sui mezzi di trasporto preventivamente predisposti”. Un documento, dunque, che non fa alcun cenno a visite mediche o a controlli sanitari-come di tutta evidenza, un ricovero d’urgenza anziché il trasferimento presso altro istituto avrebbe potuto consentire una diagnosi tempestiva e l’adozione di tutte le cure necessarie per impedire i decessi dovuti ad abuso di sostanze stupefacenti; rilevato inoltre che: il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, nella relazione al Parlamento del 26 giugno scorso, ha annunciato che per i 13 deceduti seguirà le indagini in corso attraverso la nomina di un proprio difensore e di un consulente medico legale per le analisi degli esiti autoptici. Per i nove morti detenuti a Modena, il consulente legale del Garante nazionale è la dottoressa Cristina Cattaneo, ordinario di Medicina Legale all’Università degli Studi di Milano. Una scienziata nota per il lavoro, portato avanti da anni, volto a restituire un nome ai migranti morti in mare; come sottolineato dal Garante Nazionale nella citata Relazione al Parlamento “chi ha il compito di custodire una persona, ha altresì l’onere della sua tutela e della garanzia dell’esercizio dei suoi diritti, perché è in questa duplicità il mandato che la collettività gli ha affidato.”; si chiede di sapere: quali iniziative necessarie e urgenti il Ministro in indirizzo intenda intraprendere al fine di accertare se siano state eseguite le visite mediche necessarie ai fini del rilascio del nulla osta sanitario per il trasferimento dei detenuti verso altri istituti, affinché sia chiarito che non vi siano state eventuali responsabilità o negligenze; se ad oggi sia in corso un’indagine interna condotta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Dap, al fine di chiarire come sia stato possibile che i detenuti dell’istituto penitenziario di Modena siano riusciti ad entrare in possesso di metadone e psicofarmaci in quantità tali da risultare letali. Posta dal carcere: le lettere che salvano la vita di Mariangela Bruno postenews.it, 10 settembre 2020 Ci sono parole che evocano al solo pronunciarle un senso inevitabile di distanza, di chiusura, di separazione. Carcere è una di queste. Quasi un luogo non luogo. Il luogo “dei delitti e delle pene” avrebbe detto Cesare Beccaria. Quando sei “fuori” le emozioni, le parole, i pensieri, gli affetti proprio perché così facilmente condivisibili, non vengono comunicati e vissuti nella loro pienezza: sono un bene scontato e quindi un valore sottovalutato. Quando sei “dentro” il bisogno di esprimersi diventa un bene assoluto e vitale per il detenuto: hai perso la possibilità di comunicare quando e come vuoi. Nella sua semplicità e immediatezza è la lettera ad avere il ruolo principale, come unico mezzo per i detenuti per comunicare in assenza di e-mail, cellulari, strumenti di cui la vita fuori è piena. Gli Uffici Postali vicini alle case circondariali - “Una penna, un foglio, una busta e un francobollo, pochi oggetti indispensabili per farmi sentire ancora vivo, punti di forza per continuare a sopravvivere e resistere, anziché soccombere”: sono le parole toccanti di Marco, un detenuto nel carcere di Paliano (Frosinone). Poste Italiane da sempre è vicina alla realtà del carcere come interlocutore ideale per soddisfare questo bisogno di comunicazione. Gli Uffici Postali limitrofi alle case circondariali sono il punto di raccordo della corrispondenza. “Gli incaricati del carcere si presentano tutti i giorni, acquistano per conto dei detenuti grandi quantitativi di francobolli, circa 2.000 pezzi al mese”. A raccontare con toni a tratti emozionati in che modo l’Ufficio Postale si interfaccia con questo target così particolare è Giorgia, direttrice dell’Ufficio Postale Tiburtino Sud a Roma vicino al carcere di Rebibbia. “Alcuni detenuti arricchiscono con profumi o piccole decorazioni le buste contenenti la corrispondenza indirizzata alla persona amata. Le buste sono piene di disegni, qualche volta cuori, ricami… se per un attimo ci fermiamo a pensare a quello che ci può essere dentro e dietro quella lettera affrancata, l’emozione arriva potente”. Le buste indirizzate alle persone amate, ma anche i telegrammi, sono scritte come se non ci fosse un filtro. “Queste lettere sono gli unici mezzi che hanno a disposizione per portare la loro voce al di fuori. È come se vedessero in quella lettera un canale diretto, unico, senza frapposizione di altre strutture. È toccante”. Il francobollo e l’attesa - Anche il mondo filatelico è vicino alla realtà delle carceri in Italia con iniziative ed eventi. Dopo una prima esperienza di qualche anno fa nel carcere di Bollate, dove reclusi appassionati di filatelia hanno avviato un circolo filatelico nella struttura che li ospitava, si sono susseguite varie iniziative con i referenti di Filatelia di Filiale, con il coinvolgimento di Poste Italiane, del Ministero della Giustizia, dello Sviluppo Economico e la Federazione fra le Società filateliche italiane. Tiziana, della Filiale di Frosinone, ha curato negli anni molte iniziative nella casa di reclusione di Paliano. “Nei detenuti cresce quotidianamente l’ansia dell’attesa di una lettera. Non una qualsiasi, proprio quella lettera. (…) Le Poste quotidianamente consegnano tante emozioni con il sole e con la pioggia, nei giorni feriali e in quelli estivi, sempre. Se non arriva si spera fiduciosi che il giorno dopo arrivi, così ci si dà coraggio. Nel frattempo il detenuto continua a scrivere per forza di inerzia o per reazione. La scrive, la legge la strappa (…) La pena da scontare è aggravata dalla misura afflittiva dell’abbandono. Ecco perché forse inconsapevolmente, il servizio reso da Poste Italiane, oltre che indispensabile, è vitale per chi vive una condizione di privazione della libertà personale. Una lettera è vita. A volte, una lettera arrivata in tempo salva una vita”. “La Giustizia? È iniqua”. Fare appello è “roba da ricchi” di Simona Musco Il Dubbio, 10 settembre 2020 La vera svolta? “Consentire a tutti di far valere i propri diritti”. Se la giustizia è lenta la colpa è dell’avvocatura. Parola di The European House Ambrosetti, che nel proprio rapporto sulla Giustizia se la “prende” con i cittadini che decidono di non accettare le sentenze di primo grado, impugnando le sentenze sfavorevoli e facendo ricorso in Appello e per Cassazione. Un “cattivo” comportamento, sebbene consentito dalla legge e garantito come diritto, del quale gli avvocati, in qualche modo, sarebbero complici. Tant’è che a pagina 18 del rapporto gli esperti lo dicono chiaramente: per risolvere il problema dei tempi elefantiaci dei processi “è necessario limitare ulteriormente fenomeni di ricorso opportunistico alla giustizia da parte del privato teso a un “tentato guadagno” per il tramite del sistema giudiziario, fenomeno che a volte può anche godere di una spinta da parte del sistema di avvocatura che può trovare utile non disincentivare tale atteggiamento”. Un po’ quanto già sosteneva il consigliere del Csm Piercamillo Davigo, allorquando teorizzava che a rallentare i processi fossero le tecniche dilatorie degli avvocati, intenzionati a raggiungere la prescrizione. Una teoria strampalata, che non rispecchia quanto accade nel mondo reale. E a spiegarlo sono proprio gli avvocati. Che a dispetto di quanto si legge nel report, non hanno i vantaggi descritti nel rallentare i processi. L’equivoco di fondo, secondo Antonio De Notaristefani, presidente dell’Unione nazionale camere civili, è che gli avvocati non hanno il dovere né il diritto di scoraggiare i cittadini dal fare causa. “Abbiamo il dovere di farlo solo per le cause inappropriate. Ma si sta introducendo di soppiatto il concetto che chi fa causa è un nemico della società, perché intasa la Giustizia. Non è così: chi fa causa fa valere un diritto che è riconosciuto dalla Costituzione, per esercitare il quale paga le tasse. Quindi è un diritto non solo in astratto, ma anche in concreto, perché ne sopporta i costi attraverso la contribuzione fiscale”, spiega De Notaristefani. Dal rapporto, però, l’idea emerge chiaramente: se una sentenza di primo grado è sfavorevole, fare appello è un tentativo di perdere tempo e intasare la Giustizia. Un’idea che non convince il presidente dell’Uncc per un semplice motivo: non esistono più i clienti che pagano a prescindere, si paga in base al risultato. “Se non c’è risultato, non c’è pagamento. Forse è questa la grossa pecca del rapporto: si registra un fenomeno sulla base dei dati forniti dal ministero, stando ai quali circa il 50 per cento degli appelli o dei ricorsi per Cassazione vengono respinti. Intanto i due fenomeni non dovrebbero essere equiparati spiega - in quanto la maggior parte dei ricorsi per Cassazione vengono respinti per ragioni di carattere formale, non sostanziale. Quindi non c’entra la ragione, ma il modo in cui i ricorsi vengono scritti”. In quanto al numero eccessivo di appelli, afferma, il dato avrebbe meritato una maggiore riflessione: oggi, infatti, con la liberalizzazione dei compensi, i grandi committenti fanno appello a costo quasi zero. Quindi, più che atteggiamenti opportunistici - al netto delle “pecore nere” - il vero problema è che “in Italia la Giustizia costa troppo poco per i ricchi e troppo per i poveri. Per fare un giudizio in appello, oggi, un impiegato spende 30mila euro. Ovvero un anno di stipendio. Quindi probabilmente sarà costretto ad accettare una sentenza magari ingiusta perché non può permettersi di fare appello - continue De Notaristefani. Per quella stessa causa, se la controparte è una grande banca o una grande compagnia di assicurazione, spende magari mille euro. Quindi può appellare tutte le sentenze: in ogni caso avrà vantaggi”. Il problema, dunque, è una Giustizia iniqua ed è questa la vera differenza con gli altri Paesi europei: il costo di accesso alla stessa. “Volete ridurre il numero delle cause? Perfetto, rendete vincolanti le tariffe professionali e consentite la deroga soltanto per i consumatori oppure per chi ha un Isee inferiore ad un certo valore”, insiste De Notaristefani. Il vero problema, dunque, non è il numero di appelli respinti, ma se l’accesso al giudizio di secondo grado è garantito in maniera equo per tutti. “È pericolosissima, ad esempio, la proposta avanzata anche da Carlo Cottarelli di restringere l’accesso al giudizio di impugnazione sulla base del censo. È una cosa incivile, che non dovrebbe mai essere consentita”, conclude. “Le riforme di Bonafede un fallimento totale”, l’accusa di Zanettin di Paolo Comi Il Riformista, 10 settembre 2020 “Il testo non esiste”. L’onorevole Pierantonio Zanettin “smaschera” dunque la riforma del Csm targata Alfonso Bonafede. Il Consiglio dei ministri, leggendo i comunicati delle agenzie, sembrava avesse approvato lo scorso 6 agosto, sulla scia del Palamaragate, la riforma dell’Organo di autogoverno delle toghe. Zanettin, da questa settimana neo capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Montecitorio, ha passato giorni alla ricerca del testo che, nelle intenzioni di Bonafede, avrebbe dovuto porre fine alla degenerazione del correntismo in magistratura. La ricerca di Zanettin, però, è stata vana, in quanto la riforma è al momento “salvo intese”. Quindi ancora nulla di definito e tutto lasciato alla futura mediazione fra le forze di governo. Onorevole Zanettin, quindi nessuna riforma? Nulla di nuovo. Solamente i soliti annunci del ministro della Giustizia. Siamo ormai abituati ai suoi proclami autocelebrativi e propagandistici. Di tutti questi ambiziosi progetti a suo tempo enunciati nessuno si è minimamente concretizzato. La riforma epocale della giustizia? Ecco, appunto. Era stato lo stesso Bonafede in occasione proprio dell’approvazione della “Spazza-corrotti” che aveva riconosciuto che il nuovo testo della prescrizione (bloccata dopo la sentenza di primo grado, ndr) poteva reggere soltanto insieme a una riforma “epocale” della giustizia penale. Ma finora di questa riforma “epocale” si sono perse le tracce. Anche in questo caso nessun testo? Alla Camera è incardinata la riforma del penale. Al Senato del civile. Dobbiamo ancora stilare il calendario delle audizioni. Sui tempi veda lei. Saranno lunghissimi. Nel frattempo lo Spazza-corrotti è legge da un anno… Esatto. Il primo gennaio di quest’anno il blocco della prescrizione si è abbattuto su Corti di appello già prostrate dalle croniche carenze di personale amministrativo e di magistrati. L’emergenza Covid-19 ha poi fatto il resto. Un disastro totale. Che bilancio dare dell’operato del ministro Bonafede? Un completo fallimento di due anni di governo nazionale a guida Movimento 5 Stelle. Solo intercettazioni a strascico, trojan a tappeto, più carcere. Anni perduti? Non solo. Anni in cui si sono colpiti i diritti costituzionali di tutti i cittadini. Con processi dalla durata imprecisata. Torniamo alla riforma del processo penale. Qualche bozza è circolata in questi mesi… Il progetto di riforma del processo penale voluta dai 5s terrorizza. I tempi ridotti per la celebrazione dei processi si vorrebbero ottenere a scapito delle garanzie dei cittadini, attenuando i diritti di difesa, limitando le impugnazioni, violando il contraddittorio e i principi di collegialità e di oralità dei processi. Lei è stato al Csm, cosa pensa del Palamaragate? Mi sembra la scoperta dell’acqua calda. Gli accordi fra le correnti in magistratura ci sono sempre stati. Tutti sapevano? Certo. E nessuno si indignava. Una indignazione molto farisaica visto che di interventi per risolvere il problema non ne è stato fatto uno. Il sistema va bene a tutti? Si. Lei è stato anche in Quinta commissione del Csm, quella per gli incarichi direttivi. Ha visto “spartizioni” sulle nomine? Si. E mi sono sempre opposto a queste spartizioni che ho denunciato. Spesso da solo. Quando era relatore ho cercato di puntare sul merito. Però vedevo aspetti poco chiari, opachi, soprattutto sulle tempistiche di certe nomine per favorire incastri che accontentassero tutti. Se venisse tolta la componente laica dal Csm? Aumenterebbe il potere delle correnti. A dismisura. Travaglio e i suoi “ragazzi” non stanno dalla parte della magistratura, ma solo dei Pm di Tiziana Maiolo Il Riformista, 10 settembre 2020 Non è vero che Marco Travaglio e la sua truppa del Fatto quotidiano stanno dalla parte della magistratura. A loro piacciono solo i pubblici ministeri, cioè quelli che in Italia -unico Paese del mondo occidentale- indossano indebitamente la stessa toga del giudice. In realtà c’è addirittura una categoria di giudici che quelli del Fatto proprio non sopportano, e sono i tribunali di sorveglianza. Non perdono occasione per tirar loro palate di fango, un materiale che in quella redazione conoscono bene. Capita che evada, non rientrato da un permesso premio, Johnny lo Zingaro, un vero papillon, habitué delle fughe, spesso d’amore. Sarebbe scappato (o non rientrato) da qualunque istituto di pena, se gli fosse girato così. Ma era detenuto a Sassari, e i giudici della città sarda hanno proprio una brutta reputazione agli occhi di Travaglio e dei suoi ragazzi (e ragazze). Sono quelli che, dopo aver invano chiesto al Dap il trasferimento in un centro clinico adeguato per un detenuto gravemente malato, gli hanno poi accordato, mentre era in corso l’allarme per il Covid-19, un differimento della pena per pochi mesi, perché potesse avere cure adeguate a una grave forma di tumore. Quel detenuto si chiamava Pasquale Zagaria, non aveva mai ucciso né rapinato, si era consegnato spontaneamente nel 2007, aveva poi ammesso i suoi reati, e soffriva di un “carcinoma papillifero di basso e focalmente alto grado della vescica”. Era stato operato e necessitava di cure specifiche. Non era considerato pericoloso almeno dal 2011, come dichiarato nel 2015 dalla corte d’appello di Napoli. Pure era finito nel tritacarne della canea, che ancora nei giorni scorsi aveva latrato dalle colonne di Repubblica, che polemizzava sui “boss scarcerati”. Pasquale Zagaria è in un ospedale lombardo, non scoppia di salute. Non rientrerà in carcere benché lo chiedano ossessivamente i pubblici ministeri napoletani, come già aveva fatto Catello Maresca, quello che lo aveva arrestato e che non si dà pace, perché i “cattivoni” giudici di Sassari hanno presentato ricorso alla Corte Costituzionale contro il decreto Bonafede dell’11 maggio. Quello che nominava i pubblici ministeri “antimafia” come badanti dei giudici di sorveglianza, minandone l’autorevolezza e l’autonomia. Con grande disappunto del Fatto, persino di una giornalista come Antonella Mascali che pure si era fatta le ossa, da giovane, alla scuola di Radio Popolare, fondata da un garantista come Piero Scaramucci. Caso Battisti, e questa sarebbe la destra garantista? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 10 settembre 2020 Detenuto in isolamento da un anno e mezzo, ha iniziato lo sciopero della fame. Le reazioni di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia dimostrano come non sono l’alternativa alla sinistra giustizialista. Una chiacchiera garantista che dura da trent’anni, così abbondante e melodrammatica quando si tratta di proteggere la gente “per bene”, cioè gli appartenenti al clan, sta in perfetta armonia con la più retriva e incivile istanza illiberale quando non c’è da accusare una toga rossa e quando a soffrire l’ingiustizia è chi appartiene a categorie che non ricadono in quell’ambito di tutela. La destra - questa cosa che avrebbe potuto essere altro, questa cosa che ha avuto il tempo, il modo, il potere, l’accreditamento per poter essere altro - in argomento di giustizia non è mai riuscita e tuttavia non riesce a essere nient’altro: e cioè l’osceno, eterno complesso reazionario mobilitato a reclamare impunità o chiavi da buttare a seconda che la giustizia infierisca di qui o di là. Il caso di Cesare Battisti, di cui in particolare questo giornale si è occupato, è solo l’ultima - ma molto significativa - riprova della genuina e inesausta natura illiberale di quella tradizione, che viene su inguaribile nei discorsi indignati degli influencer di destra quando un detenuto chiede il trattamento costituzionale dei propri diritti. Non c’è solo il prevedibile Salvini, che rivendica il merito di aver “assicurato alle patrie galere” il “vigliacco assassino” e grida contro lo “sconto di pena” che peraltro nessuno ha chiesto. Ce lo ricordiamo bene, Salvini, nel sodalizio ripugnante con il ministro Bonafede, quello travestito da poliziotto e quest’altro a fare il film della “giornata indimenticabile”, con la musichetta. Una cosa buona nella Repubblica fondata su Piazzale Loreto: una vergogna in un Paese appena decente. Ma appunto: che cosa volevi che dicesse il capo della Lega? Ma c’è anche, in competizione indemoniata, la madre e cristiana d’Italia, Giorgia Meloni, che a proposito della faccenda dichiara: “Dopo averla fatta franca per decenni, il terrorista Cesare Battisti non concepisce l’idea di dover restare in galera per il resto dei suoi giorni a scontare la pena che la giustizia italiana gli ha inflitto”. Dichiarazione stolida in primo luogo perché quel che Battisti concepisce o non concepisce non sono affari della Meloni e di nessun altro, e poi perché la pena inflitta non include il trattamento illegale di cui Battisti si assume vittima. Ma non è mica finita. C’è anche la signora Mara Carfagna, la quale non solo invita Battisti a “dimostrare dignità” (e chi è, una precettrice?), ma proclama: “In nome del popolo italiano è giusto che paghi per quello che ha fatto”. Signora Carfagna: “paghi” come? Con l’isolamento oltre i termini previsti? Con il conto dei minuti d’aria? Con la privazione del diritto alle cure mediche? Con il diniego del lusso costituito da un piatto di riso in bianco? Magari alla luce degli insegnamenti della sua collega in libertà, la signora Santanché, la quale, a proposito delle scandalose pretese di Cesare Battisti, sbava: “Si affami pure, ma in cella!”. Cara signora Carfagna, nessuna norma conferisce al popolo italiano, che lei vorrebbe onorare, il diritto di incattivirsi in quel modo su un detenuto. E semmai il popolo italiano dovrebbe vergognarsene: e lei che lo rappresenta dovrebbe spiegarglielo, anziché vellicarne la propensione aguzzina. Sarebbe la vostra, sarebbe questa l’alternativa alla sinistra “giustizialista” che dite di avversare? La Cassazione “promuove” lo stop alla prescrizione causa Covid-19 di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2020 Corte di cassazione, Terza sezione penale, sentenza 9 settembre 2020 n. 25433. Evasore condannato anche se avrebbe potuto contare sulla prescrizione. Tutta conseguenza della sospensione della prescrizione disposta nel periodo di emergenza sanitaria. Sospensione sulla quale la Cassazione, con la sentenza della Terza sezione penale, n. 25433 depositata ieri, ha considerato infondata la questione di legittimità costituzionale. La decisione della Corte ha così condotto a sanzionare sul piano penale un omesso versamento Iva dell’ammontare di 360.000 euro, malgrado la difesa avesse chiesto di sollevare davanti alla Consulta la questione di legittimità fondata sui profili di trasgressione dell’articolo 25, comma 2, della Costituzione, e dell’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo per l’introduzione, con il decreto legge n. 18 del 2020, un nuovo caso di sospensione della prescrizione applicabile anche ai fatti di reato antecedenti alla sua entrata in vigore. Tema controverso e già sottoposto alla Corte costituzionale, che dovrà dunque pronunciarsi, per effetto delle ordinanze di rimessione di alcuni giudici di merito (tribunale di Siena, con 2 provvedimenti del 21 maggio scorso, tribunale di Roma del 18 giugno, tribunale di Crotone del 19 giugno). Diversa invece la linea che preso corpo in Cassazione, dove si conferma l’ostilità al rinvio alla Corte costituzionale. La sentenza di ieri così, pur riconoscendo che la disciplina della prescrizione è indubbiamente di natura sostanziale, àncora il dato normativo non tanto al decreto legge n. 18 di quest’anno quanto all’articolo 159 del Codice penale, con la previsione di sospensione della prescrizione in ogni caso in cui la sospensione del procedimento e del processo penale è disposta per legge. “È, infatti, di tutta evidenza - osserva la Corte - che siffatta disposizione, nel rinviare, in relazione alla sospensione del termine prescrizionale, alle ipotesi di sospensione del processo, costituisce di per sè regola generale ed astratta, di carattere sostanziale, cui, di volta in volta attraverso il meccanismo del rinvio mobile, può dare contenuto la singola norma, questa volta di contenuto processuale e, pertanto, immediatamente applicabile, che, appunto disciplinando il processo, possa prevedere gli eventuali eventi che ne determinano la sospensione”. La sentenza osserva ancora che la disposizione che la difesa vorrebbe affidare al sindacato della Corte costituzionale, introduce in realtà una nuova ipotesi di sospensione della del processo penale. Infatti, l’articolo 83 del decreto legge n. 18 del 2020 dispone che tutte le udienze dei procedimenti civili e penali sono rinviate d’ufficio e che, nel medesimo periodo, è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto riguardanti i procedimenti fermati: una previsione che conduce a ritenere sospeso l’intero procedimento “non potendosi logicamente concepire l’incedere di un procedimento (inteso lo stesso come l’ordinario susseguirsi dei determinati che lo compongono) ove sia sospeso il termine per l’esecuzione di ciascuno degli atti da cui il procedimento è formato”. Battisti, Cassazione: “Isolamento legittimo” ansa.it, 10 settembre 2020 E’ legittima la condanna alla pena dell’isolamento in carcere inflitta a Cesare Battisti detenuto in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di quattro persone e altri gravi reati commessi negli anni Settanta quando militava nei Pac, i proletari armati per il comunismo, formazione alla quale aveva aderito negli anni di piombo alla fine dei quali è stato latitante per 37 anni in Francia e poi in Brasile. Lo sottolinea la Cassazione con un verdetto depositato oggi. Proprio ieri, Battisti ha reso noto di voler iniziare lo sciopero della fame contro l’isolamento nel quale vive nella prigione di Massama (Oristano). Ad avviso dei supremi giudici non è possibile applicare indulti e condoni per far venir meno questo duro regime detentivo in quanto “la sanzione dell’isolamento diurno che segue l’irrogazione di più condanne alla pena dell’ergastolo, non può essere oggetto di condono, neppure in parte, una volta operata la scissione del cumulo delle pene”. Essendo questo un orientamento di diritto più che noto e consolidato, gli “ermellini” della Settima sezione penale hanno condannato Battisti, difeso dall’avvocato Davide Steccanella, a versare tremila euro alla Cassa delle ammende oltre al pagamento delle spese di giustizia. Con questo verdetto, sentenza 25455, la Cassazione ha confermato quanto stabilito dalla Corte di Assise di Appello di Milano con ordinanza del 18 marzo 2019. Immigrazione clandestina, pena sospendibile per fatti commessi prima del Dlgs 7/2015 di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 10 settembre 2020 Corte costituzionale - Sentenza 31 luglio 2020 n. 193. Nel caso di un reato che configuri l’immigrazione clandestina commesso antecedentemente all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 7/2015 la pena può essere sospesa. Lo afferma la corte costituzionale con la sentenza n. 193/2020 depositata il 31 luglio 2020. Il caso - La vicenda trae origine dall’ordinanza di rimessione agli atti alla Corte Costituzionale emessa dalla corte di assise di appello di Brescia. L’ articolo 3-bis del decreto legislativo n. 7/2015 contiene una modifica di una norma contenuta nell’ordinamento penitenziario. Si tratta dell’articolo 4bis della legge n. 354/1975 richiamato dall’articolo 656 comma 9 lett. era a) del codice di procedura penale, che nella sua nuova versione esclude anche per il reato di immigrazione clandestina la facoltà per il giudice di applicare di sospensione dell’esecuzione della pena. Osservavano i giudici remittenti l’evidente illegittimità costituzionale di tale normativa dato la mancata previsione di una disposizione diretta ad impedire l’applicazione retroattiva del divieto di sospensione dell’esecuzione della pena. In tale modo l’attuale normativa, connotata dalla predetta omissione, viene precisato nell’ordinanza di rimessione, violava in maniera palese il comma 2 dell’articolo 25 della Costituzione ed il divieto di retroattività della norme penali sfavorevoli in esso contenuto. Il dettato costituzionale prevede infatti per il legislatore ordinario, un ben preciso obbligo sugli effetti temporali delle norme penali. Nel caso infatti fatti in cui entri in vigore una norma penale più sfavorevole rispetto alle precedenti i suoi effetti non potranno che riguardare i fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore, escludendo al contrario quelli realizzati antecedentemente che restano disciplinati dalla normativa pregressa. La decisione della Consulta - Di ben diverso avviso sono invece giudici della Consulta che ritengono il contenuto della normativa oggi vigente conforme alla Costituzione. Osservano i giudici costituzionale la semplice mancanza di una norma che impedisca al divieto di sospensione della pena non sia di per sé sufficiente a determinare una pronuncia d’ illegittimità costituzionale oggetto del giudizio de quo. Infatti viene precisato nella motivazione della sentenza n.193/2020 come il problema derivante dalla mancata previsione di una norma idonea a vietare l’applicazione retroattiva del divieto di sospensione della pena possa trovare una facile risoluzione in sede di applicazione concreta della norma. Infatti al giudice ordinario non è preclusa, in assenza di un’espressa disposizione diretta a regolare gli aspetti temporali del contenuto del decreto legislativo n. 7/2015 la facoltà di ritenere applicabile il divieto di sospensione dell’esecuzione della pena ai soli fatti realizzati successivamente all’ entrata in vigore del decreto legislativo n. 7/2015. Messina. Gli rigettano le istanze, muore dopo 60 giorni di sciopero della fame di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 settembre 2020 Carmelo Caminiti, detenuto con gravi problemi di salute, dopo la richiesta di domiciliari causa Covid aveva iniziato la protesta Il suo avvocato: qualcuno dovrà risponderne in giudizio. Alla fine è morto. Dopo 60 giorni di sciopero della fame, il recluso Carmelo Caminiti è finito in coma e ieri notte ha esalato l’ultimo respiro. Le sue condizioni di salute erano già gravi, tanto da aver chiesto gli arresti domiciliari ma si è visto respingere l’istanza. Una vicenda riportata sulle pagine de Il Dubbio grazie alla denuncia portata avanti dall’associazione Yairaiha Onlus. La gip ha concesso i domiciliari ospedalieri il giorno stesso che è uscito l’articolo, ma oramai è stato troppo tardi. A darne notizia del decesso è la sorella. “Sequestrando la salma - racconta drammaticamente la famigliare a Sandra Berardi, presidente dell’associazione - e sicuramente volendo fare l’autopsia credo che sia scontato il fatto che vogliano verificare quello che non hanno fatto prima: lasciare un uomo alla deriva, indurlo e accompagnarlo alla morte come un agnello al macello”. Poi aggiunge: “Nel 2020 non si lascia un uomo a digiuno per 60 giorni incuranti che tali decisioni erano dettati da uno stato di depressione e mala salute”. Carmelo Caminiti è stato un detenuto in attesa di giudizio presso la casa circondariale di Messina. Come ha segnalato l’associazione Yairaiha, viene arrestato dalla procura di Firenze a novembre 2017. A maggio del 2018 gli vengono concessi gli arresti domiciliari per varie patologie (tra cui diabete, stenosi, canali atrofizzati e altre) per le quali gli è già stata riconosciuta invalidità civile; a novembre del 2018 viene arrestato nuovamente dalla procura di Reggio Calabria. L’11 marzo 2019 gli arriva un mandato di cattura dalla procura di Brescia con le stesse accuse di Firenze. Viene infine trasferito al carcere di Messina al centro clinico. Durante l’emergenza Covid 19 gli avvocati presentano istanza in quanto soggetto a rischio. I tribunali di Firenze e Reggio Calabria, vedendo la relazione medica del dirigente sanitario del carcere di Messina riconoscono l’incompatibilità carceraria, ma il gip di Brescia - pur riconoscendo le sue gravi patologie - rigetta l’istanza, non concede gli arresti essendo un “soggetto pericoloso” ai sensi dell’articolo 7, ovvero l’aggravante del metodo mafioso. A dirlo è l’avvocato difensore Italo Palmara, che commenta la vicenda del suo assistito. “Nello stesso momento in cui il Tribunale di Reggio Calabria e quello di Firenze hanno giudicato in due differenti procedimenti il mio assistito incompatibile col regime carcerario per gravi motivi di salute - spiega l’avvocato-, in un terzo procedimento il Tribunale di Brescia, inspiegabilmente e a fronte della medesima documentazione medica, lo ha ritenuto compatibile col regime carcerario ed ha rigettato ogni mia richiesta di scarcerazione”. La situazione però si aggrava. I legali fanno ulteriori istanze per la concessione dei domiciliari. Il 30 maggio Carmelo Caminiti inizia a fare lo sciopero della fame e sete perché si sente vittima di un sopruso. L’11 agosto si aggrava e finisce in coma. L’avvocato ha presentato quindi un’altra istanza urgente, ricordando il rigetto delle istanze precedenti nonostante le documentate gravissime patologie che già presentava il detenuto. Ha ricordato come il Gip, motivando il mancato accoglimento dei domiciliari, scrisse che “il pericolo per la salute del detenuto in relazione all’emergenza sanitaria in atto è evocato solo in termini astratti”. L’avvocato Palmara del foro di Reggio Calabria, nell’istanza, ha anche fatto presente di aver conferito con la dottoressa, la quale ha definito la situazione “gravemente compromessa”. Alla fine, come detto, il giorno stesso che è uscito l’articolo, ovvero il 21 agosto scorso, arriva la concessione degli arresti domiciliari. Tempo due settimane, Caminiti muore. In merito alla morte, l’avvocato commenta duramente: “Chi si è reso responsabile di tutto ciò dovrà rispondere giudizialmente del suo operato. Anche se, purtroppo, a giudicarlo sarà qualche suo collega e dunque non nutro grosse speranze che i familiari possano finalmente ottenere giustizia, perché, come si dice, “lupo non mangia lupo”. Napoli. Al via tamponi per detenuti e agenti del carcere di Poggioreale La Repubblica, 10 settembre 2020 Inizia lo screening sanitario per il personale di Polizia Penitenziaria del carcere di Poggioreale, per tutti i detenuti che ne faranno richiesta e per gli stessi operatori sanitari. Lo rende noto l’Osapp, in una nota. “È un’operazione fortemente voluta dai sindacati di Polizia Penitenziaria e in particolar modo dall’Osapp”, sottolinea il vice segretario regionale Luigi Castaldo, “uno screening che ricopre una elevata importanza sul fronte della prevenzione medica e della sicurezza negli ambienti di lavoro”. Lo screening è stato predisposto e realizzato, fa sapere Castaldo, “grazie alla sinergia tra il direttore Carlo Berdini e il dirigente medico Vincenzo Irollo, con il supporto di tutta l’area sanitaria Penitenziaria”. Per Castaldo l’elevata sicurezza posta in atto dal direttore dell’istituto penitenziario partenopeo, tra i più grandi ed affollati d’Europa e dal Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria Campania Antonio Fullone, “soprattutto in questo travagliato periodo storico epidemiologico, non ha eguali visto il forte dispendio di risorse al fine di prevenire e scongiurare eventuali focolai. A coordinare l’operazione, realizzata grazie alla direzione generale dell’Asl Napoli 1 Centro, sarà il dirigente aggiunto della casa circondariale Gaetano Diglio”, conclude Castaldo. Campobasso. Detenuti da inserire nel mondo del lavoro: il progetto di Confcooperative primonumero.it, 10 settembre 2020 Siglata un’intesa con Ulepe (Ufficio locale esecuzione penale esterna) di Campobasso per dare una possibilità concreta ai soggetti svantaggiati. Il presidente dell’Unione regionale, Cav. Domenico Calleo: “Persone che hanno bisogno di riacquistare fiducia verso la società che li tiene ai margini”. Un protocollo d’intesa che dia voce agli ultimi, una seconda possibilità concessa a chi ha sbagliato, ha pagato e cerca di ritrovare un posticino all’interno della società. È quello sottoscritto il 7 settembre tra Confcooperative Molise e Ulepe (Ufficio locale esecuzione penale esterna) di Campobasso. L’accordo prevede la collaborazione con la rete del territorio e Confcooperative può rappresentare un ottimo trampolino di lancio per l’inserimento nel mondo del lavoro di persone svantaggiate partendo dall’attività di volontariato a valenza riparativa. L’Uepe si occupa, infatti, di persone adulte condannate per reati di varia natura, anche per condanne superiori ai quattro anni ma che devono scontare la parte residua in regime alternativo. “Confcooperative Molise è ben lieta di portare avanti questo accordo” dice il presidente dell’Unione regionale, Cav. Domenico Calleo. “Il mondo della cooperazione ha come capitale il capitale umano e noi riteniamo che queste persone possano rappresentare risorse. Dopo la pena detentiva è chiaro che hanno bisogno di riacquistare fiducia verso la società che li tiene un po’ lontani per via delle loro condanne. Integrarli per noi diventa un impegno, che potrà dar luogo anche alla costituzione di cooperative sociali di tipo B in base alla legge 381 del 1991”. Entrando nel dettaglio, il presidente Calleo tiene a sottolineare che “si faranno percorsi formativi personalizzati che daranno una competenza professionale e potremmo pensare a una cooperativa sociale di tipo B che lavori per le cooperative che già operano in settori molto diversificati, dall’agricoltura alla pesca, dall’apicoltura al sociale. L’accordo dà lustro all’impegno di Ulepe e dà fiducia a persone che oggi sono marchiate, per colpa dei reati commessi. Non vanno condannate perennemente ma reinserite nella società. Mi auguro che tramite le cooperative aderenti si possano ospitare queste persone in modo costruttivo cercando di trasformare i soggetti da passivi ad attivi”. “Le difficoltà di inserimento lavorativo sono evidenti - spiega il direttore di Ulepe Campobasso, Giuseppe Di Leo - e abbiamo pensato di collaborare con Confcooperative perché tramite le cooperative si può riuscire a creare progetti di mirati in base alle competenze e abilità partendo dal presupposto che si possa realizzare un tirocinio formativo preliminare all’inserimento lavorativo”. Allo stesso tempo, “si può anche pensare di inserire i soggetti nel mondo del volontariato per la giustizia riparativa. L’attività di volontariato per noi è diventata un’azione prevalente, c’è l’opportunità di vedere in maniera diversa il mondo dei detenuti”. Dunque, un’intesa che sensibilizzi, faciliti, regolarizzi i rapporti tra Confcooperative Molise e Uepe per favorire attività di volontariato a valenza riparativa di persone adulte in attesa di giudizio, condannate, per le quali si attivino percorsi riparativi proprio presso le cooperative aderenti. L’accordo potrà prevedere - aspetto molto importante - percorsi di formazione professionale e successivo inserimento lavorativo in forma diretta (tirocini formativi con eventuale assunzione) ed indiretta (costituzione di cooperative sociali di inserimento lavorativo). Busto Arsizio. Ritrovare la libertà con “Am@netta” di Rossella Avella interris.it, 10 settembre 2020 Uno spicchio di libertà e indipendenza ritrovato grazie al progetto di Matteo Tosi, garante dei detenuti di Busto Arsizio. Avete presente quel senso di libertà che si prova andando in moto? Quando si corre e il vento accarezza il viso scompigliando i capelli? Ecco, quello. Si, proprio quella sensazione di leggerezza mista ad adrenalina che solo la moto sa dare, quando tra le curve ci si china verso la strada per non perdere l’equilibrio. Ora immaginate di trovarvi in un carcere e di non poter godere di quella libertà, ma di poterla solo lontanamente immaginare. Da qui nasce “Am@netta” l’idea di Matteo Tosi, addetto stampa di professione, e già garante dei detenuti del comune di Busto Arsizio. L’obiettivo è quello di fare impresa nel carcere e di regalare ai detenuti, tramite un progetto di grafica e stampa, proprio quello spazio di libertà tanto agognato. “Am@netta” l’impresa nel carcere - “Il progetto nasce nel 2018 all’interno del carcere di Novara e prende da subito il nome di “Am@netta”. Il brand anticipa la caratteristica particolare di questo laboratorio di stampa per magliette. Si trova all’interno del carcere di via Sforzesca ed è frutto del lavoro dall’associazione culturale Brughiera CàDaMat di Busto Arsizio” ha raccontato Matteo Tosi ad Interris.it. Cosa significa fare una cosa “a manetta”? “Vuol dire farla fino in fondo, e per noi era importante non fermarci alle parole, ma riuscire a coinvolgere concretamente qualcuno in cerca di una seconda occasione. É un impegno per gli uomini di buona volontà. Quando per la prima volta ho visto realizzarsi il sogno, con il primo contratto firmato da un dipendente ho provato un senso di serenità e mi son detto - Vedi che era giusto, vedi che si fa -. Ad agosto 2019 abbiamo assunto il primo ad oggi siamo a due dipendenti”. Che aria si respira nel laboratorio? “Per ora il rapporto è stato ottimo anche perché si dà impegno a persone che durante la giornata non ha grandi alternative di impegno. Fosse anche solo per avere due ore di stacco dalla situazione di disagio nella quale si vive ed è bellissimo per loro. Purtroppo nelle carceri italiane non si respira una bellissima atmosfera. In quasi tutti gli istituti di detenzione c’è un esubero di presenze. La cosa più grave è lo stato di abbandono. Bisognerebbe usare meno carcerazione preventiva in cella perché in carcere c’è tanta gente che ancora non è sicuro sia colpevole”. Cosa pensi si possa fare per migliorare la situazione? “Basterebbe partire dalle piccole cose. Un esempio potrebbe essere quello di organizzare una serie di colloqui più umani dando un’ora di intimità anche da vivere in famiglia insieme a marito, moglie e bambino. Torni in cella con il magone ma almeno per un attimo sei stato il suo papà. Da padre soffro nel vedere sempre quelle scene strazianti di bambini che vorrebbero abbracciare i propri papà, che vorrebbero averli un po’ per sé. Bambini che vorrebbero essere più figli e non solo spettatori di questa triste realtà nella quale si ritrovano i propri genitori”. Trento. L’esperimento in carcere delle lezioni estive Corriere del Trentino, 10 settembre 2020 Spini di Gardolo, ora si prepara la stagione. Il 6 luglio, dopo un periodo di chiusura totale, sono iniziate le attività della scuola estiva al carcere Spini di Gardolo: “L’unico caso in Italia in cui vengono organizzati corsi estivi, interamente basati sull’attività volontaria” ci racconta Silvia Larcheri, professoressa al liceo “Rosmini” di Trento e una delle coordinatrici del progetto. Quella estiva a Spini di Gardolo è una scuola da sempre apprezzata dagli studenti, ma di cui vi era particolare bisogno soprattutto adesso, dopo che i detenuti hanno passato mesi chiusi in cella, sdraiati sulle brandine: “Non essendoci internet all’interno delle aule in carcere, non abbiamo potuto fare didattica a distanza. Quindi fin da subito abbiamo preparato materiale cartaceo, imbustato, e consegnato agli studenti detenuti. Ad un certo punto del lockdown, è stato anche possibile per loro restituirci il materiale”. Da quel momento lo scambio è stato più intenso, ci racconta Larcheri: “Mi sono resa conto che quel materiale che mandavamo noi professori e che avevamo pensato per ciascuno di loro era quasi un’ancora di salvezza. Uno studente ci ha scritto: quando ricevo la vostra busta è come scartare i regali di Natale”. Odio, la malattia sociale che ci lascia senza respiro di Walter Veltroni Corriere della Sera, 10 settembre 2020 Il caso di Colleferro come altri in Italia. E le ultime parole del ragazzo ucciso come quelle di George Floyd negli Usa. “Vi prego, basta, non respiro più”. Sono le ultime parole di Willy mentre dei ragazzi poco più grandi di lui lo stavano pestando a morte. Perché era meno forte di loro, perché aveva un colore della pelle diverso dal loro. Sono le stesse parole, proprio le stesse, di George Floyd mentre un poliziotto gli teneva il collo sotto il suo ginocchio per un numero interminabile di minuti. Due episodi molto diversi tra loro, che sarebbe sbagliato accostare, ma uniti dalle stesse parole delle vittime. Non respiriamo più. Ci toglie il fiato un’onda di violenza e di odio che sembra impossibile da frenare. L’odio non è un virus. È una terribile malattia sociale. La storia ci ammonisce a capirne le ragioni, prima di essere travolti dallo tsunami. Nasce, in primo luogo, dalla diseguaglianza sociale, dalla insicurezza del futuro, dalla sensazione che la vita sia un rischio, persino una minaccia, e non una possibilità. L’odio sociale è figlio delle crisi economiche e porta a individuare nell’altro il pericolo per la propria serenità e stabilità. E “l’altro” è chi ti viene indicato come colui che ti sta sottraendo ricchezza, come un intruso che viene a mangiare nel tuo piatto. È il “nemico” del quale hanno bisogno le idee autoritarie che si fondano sulla negazione delle differenze. Le parole sono importanti. Ed è importante selezionarle: scartarle non meno di sceglierle. Ci sono parole che determinano comportamenti, che sdoganano e legittimano veleni che la fatica, il sangue e il sacrificio del novecento avevano riposto in un cassetto. Il loro riemergere toglie il respiro. Mi ha colpito, tra i messaggi dei social citati da un bel servizio del tg di Enrico Mentana, il tweet di un essere umano che, pubblicando il volto di una donna nera, la chiamava “scimpanzè”. Mi ha fatto venire alla mente un’immagine della Difesa della razza, il giornale che costruì le condizioni del consenso alle leggi razziali del fascismo. È la fotografia di un vero gorilla, pubblicata nel novembre del 1942, proprio mentre i nostri soldati, trattati come bestie dal fascismo, morivano in Russia. La didascalia dell’immagine recita: “No: le cure del parrucchiere lo lasceranno scimmione come prima. Così un ebreo non potrà mai diventare ariano, malgrado tutti i virtuosismi anagrafici”. Gli ebrei furono demonizzati. Furono descritti come un pericolo sociale, economico e un attentato alla purezza della cosiddetta “razza ariana”. Si cominciò con le parole dell’odio e si finì ad Auschwitz. Se è vero che uno dei parenti degli aggressori ha detto ai giornalisti “In fin dei conti cosa hanno fatto? Niente. Hanno solo ucciso un immigrato”, non è difficile capire che quel pregiudizio, quell’idea che non tutte le vite umane siano uguali, è tornato tra noi, come un demone difficile da governare. Al fondo di quella vicenda - per la parte penale saranno i magistrati a chiarire - c’è in ogni caso questo substrato: il corpo di un immigrato, che venga lasciato affogare in mare o venga pestato a sangue, vale meno degli altri. Per i segni che possiamo trarre dalle vicende di cronaca, spesso utili per decifrare il proprio tempo, il pestaggio di Willy mi ha fatto pensare a quello che significò, alla metà degli anni settanta, la notte del Circeo, quando un gruppo di giovani dell’estrema destra seviziò e uccise Rosaria Lopez e ferì, ledendole la vita, Donatella Colasanti. L’odio corre veloce, oggi. È alimentato dall’anonimato dei social e dall’impunibilità di parole che, se pronunciate in pubblico, sarebbero inammissibili. I social sembrano una stanza chiusa, invece che una maglia di una rete. Lì tutto è possibile, per minoranze che usano le parole come randelli, come l’olio di ricino del duemila. Persino nelle reazioni all’uccisione di Willy si sono conosciuti orrori. Coloro che volevano condannare l’odio e il razzismo hanno scritto alla moglie di uno degli arrestati che aspetta un bambino dicendo: “Ti meriti di abortire”, oppure “Spero che tuo figlio muoia come Willy”. Si pensa ormai che l’unica forma di reazione all’odio sia altro, contrapposto, odio. È la stessa spirale degli anni settanta. Sono minoranze. Non bisogna mai dimenticarlo, per non sbagliare. Non si deve pensare che le parole del veleno appartengano alla grande maggioranza degli italiani che invece oggi soffrono per la morte di quel ragazzo che voleva solo mettere pace, difendere un suo amico. Ed è inutile prendersela con i tatuaggi o con le palestre. Significa guardare il dito invece della luna. Il vero problema è che esiste un profondo malessere sociale, educativo, culturale nel nostro Paese. La pandemia, precipitando l’Italia nella crisi più profonda dal dopoguerra, sta accelerando i rischi di scollamento. E personalmente temo molto, in assenza di segni di ripresa, gli effetti dei licenziamenti che arriveranno al termine della moratoria. Sul campo rischiano di restare solamente le parole violente che giocano furbescamente con questo malessere, lo esasperano, lo indirizzano verso qualcuno. Chi, nel discorso pubblico, le usa spregiudicatamente si assume una grave responsabilità. E rischia di essere l’apprendista stregone di fenomeni che non riuscirà poi a controllare. Non sembri un paradosso, ma un antidoto all’odio è il conflitto. Quel sano, collettivo strumento di ogni vita democratica. Quello che nel passato ha tradotto la rabbia in energia ed è stato potente strumento di cambiamento. Una società in crisi, con una vita pubblica di marmellata, con l’indistinto che prevale sulla nettezza delle magnifiche differenze del pensiero è esposta a potenti rischi di involuzione. L’odio può generare, con il consenso popolare, risposte autoritarie che, nel nostro tempo, possono convivere con garanzie formali. Ma Navalny, gli intellettuali turchi, il dissenso ad Hong Kong ci raccontano come, per slittamenti progressivi, la democrazia, sotto sistemi autocratici, sia destinata a consumarsi. La morte di quel ragazzo sorridente, che voleva fare il cuoco e tifava per la Roma, che si sentiva italiano perché era italiano, richiede che si depongano i guantoni e si usi il cervello. Colleferro, Alatri, Macerata sono Italia. Quei casi ci hanno detto qualcosa di grande e di inquietante. Ma rischia per tutti noi di valere il titolo di un film di Eduardo De Filippo tratto da “Le voci di dentro”. Si chiamava “Spara forte, più forte, non capisco!”. Nella commedia un personaggio, lo zio Nicola, aveva smesso di parlare per sempre perché deluso dal mondo e comunicava con gli altri in un solo modo: attraverso i “botti”. Odiatori e indifferenti stanno lastricando il nostro futuro di intolleranza, razzismo e violenza. Se vogliamo evitare che anche noi, delusi dal nostro tempo, ci si riduca ad esprimerci con “botti” violenti, dobbiamo sempre ricordare le parole che Martin Luther King, uno che ha cambiato il mondo, disse nel 1963 a Washington: “Le nostre vite iniziano a finire il giorno in cui taciamo sulle cose che contano”. Gli assassini di Willy devono essere puniti. Ma da un giudice, non dal tribunale del popolo di Paolo Delgado Il Dubbio, 10 settembre 2020 Ci sono delitti più orribili di altri. O almeno che suscitano maggior rabbia indignazione per la loro efferatezza, ferocia e stupidità. L’assassinio di Willy Monteiro a Colleferro è uno di quelli. Come l’atroce massacro del Circeo, che dopo 45 anni non è ancora stato dimenticato e segna ancora un spartiacque nella storia sociale e culturale di questo Paese. È normale che sia così, ed è anche giusto. Emozioni del genere, per quanto comprensibili e giustificate, non dovrebbero tuttavia assumere il comando e far velo a tutto il resto. Bisogna per esempio pesare le parole e aspettare che siano noti parecchi elementi oggi oscuri prima di azzardare, ad esempio, paragoni con il delitto del Circeo. Gli assassini di Willy devono essere puniti. Ma a farlo deve essere una giustizia capace di pesare con attenzione fatti e responsabilità individuali, non influenzata da un’opinione pubblica furente che trova nei social un potentissimo megafono e neppure da luoghi comuni e demonizzazioni o, peggio, da un paio di fotografie. In questi giorni, sui social, migliaia di persone hanno chiesto di ‘ buttare la chiave’. Come se il rispetto delle garanzie e del dettato costituzionale che finalizza la pena alla risocializzazione fosse una variabile dipendente dall’efferatezza del crimine invece che dal percorso di recupero e da una valutazione non vendicativa e non emotiva del delitto. Questa visione dei diritti e della natura della pena come variabili dipendenti è la regola, non l’eccezione. In questi giorni Cesare Battisti chiede appunto il rispetto dei suoi diritti sanciti per legge, la fine di un isolamento che non potrebbe superare i sei mesi e dura da un anno e mezzo, il potersi cucinare cibi adeguati al suo stato di salute. Nessuno se ne occupa perché, insomma, è pur sempre Cesare Battisti, diventato per una parte sostanziosa dell’opinione pubblica una delle tante personificazioni del male che i media si dilettano a costruire, rispetto alle quali diritti e persino la Carta si possono ignorare. La chiave, bisognerebbe dire forte e chiaro, non si butta mai. Non si butta per nessuno. La tentazione di rispondere alla richiesta di punizione esemplare lavorando sul capo d’accusa rischia di essere forte. Specialmente se uno dei primi quotidiani italiani strilla nel titolo che “il pestaggio è durato 20 minuti”. Dovrebbe andare da sé che un pestaggio di 20 minuti non è plausibile neppure alla lontana e, nell’irrealistico caso, andrebbe incriminato per complicità l’intero paese. La differenza tra come si sono svolti i fatti, una rissa con feroce pestaggio durata una manciata di secondi, e lo strillo di Repubblica si misura in anni di galera: è quella che passa tra l’omicidio volontario e preterintenzionale. Dovrebbe essere una banalità anche affermare che non si sbatte mai il mostro in prima pagina, per ragioni di civiltà che prescindono dalla gravità del crimine. Anche qui, però, il rischio di viziare le indagini è concreto. Per due giorni abbiamo visto campeggiare le foto di due fratelli palestrati, accompagnate da articoli sensazionalistici e passaggi a effetto. In quella rissa qualcuno ha certamente tirato il calcio fatale. I quattro picchiatori coinvolti, almeno tre dei quali tra cui i fratelli Bianchi esperti in arti marziali, si accusano a vicenda. Sarebbe ingenuo pensare che la guerra lampo mediatica contro i due palestrati sbattuti in prima pagina non incida sulla valenza delle diverse deposizioni e non giochi a sfavore dei Bianchi. Inevitabilmente la tragica e tristissima vicenda ha innescato un vortice di sociologismi che non dicono nulla sulla vicenda di Colleferro ma raccontano moltissimo sul mondo in cui viviamo e sullo sguardo miope quando non apertamente fazioso degli opinion makers di turno. Qualcuno e l’è presa con le palestre, anche se le medesime sono frequentate da decine di migliaia di persone che non tirano calci omicidi, qualcun altro, molti altri per la verità, con ‘ il fascismo’, anche se non risulta alcuna appartenenza a formazioni di estrema destra dei quattro arrestati. Non importa. Il fascismo ha smesso da un pezzo di essere un’appartenenza politica. È diventato una specie di categoria antropologica che permette sillogismi a manetta: chi picchia è per ciò stesso fascista. Da cui deriva anche il sillogismo inverso. Chi si dichiara fascista è per ciò stesso picchiatore e carogna. Il paragone con la mattanza del Circeo è utile, più per le differenze che per le somiglianze tra i due casi. Nel 1975 tre giovani di estrema destra abituati a esercitare violenze efferate torturarono per una notte due ragazze, le stuprarono e poi cercarono a freddo di ucciderle entrambe, riuscendo a finire per caso solo una delle due, Rosaria Lopez mentre l’altra, Donatella Colasanti ne uscì miracolosamente viva. Il disprezzo per la vita umana era palese. La convinzione di una superiorità quasi razziale su due vittime femmine e “borgatare” facilmente intuibile. Il sadismo e la ferocia conclamati. Da quel che è per ora emerso, la vicenda di Colleferro ha tratti diversi. C’è la rissa tra ragazzi di due paesi diversi, c’è parecchio odioso bullismo, c’è la tracotanza dettata della superiorità fisica, c’è il culto discutibile per la prestanza ostentata, c’è la superficialità di chi picchia avvalendosi di quell’addestramento, forse senza rendersi conto delle possibili conseguenze. Forse c’è anche di più. Forse c’è davvero un accanimento che denota una ben maggiore efferatezza. Forse c’è una componente razziale che è difficile non sospettare ma che è tutt’altro che certa. Questo saranno le indagini e gli approfondimenti a dirlo. Non possono essere due foto e una raffica di articoli che cercano più l’effetto forte che la verità fredda. Solo che anche il giornalismo italiano è probabilmente, a propria volta, conseguenza di una temperie sociale e culturale che poi, certo, amplifica e porta alle estreme conseguenze ma che non determina. È il bisogno diffuso di trovare il male assoluto, qualcuno di compiutamente perfido, di totalmente “cattivo”, con cui prendersela. Può essere Johnny lo Zingaro, un disadattato trasformato “nell’essenza del male”. Può essere Cesare Battisti, uno dei tantissimi che negli anni 70 fecero scelte sbagliate e omicide, elevato a simbolo del male, dunque privo anche dei diritti garantiti a tutti gli altri. Può essere il nemico politico, visto non come sostenitore di idee o ideologie opposte ma come un’etnia antropologicamente criminale. Tra i tanti problemi che la notte feroce di Colleferro indica questo, pervasivo com’è, tale da condizionare ogni dimensione dalla socialità alla politica, non figura in fondo alla lista. Migranti. Lesbo, in fiamme il campo profughi. Migliaia di sfollati di Carlo Lania Il Manifesto, 10 settembre 2020 L’incendio nella notte distrugge le baracche dove vivevano in condizioni disumane quasi 13 mila richiedenti asilo. “Ho sentito il grido di disperazione dei rifugiati” raccontava ai primi di agosto Armin Laschet, candidato alla presidenza della Cdu, il partito della cancelliera Angela Merkel, appena tornato da un viaggio al campo di Moria, sull’isola greca di Lesbo. Tra martedì e mercoledì notte quel grido ha preso la forma di un incendio che ha devastato il campo profughi più grande d’Europa. I vigili del fuoco hanno combattuto a lungo per spegnere le fiamme e alla fine quello che si è presentato agli occhi di tutti è stato uno scenario di totale distruzione. Per fortuna non si registrano né vittime né feriti, ma tutto il resto è finito in cenere. Bruciate le tende e le baracche all’interno della quali sopravvivevano a stento, secondo i dati aggiornati al 7 settembre dal governo greco, 12.767 richiedenti asilo (la capienza massima del campo è di 2.967 posti). Bruciato il Ric, il Centro di registrazione e identificazione dell’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. E sono finiti in cenere anche i locali gestiti all’esterno del campo da una ong internazionale e adibiti alla quarantena delle 35 perone risultate positive al Covid. “Il paradosso è che è andato distrutto anche il container ospedale donato dal governo olandese e mai utilizzato” racconta Andrea Contenta, responsabile diritti umani di Medici senza frontiere in Grecia. Il risultato è che almeno 6.000 persone non hanno più nemmeno quel misero rifugio sul quale potevano contare fino a ieri, mentre alcune migliaia di migranti sarebbero riuscite a fuggire nonostante il cordone di poliziotti in assetto antisommossa subito schierato dal governo di destra guidato da Kyriakos Mitsotakis intorno al campo. “L’incendio è stato appiccato da alcuni richiedenti asilo come forma di protesta” per le misure imposte per contenere l’emergenza Covid, ha spiegato il ministro per l’Immigrazione Notis Mitarachi nonostante non ci siano prove certe della responsabilità dei migranti. “La combinazione di migrazione e pandemia in queste condizioni sta creando una situazione eccezionalmente impegnativa”, ha poi ammesso Mitarachi. Di sicuro al momento sembrano esserci solo due cose: la prima è che l’incendio sarebbe scoppiato in almeno tre punti diversi del campo, come hanno stabilito i vigili del fuoco che hanno anche raccontato di aver incontrato la resistenza di alcuni migranti agli sforzi per spegnere le fiamme. La seconda è che dietro quanto accaduto c’è l’esasperazione di migliaia di uomini, donne e bambini abbandonati da Atene. “Da tempo avevano chiesto al governo un piano organico per fronteggiare l’emergenza Covid ma non è mai stato fatto, e questi sono i risultati”, spiega ancora Contenta. Da quando la pandemia è arrivata in Grecia, i circa 70 mila richiedenti asilo presenti nel Paese sono tra coloro che hanno pagato il prezzo più alto non per numero di contagi ma per le continue limitazioni alla loro libertà di movimento. E a pagare più di tutti sono stati proprio i 27 mila che si trovano sulle isole dell’Egeo. Cominciato il 21 marzo, per i rifugiati il lockdown è stato infatti prorogato prima fino all’11 maggio, poi fino al 21, per essere in seguito allungato fino al 7 giugno e di nuovo fino al 19 luglio per finire con una nuova scadenza fissata per il 15 settembre prossimo. Il tutto accompagnato da misure sempre più stringenti: “A partire da oggi i movimenti di coloro che si trovano nei campi delle isole sono drasticamente ridotti”, annunciò a marzo Mitarachi. Per i migranti questo ha significato poter uscire dai campi solo “in piccoli gruppi” tra le 7 e le 19 e con solo una persona per famiglia presente nei gruppi. Inoltre i movimenti sui trasporti pubblici vengono regolati dalla polizia. Anche le ordinazioni di cibo e altri generi essenziali “quando possibile”, vanno fatte attraverso il telefono. Restrizioni che sono andate ad aggiungersi a una situazione di sovraffollante già pesantissime specie a Moria dove quasi 13 mila persone possono avere l’acqua solo per 5-6 ore al giorno, dove in 160 devono dividersi lo stesso bagno e in 500 la stessa doccia. “Le misure sempre più severe imposte ai migranti sulle isole si stanno trasformando in vere e proprie misure di detenzione de facto, del tutto inadeguate peraltro a contenere il diffondersi della pandemia”, denunciava solo pochi giorni fa Oxfam. Mentre per Msf “il governo greco sta imponendo una quarantena sconsiderata e potenzialmente molto pericolosa per i migranti e richiedenti asilo del campo di Moria”. In serata il ministro dell’Interno Takis Theodorikaks ha annunciato che 3.500 profughi rimasti senza un tetto verranno trasferiti a bordo di un traghetto e di due navi militari, mentre altri 3.500 verranno trasferiti in aree non colpiti dalle fiamme o in centri reperiti dal governo. 400 minori non accompagnati verranno invece trasferiti nell’entroterra. Migranti. Lesbo, una tragedia annunciata. Ma il premier greco accusa le vittime di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 10 settembre 2020 L’isola sarà in “stato di emergenza” per quattro mesi. Quanto basta per trasferire tutti gli ex ospiti di Moria nei campi situati nel continente, recintati e sotto il controllo della polizia. La vera notizia non è che l’incendio sia scoppiato ma che non sia scoppiato prima. In questi cinque anni la vecchia caserma abbandonata di Moria è diventata un enorme ammasso di anime con più di 15 mila ospiti, con punte di 20 mila. Gli incidenti erano all’ordine del giorno: risse per l’acqua, scontri tra bande, attacchi alle donne sole, violenze sui bambini, suicidi. Ma anche tende andate a fuoco da fornelli rovesciati, rivolte di chi aspetta da anni, assalti disperati alle barche, attacchi e incendi di fascisti greci e d’importazione. Da tempo la catastrofe era all’ordine del giorno. Alla fine è arrivata. Moria era un inferno senza colpevoli. Le domande di asilo vanno a rilento perché la burocrazia greca ed europea non regge alla pressione. I migranti sono costretti a stare a Lesbo a causa del famigerato accordo tra Merkel ed Erdogan. Il presidente turco vede nei flussi migratori un’occasione in più per espandere il suo potere e ricattare gli europei. Nell’ultimo anno ha giocato pesantemente questa carta. A marzo ha mandato migliaia di immigrati a sfondare il confine greco sul fiume Evros, ma gli è andata male. Più tardi ha intensificato gli sbarchi sulle isole dell’Egeo. Malgrado i ripetuti respingimenti della Guardia Costiera greca (sempre negati), nell’ultimo anno ci sono stati più di 20 mila nuovi arrivi, facendo crescere il numero dei migranti in Grecia a poco meno di cento mila persone. Il premier greco Kyriakos Mitsotakis è il principe di una delle dinastie politiche del paese, si interessa di economia e vive della comunicazione (propaganda) che gli assicurano in maniera corale tutte le emittenti tv del paese. L’acutizzarsi del problema migratorio è l’ultima delle sue preoccupazioni. Appena il suo partito di destra (con punte di estrema destra) Nuova Democrazia ha vinto le elezioni nel luglio 2019 ha subito abolito il ministero dell’Immigrazione fondato a suo tempo da Tsipras. Salvo poi tornare sui suoi passi e rifondarlo pochi mesi dopo, collocandovi a capo un cortigiano non brillante, Notis Mitarakis e come vice un ex diplomatico, Giorgos Koumoutsakos, uomo capace ma poco ascoltato a palazzo Maximou, sede del capo del governo. Il fatto è che questi immigrati non interessano proprio a Mitsotakis, espongono il suo governo alle critiche dell’opinione pubblica internazionale e fanno anche perdere elettori. È indicativo il fatto che in un anno di governo il premier non ha mai voluto visitare alcuna struttura di accoglienza per farsi un’idea del problema. In compenso, aveva visitato Moria il ministro dell’Ordine Pubblico Michalis Chrisochoidis, tanto per fare capire che l’immigrazione era cosa sua. Il premier si è accontentato di essere prima notizia nei telegiornali per giorni interi per aver “convinto” Merkel ad accogliere 50 minori non accompagnati. Ieri mattina, mentre non era stato ancora spento l’incendio di Moria, Mitsotakis si è messo la cravatta e si è piazzato davanti alla sua telecamera preferita. Ha alzato il dito verso le vittime, sostenendo che l’incendio era il risultato della loro “violenta reazione” ai controlli sull’epidemia che avrebbero provocato “disordini di grande ampiezza”, sposando così la versione secondo cui l’incendio sarebbe stato provocato dallo scontro tra 35 profughi trovati positivi e gli altri, diffusa dai poliziotti in un primo momento ma non confermata in seguito. Ora si trasferiscono a Lesbo navi in disarmo per ospitare più di 13 mila anime disperse in tutta l’isola, inclusi 408 minori non accompagnati. Per rastrellarle sono state trasferite tre compagnie di celerini, mentre l’isola sarà in “stato di emergenza” per quattro mesi. Quanto basta per trasferire tutti gli ex ospiti di Moria nei campi situati nel continente, recintati e sotto il controllo della polizia, di cui Mitsotakis vorrebbe aumentare il numero ma le reazioni xenofobe dei suoi elettori glie lo impediscono. In quelli già aperti e funzionanti sono stati già rinchiusi in questi giorni i profughi che hanno ottenuto asilo politico ed erano stati costretti a dormire per terra in Piazza Viktoria di Atene. La strada o il filo spinato, sotto l’ombra del manganello, ecco la politica migratoria della destra greca. Francia. La pandemia in carcere ha scoperchiato il velo: sistema crudele e malato di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 10 settembre 2020 Una cosa è sicura: le carceri francesi hanno un grosso problema con gli elicotteri. Pascal Payet c’è riuscito due volte, a evadere. Anzi, per la verità, sono tre le fughe in elicottero che portano la sua firma. Era stato arrestato a Parigi nel 1999 dopo una rapina a un furgone blindato in Provenza in cui c’era scappato il morto. Nel 2001, poco prima del processo, riuscì a evadere dalla prigione di Luynes a bordo di un elicottero che era stato sequestrato da alcuni suoi complici. Nel 2003 è lui a organizzare la fuga di alcuni detenuti “pesanti” sempre dal carcere di Luynes e sempre per mezzo di un elicottero. Lo arrestano nel 2005, lo condannano a trent’anni. Cominciano a spostarlo da una prigione all’altra, trenta in nove mesi, per non dargli il tempo di pensare una fuga e per non dare modo ai suoi complici all’esterno di organizzarla. Eppure, il 14 luglio 2007, approfittando della festa nazionale francese, quattro uomini mascherati e armati di tutto punto arrivano alla prigione di Grasse con un elicottero sequestrato all’aeroporto di Cannes-Mandelieu, tirano fuori Payet dall’area di isolamento dove si trovava, e se lo portano via. Fu nuovamente arrestato il 21 settembre 2007 a Mataró, nella periferia nord di Barcellona e da allora, per motivi di sicurezza, nessuno sa dove sia. La fuga più recente in elicottero è una fotocopia. Il primo luglio 2018, tre uomini incappucciati e armati di fucili d’assalto arrivano in elicottero al centro penitenziario dell’Ile-de-France meridionale a Réau, si fanno strada fino al parlatorio dove un detenuto sta incontrando suo fratello, lo prendono e se lo portano via. Stavolta, insieme all’elicottero hanno sequestrato anche il pilota. Elicottero e auto della fuga saranno poi abbandonati bruciati nell’Oise. Il detenuto in fuga - peraltro già evaso da un’altra prigione nel 2013 dopo aver fatto saltare una serie di porte blindate e preso quattro ostaggi - si chiama Rédoine Faïd e verrà catturato definitivamente nell’ottobre. Ma la pioniera di queste fughe in elicottero è una sposa devota, Nadine, moglie di Michel Vaujour, un rapinatore. È la mattina del 26 maggio 1986. Una donna arriva all’aeroporto di Saint-Cyr-l’Ecole. Sta affittando un elicottero, il che non è insolito: nei mesi precedenti, la giovane donna ha preso lezioni di volo e ora è un pilota regolare e esperto. Decolla alle 10: 27. Direzione: prigione La Santé, nel cuore di Parigi, è lì che è incarcerato suo marito Michel. L’elicottero sorvola la circonvallazione, arriva alla prigione, si posiziona sopra un cortile e resta in volo stazionario. Nadine lancia un gancio al marito, per mezzo di una canna da pesca telescopica; Michel afferra il gancio, si fa tirare fin sul tetto, si allunga ai pattini dell’elicottero - è fatta. L’elicottero decolla di nuovo e si dirige a sud della capitale. Atterreranno nel parco della Cité Universitaire e scompariranno. Quattro mesi più tardi Michel verrà colpito alla testa durante una rapina e rimarrà paraplegico. Nadine sarà condannata a 18 mesi di prigione e in carcere partorirà la sua bambina. Ma il vero grosso problema le carceri francesi hanno dovuto affrontarlo con l’emergenza Covid-19. Scrive la Section française dell’O. I.P., Observatoire International des Prisons: “Nelle carceri, lo scoppio della crisi sanitaria ha sorpreso le autorità”. Una cosa è certa: a marzo, lo stato delle prigioni francesi non consentiva loro di affrontarlo. Il paese ha un nuovo record di detenzione, con 72.650 persone detenute. Come rispetti le regole del distanziamento fisico quando, nei centri di custodia, che hanno un tasso di occupazione medio del 140%, tre o addirittura quattro detenuti sono rinchiusi in una cella di nove metri quadrati? Come proteggere, pulire, disinfettare, ventilare quando gran parte dell’infrastruttura è fatiscente e antigienica? Come prendersi cura dei malati quando le unità sanitarie soffrono di una mancanza cronica di risorse e personale? In realtà, ogni prigione costituisce un potenziale focus epidemiologico. Per anni, la situazione carceraria è stata lasciata peggiorare e la crisi ha gettato una cruda luce su un sistema già malato. I primi annunci del governo non sono all’altezza della situazione e si concentrano sulla riduzione dei movimenti di detenzione e degli scambi con il mondo esterno. Il ministero della Giustizia decide, il 17 marzo, di sospendere le visite, nonché tutte le attività (lavoro, formazione, attività socioculturali e istruzione). Cresce la richiesta di prendere in considerazione un’altra opzione, l’unica che sarebbe appropriata: ridurre la pressione carceraria. Più di un migliaio di avvocati, magistrati, operatori sanitari chiedono una riduzione urgente e significativa del numero di persone incarcerate e di evacuare le persone più vulnerabili alla salute: “Non domani. Non la prossima settimana. Oggi”. Anche i detenuti, spinti dalla preoccupazione, si stanno mobilitando. In un testo che circola in vari istituti penitenziari, scrivono: “Noi, prigionieri, accusiamo il sistema giudiziario e carcerario di metterci in pericolo di morte e chiediamo immediatamente lo sblocco di tutte le prigioni”. Il governo annuncia il 23 marzo che avrebbe autorizzato il rilascio di 5.000 detenuti a cui manca poco per il fine-pena. Una buona cosa, ma in ritardo e soprattutto ritenuto insufficiente sia dagli osservatori che da alcuni magistrati. Mentre, nei tribunali, i giudici responsabili dell’applicazione delle sentenze, i pubblici ministeri, i funzionari della prigione e gli operatori sanitari lavorano fianco a fianco per far uscire il maggior numero possibile di persone dalla prigione, l’amministrazione cerca di limitare la diffusione del virus in detenzione. Le logiche di sicurezza - a volte assurde - si oppongono agli imperativi della prevenzione sanitaria: il gel idroalcolico, per dire, è vietato durante la detenzione, poiché l’alcol è vietato; la promiscuità è la regola, che si tratti di passeggiate o di avere accesso a cabine telefoniche, le interazioni sono numerose e i gesti di barriera al virus a volte impossibili; le docce sono condivise e non c’è disinfezione; non c’è alcun involucro di plastica sui cibi, e sono ancora serviti in ciotole di acciaio aperte e la ciotola passa di mano in mano. Tuttavia, dobbiamo riconoscerlo: il peggio è stato evitato: il virus non si è diffuso come un incendio, come si sarebbe potuto temere - anche se due persone sono morte dopo aver contratto la malattia, un detenuto e una guardia. Ma la trasformazione principale è che sotto l’effetto combinato della politica di rilascio anticipato delle persone alla fine della loro pena, il declino dell’attività giudiziaria e la diminuzione della delinquenza durante il contagio, le carceri francesi ospitavano, il 24 maggio, 13.649 detenuti meno che all’inizio della crisi. Mentre la Francia ha registrato un’inflazione carceraria continua negli ultimi vent’anni, questa situazione senza precedenti dimostra che è possibile un’altra strada. L’esperienza degli ultimi mesi mette in discussione le pratiche: ‘ La pena detentiva deve rimanere al centro delle nostre richieste?’, si chiede un pubblico ministero”. Uno sguardo sullo stato delle prigioni francesi è desolante. All’inizio del 2020, 35 penitenziari sono stati considerati dalla giustizia francese come luoghi in cui le persone sono esposte a condizioni non dignitose. La dilagante inflazione di carcerizzazione ha ulteriormente peggiorato il deterioramento delle condizioni e portato all’invecchiamento precoce delle infrastrutture: addirittura, un terzo del “parco prigioni” è oggi considerato fatiscente. Sovraffollamento cronico, fatiscenza, insalubrità, scarsa igiene, mancanza di privacy che genera violenza e tensione, mancanza di attività - questi sono i punti salienti messi in evidenza da inchieste e indagini. Anche da parte di organismi internazionali, come le Nazioni Unite che, nel loro ultimo rapporto, deplorano “le condizioni materiali di detenzione inadeguate che prevalgono in questi stabilimenti, in particolare le condizioni fatiscenti e la mancanza di igiene e pulizia”. La Francia è stata condannata 18 volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, per le condizioni di detenzione che violano l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che vieta la tortura e un trattamento disumano o degradante, e è stata “sollecitata” a adottare misure strutturali per porre fine al sovraffollamento delle carceri. Due anni fa, Les Echos, il più autorevole quotidiano economico-finanziario francese, aveva sintetizzato la situazione delle carceri francesi in cinque cifre: 1) il 52% delle pene riguarda la prigione, più di una sentenza su due. Solamente nell’11% dei casi, il giudice ha richiesto una pena alternativa come il braccialetto elettronico. 2) 80.000 detenuti in Francia, e solo 11.000 scontano la pena fuori dalle mura della prigione. Tra gli altri 69.000 distribuiti in circa 188 istituti penali, ci sono 20.000 imputati, vale a dire persone imprigionate in attesa di processo. La stragrande maggioranza dei detenuti (97%) sono uomini. Solo 2.500 donne sono in prigione. 3) Prigioni piene al 116%. Con 69.000 prigionieri per 59.765 posti di detenzione, la Francia è tra i peggiori in Europa in termini di sovraffollamento carcerario. Solo il Belgio (127%) e l’Ungheria (129,4%) fanno peggio, mentre la media dell’Unione europea si attesta al 94%. 4) Budget di 2,8 miliardi di euro. Dei quasi 7 miliardi di budget assegnati alla Giustizia nel 2018, quasi il 40% è dedicato all’amministrazione carceraria. Come sono distribuiti? La costruzione di nuovi stabilimenti e la rimessa a norma di carceri malsane da sole arrivano a quasi un miliardo di euro, mentre le spese relative alla sicurezza degli stabilimenti (videosorveglianza, recinzioni, eccetera) continuano a crescere. Al contrario, per il reinserimento dei detenuti, un fattore decisivo nella prevenzione, sono destinati solo 25 milioni di euro, pari allo 0,8% del budget dell’amministrazione penitenziaria. 5) 28.000 agenti. Con un sorvegliante per 2,5 detenuti, la Francia ha uno dei peggiori tassi di rapporto in Europa. Alcuni paesi, come Svezia, Danimarca o Paesi Bassi, hanno persino più agenti dei prigionieri. Il reclutamento di nuovi agenti è stato una delle prime richieste dei sindacati. Ma secondo i dati ufficiali, 2.500 posti di sorvegliante sono attualmente vacanti per mancanza di candidati. Come si è visto, alcuni di questi dati sono persino peggiorati in questi anni. Che sia una questione annosa, lo dimostra il Rapporto de M. Alvaro Gil-Robles, Commissaire aux droits de l’homme, sul rispetto effettivo dei diritti umani in Francia in seguito alla sua visita negli istituti di pena dal 5 al 20 settembre del 2005. Al termine di una missione in 32 stati europei, tra cui sedici giorni trascorsi in Francia, Gil- Robles classificò le carceri francesi tra le peggiori d’Europa. In un’intervista rilasciata a Libération, descrisse in particolare la prigione di Baumettes a Marsiglia come un “luogo ripugnante”. Il livello delle prigioni francesi è dietro quello della Moldavia - sostenne Gil-Robles. “Il tasso di suicidi in detenzione (115 decessi nel 2004) è 6,4 volte superiore alla media francese, l’assistenza medica è insufficiente o addirittura inesistente, mentre dal 70 all’ 80% dei detenuti soffre di disturbi psichiatrici e un terzo è tossicodipendente quando entra in prigione - sottolinea il rapporto. Il numero di lavori penitenziari è diminuito del 30% dal 2000. Solo un terzo dei detenuti è retribuito. Il tasso di formazione è al minimo da dieci anni”. Nel 2013, Marie Crétenot e Barbara Liaras dell’European Prison Observatory, hanno rilasciato un paper, pubblicato dall’associazione Antigone, sulle Prison conditions in France. Tra le altre cose, si cercava di capire quale impatto potesse avere avuto la crisi economica del 2008 sullo stato delle prigioni e sulla condizione dei detenuti. Vi si legge: “La crisi economica non ha avuto alcun impatto sul bilancio annuale dell’amministrazione carceraria. È in costante aumento dal 2008 (1,9 miliardi di euro nel 2008, 2,51 nel 2013). Tuttavia, la maggior parte dei fondi aggiuntivi è stata assegnata per aumentare il “parco carcerario” (costruzione di nuove prigioni nell’ambito di partenariati pubblico-privato) piuttosto che per iniziative di riabilitazione come lo sviluppo di attività di detenzione. Malgrado ciò, la crisi ha inasprito il declino dell’offerta di lavoro fornita dai partner privati. Gran parte del lavoro disponibile per i prigionieri è lavoro industriale, un settore in declino in Francia, colpito dalla crisi. Il numero di detenuti impiegati nel settore industriale è diminuito del 9% dal 2008. Inoltre, alcune organizzazioni di formazione o associazioni coinvolte in attività socioculturali e istruzione per la salute o attività di pre-rilascio hanno subito un taglio dei sussidi”. Forse, gli elicotteri non sono il più grosso problema delle carceri francesi. Bielorussia. Minsk come Ankara: ora la repressione colpisce gli avvocati di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 10 settembre 2020 Arrestato il difensore dei diritti Maxim Znak. Una dopo l’altra, come le pedine di un domino, le figure più importanti dell’opposizione a Alexandr Lukashenko, stanno cadendo nelle mani del regime. Imprigionate o costrette all’esilio mentre nel paese si susseguono manifestazioni di protesta al momento senza che il potere del presidente ne risulti scalfito. A sole 48 ore dall’arresto e il tentativo non riuscito di espulsione di Maria Kolesnikova (rapita e portata al confine con l’Ucraina) ieri è stata la volta di Maxim Znak, l’ultimo dei 7 membri del Consiglio di coordinamento, l’organo istituito dall’opposizione per sovrintendere a un eventuale trasferimento di potere dopo le elezioni, ufficialmente vinte da Lukashenko ma secondo la sfidante Svetlana Tsikanovskaya macchiate da pesanti brogli. Il coordinamento è sempre stato considerato dal presidente come un attentato alla sicurezza nazionale. Il 39enne Znak è un avvocato che in precedenza ha lavorato a fianco dell’altro candidato alla presidenza costretto all’esilio, Viktor Babaryko. Le circostanze del suo arresto sono state raccontate alla stampa da un collaboratore del legale, Gleb German. Ieri Znak avrebbe dovuto prendere parte a una videoconferenza ma ben presto si è capito che non sarebbe riuscito ad intervenire. Quando è stato chiamato dagli altri l’avvocato si è limitato ad una breve comunicazione dicendo “qualcuno è arrivato” e poi ha riattaccato. Particolare inquietante è una porzione di un messaggio che sarebbe riuscito ad inviare nel quale è stata digitata solo la parola “maschere”. Si ritiene che questo sia un riferimento alle coperture per il viso indossate dai servizi di sicurezza bielorussi. Altri testimoni hanno poi riferito di aver visto Znak essere condotto lungo una strada vicino ai suoi uffici da uomini travisati e in abiti civili. Sembra dunque essersi verificato quello che l’avvocato dell’opposizione bielorussa aveva paventato solo qualche giorno fa in un’intervista alla Bbc: “Fingo di essere rilassato. È un’abitudine professionale, ma in realtà sono molto preoccupato e spaventato”. Come in altri casi la polizia deve ancora commentare le notizie sulla detenzione e le modalità dell’arresto, lo stesso successo pochi giorni fa in occasione del tentativo d’irruzione nell’appartamento di Svetlana Alexievich, premio Nobel 2015 per la letteratura membro del Consiglio di coordinamento. Interrogata dagli uomini della polizia è considerata il capro espiatorio per un giro di vite su tutta l’opposizione. Repressione che da quando sono iniziate le proteste è passata dalla violenza indiscriminata di piazza alle minacce personali con arresti selettivi di attivisti e oppositori. Come dimostra ciò che è successo martedì scorso quando la polizia ha disperso alcune centinaia di persone radunate a Minsk in solidarietà con la Kolesnikova, alla fine però gli arrestati sono stati “solo” 45 secondo quanto riporta il centro per i diritti umani di Viasna. Sul piano internazionale la Ue ha minacciato sanzioni, si è schierata con l’opposizione ma non ha dato ancora seguito ai provvedimenti annunciati. Una postura tenuta in realtà anche da Washington che al di là della preoccupazione non ha espresso una volontà concreta di colpire economicamente Lukashenko. Quest’ultimo intanto potrebbe partire per Mosca da un momento all’altro, sul tavolo al Cremlino sembra esserci un piano di integrazione della Bielorussia con Mosca. Iran. Nuove accuse per Zaghari-Ratcliffe, l’anglo-iraniana detenuta a Teheran di Gabriella Colarusso La Repubblica, 10 settembre 2020 Secondo il marito, la donna arrestata nel 2016 per sedizione sarebbe vittima di uno scontro diplomatico: il Regno Unito ha un vecchio debito di 400mila sterline con l’Iran, ma non lo paga senza l’avvallo degli Usa. Domenica prossima Nazanin Zaghari-Ratcliffe, che da quattro anni è prigioniera in Iran con l’accusa di aver tentato di sovvertire il regime iraniano, dovrà comparire di nuovo di fronte a un giudice: nei suoi confronti sono state mosse nuova accuse, ma non si sa bene quali, nemmeno i suoi legali ne sono a conoscenza. Quello che da giorni vanno ripetendo è che Nazanin sia vittima di uno scontro diplomatico tra il Regno Unito e l’Iran per il pagamento di un vecchio debito che Londra ha nei confronti di Teheran. Zaghari-Ratcliffe, cittadina anglo-iraniana, lavorava come responsabile di progetto per la Thomson Reuters Foundation: nel 2016 fu arrestata in Iran mentre andava a fare visita alla sua famiglia con la figlia piccola e condannata a cinque anni per sedizione, accusa che ha sempre respinto. L’Iran non riconosce la doppia cittadinanza. Lo scorso marzo Nazanin Zaghari-Ratcliffe è stata trasferita dal famigerato carcere di Evin, il penitenziario alla periferia di Teheran dove sono rinchiusi molto detenuti politici, agli arresti domiciliari sotto il controllo di un bracciale elettronico per via dell’emergenza Covid19. Ma due giorni fa gli addetti del tribunale rivoluzionario le hanno notificato un nuovo mandato che la obbliga a comparire davanti al giudice domenica, per difendersi in un processo da nuove accuse indefinite, che il portavoce del ministero degli Esteri britannico ha definito “indifendibili e inaccettabili” chiedendo che la donna non torni in prigione. Il marito di Nazanin, Richard Ratcliffe, ora chiede al governo inglese di “fare di tutto per proteggerla” convinto che la vita di sua moglie sia ostaggio di uno scontro diplomatico di difficile soluzione. Gli avvocati di Nazanin ripetono da tempo che la detenzione della donna è un mezzo di pressione che Teheran usa per riscuotere da Londra il pagamento di un vecchio debito che ammonta a circa 400 milioni di sterline per una fornitura militare che risale ai tempi dello Shah. L’Inghilterra di recente ha riconosciuto il debito, ma secondo il marito di Nazanin e gli avvocati della donna il governo non ha fatto i passi necessari per ripagarlo per timore di creare tensioni con l’amministrazione Trump. Il 25 agosto gli avvocati hanno scritto una lettera al ministro della Difesa Ben Wallace accusando il governo di “procrastinare” il pagamento e di avere un approccio meno efficace degli Usa per la liberazione dei cittadini britannici con doppia nazionalità detenuti in Iran. Nella lettera, gli avvocati accusano l’International Military Services (Ims), un’agenzia governativa del Regno Unito, di continuare “a sollevare ogni possibile obiezione legale al pagamento del debito” e di non aver ingaggiato “un dialogo costruttivo con Teheran”. “Il governo del Regno Unito sta apparentemente aspettando il permesso implicito del governo degli Stati Uniti di pagare i debiti (…) che consentirebbe a Nazanin (e ad altri cittadini britannici innocenti) di tornare finalmente a casa”, scrivono i legali. Le Nazioni Unite hanno definito la detenzione di Nazanin “arbitraria e illegale”.