Quella conta incivile di morti mute che la politica non vuol vedere di Giulio Cavalli Il Riformista, 9 ottobre 2020 Dall’inizio dell’anno si sono tolti la vita 45 detenuti, 27 i decessi per cause da accertare. La frequenza di suicidi in carcere è 20 volte superiore rispetto alla popolazione libera, ma nei palazzi si fa finta di nulla. L’ultimo è di qualche giorno fa: un ragazzo ventiduenne suicida nel carcere di Brescia in una vicenda da chiarire in molti suoi particolari. Il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo avere denunciato le violenze sessuali subite da un imprenditore che gli offriva capi d’abbigliamento in cambio di prestazioni sessuali. La Procura di Brescia proprio in questi giorni stava chiudendo le indagini ma il giovane si è tolto la vita nella sua cella. Ma i suicidi in carcere continuano a essere una tragedia silenziosa che si ripete con feroce regolarità. Il 2 ottobre scorso si è tolto la vita Carlo Romano, detenuto a Rebibbia da sei mesi: aveva 27 anni e conclamati problemi psichici che l’avevano già spinto a tentare il suicidio e per questo era passato alla sorveglianza a vista che gli era stata revocata proprio il giorno precedente. La Garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni sottolinea che si tratta dell’ennesimo caso di una persona “che forse poteva essere curata all’esterno”. Lo scorso 28 settembre è toccato a un uomo di origini albanesi che era in attesa di giudizio nel carcere di Bologna, il compagno che condivideva la camera con lui non si sarebbe accorto di nulla. Solo il giorno precedente, il 27 settembre, nel carcere di Castrovillari (Cs) un detenuto marocchino ha approfittato del cambio turno della polizia penitenziaria per impiccarsi con un lenzuolo. Nella notte tra il 29 e il 30 agosto si è impiccato nella sua cella, dove si trovava solo, Omar Araschid, di origini marocchine, era recluso nell’area dei “sex offenders” e avrebbe nuovamente guadagnato la libertà nel 2021. Il 27 agosto nel carcere di Pescara il 63enne Dante Di Silvestre aveva ricevuto da due giorni il diniego di lavorare fuori dal carcere dal magistrato dell’Ufficio di sorveglianza, per lui è stato un colpo durissimo, ha messo da parte gli effetti personali e un biglietto per la moglie e approfittando del regime di semilibertà che gli era stato riconosciuto per il suo comportamento esemplare, nel cortile del carcere ha utilizzato una corda che usava per il lavoro e si è impiccato a una sbarra. Di Silvestre era in carcere dopo la sentenza definitiva a 11 anni, con i benefici di legge aveva già scontato quasi metà della pena e aveva ottenuto la semilibertà. Poi, ancora: a Milano un 42enne algerino era stato fermato per tentato furto, era in una stanza da solo in Questura in attesa di foto-segnalamento. Si è tolto la maglietta, l’ha legata alle grate della finestrella della stanza vuota e l’ha stretta al collo. Quando gli agenti l’hanno trovato era già troppo tardi. Il 20 agosto si è impiccato al carcere Pagliarelli di Palermo Roberto Faraci, 45 anni, entrato in prigione da pochi giorni, anche lui sfruttando il fatto di essere stato lasciato solo. È una moria di storie e di persone impressionante, che si ripete con cadenza mostruosa. Il 19 agosto un suicidio nel carcere di Lecce, il 17 Giuseppe Randazzo a Caltagirone, il 12 agosto sempre al Pagliarelli di Palermo (dove sono avvenuti ben 3 suicidi nel solo mese di agosto) si è impiccato (il solito drammatico cliché) Emanuele Riggio. Il 30 luglio nel carcere di Fermo si è suicidato un 23enne, di cui dalle cronache non si riesce nemmeno a risalire al nome. Aveva 23 anni anche Giovanni Cirillo che si è ammazzato il 26 luglio a Salerno e ne aveva 24 invece il detenuto che si è ammazzato a Como nello stesso carcere dove un mese prima in un’altra sezione si è tolto la vita, impiccandosi con la corda della tuta da ginnastica, un detenuto tunisino di 33 anni. In quell’occasione erano stati i compagni di cella, di ritorno dopo il periodo trascorso all’aria, a trovare il corpo senza vita. La conta dal 17 gennaio di quest’anno (quando si verificò il primo suicidio nel carcere di Monza) a oggi è incivile: 45 suicidi dall’inizio dell’anno, tutti per impiccamento tranne 4 casi di suicidi per asfissia provocata da gas. A questi numeri si aggiungono 27 casi di morti da accertare, tutt’ora al vaglio degli inquirenti. Secondo il Sappe, il sindacato della Polizia penitenziaria, sarebbero 1.100 i tentativi di suicidio ogni anno evitati dagli agenti. Il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, adottato il 21 luglio del 2017, non ha rallentato la catena di suicidi: 52 nel 2017, 67 nel 2018, 53 nel 2019. La frequenza dei suicidi in carcere è di 20 volte superiore alla norma, mentre quella tra gli agenti penitenziari è 3 volte superiore alla norma e risulta anche la più elevata tra tutte le Forze dell’Ordine. Secondo il sito ristretti.it “è facile concludere che i detenuti si uccidono a centinaia (e tentano di uccidersi a migliaia) in primo luogo perché percepiscono di non essere più portatori di alcun diritto: privati della dignità e della decenza, trascorrono la propria pena immersi in un “nulla” senza fine”. Ma la notizia fatica sempre ad arrivare ai giornali e fatica infilarsi nel dibattito pubblico. Rimangono le brevi di cronaca date ogni tanto su qualche sito locale: la politica fa spallucce (se addirittura non invoca ancora meno diritti) e l’opinione pubblica è colpevolmente distratta. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri - sosteneva Voltaire - poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”: qui la situazione è sempre nera, nerissima ma i palazzi sembrano non accorgersene. Gli inglesi ai detenuti danno più telefoni, noi più reati di Rita Bernardini Il Riformista, 9 ottobre 2020 I cellulari rinvenuti nei penitenziari? In UK hanno risposto mettendo il telefono in ogni cella. Da noi nessuna cura per le relazioni affettive, solo repressione. Decine di migliaia di genitori detenuti non possono abbracciare i propri figli, anche minori, da quando è scoppiata la pandemia da coronavirus, cioè da otto mesi. All’inizio dell’emergenza i colloqui visivi sono stati del tutto vietati il che, non essendo stato spiegato come di dovere alla popolazione detenuta, ha originato proteste e perfino rivolte in decine di istituti penitenziari con tanto di morti e feriti sul campo. Da luglio, i colloqui dei detenuti con i familiari sono stati autorizzati ma solo attraverso un vetro divisorio e solo per un adulto e un minore (insomma, come al 41bis!). Solo chi non sa cosa significhi il colloquio de visu per una persona reclusa, può sottovalutare, come è capitato e capita, la portata di questi provvedimenti. Non che prima della pandemia le cose andassero meglio, soprattutto per le telefonate. Il regolamento penitenziario prevede infatti che un detenuto abbia diritto a una sola telefonata a settimana per non più di dieci minuti, il che smentisce lo spirito stesso dell’ordinamento penitenziario che all’art. 28 prevede che l’Amministrazione dedichi “particolare cura a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie”. Cura? L’Italia detiene la maglia nera in Europa sia per gli incontri dei detenuti con i propri familiari (sei al mese della durata di un’ora), sia per le telefonate, come abbiamo già visto. Vietati i colloqui intimi, come se la sessualità non rientrasse nella sfera dei diritti inviolabili della persona e se l’obbligo di astinenza (magari per anni) non determinasse serie ripercussioni sulla salute psico-fisica dei ristretti. In questo quadro sommariamente descritto, che ti fa il Governo Conte su proposta del ministro della Giustizia Bonafede? Anziché intervenire per assicurare una pena costituzionalmente orientata meglio garantendo la cura degli affetti con la famiglia dove prima o poi il detenuto dovrà ritornare, introduce una nuova fattispecie di reato, quasi non bastassero le 37.000 già esistenti! Affronta così non il problema (l’affettività negata) ma la conseguenza (i cellulari introdotti negli istituti) derivante dalle ridottissime possibilità di contatto con i familiari contemplate nella legislazione vigente. Loro contano i sequestri di telefonini e non cosa ci fanno i detenuti e le detenute con essi. Per lor-signori i 54mila carcerati sono tutti boss mafiosi che mandano ordini e messaggi all’esterno. Ma non è così. Nella stragrande maggioranza dei casi i ristretti usano i cellulari per parlare con la fidanzata, moglie o convivente; per parlare con i genitori anziani o con i figli piccoli, per sapere come stanno in salute, come va la scuola; per sapere se la famiglia se la sta cavando con l’affitto o con le bollette da pagare, se l’assistente sociale si è fatta viva e li sta aiutando; per chiedere che nel pacco mensile sia inserita una maglietta o un paio di jeans. Cioè le cose semplici oggetto delle conversazioni telefoniche di miliardi di persone al mondo. In Gran Bretagna, nel 2017, i telefonini rinvenuti nei 118 istituti penitenziari sono stati 10.643. Da noi 1.761. Una bella differenza, direi: sei volte di più che da noi! Solo che, dopo questa scoperta, in Gran Bretagna l’amministrazione della Giustizia ha deciso di mettere il telefono in ogni cella per consentire ai detenuti di poter parlare quando vogliono con i familiari o con altre persone ammesse. Nel 2018 il Segretario di Stato alla Giustizia, David Gauke, spiegò che i telefoni nelle celle “rappresentano un mezzo fondamentale per consentire ai detenuti di costruire e mantenere relazioni familiari, cosa che sappiamo essere fondamentale per la loro riabilitazione”. E aggiunse che questa “riforma” contribuiva a “tramutare le prigioni in luoghi decenti in cui i criminali hanno una reale possibilità di cambiare le loro vite”. Ahi-noi! Qui in Italia abbiamo Bonafede al quale il Partito Democratico lascia fare ogni scempiaggine gli passi per la testa in tema di giustizia e carcere. Cellulari in carcere nascosti nel formaggio e nei palloni di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2020 Prima era solo un illecito, ora invece è reato. C’è chi ha lanciato un pallone. Chi ci ha provato con un drone. E chi con formaggio e salame. Nel solo biennio 2019-2020 sono entrati nelle nostre carceri ben 2.725 microcellulari. Un’impennata notevole se consideriamo i dati del triennio 2016-2018: rispettivamente 149, 252 e 502 apparecchi recuperati all’interno dei penitenziari. Il dato più grave riguarda la tipologia di detenuti che ha avuto accesso a questi telefoni. Per i detenuti in regime di media sicurezza si contano 1.420 telefoni nel 2019 e 1.036 nel 2020. Per quelli in regime di alta sicurezza le cifre oscillano tra i 201 del 2019 e i 269 del 2020. E quando parliamo di alta sicurezza ci riferiamo a tre categorie di detenuti. La prima riguarda gli appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso. La seconda include gli imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo (anche internazionale) o eversione dell’ordine democratico (mediante il compimento di atti di violenza). Infine la terza: chi ha rivestito un ruolo di vertice nelle organizzazioni criminali dedite allo spaccio di stupefacenti. Il danno che può provocare un telefono cellulare nelle mani di un detenuto in regime di alta sicurezza non è difficile da immaginare: può comunicare con i suoi sodali - o sottoposti - mafiosi. Può continuare a gestire il narcotraffico. Può inviare messaggi con finalità terroristiche ed eversive. Ecco, ben 470 telefoni, nel solo biennio 2019-2020, erano destinati a detenuti con le potenzialità che abbiamo appena elencato. Il dato più incredibile, però, è che nessuno di questi casi ha mai rappresentato un reato. Fino a oggi s’è sempre trattato di un illecito disciplinare punito, di volta in volta, secondo il regolamento di ciascun penitenziario. Il regime cambierà in seguito alle norme che il ministero di Giustizia ha introdotto nell’ultimo decreto Sicurezza. Chi introduce in cella un cellulare destinato a un detenuto rischierà da uno a quattro anni di carcere. Stessa pena per il detenuto che lo riceve. Il caso più eclatante di questi anni risale senza dubbio al novembre 2019: a Parma, nella cella di Giuseppe Gallo detto “Peppe ‘ o pazzo”, detenuto al 41bis, sono stati ritrovati ben tre cellulari (dotati di schede e perfettamente funzionanti). Le modalità per portare i microtelefoni nelle carceri sono piuttosto varie. C’è chi li introduce nel proprio corpo. Chi usa dei droni. Almeno due i casi registrati. Il primo a Secondigliano, nei mesi del lockdown, quando un apparecchio s’è abbattuto contro i muri del penitenziario. Il secondo sempre in Campania la scorsa settimana: trasportava - secondo Gnewsonline il quotidiano online del ministero di Giustizia - ben 10 telefoni, altrettante schede telefoniche e 8 carica-batterie. Quando nel carcere di Carinola, in provincia di Caserta, iniziavano a piovere pietre, s’è scoperto che si trattava di calcestruzzo con dentro un telefono incellophanato. E sempre a Carinola persino un sacerdote, pronto a celebrare messa, è stato trovato in possesso di 9 telefoni nascosti dentro delle buste di tabacco. Ad Avellino 19 telefoni ritrovati nel fondo di una pentola. A Rebibbia c’è chi invece ha scavato nel formaggio, ci ha infilato un telefono, e ha ricomposto il tutto. Qualcun altro li ha infilati dentro un salame. Mentre ad Avellino ben 15 apparecchi sono stati ritrovati all’interno del più famoso dei palloni: il mitico Super santos. La figura del direttore penitenziario ha un enorme valore ma alla politica pare non interessare di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2020 Le ultime persone che sono entrate nella pubblica amministrazione con il ruolo di direttore penitenziario lo hanno fatto nel 1996. È stata l’ultima volta che qualche giovane da poco laureato ha dedicato il proprio impegno a studiare le leggi che regolamentano la pena, a ragionare sulla gestione delle carceri, a immaginarsi in quel difficile ruolo provando entusiasmo per quel possibile suo futuro. Sono 24 anni che non viene bandito un nuovo concorso. Ventiquattro anni nei quali i direttori più anziani sono andati in pensione, gli istituti sono rimasti senza gestione, il personale è inevitabilmente invecchiato perdendo parte dell’energia iniziale. Il lavoro di direttore penitenziario è di enorme valore sociale, umano e professionale. Il direttore è allo stesso tempo un garante delle leggi internazionali e interne, è colui che deve assicurare il rispetto della sicurezza e il buon andamento delle prospettive di risocializzazione, è una sorta di sindaco di quella piccola cittadina che è la comunità penitenziaria e che spesso si trova ad affrontare tutti i problemi di una cittadina. Un lavoro che richiede fatica, entusiasmo, gratificazione pubblica, ma che può anche determinare burn-out. Da anni Antigone sottolinea la necessità di infondere energia nuova al sistema. Da anni chiediamo che nuovi direttori di carcere vengano assunti dallo Stato. I direttori sono coloro che devono dare gambe e anima all’articolo 27 della Costituzione. Non si possono lasciare le carceri senza direttore. È la figura centrale di ogni istituto, dal più piccolo al più grande, da quello cittadino a quello periferico, da quello di massima sicurezza a quello a custodia attenuata. È il direttore che imprime la direzione, appunto, alla vita che si svolge in carcere. È lui o lei che creerà opportunità di reintegrazione, che raccorderà il carcere con il territorio circostante, che bandirà ogni uso non necessario nella forza. Lo scorso 22 settembre si attendeva la pubblicazione delle date per lo svolgimento delle prove preselettive per un concorso che avrebbe dovuto mettere a bando 45 posti di dirigente penitenziario. Ma tale pubblicazione non c’è stata. Piuttosto, il Ministero della Giustizia ha comunicato che a causa del Covid la notizia (addirittura: la notizia di quando nel futuro si terranno i test di preselezione, neanche il concorso stesso) era rimandata al prossimo gennaio. Eppure altri concorsi vanno avanti regolarmente. Quello fondamentale della scuola, ad esempio, che coinvolge ben 64.000 persone, a fronte delle circa 11.500 domande pervenute per la direzione delle carceri. Non si poteva trovare una soluzione sicura dal punto di vista sanitario, con scaglionamenti nel tempo e nello spazio e altre accortezze? Se lo è chiesto anche il senatore Franco Mirabelli con un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Giustizia. Allarma che non ci sia stata la volontà politica di farlo. In Italia lo 0,4% del personale penitenziario è composto da dirigenti, a fronte di una media europea dell’1,9%, oltre quattro volte superiore. Delle 100 carceri visitate da Antigone lo scorso anno, poco più della metà (53) avevano un direttore di ruolo. In 37 il direttore era invece incaricato anche in un altro istituto, mentre in 9 era in missione da un altro carcere e in uno addirittura era del tutto assente. Un dirigente che svolge doppie o triple funzioni non può dare una risposta adeguata al delicato e complesso meccanismo dell’esecuzione penale. Se vogliamo un sistema capace di muoversi nel solco della Costituzione e di abbattere la recidiva garantendo la sicurezza dei cittadini, dobbiamo cambiare quella mentalità di fondo che relega il carcere agli ultimi posti delle priorità pubbliche. Il lavoro del direttore di carcere, così come quello delle altre figure professionali che vi operano, deve essere valorizzato e gratificato. Da esso dipende una parte rilevante della nostra vita collettiva. Abbiamo avuto bravissimi direttori che hanno assicurato una gestione oculata e ragionevole degli istituti nei momenti più bui della nostra storia recente. È importante assumere giovani direttori e direttrici che si collochino in questo solco. D’altronde oggi il diritto penitenziario si approfondisce in molte Università (penso al Master in Diritti dei detenuti e Costituzione di Roma Tre o a momenti di alta formazione dell’Università di Torino). Ci sono centinaia di giovani che da mesi e forse da anni studiano per un concorso perennemente rinviato. Non li si deluda. La loro aspettativa coincide con un bisogno profondo della nostra giustizia. *Coordinatrice associazione Antigone Mirabelli (Pd): “Sbloccare subito il concorso per dirigenti penitenziari” senatoripd.it, 9 ottobre 2020 Svolgere nel più breve tempo possibile il concorso per i direttori di penitenziario. È quanto chiede il senatore Franco Mirabelli, capogruppo dem in Commissione Giustizia e vicepresidente del gruppo dem del Senato, con un’interrogazione urgente rivolta al ministro della Giustizia. “Il concorso per 45 posti da dirigente di istituto penitenziario - spiega Mirabelli - è stato indetto con bando pubblicato in Gazzetta ufficiale il 9 maggio 2020 e le domande presentate sono state 11.500. A causa della pandemia da Covid, c’è stato un primo rinvio al 21 settembre dell’avviso per l’espletamento delle prime prove, poi ulteriormente rinviato al 12 gennaio 2021. C’è una crescente necessità di personale dirigenziale nelle carceri, visto che i dirigenti sono solo lo 0,4 per cento del personale, contro l’1,9 della media europea e visto che, secondo l’associazione Antigone, solo in poco più della metà dei penitenziari ci sarebbe un direttore assegnato esclusivamente a quella struttura. Basti pensare che non si effettua un concorso dal 1996 e che la figura del direttore è fondamentale per lo svolgimento della vita nel carcere”. La precisazione di Vittorio Ferraresi sul concorso per dirigenti penitenziari di Raul Leoni gnewsonline.it, 9 ottobre 2020 Il sottosegretario Vittorio Ferraresi interviene nel dibattito nato a seguito del rinvio delle prove scritte previste dal bando di concorso a 45 posti di Dirigente di istituto penitenziario, il cui calendario sarà pubblicato il 12 gennaio 2021. “Qualcuno ha accusato la politica, che ha indetto e finanziato il primo concorso dopo ben 24 anni, di disinteresse rispetto al valore che questa figura ha nel sistema carcerario, un’accusa gratuita e ridicola”, dichiara Ferraresi nella nota diffusa oggi, riferendosi a una procedura in cui sono state presentate 11.500 domande di partecipazione. “Le prove per assumere 45 direttori di penitenziario - ha precisato il sottosegretario - si faranno il più presto possibile e nel pieno rispetto delle esigenze di sicurezza sanitaria causate dall’emergenza Covid-19”. Il sottosegretario ha pure rivendicato l’ampiezza del programma avviato dall’amministrazione per l’incremento degli organici a tutti i livelli: “Nelle due ultime leggi di bilancio 2019 e 2020, il Ministero della Giustizia ha già finanziato e avviato decine di procedure di concorso per vari profili tra organizzazione giudiziaria e amministrazione penitenziaria, cui hanno risposto decine di migliaia di candidati”. Ricordando le difficoltà organizzative causate dall’emergenza pandemica, Ferraresi ha poi ribadito l’impegno del dicastero nel portare a termine appena possibile il programma delle assunzioni: “È nostra intenzione portare avanti tutti i concorsi con la massima celerità, ma rimanendo sempre coscienti dei limiti di un’organizzazione che deve tenere conto delle numerose procedure in atto, doverose dopo decenni senza assunzioni, e di un’emergenza sanitaria totalmente inedita, di cui non si può ignorare l’esistenza”. Covid, rieducazione, reinserimento e accoglienza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2020 Oggi e domani a Napoli l’assemblea annuale della conferenza dei Garanti territoriali. Oggi e domani, nella sede della Regione Campania a Napoli, si svolgerà l’assemblea annuale della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. Diversi i temi in agenda, a partire dall’emergenza covid tra prevenzione, diritto alle relazioni familiari e didattica. “L’appuntamento dei garanti è un momento di grande importanza per il mondo carcerario e della privazione della libertà. Anche nel nostro paese i casi di positività al Covid tornano a crescere, proprio mentre in carcere riprendono alcune attività e un barlume di vita normale. Individuare il giusto bilanciamento tra le necessità di prevenzione del virus e la garanzia di un minimo di attività e di relazioni con i familiari resta la sfida più difficile a cui spero che l’appuntamento annuale dei garanti territoriali possa portare un contributo concreto di conoscenza e di esperienza”. Così dichiara il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, nell’annunciare Conferenza dei garanti territoriali. A presiedere l’assemblea sarà il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, mentre la relazione introduttiva sarà affidata proprio ad Anastasìa, in qualità di portavoce della Conferenza. Del Consiglio regionale del Lazio (che ha istituito il Garante dei del Lazio con la legge regionale 31/2003) interverrà il vicepresidente Devid Porrello, per i saluti istituzionali. Parteciperanno, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralìa, la capo dipartimento Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. L’assemblea si concluderà sabato alle 13 con l’intervento del presidente dell’Autorità garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Stamane alle 11, dopo i saluti istituzionali e la relazione introduttiva di Anastasìa (il quale è anche garante dei detenuti dell’Umbria), nel pomeriggio si svolgeranno quattro sessioni di lavoro, con la partecipazione dei garanti territoriali e dei rappresentanti di associazioni, sindacati e dell’amministrazione penitenziaria. Due sessioni parallele toccheranno i temi legati all’emergenza Covid- 19 nelle carceri. Altre due sessioni riguarderanno la funzione rieducativa della pena in contesti di criminalità organizzata e il reinserimento sociale e l’accoglienza delle persone private della libertà. Alla giornata di domani parteciperanno tra gli altri Giuseppe de Cristofaro, sottosegretario all’Università, Giovanna del Giudice, Ornella Favero, Antonietta Fiorillo, Riccardo Polidoro, Alessio Scandurra. La Conferenza rappresenta i garanti territoriali nei rapporti istituzionali con le autorità competenti e collabora con il Garante nazionale. La sede operativa è presso il Garante dei detenuti del Lazio. Tra i compiti previsti dal proprio regolamento, la Conferenza dei garanti elabora linee- guida per la regolamentazione, l’azione e l’organizzazione degli uffici dei garanti territoriali, monitora lo stato dell’arte della legislazione in materia di privazione della libertà, effettua studi e ricerche, organizza eventi di dibattito e promuove occasioni di confronto e di formazione comune dei garanti territoriali, esercita ogni forma di azione ritenuta opportuna per la risoluzione delle problematiche relative alla privazione della libertà, elabora documenti comuni ai fini dell’unitarietà dell’azione dei garanti territoriali e promuove l’istituzione di nuovi garanti a ogni livello. “Sbaglia chi nega la deriva del Csm, a noi magistrati servono verità e slancio civile” di Errico Novi Il Dubbio, 9 ottobre 2020 Eugenio Albamonte, segretario di “Area”, la corrente progressista della magistratura, non è propriamente un leader dell’associazionismo giudiziario che abbia sposato la linea giustificazionista, sul caso Palamara. “No, nessun sollievo. Dispiacere, piuttosto. Un’eventuale sentenza di rimozione di Luca Palamara dalla magistratura sarebbe comunque molto dolorosa. Si tratta di una figura che ha ricoperto incarichi, rivestito un ruolo e un’importanza significativi nella nostra storia. E mi creda: altro che sollievo. Lo stato d’animo è lo stesso avvertito insieme con i colleghi presenti, dal vivo e da remoto, all’assemblea che ha decretato l’espulsione di Palamara dall’Anm: una sensazione plumbea”. Eugenio Albamonte, segretario di “Area”, la corrente progressista della magistratura, non è propriamente un leader dell’associazionismo giudiziario che abbia sposato la linea giustificazionista, sul caso Palamara. E però non gli sfuggono affatto il portato e la componente umana della storia: “Piuttosto che avvertire un sollievo, una dismissione del problema, alla magistratura, a noi tutti tocca affrontare un percorso di autocritica profondo, se ancora vogliamo avere un ruolo anche culturale nel Paese e se vogliamo nello stesso tempo arginare le degenerazioni”. Siete stati per alcuni anni contrapposti a Berlusconi. Era un’Anm battagliera. Politicizzata, per alcuni. Poi la politica è implosa. Possibile che anche per questo nella magistratura si sia assistito a un ripiegamento individualistico da cui sono venuti carrierismo e svilimento clientelare? È possibile. Anzi: è un’analisi in gran parte da condividere. Da una parte si è assistito a una perdita di idealità e di visione della società in tutte le classi dirigenti. Dall’altra, nel caso di noi magistrati, il ripiegamento sul personale si è tradotto in una perdita di identità culturale e di idealità per le correnti. Alcune hanno rinunciato all’impegno pubblico e all’elaborazione culturale in modo più netto. Ma si è affermato un individualismo a tutti i livelli, e contemporaneamente alla trasformazione delle rappresentanze al Csm in una sorta di uffici di collocamento, in reti di mutuo soccorso, in cui i favori hanno prevalso sul resto. La vicenda di Palamara si inserisce proprio in un quadro del genere? Evidentemente ci sono state figure che hanno interpretato l’associazionismo come relazione clientelare in modo individualistico. Il che è anche la conseguenza del sistema introdotto anni fa per l’elezione dei magistrati al Csm. Cosa intende dire? Che, prima della riforma, il voto era in qualche modo orientato verso la lista. La corrente che presentava la lista aveva anche il controllo, la responsabilità sulle condotte dei propri eletti. Se erano condotte sbagliate, il gruppo lo avrebbe pagato alla tornata successiva. Da un simile meccanismo di controllo collettivo si è passati a un sistema di fatto maggioritario: il voto è per il singolo magistrato, seppure inserito nella lista di una corrente. Risultato: si è ingigantito il potere di quel singolo magistrato rispetto al gruppo. Prima era il gruppo a scegliere il candidato, col sistema tuttora vigente è il singolo a imporsi. E a vivere poi il mandato di consigliere al Csm in un’ottica di protagonismo individuale, tutto imperniato sulla propria rete, sulla propria personale capacità di influenza e ovviamente sull’azzeramento del rilievo culturale dell’associazionismo giudiziario. Detto così, non pare un endorsement per il nuovo sistema elettorale previsto nella riforma del Csm... Di sicuro neppure il sorteggio rimedierebbe a un simile costume degradato, sarebbe anzi la soluzione peggiore. Non si risponde a nessuno, si è eletti per caso, si bada solo alla propria rete di conoscenze tra colleghi, magari a coloro con cui si è affrontato il concorso, a chi condivide l’ufficio in cui si lavora: il massimo dell’individualismo. È l’individualismo la causa dei problemi? Il nesso fra perdita di idealità e deragliamento verso l’assistenza clientelare è saldissimo. Aggiungo una cosa: le correnti si sono a un certo punto persuase che la dinamica dei favori portasse consensi a lungo termine. Non è vero. Disgrega, perché i magistrati si distaccano dall’associazionismo, ne colgono la riduzione a nominificio. La sola maniera per uscirne è una seria presa di coscienza critica sulle dinamiche di cui parliamo, che però deve essere collettiva. C’è il rischio che non tutti la condividano? Io ho letto l’intervista rilasciata al vostro giornale dalla segretaria di Magistratura indipendente Paola D’Ovidio. Dire che dietro la vicenda Palamara ci sono un complotto e un ribaltone mi pare equivalga a negare i problemi in cui ci si è trovati all’interno dei gruppi. Circolano voci su un distacco di “Mi” dall’Anm: se avvenisse, la magistratura perderebbe presenza culturale nella società e forza con la politica? Di sicuro un ordine disarticolato in più rappresentanze parallele sarebbe assai più debole. Sarebbe un errore, un danno arrecato, in ultima analisi, alla tutela del singolo collega. Né condivido il richiamo al ripiegamento su una rappresentanza dei magistrati solo sindacalistica, priva di slancio ideale. Serve un’analisi collettiva, e una riscoperta delle identità, della cultura giudiziaria: è il solo antidoto alla dissoluzione che abbiamo vissuto. Il sindacalismo spicciolo enfatizza solo il ripiegamento sul personale. Ma oggi l’Anm non è troppo conflittuale al proprio interno? Lo è stata anche in passato. Si è trattato di un carattere specifico dell’associazionismo. Ma dividersi è persino balsamico, se lo si fa sulle idee. Ripeto, la via d’uscita, per i magistrati e per l’associazionismo, è nella capacità di tornare a offrire la tutela ai colleghi insieme con la presenza culturale nella società. E di far prevalere così la critica e l’elaborazione collettive sull’individualismo clientelare e disgregatore. L’eventuale allontanamento di Palamara dalla magistratura rischierebbe di portare a una sorta di “archiviazione della pratica”, rispetto al percorso autocritico collettivo di cui lei parla? Sarebbe un errore gravissimo. Innanzitutto ci sono altri procedimenti disciplinari da svolgere, in gran parte collegati alla vicenda di Palamara, ma c’è anche la necessità di non limitarsi all’accertamento disciplinare. Serve anche una verifica sul piano etico, deontologico. Certo è che siamo solo all’inizio, se vogliamo voltare pagina, ed è un’azione che imporrebbe un impegno comune. A proposito di azioni comuni, mercoledì l’avvocatura ha espresso dissenso sul ddl penale rispetto a punti ritenuti disfunzionali anche dall’Anm: crede sia possibile un’iniziativa congiunta di rappresentanze forensi e Anm per chiedere la modifica del testo? Lo chiede a me? Nella fase in cui ho assunto la presidenza dell’Anm mi sono fatto carico proprio del dialogo con il Cnf, con l’Unione Camere penali, basato su una convinzione: non c’è nulla, dico nulla, che nel dibattito pubblico sulla giustizia possa avere la stessa forza di un’iniziativa politica comune fra magistratura e avvocatura. Non ci sono proposte politiche dei partiti o di altri che, nel campo della giurisdizione, possano competere per autorevolezza e forza con un’azione congiunta di magistrati e avvocati. È solo da auspicare che quel rapporto, che per vari motivi si è rarefatto, torni ad assumere tutta l’efficacia sperimentata in passato. Palamara, niente sconti dal Pg: “Meno male che il trojan c’è…” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 ottobre 2020 Sentenza rinviata a oggi. Al processo disciplinare l’accusa chiede l’espulsione dell’ex presidente dell’Anm. Breve rinvio prima della sentenza nel processo a carico dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. La sezione disciplinare del Csm si è aggiornata a questa mattina. L’udienza di ieri è stata dedicata alla requisitoria della Procura generale della Cassazione e all’arringa della difesa. Oggi sono in programma brevi repliche sia dell’accusa che del difensore di Palamara, il quale dovrebbe poi rendere dichiarazioni spontanee. Quindi il collegio, presieduto dal laico Fulvio Gigliotti, entrerà in camera di consiglio. La Procura generale ha già formulato le richieste: rimozione dall’ordine giudiziario. La sanzione massima per un magistrato. “Per fortuna c’è il trojan”, aveva esordito ieri mattina l’accusa, rappresentata dall’avvocato generale della Cassazione Pietro Gaeta e dal sostituto pg della Cassazione Simone Perelli. “Grazie al virus spia che era stato installato nel telefono di Palamara da parte della Procura di Perugia è stato possibile conoscere i fatti dell’hotel Champagne”, definiti “un unicum nella storia della magistratura italiana. Almeno tre soggetti estranei alle funzioni istituzionali, per differenti ma convergenti interessi personali, hanno pilotato e promosso la nomina del procuratore di Roma, quella dell’aggiunto e programmato quella di Perugia”. La requisitoria di Gaeta è iniziata così, ripercorrendo quanto accaduto nella riunione notturna dell’8 maggio 2019 nell’albergo romano a cui parteciparono, oltre a Palamara e 5 ex togati del Csm, i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri. “Quella riunione non è stata un’interlocuzione tra la componente politica e togata del Csm nell’ambito del perimetro costituzionale”, ma “esorbita da quel perimetro, perché piega l’interlocuzione a forme di interesse privato: chi rappresentava Lotti se non se stesso e il suo personale interesse? E Palamara? E Ferri? - ha detto Gaeta - E quali interessi rappresentavano gli ex togati, che non erano certo stati votati dai magistrati per incontrarsi con Lotti sulla nomina del procuratore di Roma?”. Un incontro “fuori da qualsiasi schema legale”, secondo l’avvocato generale, in cui “a tutti era noto l’oggetto della discussione, la presenza di Ferri e Lotti e l’obiettivo della messa in sicurezza della scelta sulla nomina di uno dei candidati a Roma”. Gaeta, quindi, ha respinto “ogni ipotesi minimalista o banalizzante: a chi dice ‘ si è fatto sempre così’, rispondo che non è vero. In questo caso non si può dire, perché c’è una congiunzione di interessi di soggetti tutti estranei alle dinamiche consiliaria. Quanto a Lotti, “non abbiamo moralisticamente censurato ha aggiunto - la presenza di un imputato (nel processo Consip, ndr) in quanto tale, ma il fatto che ha fornito un contributo fattivo alla scelta: non è stato un convitato di pietra, muto nel corso di una discussione tra magistrati”. Tutt’altro scenario per il consigliere di Cassazione Stefano Giaime Guizzi, difensore di Palamara, secondo cui Lotti “non fornì alcun contributo alla nomina” del procuratore di Roma: la sua presenza alla riunione all’hotel Champagne “rappresenta un grave profilo di inopportunità”, ma “l’assunto della Procura generale per cui Lotti fu un potenziale codecisore sulla scelta della nomina non trova conforto negli elementi dell’inchiesta”. L’ex ministro dello Sport doveva parlare con Palamara della nomina di quest’ultimo “all’Authority della Privacy”, ha puntualizzato Guizzi. “Il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi è un atto di natura politica: le nomine non vengono fatte solo per merito, ma sono una scelta anche di tipo politico”, ha poi aggiunto Guizzi, ricordando il ruolo delle correnti. “Palamara e Ferri, che sono ritenuti leader di corrente, avevano quindi titolo a interloquire sulle nomine, perché la Quinta Commissione del Csm non è una semplice commissione giudicatrice di concorso”, ha allora osservato il difensore di Palamara. Guizzi ha ancora una volta ricordato i 133 testimoni non ammessi e i dubbi sull’ammissibilità delle intercettazioni telefoniche, dichiarandosi pronto ad andare alla Cedu. Un intervento pronunciato davanti a un collegio di cui fa parte anche Piercamillo Davigo. La cui possibile uscita dal Consiglio superiore, e dunque dalla sezione disciplinare, avrebbe potuto far insorgere notevoli ostacoli, con il rischio di dover rinnovare l’istruttoria dibattimentale in seguito all’eventuale sostituzione dell’ex pm di Mani pulite. Ipotesi che non sarebbe stata irrealistica, considerato che si è appreso dell’orientamento sfavorevole pronunciato nel parere dell’Avvocatura dello Stato alla permanenza di Davigo al Csm dopo il congedo. Ma ha provveduto il ritmo fulmineo del disciplinare su Palamara, a recidere il problema alla radice. Csm, scontro all’ultimo voto sulla permanenza di Davigo di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 9 ottobre 2020 Mercoledì prossimo si deciderà se può mantenere l’incarico anche da pensionato. Certi i ricorsi al Tar. La conta dei voti va avanti da giorni, il verdetto è fissata per la prossima settimana e l’interessato - Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani pulite già presidente dell’Associazione nazionale magistrati - sembra in leggero vantaggio. Ma è ancora presto. Mercoledì il Consiglio superiore della magistratura deciderà se tenere al proprio interno uno dei giudici più famosi d’Italia (che andrà pensione il 20 ottobre, quando compirà settant’anni) oppure mandarlo via, visto che chi non indossa più la toga non può far parte della componente “togata”. Qualunque sarà l’esito, è scontato un ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato; da parte di Davigo se verrà estromesso, oppure di Carmelo Celentano, il magistrato destinato a sostituirlo, qualora il pensionato dovesse rimanere al proprio posto. A difendere il Csm, davanti al giudice amministrativo, ci sarà l’Avvocatura dello Stato, che però s’è già espressa con il parere richiesto dalla commissione verifica titoli del Csm: Davigo non può restare dov’è. Quindi, se nell’organo di autogoverno dei giudici dovesse prevalere la tesi opposta, gli avvocati dello Stato si troverebbero a dover sostenere una posizione contraria a quella appena dichiarata. Davigo e chi lo appoggia ritengono che la questione sia abbastanza semplice: la Costituzione prevede che i consiglieri restino in carica quattro anni, e tra le norme che regolano la decadenza dall’incarico non è espressamente previsto il pensionamento. Dunque quello che conta è che al momento dell’elezione il candidato avesse il requisito di esercitare la funzione giudiziaria. La replica dell’Avvocatura è altrettanto semplice, ma in favore della “incompatibilità logica e giuridica” di un pensionato al Csm: “Appare innegabile che la permanenza in servizio costituisce la stessa ragione d’essere della partecipazione del componente togato all’organo di autogoverno”. Lasciando un ex magistrato all’interno dell’istituzione si arriverebbe “all’alterazione dell’assetto strutturale prefigurato dalla Carta costituzionale”. Il totovoto prevede una spaccatura del Consiglio. A favore di Davigo, oltre a 3 consiglieri della sua corrente e almeno 2 laici di estrazione grillina, vengono conteggiati i 5 componenti di Area, la cosiddetta “sinistra giudiziaria”. Nonostante il direttore di Questione giustizia (la rivista di Magistratura democratica, che fa parte di Area) Nello Rossi avesse pubblicato un articolo dove si dichiarava nettamente contrario alla permanenza di Davigo al Csm. Non a caso ieri, sulla stessa rivista, è comparso un articolo di segno opposto, della professoressa Maria Agostina Cabiddu, ordinaria di Diritto pubblico, intitolato: “I membri elettivi del Csm durano in carica quattro anni, anche quando si chiamano Davigo”. Contrarie a questa tesi dovrebbero essere le correnti di centrodestra, Unicost e Magistratura indipendente. Decisive saranno le scelte dei rimanenti componenti “laici” e, se opteranno per non astenersi, i voti del comitato di presidenza: il vicepresidente David Ermini assieme al primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, e il procuratore generale Giovanni Salvi. Ok della Cedu al ricorso di un “fratello minore” di Bruno Contrada di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 ottobre 2020 In Italia esiste una disparità di trattamento, tra il soggetto che ha fatto ricorso alla Corte europea di Strasburgo (Cedu) e chi alla Corte nazionale. Questa situazione, ora, viene ulteriormente cristallizzata con il ricorso ritenuto ammissibile dalla Corte Europea presentato dall’ex senatore democristiano Vincenzo Inzerillo, assistito dall’avvocato Stefano Giordano. Ma andiamo con ordine. Fino al 1994 non esisteva il concorso esterno in associazione mafiosa, quindi non può esserci una condanna se l’accusa risale a fatti antecedenti di quell’anno. Un principio che la Cedu ha riconosciuto a l’ex 007 Bruno Contrada. Teoricamente, ciò deve valere per tutti coloro che sono stati condannati per i fatti antecedenti, appunto, al 1994. Parliamo dei cosiddetti “fratelli minori” di Contrada che però, puntualmente, la Cassazione non riconosce. Eppure la Corte Europea, il 14 aprile del 2015, aveva stabilito che la sentenza è legittima solo per fatti commessi dopo il 1994. Lo ha stabilito certamente per Contrada, ma ha identificato un deficit sistemico nell’ordinamento: fino a quel momento il reato non era infatti, per la Corte, configurato in modo sufficientemente chiaro. Un principio che riguarda proprio quella “certezza della pena” che oggi però viene citata confondendolo con altro. La pena è certa quando il cittadino che tiene una certa condotta sa se essa costituisce reato oppure no, e in caso positivo quali sono le sanzioni previste. Con le pronunce della Cassazione nei confronti dei “fratelli minori”, si è cercato di annullare le conseguenze che la pronuncia Contrada avrebbe avuto nel sistema (di fatto, una sentenza “pilota”), perché si sarebbero dovute revocare tutte le sentenze di quelli che, pur non avendo fatto ricorso a Strasburgo, erano comunque nelle stesse condizioni di Contrada. Ma nulla da fare. Per questo sono fioccati numerosi ricorsi alla Cedu. Ma ora è arrivata la prima conferma. La Cedu ha ritenuto ricevibile il ricorso presentato dall’ex senatore dell’ex Dc Vincenzo Inzerillo, assistito dall’avvocato Stefano Giordano, lo stesso legale - ricordiamo - che ha fatto annullare la condanna a Contrada ed è riuscito ad ottenere anche un risarcimento di 667 mila euro a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione. Nel ricorso di Inzerillo - condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti al 1994 - si fa presente che ci sono state diverse violazioni degli articoli della Cedu. Come ad esempio l’articolo 46 e 32, perché - come scrive l’avvocato Giordano nel ricorso - “dall’inestensibilità degli effetti della sentenza Contrada deriva l’assenza di un rimedio interno idoneo a far valere la violazione convenzionale patita e ottenere l’eliminazione delle relative conseguenze”. C’è anche la lesione dell’articolo 7 Cedu “in relazione all’assenza di prevedibilità e accessibilità del precetto penale che ha condotto alla sua condanna, al fine di conseguire l’eliminazione di quest’ultima”. Ma non solo. Altro aspetto degno di nota del ricorso è che si fa un riferimento alla presunta mancata imparzialità di due magistrati membri del collegio delle sezioni unite della Cassazione che ha dichiarato infondato il ricorso di Inzerillo. Perché? Si legge sempre nel ricorso alla Cedu che un magistrato era stato membro del collegio che emise (in sede di rinvio) la sentenza di condanna a carico di Contrada, l’altro avrebbe invece scritto un libro di diritto penale dove in un capitolo ha criticato la sentenza Cedu “Contrada c. Italia”. Quindi, secondo l’avvocato Giordano, ci sarebbe stata la violazione dell’articolo 6 della convenzione, perché privi del requisito di imparzialità. In effetti si fa riferimento a diverse sentenze Cedu dove si evince che “l’imparzialità viene infatti esclusa se il giudice sia portatore di un pregiudizio personale, manifestato anche attraverso dichiarazioni rese fuori dal processo”. Il ricorso è ammissibile, ora si attende la sentenza. Amministratori: corretta la liquidazione del danno in base alla differenza attivo passivo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2020 Corte di cassazione - Sezione I Ordinanza 8 ottobre 2020 n. 21730. Nell’azione proposta dal curatore per la responsabilità degli amministratori nel fallimento, è corretto quantificare il danno, tenendo presente la dispersione di elementi dell’attivo patrimoniale e il colpevole protrarsi dell’attività produttiva che genera ulteriori debiti per la società. Né la legittimità del criterio è smentita dal fatto che l’importo oggetto di liquidazione, sulla base di tali criteri, sia poi ridotto, fissandolo nella differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, in virtù del limite della pretesa fatta valere. La Corte di cassazione, con la sentenza 21730, respinge il ricorso degli amministratori della società fallita che contestavano sia l’esistenza di una prova che il danno subito dalla società fosse collegato alle loro condotte, sia i criteri di liquidazione. Per la Cassazione però la via seguita è corretta. Nella quantificazione si era tenuto conto del depauperamento del patrimonio della società fallita, a causa della cooperazione dolosa o comunque gravemente colposa dei ricorrenti, già condannati per bancarotta fraudolenta, per la distrazione di elementi attivi del patrimonio sociale: poste la cui destinazione era rimasta sconosciuta, perché non risultavano impiegate né per l’acquisto di beni aziendali né per il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti. Ad aumentare il pregiudizio era stato anche il debito accumulato per le retribuzioni dovute ai lavoratori, ammessi al fallimento. Dipendenti rimasti in servizio e non licenziati, anche dopo la cessazione dell’attività della fallita perché impiegati presso una seconda società che lavorava in stretta cooperazione con la fallita e della quale uno dei ricorrenti deteneva significative quote sociali. Entrambe le condotte sono state legittimamente considerate ai fini della quantificazione del danno. “A nulla rilevando - si legge nella sentenza - che l’importo oggetto di liquidazione sulla base di tali criteri sia ridotto a minor somma, nella specie corrispondente alla differenza tra attivo e passivo fallimentare, in ragione del limite quantitativo della pretesa fatta valere”. Campania. Minori e devianza, i ragazzi a rischio sono 5mila: pesa la povertà educativa di Viviana Lanza Il Riformista, 9 ottobre 2020 Ogni anno in Campania si contano in media 5mila ragazzi, tra i 12 e i 18 anni, identificati e riaffidati ai genitori o condotti in comunità di recupero per episodi di disagio e devianza, atti di bullismo, risse. Circa 250 sono quelli che affrontano percorsi rieducativi, 150 quelli affidati a comunità, circa 70 quelli detenuti nei centri di accoglienza per minori per accuse relative a reati penalmente rilevanti. Sono un mondo, delicato e complesso al tempo stesso. Dietro ognuno di loro c’è una diversa storia di povertà e disagio, di abbandono e sofferenza, di criminalità e mancanza di alternative. Nel 40% dei casi hanno abbandonato la scuola troppo in fretta e così la povertà culturale diventa uno dei fattori che alimenta il fenomeno della criminalità minorile. L’altro fattore è la camorra, presente e diffusa anche nelle vite dei più piccoli attraverso legami familiari o amicizie di quartiere. A rischio sono quindi i figli dei camorristi, i figli degli affiliati, i boss in erba, i giovani che si armano per fare stese e rapine a mano armata. A queste realtà se ne affiancano però anche altre, non meno pericolose: sono le cosiddette baby gang, quelli della violenza anche senza motivo, degli accoltellanti e delle risse in strada, delle aggressioni a tutte le ore del giorno ad opera di ragazzini che spesso non hanno nemmeno l’età imputabile. “La vicenda di Luigi Caiafa e l’attuale virulente connotazione del complesso fenomeno della criminalità minorile impongono di rivedere sia il ruolo dello Stato nella capacità educativa del minore sia le strategie di contrasto al fenomeno della devianza”, commenta l’avvocato Gennaro Demetrio Paipais, esperto in diritto minorile, presidente dei giovani penalisti di Napoli e promotore di iniziative per il recupero dei minori a rischio. “Se, nonostante i buoni propositi di reinserimento sociale, il giovane diciassettenne aveva optato per un percorso alternativo non può non segnalarsi un corto circuito nel sistema educativo. È pertanto improcrastinabile - aggiunge - l’attuazione di politiche sociali proiettate al rafforzamento della formazione, del lavoro e più in generale dell’inclusione in favore di minori, soprattutto dei territori a rischio, con l’auspicio che il disagio familiare o territoriale non si traduca in devianza”. In questa ottica, l’Unione Giovani Penalisti ha sollecitato un incontro/confronto alla Camera dei deputati tra i componenti delle Commissioni Infanzia e Adolescenza, Giustizia, Lavoro e Difesa nonché con le istituzioni nazionali e locali e con il terzo settore, al fine di tratteggiare un itinerario correttivo dei minori a rischio di esclusione. Intanto a Napoli, venerdì, si riuniranno i garanti territoriali delle persone private della libertà. L’assemblea sarà presieduta dal garante della Campania, Samuele Ciambriello. Parteciperanno, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralìa, il capo del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. Sarà una due giorni di confronti e dibattiti sui vari aspetti della funzione rieducativa della pena in contesti di criminalità organizzata, del reinserimento sociale e dell’accoglienza delle persone private della libertà. Roma. Il Covid arriva anche a Rebibbia, le Asl vicine al collasso Il Messaggero, 9 ottobre 2020 Torna l’allarme Covid anche a Rebibbia. Dopo i primi casi registrati a inizio pandemia, ieri un altro focolaio nel braccio femminile. In cinque sono risultate contagiate: due detenute, due agenti di guardia e un’infermiera. Sono ora in corso tutte le procedure di isolamento e tracciamento: “Ci preoccupa l’assenza dei dispositivi di protezione individuale come la mascherina, i guanti, ma anche i plexiglass”, denuncia il sindacato di Polizia Penitenziaria. Una miccia pronta ad accendersi. I primi disordini nel penitenziario di via Tiburtina si erano registrati il 9 marzo, all’indomani delle direttive per il contenimento del coronavirus. Oltre cinquanta persone avevano occupato il piazzale mentre all’interno, l’allarme era scattato nella mattinata quando i detenuti avevano dato fuoco ai materassi assaltando le infermerie. Dopo giorni di rivolte e disordini, per i detenuti sono stati allestiti termo strutture e triage esterni. Mentre continua a salire il numero degli studenti malati: all’istituto Santa Margherita di Savoia di San Giovanni, per due alunni positivi, tre classi sono in didattica a distanza da mercoledì. Per i compagni e i docenti è stato predisposto l’isolamento fiduciario in attesa del risultato dei tamponi. “La sua compagna di classe è risultata positiva e ora tutta la famiglia è a casa” racconta la mamma di una studentessa che ieri mattina, insieme alla figlia, era in fila al drive in della via Palmiro Togliatti: “anche il fratello non sta andando a scuola, io e mio marito siamo in smart working. Mia figlia e l’amica - spiega - sono anche uscite insieme nel fine settimana. Quindi il rischio che l’intero nucleo familiare sia stato contagiato è altissimo. Mio marito e mio figlio faranno domani il test”. Sui casi nelle scuole e gli isolamenti che ne sono seguiti, sui potenziali infetti ancora da accertare o che aspettano i risultati e sono a casa, proprio le scuole lanciano un appello alle Asl: “Bisogna accelerare sui risultati”, spiega la preside del liceo Lucrezio Caro Paola Fattoretto. “Al momento abbiamo dieci studenti a casa che attendono l’esito del tampone, i tempi di risposta sono molto lunghi e questi ragazzi stanno perdendo giorni di scuola anche perché è complicato attivare la didattica a distanza per singolo studente”. E i ritardi si verificano anche per “sbloccare” le classi in quarantena che restano dunque in isolamento più del dovuto come è accaduto in una sezione del liceo scientifico Righi. Intanto ieri il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha firmato l’ordinanza che di fatto istituisce il primo “mini-lockdown” nella provincia di Latina “tenuto conto dell’incremento dei casi registrati dal 4 ottobre - spiega l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato - pari al 155%”. Il consueto bollettino giornaliero ieri ha fatto registrare sull’intero territorio 359 positivi di cui 144 nella Capitale a fronte di 13 mila tamponi eseguiti (mille in più rispetto a quelli svolti mercoledì). Ci sono stati anche 6 decessi, mentre 81 sono le persone guarite. A fronte dell’elevata pressione nei “drive-in” saranno raddoppiati i punti di analisi e già ieri è partito il “drive-in” pediatrico (su appuntamento allo 06/33778787) del policlinico Sant’Andrea mentre sabato pomeriggio partiranno le postazioni a Guidonia, Labico e Monterotondo Scalo e lunedì a Ladispoli e Gaeta. L’Asl Roma 1 ha registrato ieri 62 casi positivi, 31 dei quali legati a un link già isolato. L’Asl Roma 2, invece, nelle ultime 24 ore ha contato 55 nuovi casi di Covid-19 e infine l’Asl Roma 3 con 27 positivi. Rispetto a mercoledì salgono a 55 i ricoveri nelle Terapie intensive (il 7 ottobre il dato si fermava a 48) così come aumentano i ricoverati: in un giorno si è passati da 808 a 821. Bari. L’Asl: “Tamponi rapidi per il coronavirus anche nelle carceri” telebari.it, 9 ottobre 2020 Da aprile ad oggi nelle carceri di Bari, Altamura, Turi e nell’istituto minorile Fornelli sono stati eseguiti più di mille tamponi sui detenuti, tutti risultati negativi al Covid. Nelle prossime settimane la Asl di Bari è pronta a partire con i tamponi rapidi, gli stessi che saranno utilizzati nelle scuole, anche nelle carceri. Lo ha spiegato Nicola Buonvino, responsabile del servizio di Assistenza Sanitaria Penitenziaria della Asl di Bari, durante l’incontro dal titolo “Il carcere e la prevenzione del contagio: proseguire in sicurezza” nell’ambito del Forum Mediterraneo e Sanità organizzato nella Fiera del Levante di Bari. “Saremo pronti tra 15-20 giorni - ha detto Buonvino - ad eseguire i tamponi rapidi in carcere, sui detenuti ma anche sugli operatori, cioè tutti quelli che accedono al carcere a vario titolo e che possono veicolare il contagio”. “I tamponi rapidi consentiranno di ottenere il risultato del test entro un’ora, rispetto alle 12-24 ore dell’odierno tampone - ha spiegato Buonvino - e saranno utilizzati a partire da Bari, che è una comunità particolarmente fragile, perché è una delle otto carceri italiane con il Servizio Assistenza Intensificato”, cioè un reparto ospedaliero, e accoglie detenuti con patologie oncologiche e situazioni immunitarie precarie. Trani. Coronavirus, positivi 2 detenuti in semilibertà di Eleonora Francklin ilquotidianoitaliano.com, 9 ottobre 2020, 9 ottobre 2020 Due casi di positività sono stati registrati all’interno del carcere di Trani. Si tratta di due detenuti in regime di semilibertà che pare abbiano contratto il virus all’esterno della casa circondariale durante le ore di lavoro. Uno dei due è al momento ricoverato, mentre l’altro sta scontando la pena a casa per via dell’isolamento domiciliare. Stando a quanto siamo riusciti ad apprendere pare che all’interno del carcere sia scoppiato un focolaio e che i due casi siano quelli noti. “Un mio assistito in regime di semilibertà - spiega l’avvocato Nicola Lerario - mi ha riferito l’assurdità della situazione ambientale in cui vivono. Al rientro serale, dopo aver trascorso la giornata in esterno a lavorare, sono allocati in un unico padiglione, chiuso, senza guardie, né medici”. “La semilibertà - conclude l’avvocato penalista - è una misura assolutamente fuori luogo in questo periodo storico poiché consente l’introduzione nell’istituto del virus esponendo a contagio detenuti e operatori carcerari”. Napoli. Suicidio sospetto in carcere, la famiglia: “Acquisite nuove foto: è stato omicidio” di Massimo Romano napolitoday.it, 9 ottobre 2020 Ci sarebbero nuove foto a sostegno della tesi che Diego Cinque non si sarebbe suicidato in carcere, bensì sarebbe stato ucciso. Ad annunciarlo è il fratello Cristian, che da due anni si batte per scoprire la verità su quanto accaduto. Il giovane, 29 anni, è stato trovato morto 16 ottobre 2018, impiccato nel bagno della sua cella, nel penitenziario di Poggioreale, dove era entrato per il reato di rapina. Pochi dubbi per il medico legale nominato dal carcere: suicidio. Eppure, quella tesi non ha mai convinto la famiglia del detenuto: per Diego non era la prima volta in cella e non aveva mai manifestato cedimenti, neanche nei giorni precedenti alla morte. “Abbiamo incaricato un nostro medico di parte - racconta Cristian - che ha riscontrato almeno tre prove incongruenti con l’ipotesi del suicidio. Innanzitutto le ecchimosi, che nel caso di impiccagione si formano sulle mani e sui piedi. Sul corpo di Diego, invece, erano lungo la schiena, come se fosse morto supino e, solo in un secondo momento, messo in posizione verticale. La seconda cosa che non torna sono i segni alla gola di mio fratello, a forma di X, come se fosse stato afferrato alle spalle e strangolato. Il terzo indizio nasce dal test fatto agli occhi, secondo il quale Diego sarebbe passato direttamente dal sonno alla morte. A questo, aggiungo un mio sospetto: come è possibile che un ragazzo di 100 chili sia riuscito a impiccarsi con un laccio di scarpe”. Ma i dubbi non finiscono qui. Anzi, con le nuove immagini acquisite dal legale della famiglia, ancora non pubblicabili, le perplessità aumentano: “C’è un’immagine che ritrae Diego ancora legato alla finestra del bagno, ma i suoi piedi toccano a terra. Come se non bastasse, in caso di impiccagione, il soggetto spesso espelle le feci, invece mio fratello era pulito”. Nonostante le due richieste di archiviazione, la famiglia si è sempre opposta. Il giudice per le indagini preliminari ha imposto un supplemento di indagine, ma il 15 dicembre prossimi ci sarà una nuova udienza. “Lo faccio per Diego - conclude Cristian - ma lo faccio anche per tutti quei ragazzi che scelgono una strada sbagliata ed è giusto che paghino il loro debito. Ma non devono pagarlo con la vita”. Piacenza. Sanità penitenziaria, dalla Regione 350mila euro all’Ausl piacenzasera.it, 9 ottobre 2020 Dal centro per la gestione delle emergenze microbiologiche di Bologna all’unità per le disabilità gravi dell’età evolutiva di Reggio Emilia; dal centro grandi ustionati a Cesena all’hub per le urgenze micro-vascolari di Modena, fino alla riabilitazione per le cerebro-lesioni gravi a Ferrara: da una parte la sanità dell’Emilia-Romagna punta a una medicina di territorio sempre più vicina ai cittadini, dall’altra valorizza in chiave di sistema le proprie eccellenze più specializzate. E proprio per sostenere questa rete regionale al servizio dell’intero territorio, da Piacenza a Rimini, la Regione si prepara a investire più di 44 milioni di euro. Nel corso dell’ultima seduta, infatti, la Giunta ha approvato la delibera che assegna alle Aziende sanitarie una quota parte del Fondo sanitario regionale per permettere la realizzazione di progetti a valenza regionale e lo svolgimento di funzioni sovra-aziendali. Si tratta di un importo complessivo di 44.482.100 euro, suddiviso tra 35.459.850 euro destinati all’assistenza ospedaliera, 3.387.250 impiegati per l’assistenza distrettuale, 1.980.000 utilizzati per la prevenzione collettiva e la sanità pubblica e 3.655.000 euro, infine, che fanno riferimento a progetti e attività regionali. “La sanità che funziona è quella capace di fare sistema, di coordinare attività e interventi per poter mettere a disposizione di ogni emiliano-romagnolo il centro specializzato che compone la rete regionale: deve essere il più presente possibile sul territorio, e non a caso l’Emilia-Romagna è la regione con più Case della salute e quella con il più alto tasso di medicina domiciliare, ma deve saper anche valorizzare i propri punti di forza in un’ottica di sistema- affermano il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, e l’assessore alle Politiche per la salute, Raffaele Donini. Abbiamo strutture e professionisti che sono stati in grado di specializzarsi in ambiti definiti ma altrettanto complessi, raggiungendo livelli di eccellenza, a livello nazionale e non solo. Nei casi più difficili, è importante potersi curare contando sulla rete specialistica regionale a disposizione di tutti gli emiliano-romagnoli”. I fondi per l’Ausl di Piacenza - Questi, nel dettaglio, i fondi destinati al territorio piacentino dalla delibera regionale. All’Ausl di Piacenza vanno 350mila euro per il progetto di promozione della salute per la popolazione detenuta; inoltre, per gli Spazi donne immigrate, all’azienda sanitaria locale vanno 13.068; mentre per gli Spazi giovani 33.570 euro. Infine, dei due milioni previsti a livello regionale per la riduzione del danno e la prevenzione dei rischi dei consumatori di sostanze psicoattive, 188.149 euro vanno all’Ausl di Piacenza. Bologna. Un angelo chiamato Simona, l’infermiera che ha “salvato” un ex detenuto di Antonella Barone gnewsonline.it, 9 ottobre 2020 Quando Simona, infermiera del turno di notte nel carcere di Bologna, qualche minuto prima della mezzanotte del 25 settembre scorso, risponde a una telefonata proveniente dal reparto Nefrologia dell’Ospedale Sant’Orsola, crede si tratti di un errore. “Una dottoressa - racconta - mi chiedeva come contattare un paziente, in lista d’attesa per il trapianto del rene, doveva comunicargli che era arrivato un organo all’apparenza compatibile e che doveva raggiungere con estrema urgenza l’ospedale”. Nessun errore: il medico, che tempo prima aveva ricevuto un fax con l’intestazione del carcere, sta cercando proprio il detenuto Giulio (nome di fantasia, ndr), deve comunicargli che potrebbe essere arrivato il tanto atteso momento del trapianto. Giulio, però, non è più nel carcere bolognese da circa un anno. “Data l’urgenza mi sono offerta di cercare un suo recapito con l’aiuto del personale di Polizia Penitenziaria che si è messo subito a disposizione dimostrando grande sensibilità - dice Simona. La dottoressa mi aveva detto, infatti, che se non lo avessimo rintracciato entro mezz’ora avrebbe dovuto contattare il paziente successivo nella lista d’attesa”. Nel giro di pochi minuti negli uffici della Matricola e della Sorveglianza generale parte così la frenetica consultazione di archivi, registri, fascicoli alla ricerca di una traccia che porti a Giulio, ma senza alcun risultato. “Quando il tempo che ci aveva concesso li medico stava per terminare, - rivela Simona - ho notato nel fascicolo che stavo sfogliando, il contatto telefonico del fratello con il quale il nostro ex detenuto aveva detto sarebbe andato a convivere, una volta tornato in libertà. Ho composto subito il numero in presenza della Polizia Penitenziaria”. Giulio è proprio in casa del fratello. Riconosce la voce di Simona e, quando lei gli spiega che sta per ricevere una telefonata decisiva per il suo futuro, capisce e si commuove. Pochi minuti dopo, grazie al recapito telefonico fornito dall’infermiera, il reparto del Sant’Orsola comunica a Giulio l’attesa notizia. “Un’ora dopo ho chiamato la dottoressa - conclude Simona - che mi ha confermato l’arrivo del paziente. I controlli erano già in corso e tutto stava andando bene”. Padova. Il Festival dello sviluppo sostenibile si occupa di “Università in carcere” di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 9 ottobre 2020 “L’Università in carcere. L’accesso allo studio delle persone in detenzione” questo il titolo dell’incontro on-line che si terrà oggi, nell’ambito del “Festival dello sviluppo sostenibile”. Tra i protagonisti dell’evento anche il direttore dell’istituto di pena di Padova, Claudio Mazzeo, che sottolinea l’importanza dei progetti formativi: “Nella casa di reclusione di Padova esiste da tempo un polo universitario, con 51 detenuti iscritti. L’offerta formativa è varia ma stiamo pensando anche di aggiungere un corso in scienze motorie, vista la presenza di una area sportiva polifunzionale”. La proposta didattica, tuttavia, copre un ampissimo raggio: “Si parte dal corso di alfabetizzazione per arrivare sino alla laurea”. Gli studenti possono contare su una area dedicata “che permette collegamenti telematici - sottolinea il direttore -. Visto il numero degli iscritti, che è sempre in aumento, stiamo valutando un ampliamento degli spazi a disposizione”. Mazzeo ricorda che “i detenuti prendono annualmente parte, tranne eccezioni dovute alla pandemia, alle cerimonie di apertura dell’anno universitario e di premiazione degli studenti che hanno completato il proprio percorso, anche per avvicinare i reclusi alla vita della comunità esterna”. Il direttore dell’istituto veneto ha in mente anche un obiettivo ambizioso: “Vorrei creare un progetto pilota, in partnership con l’Università, e attraverso la scienza sperimentare un nuovo approccio rieducativo, modificando alcune procedure e procedendo verso la digitalizzazione, tenendo conto dell’attuale e diversificata popolazione carceraria”. Bari. Ieri il convegno: “Il carcere e la prevenzione del contagio: proseguire in sicurezza” regione.puglia.it, 9 ottobre 2020 “Il carcere e la prevenzione del contagio: proseguire in sicurezza” è stato uno dei tanti eventi di interesse che si sono tenuti oggi al Centro Congressi per la seconda giornata del Forum della Salute. L’evento è stato introdotto e moderato da Piero Rossi, Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a limitazioni della libertà personale. Alla sessione di studio ha partecipato Mario Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà: “Le carceri sono oggi il luogo della doppia ansia, quella per i posti angusti e quella per ciò che potrebbe avvenire. Dobbiamo prestare attenzione per fare in modo che il virus non entri nelle carceri ma, nello stesso tempo, non possiamo degenerare in un isolamento totale. La vita del carcere non può essere vuota ma dobbiamo fare in modo che il tempo abbia significato. Giuseppe Martone, Provveditore Amministrazione Penitenziaria Puglia e Basilicata, ha ribadito l’importanza della tutela della salute: “dobbiamo chiederci se dobbiamo controllare la salute di tutti quelli che accedono, se servono screening ripetuti. Per quello che riguarda le attività istituzionali, va detto che non abbiamo mai smesso di avere contatti con la scuola e l’università. Contiamo di sottoscrivere un protocollo entro la fine dell’anno. Dobbiamo abituarci sempre più all’idea di vivere a distanza, di comunicare a distanza, di sostenere i contatti con gli strumenti digitali. Nonostante il Covid però i progetti di riqualificazione sono molti a partire dal carcere di Trani dove il 19 si chiude la “sezione blu” e ci sarà lo spostamento in area nuova. Molto si parla anche della salute mentale delle persone private della libertà: i dati ci dicono che abbiamo sempre più persone affette da patologie psichiatriche che si sommano ad altre problematiche di natura sanitaria. Su questo io garantisco la nostra massima attenzione”. La seconda giornata del Forum si è aperta con un confronto tra le nuove esigenze sanitarie e sociali chiamando allo stesso tavolo di analisi l’Anci, Federsanità e Fiaso. Al centro dell’attenzione l’assistenza sanitaria territoriale e il possibile sviluppo del ruolo sempre più centrale dei servizi non ospedalieri. Per Enzo Bianco, Presidente del Consiglio Nazionale Anci, “dobbiamo fare un salto di qualità e per questo proporremo al Ministro Speranza ed al Parlamento di istituzionalizzare delle forme di collaborazione sull’elemento della pianificazione, della formazione e delle sempre più puntuale attenzione agli aspetti socio-sanitari. La collaborazione sociosanitaria è un fattore critico di successo”. All’evento ha partecipato anche Tiziana Frittelli, Presidente Federsanità-Confederazione delle Federsanità Anciregionali: “A luglio abbiamo siglato un importante accordo di collaborazione con l’obiettivo di garantire l’integrazione tra servizi sanitari e sociali per la reale presa in carico dei bisogni del cittadino. La realtà italiana è frammentaria mentre noi puntiamo a servizi omogenei ed equi”. Per Francesco Ripa Di Meana, Presidente Nazionale Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere) “alla luce della esperienza che abbiamo attraversato dobbiamo abbattere le barriere tra ospedale e territorio. Tutta l’assistenza territoriale ha mostrato la sua importanza ma ha bisogno di crescere, partendo dal presupposto che bisogna misurare come funziona il percorso del paziente. La flessibilità del sistema di assistenza territoriale a cui abbiamo assistito deve diventare normalità, dobbiamo molto riflettere sui sistemi di sicurezza dei nostri servizi e poi dobbiamo finalmente dare potere a una figura territoriale di integrazione che non può più essere quello del passato, formato solo sulla medicina dei servizi, ma che sia formato per sostenere un ruolo centrale e di collegamento anche con le istituzioni territoriali”. Fondazione Migrantes: “Scende il numero dei migranti, rovesciato un trend di decenni” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 9 ottobre 2020 Nessuna invasione, i dati smentiscono la propaganda. Appello alla politica: “Bene la modifica dei decreti sicurezza. Ora supportare percorsi di regolarità”. “Conoscere per comprendere”: dice tutto il titolo del Rapporto Immigrazione 2020 di Caritas italiana e Fondazione Migrantes. Il pregiudizio che si è fatto largo, amplificato negli studi TV dalla propaganda di qualcuno, si scontra con la realtà dei numeri. I migranti diminuiscono, rovesciando un trend di alcuni decenni. I 5.300.000 che risiedono da tempo in Italia, l’8,8% della popolazione, a dispetto della sbandierata “invasione africana”, provengono essenzialmente da Romania, Marocco, Albania, Cina, Ucraina e India. Dal 2018 al 2019 vi sono stati appena 47 mila residenti e 2.500 titolari di permesso di soggiorno in più. In calo anche le nascite di figli di immigrati e le acquisizioni di cittadinanza. “Conoscere per comprendere”: dice tutto il titolo del 29mo Rapporto Immigrazione 2020 di Caritas italiana e Fondazione Migrantes. Il pregiudizio che troppo a lungo si è fatto largo, amplificato negli studi televisivi dalla propaganda di qualcuno, si scontra con la realtà dei numeri che le due istituzioni cattoliche hanno presentato, all’indomani dell’enciclica Fratelli Tutti. Il segretario generale della Cei, monsignor Stefano Russo, lancia strali da scomunica: “Vedere nel migrante soltanto una insidia e come tale giudicarlo, è un comportamento che non può definirsi cristiano; come non è cristiano giudicare pericolosi coloro che si impegnano nelle operazioni di soccorso e di accoglienza”. Una sottolineatura che fa seguito all’archiviazione dei decreti sicurezza voluti dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, modificati di peso dal governo. Il numero due della Cei osserva che “uno sguardo interessato a conoscere l’altro, a incontrarlo, pur con tutte le difficoltà e gli ostacoli che questo implica, dà vita a una prospettiva che si colloca a grande distanza dall’opinione, diffusa a più livelli, che vede nel migrante solo un’insidia e nell’opera di coloro che lo soccorrono un pericolo. Si tratta - sottolinea monsignor Russo - di sentimenti contrari alla vita cristiana, che nella fede ci spinge invece ad avere il coraggio di riconoscere in chi è bisognoso del nostro aiuto un fratello”. Spaginando il documentato dossier, sorprendono i dati che compongono la fotografia scattata da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes. Intanto: i migranti diminuiscono, rovesciando un trend di alcuni decenni. I 5.300.000 migranti che risiedono da tempo in Italia, l’8,8% della popolazione, a dispetto della sbandierata “invasione africana”, provengono essenzialmente da Romania, Marocco, Albania, Cina, Ucraina e India. Parchi tanto nelle nascite quanto nelle acquisizioni di cittadinanza. Dal 2018 al 2019 vi sono stati appena 47 mila residenti e 2.500 titolari di permesso di soggiorno in più, insieme ad un calo delle nascite di figli di immigrati, da 67.933 nel 2017 a 62.944 nel 2019. Scendono anche le acquisizioni di cittadinanza, da 146 mila nel 2017 a 127 mila del 2019. E si conferma la tendenza all’inserimento stabile con il 62,3% dei permessi a lunga scadenza. Appena il 5,7% sono i permessi collegati all’asilo e alla protezione internazionale, solo l’1,5% quelli per studio. A delinquere è una minoranza esigua. La controprova si ottiene confrontando i dati con quelli del Dap, a via Arenula. Su una popolazione carceraria di 60.971 detenuti, a fine gennaio di quest’anno risultano essere presenti 19.841 cittadini stranieri: erano 20.255 nel 2018. “I cittadini stranieri, piuttosto, sono fra le principali vittime di reati collegati a discriminazioni”, dice il Rapporto: in generale, si osserva, in Italia negli ultimi dieci anni il numero di reati denunciati all’autorità giudiziaria dalle forze di polizia è diminuito del -9,8%: nel 2019 sono stati denunciati 2.629.831 delitti rispetto al 2018, quando erano stimati in 2.371.806. Una diminuzione che prosegue dal 2003 e che investe tutte le fattispecie criminose. Non meno infondato è il Dagli all’untore. “Non c’è stato in questi mesi alcun allarme sanitario ricollegabile alla presenza di cittadini stranieri nel nostro Paese. La prevalenza di casi positivi è analoga a quella della popolazione generale”. Caritas e Migrantes chiudono l’incontro pubblico salutando “con viva soddisfazione” il recente via libera del Consiglio dei Ministri al decreto legge contenente disposizioni urgenti in materia di immigrazione che modificano i cosiddetti decreti sicurezza. “Molte delle raccomandazioni contenute nel Rapporto - si legge nell’introduzione al dossier sull’immigrazione che viene presentato oggi - hanno sottolineato, nei vari temi affrontati, l’importanza di favorire i percorsi di regolarità dei cittadini migranti nel nostro Paese”. “Auspichiamo dunque che i decisori politici proseguano in questo percorso di legalità e integrazione, sostenendolo oltre che con l’importante processo di revisione delle norme, anche con politiche attive di supporto”. In molti sperano che adesso, ad approvazione avvenuta dei nuovi decreti, si possa riaprire il tema dello Ius Culturae. Laura Boldrini ha fatto un appello in questo senso ai colleghi del Pd e della maggioranza. Dai banchi del governo, parla il Vice Ministro dell’Interno, Matteo Mauri: “I numeri del rapporto Caritas e Migrantes - dichiara Mauri a Il Riformista - dimostrano, dati alla mano, quello che ripetiamo ogni giorno. E cioè che in Italia non c’è un’emergenza migranti. Né tantomeno quella cosiddetta invasione che viene sbandierata da chi prova a fare propaganda usando il fenomeno migratorio per provare a guadagnare consensi. E che invece può essere governato e gestito con politiche pubbliche attente, razionali e finalizzate all’interesse di tutti”. Migranti. Ferrara (M5S): “Così l’Europa resta fortezza inespugnabile per chi cerca salvezza” di Simona Musco Il Dubbio, 9 ottobre 2020 “Secondo questo Patto l’Europa è una fortezza, da tutelare da invasioni e minacce. Non c’è l’impegno ad aiutare le persone che vorrebbero esercitare un loro diritto: si ritrovano a rischiare la propria vita per farlo”. Laura Ferrara, europarlamentare del M5S, non ne fa un mistero: il nuovo Patto su migrazione e asilo, che dovrebbe superare il regolamento di Dublino, non risolve i problemi. Anzi, finisce per peggiorarli, non solo lasciando ai Paesi di primo approdo l’onere dell’accoglienza, ma prevedendo anche un aggravio di spesa per i controlli pre-ingresso. La soluzione? “Sanzioni per chi non si dimostra solidale”, spiega. E una rivoluzione delle politiche d’asilo su cui, per il momento, l’Ue appare sorda. Cosa non la convince del nuovo Patto? Ci sono diversi nodi da sciogliere, sui quali bisognerà lavorare molto nei prossimi mesi. Ci aspettavamo, soprattutto dopo l’annuncio fatto con grande enfasi dalla presidente Von der Leyen, che realmente vi fossero delle novità importanti, soprattutto per risolvere quelle difficoltà che hanno generato scontri accesi all’interno dell’Ue sulla gestione dei flussi migratori. Invece più si approfondisce questa proposta più si rimane delusi. Questo perché tra i criteri per l’individuazione del Paese responsabile per l’esame della domanda d’asilo resta quello del Paese di primo ingresso, che noi avevamo chiesto di abolire, di pari passo con la previsione di un ricollocamento automatico e obbligatorio dei richiedenti asilo. Invece non troviamo nulla di tutto ciò. Il meccanismo di solidarietà non funziona, dunque? Per quanto durante le audizioni la commissaria Johansson e il vice presidente Schinas abbiano detto che ogni Stato membro è obbligato ad attivarsi nel momento in cui un altro Stato faccia richiesta di sostegno per evitare pressioni eccessive, di fatto non sono previste delle sanzioni, qualora non si adempia al ricollocamento, alla sponsor-ship per i rimpatri o al sostegno economico. Quindi, di fatto, è un meccanismo facoltativo. La pressione sui Paesi di primo ingresso, dunque, rimane con il rischio, però, di un aggravio di spesa per i controlli pre-ingresso previsti dal Patto. Oltre al danno la beffa? Esatto. Viene introdotta una procedura di frontiera obbligatoria, con uno screening che richiede una serie di aggravi economici, per risorse umane e anche per la realizzazione di strutture adeguate per accogliere le persone che arrivano sul territorio. Abbiamo sentito dire, soprattutto negli ultimi tempi, di voler scongiurare, quanto più possibile, episodi simili a quelli accaduti nel campo di Moria, in Grecia, ma di fatto ci ritroviamo a discutere di un sistema che ricalca esattamente questo tipo di rischio. Perché se bisogna tenere o addirittura detenere delle persone fino a quando non viene effettuata la procedura di screening e, soprattutto, fino a quando non si avvia la procedura di frontiera per capire come procedere, allora passano mesi. È una situazione grave che ricadrebbe, in particolare, sulle coste del Sud. Il piano non prevede nulla in termini di canali di accesso regolari. Ne chiedete la costituzione? Di questo si dovrà parlare nel momento in cui partiranno i lavori del Parlamento sulla revisione della proposta arrivata dalla Commissione, con tutti gli emendamenti che verranno presentati. Ma di fatto, introdurre qualcosa che non è del tutto previsto nella proposta legislativa è difficile. Quando parliamo di vie legali di accesso all’Ue si dovrebbe creare un sistema del tutto diverso, potenziare i reinsediamenti e i rapporti con i Paesi di transito. Però, per ora, non c’è traccia di questo nelle proposte legislative. È stato annunciato che fino al 2023 arriveranno altre proposte e la commissaria Johansson ha anticipato che l’anno prossimo verrà presentata una proposta legislativa per canali regolari per migranti economici: ad oggi i canali di accesso regolare per chi arriva in cerca di lavoro sono inefficaci, c’è la cosiddetta “Blue card”, ma solo per persone altamente qualificate, selezionando drasticamente chi può beneficiarne. Con una discriminazione per titolo d’istruzione, di fatto... Esatto. Quindi l’obiettivo è quello di ampliare tale possibilità anche a persone meno qualificate, in modo da avere canali legali per chi cerca lavoro. Salvare vite in mare è però un obbligo per gli Stati. Il patto non dice nulla in merito alle operazioni di ricerca e salvataggio? No, anzi, il vicepresidente Schinas ha sempre definito questo patto un edificio a tre piani e il primo step è proprio la protezione delle frontiere esterne. L’approccio è quello dell’Europa fortezza, da tutelare da invasioni e minacce, non quello di una tutela per persone che vorrebbero esercitare un loro diritto e, di fatto, si ritrovano a rischiare la propria vita per farlo. Il quadro, purtroppo, è a tinte fosche: è un punto che l’Ue non intende affrontare ed è chiaro che delega alle Ong o ai singoli Stati membri la gestione della situazione. Quando si concluse l’operazione Mare Nostrum e cominciarono le varie operazioni dell’agenzia Frontex fin da subito si capì che, a dispetto degli annunci, che parlavano di operazioni identiche ma a livello europeo, il mandato era totalmente diverso, tanto che da subito si cominciò a parlare di pattugliamento delle frontiere esterne. Il discorso delle operazioni di ricerca e salvataggio, che più volte è stato sollevato, anche nella passata legislatura, di fatto è rimasto un tema non affrontato da parte dell’Ue, nonostante i continui annunci sulla volontà di contrastare i trafficanti di esseri umani e la criminalità organizzata. C’è un vulnus: da un lato si riconosce il diritto d’asilo, a livello europeo, ma dall’altro non si dà la possibilità di esercitarlo, se non costringendo chi deve fuggire per guerre e persecuzioni a mettersi nelle mani dei trafficanti. Le vie legali d’accesso non sono mai di fatto istituite, ma richiederebbero una revisione davvero coraggiosa, cominciando a parlare di diritto d’asilo a livello europeo: chi lo ottiene dovrebbe essere libero di circolare sul territorio europeo come un cittadino europeo. Ma su questo evidentemente, ancora, non c’è alcuna volontà politica. Che emendamenti proporrà il M5S? Chiederemo un’equa ripartizione delle responsabilità tra tutti gli Stati membri, un ricollocamento automatico e obbligatorio, con l’abolizione del principio del Paese di primo ingresso, sanzioni, magari anche con una condizionalità rispetto ai fondi europei, per chi non adempie e non rispetta la solidarietà e la ripartizione delle responsabilità. Poi, per quanto riguarda la procedura di frontiera, un primo step potrebbe essere di renderla facoltativa, in modo da lasciare agli Stati membri la possibilità di valutare se adottarla in base a situazione specifiche. Questo velocizzerebbe le procedure, con minori costi e minori aggravi per gli Stati membri. Migranti. “Con un decreto si mette a rischio il diritto di asilo” di Carlo Lania Il Manifesto, 9 ottobre 2020 Salvatore Fachile (Asgi): “Forti timori per la sorte delle persone che arrivano alla frontiera” Salvatore Fachile, lei è un avvocato dell’Asgi, l’Associazione studi sull’immigrazione. Trova tutto negativo nel provvedimento del governo che cancella i decreti sicurezza di Matteo Salvini? No assolutamente. Personalmente ritengo che ci siano due parti positive, e sono il ripristino dell’umanitaria, e quindi una ritrovata possibilità da parte dello Stato di riconoscere vari tipi di forme di protezione alle persone che si trovano in condizioni particolari, ma anche il ripristino di un sistema di accoglienza specializzato per i richiedenti asilo. Però… Però ci sono dei punti che non la convincono... Punti gravissimi che sono passati sotto silenzio. Come un pilastro intero della riforma di Salvini che rappresenta il mandato più importante che la Commissione europea ha dato all’Italia e ad altri Paesi sulla riforma integrale della procedura di asilo. Cioè una serie di norme che cercano di trovare dei meccanismi, per noi palesemente incostituzionali, per far sì che le persone che arrivano in frontiera vengano sottoposte a una lunghissima detenzione di tipo amministrativo durante la quale subiscono una procedura velocissima, senza garanzie e con la possibilità di tenerle bloccate e di dargli un diniego in tempi molto brevi, visto che si trovano da sole, senza la possibilità concreta di essere assistite da un avvocato o dalle organizzazioni umanitarie. In questo modo diventano irregolari, oppure restano detenute fino a quando non c’è il rimpatrio forzato. Un’altra norma del decreto Salvini sopravvissuta riguarda il trattenimento nel cosiddetto luogo idoneo, cioè la possibilità di prendere una persona irregolare e non portarla dentro un Cpr, bensì dentro una struttura della polizia e da lì direttamente all’aeroporto. Si tratta di misure violentissime che riducono la libertà personale e il diritto di asilo e che messe insieme prevedono un meccanismo di grossissima selezione. Almeno con le Ong qualche passo in avanti è stato fatto... Il discorso è complesso. È vero che è stata modificata la norma, ma non in maniera radicale. Rimane il principio per cui il governo, seppure non più attraverso il ministro dell’Interno, può vietare a una nave l’ingresso nelle acque territoriali perché ritiene che ci sia stata una violazione del diritto dell’immigrazione, quindi una mancanza di visti, oppure quando la ong che ha operato il soccorso non ha rispettato le indicazioni ricevute dalla Guardia costiera del Paese competente. A monte c’è il passaggio, che è stato normalizzato da Minniti in poi, per cui è stati costituita una zona Sar libica e alle ong viene indicato di rivolgersi alla Guardia costiera di Tripoli per operare il soccorso. Naturalmente nessuna ong può obbedire a questo ordine, quindi disobbedisce alle indicazioni ricevute rendendosi soggetta a ricevere un divieto di ingresso nelle acque territoriali. Un meccanismo voluto prima da Minniti e poi normato dal centrodestra con Salvini, adesso viene normalizzato prevedendo una garanzia che è solo formale, come la zona Sar libica, mentre si continua a criminalizzare l’attività delle ong. O meglio a sottometterle al volere del governo. In questo modo si restituisce normalità a un impianto che a noi sembrava incredibile come quello di Salvini. Sta dicendo che l’immigrazione continua a essere vista come un problema di ordine pubblico? Sto dicendo che il complesso disegno del decreto Salvini trasformava l’immigrazione sempre più in una questione di ordine pubblico, un’operazione complessa fatta su mandato politico della Commissione europea. Quello che fa il governo attuale è obbedire sempre allo stesso ordine: bloccare le persone in Africa ma anche all’arrivo in Italia, Spagna, Grecia. Così, di fatto svaniscono le differenze tra centrodestra e centrosinistra. Grecia. Un mese dopo l’incendio a Moira l’appello di oltre 400 Ong all’Europa La Repubblica, 9 ottobre 2020 “Mai più vuol dire mai più”. È il monito di Medici Senza Frontiere e da un’alleanza senza precedenti di organizzazioni umanitarie, mentre il Consiglio Giustizia dell’UE discute del nuovo Patto sulle migrazioni. A un mese dagli incendi che hanno distrutto Moria e nonostante le promesse pubbliche dei commissari UE che non ce ne sarebbe stata un’altra, più di 7.500 persone sono ancora intrappolate in condizioni disumane in un nuovo campo costruito sull’isola di Lesbo. E altre migliaia, tra cui 7.000 bambini, continuano a vivere in altri campi indegni e pericolosi nelle isole dell’Egeo. È il monito lanciato oggi da Medici Senza Frontiere (Msf) e un’alleanza senza precedenti di oltre 400 organizzazioni, mentre il Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’UE discute del nuovo Patto sulla migrazione presentato due settimane fa. “Nel patto la conferma delle stesse politiche”. “Nell’ultimo mese - silegge in una nota diffusa da Medici Senza Frontiere - oltre mezzo milione di persone hanno firmato diverse petizioni per chiedere ai leader europei di evacuare le persone intrappolate sulle isole greche e porre fine alle politiche di contenimento che hanno causato questa spirale di sofferenze e abusi. Il nuovo Patto sulla migrazione della Commissione Europea - si afferma nel documento - non risponde a queste richieste ma riafferma l’impegno dei governi e delle istituzioni europee nelle stesse politiche che hanno portato agli incendi”. Esposti alla pioggia e alle tempeste marine. “Il nuovo campo di Lesbo perpetua la miseria di quello di Moria - è il giudizio espresso dall’organizzazione Premio Nobel per la Pace del 1999 - uomini, donne e bambini dormono in tende su stuoie, non c’è acqua corrente e il cibo viene distribuito una volta al giorno. Le persone lavano se stesse e i propri figli in mare perché non ci sono docce, i bagni chimici sono pochi. Il campo, costruito alla svelta su un ex poligono di tiro a ridosso del mare, è esposto ad ogni tipo di condizione atmosferica e con l’avvicinarsi dell’inverno non resisterà alla pioggia e alle tempeste. Intanto - si aggiunge - l’epidemia di Covid-19 è ancora in corso ed è impossibile per i residenti del nuovo campo adottare misure di prevenzione come il distanziamento fisico”. “L’approccio fallimentare dell’UE sulle migrazioni”. Anche le persone che vivono negli altri hotspot a Samos, Chios, Kos e Leros sono intrappolate in condizioni disumane e di sovraffollamento. A Kos, i nuovi arrivati sono stati automaticamente detenuti da gennaio. Nell’hotspot di Samos, 4.314 persone vivono all’interno o intorno a un campo pensato per ospitarne 648. Ci sono più di 90 casi positivi di Covid-19, ma non c’è ancora un adeguato piano di risposta. “Niente fa pensare che il modello di contenimento, causa scatenante di queste emergenze cicliche negli ultimi cinque anni, sia messo in discussione - si afferma ancora nella nota di Msf - il Patto europeo sulla migrazione sembra invece consolidare le stesse politiche che hanno causato anni di sofferenza umana in tutte le isole greche. Il Patto riflette l’approccio fallimentare dell’UE, amplia le procedure di frontiera obbligatorie ed è apertamente orientato alla deterrenza e al rimpatrio invece che all’accoglienza e alla protezione umanitaria”. “Quando è troppo è troppo”. “Ribadiamo il nostro appello a decongestionare urgentemente le isole greche e portare le persone in sistemazioni sicure e dignitose - conclude il documento diffuso - intensificando i ricollocamenti in tutta Europa. Esortiamo i leader dell’UE a porre immediatamente fine al contenimento delle persone sulle isole greche e ad abbandonare le proposte di rafforzamento delle strutture di confine in tutta Europa. Mai più significa mai più”. L’appello è un’iniziativa congiunta di Medici Senza Frontiere, Europe Must Act, Help Refugees, Legal Centre Lesvos, Lesvos Solidarity, Refugee Rights Europe e Still I Rise, che hanno guidato una mobilitazione a livello europeo dal giorno degli incendi nel campo di Moria l’8 settembre. Ad oggi, l’iniziativa è diventata un’alleanza senza precedenti costituita da oltre 400 organizzazioni. Libia. Tutti in piazza per chiedere la liberazione di Zaki, non per i pescatori di Carlo Nicolato Libero, 9 ottobre 2020 Società civile, politici e Ong si mobilitano in favore dello studente egiziano. Ma si dimenticano dei nostri catturati in Libia. Patrick Zaki rimarrà in carcere in Egitto per altri 45 giorni e chissà per quanto tempo ancora. Gli attivisti ieri sono scesi in piazza per protestare contro l’ingiusta detenzione che prosegue ininterrotta da otto mesi, sottoposto a torture fisiche con percosse e scosse elettriche, privato, come sottolinea la rete “Patrick Libero”, “dei suoi diritti legali come imputato e come prigioniero”, e dei più elementari diritti come essere umano. Gli appelli si rincorrono, richiami alla giustizia egiziana, alla “Procura Suprema di Sicurezza dello Stato” perché usi la sua autorità e rilasci il ragazzo durante le indagini in corso. Appelli anche al governo italiano perché si impegni seriamente “e faccia uscire Patrick da questo incubo” come ha chiesto Amnesty International. E appelli dalla politica perché si faccia tutto il possibile e il più in fretta possibile, perché il ragazzo è provato, ha l’asma, ha bisogno di cure e con il coronavirus rischia più di tutti gli altri. Nessuno vuole che Patrick Zaki rimanga in carcere in Egitto, noi per primi, e allora perché il governo italiano oltre a non riuscire a smuovere la coscienza di Al Sisi sul ragazzo egiziano che studia a Bologna sta facendo di tutto perché di casi come quello di Zaki ce ne siano altri 18? Incolpevoli pescatori tra i quali 8 italiani, 6 tunisini, 2 senegalesi e 2 indonesiani, tutti provenienti da Mazara del Vallo, che dal primo settembre sono bloccati a Bengasi, arrestati in alto mare dalla guardia costiera del generale Khalifa Haftar. Abbandonati dalla nostra politica, quella che conta di Roma, che finora non ha mosso un dito per riportarli a casa, né ha mosso avvocati esperti di diritto internazionale, come se quei 18, italiani e non, lo vogliamo sottolineare, siano dei cittadini di serie B. Né si sono mosse le associazioni umanitarie. Dov’è Amnesty International? Eppure le premesse sono le peggiori possibili, perché in mezzo c’è una guerra, uno scontro internazionale in cui i pescatori rischiano di rimanere schiacciati come incolpevoli pedine senza alcuna importanza. O peggio utilizzati come arma di ricatto. Per il momento sono accusati da un’entità mai riconosciuta, quella di Bengasi che fa capo ad Haftar, di essere entrati clandestinamente nelle acque libiche e per questo motivo, ha confermato qualche giorno fa il portavoce dell’autoproclamato Esercito nazionale Khaled al-Mahjoub “saranno sottoposti a un procedimento da parte della Procura generale competente e giudicati secondo la legge dello Stato libico”. Ma l’accusa, a seconda dei benefici che Haftar vorrà trarne, potrebbe trasformarsi in traffico di droga, come hanno fatto presagire alcune foto fatte circolare ad arte con sospetti pacchi gialli ritrovati all’interno dell’imbarcazione sequestrata. Lo stesso Khaled al-Mahjoub ha assicurato che loro “non arrestano nessuno se non viene violata la legge e i marinai italiani hanno violato le acque territoriali ed economiche della Libia”, cosa, a suo dire, che fanno spesso. Ma la verità è un’altra, è che il governo italiano ha abbandonato il Mediterraneo, specie quel tratto tra le nostre coste quelle libiche e quelle tunisine dove i nostri pescatori a fatica e sotto costante minaccia per la loro vita fanno il loro lavoro. Minacciati dalle motovedette libiche di una sponda, quella di Tripoli, e dell’altra, quella di Bengasi. Dagli scafisti e perfino dai pescatori di frodo, specie i tunisini. Ha abbandonato la politica estera e perfino quel ruolo di predominante influenza in Libia, scalzati dai turchi che da quelle terre avevamo sloggiato più di 100 anni fa. E sta abbandonando i 18 pescatori di gamberi rossi. Portogallo. La triste Lisbona tra i pestaggi del partito Chega di Alessia Grossi Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2020 Il dossier: l’ascesa di André Ventura e del partito Chega coincide con la ripresa della caccia al migrante. Sulla foto profilo del suo account Twitter, lui e Salvini si misurano la mascherina e l’italiano sembra indicargli di averne una nera, mentre quella dell’amico è una semplice chirurgica d’ordinanza. La copia lusitana dell’ex vicepremier italiano è André Ventura, leader dell’ultradestra portoghese che grazie all’1,29% dei voti alle elezioni dell’ottobre scorso, siede in Parlamento a dare manforte da palazzo ai gruppi peudo-nazi che stanno proliferando in Portogallo. Da quando Ventura e il suo partito Chega (Basta), nato nel 2019, hanno fatto irruzione sulla scena politica, infatti, sono aumentate le violenze a sfondo razzista dei movimenti para-nazisti nel Paese. A legare i due fenomeni è il rapporto delle Rete europea contro il razzismo (Enar) che indica nell’auge del leader amico di Salvini l’aumento dei pestaggi che a luglio hanno portato alla prima vittima. L’inchiesta, approfondita dal Guardian, racconta come l’estate scorsa Mamadou Ba, responsabile della organizzazione Sos Razzismo di Lisbona abbia ricevuto una lettera. “Il nostro obiettivo è uccidere tutti gli stranieri e gli antifascisti e lei è nel nostro mirino”, recitava la missiva. Una settimana dopo Mamadou ha trovato un secondo messaggio: se non avesse abbandonato il Portogallo, a farne le spese sarebbe stata la sua famiglia. Dentro la busta, anche un bossolo. Secondo l’enar, che chiede “una risposta urgente alle Istituzioni del Paese” di denunce come questa ne sarebbero arrivate tante. Si tratta di vittime “quotidiane” di un assedio razzista. A gennaio, scrive il Guardian, una donna nera e sua figlia sono state aggredite perché non possedevano il biglietto dell’autobus. A febbraio, la polizia ha aggredito due donne brasiliane e, nello stesso mese, il calciatore del Porto, Moussa Marega, originario del Mali, ha lasciato la partita per i cori razzisti. Ma l’episodio più cruento è quello di luglio, un sabato pomeriggio l’atto re nero Bruno Candé è stato assassinato con sei colpi alla schiena: “Un crimine razziale palese”, scrive l’enar nel rapporto. “Negli ultimi mesi abbiamo registrato un aumento preoccupante degli attacchi razzisti di estrema destra in Portogallo, il che conferma che i messaggi di odio stanno ravvivando strategie più aggressive indirizzate ai difensori dei diritti umani e alle minoranze razziali”. E l’aumento è più evidente dalle scorse elezioni, quando, cioè, anche in Portogallo, come in altri Paesi europei, vedi la Spagna di Vox (52 seggi in Parlamento), si è verificato un exploit dell’estrema destra. Certo, c’è da dire che Chega di scranni ne ha ottenuto solo uno, eppure la presenza di Ventura in Parlamento e la sua sovraesposizione mediatica giustificherebbero, secondo l’enar, la legittimazione percepita dai gruppi violenti. Questo anche grazie alla nomina tra i dirigenti del partito di persone legate ai gruppi radicali di estrema destra o membri di formazioni neonazi. A saldare queste scelte in un’ideologia di partito sono le dichiarazioni pubbliche del 37enne leader, come quando definì “candidata gypsy” una candidata, o quando ha consigliato “la drastica riduzione delle comunità musulmane d’Europa”. Quanto all’agenda, Ventura porta avanti slogan populisti: lotta contro la delinquenza degli stranieri, che si tratti di rumeni o afroportoghesi, o l’azzeramento delle élite politiche corrotte, in una retorica che per molti analisti somiglia a quella del presidente del Brasile, Jair Bolsonaro. In Parlamento, Chega ha proposto l’inasprimento delle pene per corruzione e l’interdizione dai pubblici uffici per 10 anni, oltreché il ridimensionamento del governo (12 ministri), il taglio del numero dei deputati e la limitazione della carica di primo ministro ai soli politici nati in Portogallo. le tre proposte sono state giudicate incostituzionali dalla commissione par lament are. Poi ha presentato un progetto di revisione costituzionale che prevede la castrazione chimica per i pedofili, l’ergastolo per i reati gravi e il lavoro obbligatorio in carcere. Così Ventura riesce a tenere in scacco il Parlamento, oltre che a dare voce al razzismo. Forse anche per questo, il movimento Black Lives Matter lusitano ha proposto invano un dibattito sulle discriminazioni in Portogallo, mai affrontato dai tempi della decolonizzazione post- rivoluzione dei garofani (1974). Ventura si è opposto: “Il Portogallo non è razzista”. Contro le manifestazioni seguite all’uccisione di George Floyd - l’afroamericano che ha perso la vita a Minneapolis, negli Stati Uniti, il 25 maggio, mentre un poliziotto lo teneva bloccato a terra, la cui morte ha poi scatenato l’estate di proteste della comunità di colore - i neonazi hanno inscenato un corteo in stile Ku Klux Klan di fronte alla sede di Sos razzismo, sulla cui facciata hanno disegnato svastiche e scritto insulti razzisti. Per loro nessuna punizione. Medio Oriente. Dal vaso di Pandora rispunta l’Isis di Alberto Negri Il Manifesto, 9 ottobre 2020 A volte ritornano, o forse non se ne sono mai andati. L’Isis è stato sconfitto e ora riportiamo a casa “i nostri ragazzi”, è uno dei mantra di Trump che è stato ripreso dal suo vice Mike Pence nel dibattito con Kamala Harris. Ma la pandemia e la crisi economica globale hanno permesso all’ex Stato Islamico di riorganizzarsi. Altro che “missione compiuta”, abusata formula dei presidenti americani per tentare di coprire i vasi di Pandora mediorientali. La realtà è diversa da come la descrive la Casa Bianca, che aveva cominciato l’anno del Covid ammazzando con un drone il 3 gennaio nella capitale irachena il generale iraniano Qassem Soleimani, colui che nel 2014, dopo la caduta di Mosul e la disfatta dell’esercito iracheno, aveva fermato con le milizie sciite il Califfato alle porte di Baghdad. E non è un caso che la Harris nel corso del dibattito con Pence abbia criticato aspramente questo omicidio e l’uscita dall’accordo con l’Iran sul nucleare voluto da Obama nel 2015. Vedremo se anche il suo capo, Joe Biden, la penserà allo stesso modo nel caso venisse eletto. C’è da dubitarne. Tre notizie ci dicono che la guerra all’Isis e in Siria non è per niente finita e ricordano, anche a noi qui in Italia, un passato recente che si vorrebbe archiviare. Due militanti dello Stato islamico, conosciuti come i “Beatles”, sono arrivati negli Usa per affrontare un processo in cui sono accusati di avere preso parte alla decapitazione di quattro ostaggi occidentali. Alexanda Kotey (“Jihadi Ringo”) e El Shafee Elsheikh - britannici cui Londra ha ritirato la cittadinanza - sono sospettati di appartenere a una cellula dell’Isis di 4 membri nota come “The Beatles” perché parlavano inglese con accento britannico. La seconda notizia è che secondo la procura antiterrorismo della Sardegna la Saras, controllata dalla famiglia Moratti, avrebbe acquistato tra il 2015 e il 2016 petrolio del Califfato, convogliato via Turchia, frodando il fisco per 130 milioni di euro e finanziando di fatto il jihad dell’Isis. La terza vicenda riguarda la città siriana di Idlib, occupata dalle milizie jihadiste alleate della Turchia: i jihadisti europei che ancora combattono qui potrebbero tentare di rientrare in Europa attraverso i confini turchi, almeno così sostiene il presidente siriano Bashar Assad. Mosca e Damasco vorrebbero riprendere la città ma anche questo nodo siriano per Putin è un motivo di scontro con Erdogan, oltre alla questione libica e al Nagorno Karabakh. Il Califfato non è sparito come sostiene la Casa Bianca, contro gli stessi rapporti dell’intelligence americana. Gli Usa hanno contribuito alla disgregazione territoriale del Califfato, insieme ai curdi del Rojava - poi lasciati alla mercé di Erdogan - e all’esercito siriano alleato con i russi, ma non lo hanno sconfitto. L’Isis è tornato a colpire in Siria e in Iraq e persino a imporre un controllo, sia pure sporadico e simbolico nella Siria orientale, dove nei villaggi a est di Dayr Ezzhor riescono persino a riscuotere dagli abitanti, la zakat, tassa prevista dalla legge islamica. Nel marzo del 2019 con la caduta della roccaforte di Baghouz il Califfato era stato dichiarato formalmente sconfitto e l’uccisione in ottobre del suo leader al Baghdadi (sostituito dal controverso Al Quraishi) aveva spinto Trump a dichiarazione trionfaliste. Ma l’Isis è tornato. Gli attacchi all’esercito siriano e in Iraq si sono moltiplicati e l’ex Califfato ha beneficiato della redistribuzione delle truppe americane in Turchia, in Siria e in Iraq, tanto è vero che le milizie curde e arabe dell’Sdf sono state messe in allerta per sferrare nuove offensive. Basta leggere l’ultimo rapporto dell’Onu: l’Isis conta ancora su almeno 10mila combattenti e riserve finanziarie stimate 100 milioni di dollari. A volte tornano, ma qualcuno fa finta di non vedere. Mali. Liberati due ostaggi italiani: padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiaccio di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 9 ottobre 2020 Il sacerdote della Società delle missioni africane era stato sequestrato in Niger nel settembre di due anni fa. L’altro connazionale era nel Paese come turista. È finita la trattativa per la liberazione in Mali degli ostaggi occidentali rapiti negli ultimi anni nell’ampia regione del Sahel da parte dei gruppi jihadisti legati ad Al Qaeda. Tra quelli rilasciati ieri anche due italiani: il missionario Pier Luigi Maccalli e il turista-viaggiatore Nicola Chiacchio. Ma il prezzo da pagare è molto alto: quasi duecento pericolosi militanti islamici liberati tra coloro che nell’ultima settimana erano stati catturati o condannati dalle autorità di Bamako vengono messi in libertà. Uno scambio di prigionieri in piena regola, a cui hanno partecipato attivamente le autorità del Mali coadiuvate dai militari francesi attivi nella regione e dai servizi d’informazione italiani. Segno che l’Africa sub-sahariana resta più che mai terreno di crescita del jihadismo qaedista, pericoloso e attivo dal Mali, al Niger, al Burkina Faso, sino alla Libia meridionale e di recente anche in alcune zone di Congo e Kenya. Secondo i comunicati che giungono da Bamako, i prigionieri liberati sarebbero almeno quattro. L’operatrice umanitaria francese Sophie Petronin: era stata rapita in Mali nel dicembre 2016. La sua prigionia è durata ben 1.380 giorni. Un altro è l’ex ministro maliano Soumalla Cisse. Si ritiene che i loro rapitori siano parte di un gruppo collegato ad Al Qaeda e noto localmente come Jama’a Nusrat ul Islam. Pare siano specializzati nel rapimento di stranieri: avrebbero infatti avuto nelle loro mani altri cinque ostaggi, tra cui il medico australiano Ken Elliott, la svizzera Beatrice Stockly e la suora colombiana Gloria Cecilia Narvaez Argoti. In Italia la vicenda di padre Maccalli ha sollevato non poche inquietudini. Nato nel 1961, formatosi nella diocesi di Crema, un veterano delle missioni cattoliche in Africa, prima in Costa d’Avorio, dal 2007 aveva operato nella parrocchia di Bomoanga, circa 150 chilometri a sud-ovest della capitale del Niger. Il suo rapimento era avvenuto nella notte tra il 17 e 18 settembre 2018. I suoi amici e collaboratori nella Società delle Missioni Africane avevano raccontato di un gruppo di uomini armati e molto bene organizzati. Sapevano del suo recente rientro da una vacanza in Italia ed avevano pianificato il sequestro. Un anno dopo, nel corso di una visita in Niger dell’ex presidente del parlamento europeo Antonio Tajiani, erano stati gli stessi giornalisti maliani a raccontare del caso di Maccalli come prova drammatica della crescita di Al Qaeda in stretto rapporto con i gruppi locali di Boko Haram. “Da dopo il rapimento del missionario italiano è stato evidente che i terroristi miravano alla capitale”, spiegavano. Le speranze di liberazione erano cresciute lo scorso aprile, quando al quotidiano Avvenire era giunto un video lungo 24 secondi di lui in compagnia di Chiacchio. Entrambi apparivano fortemente dimagriti, con una lunga barba e abiti tradizionali locali. Iran. Torna in libertà la dissidente Mohammadi, era la portavoce di Shirin Ebadi di Vincenzo Nigro La Repubblica, 9 ottobre 2020 La ricercatrice era in gravi condizioni di salute e sarebbe stata colpita in carcere anche dal Covid. Dopo otto anni e mezzo trascorsi in carcere per dei reati d’opinione, l’attivista iraniana per i diritti umani Narges Mohammadi è stata rilasciata dall’autorità giudiziaria. A luglio Amnesty International aveva fatto appelli pubblici per la sua liberazione, anche perché la Mohammadi è in difficili condizioni di salute e nelle carceri iraniane si è diffuso senza controllo il Coronavirus. Narges Mohammadi era in carcere nella città nord-occidentale di Zanjan: la condanna a 10 anni le era stata comminata con l’accusa di aver “pianificato reati contro la sicurezza dello Stato”, per aver diffuso “propaganda illegale” e aver gestito un “gruppo illegale”. Il gruppo “illegale” sarebbe il “Centro per la Difesa dei Diritti Umani”, la cui fondatrice era stata l’avvocato Premio Nobel Shirin Ebadi: la Mohammadi aveva avuto incarichi di rilevo nel Centro, diventandone il portavoce, e aveva continuato a tenerlo in piedi anche quando la Ebadi aveva lasciato il paese nel 2009, dopo la contestata rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad. Narges Mohammadi è un ingegnere ed è laureata anche in fisica; nel 2008 è stata premiata con il Premio Andrei Sacharov che viene assegnato a scienziati che si fanno notare per il loro impegno in difesa dei diritti umani. Non possiamo rimuovere la tragedia della Bielorussia di Barbara Pollastrini* Il Domani, 9 ottobre 2020 Tre giorni a Minsk e il mondo ti cade addosso nella sua immensità di coraggi e nella sua brutalità fatta di tirannie e repressioni odiose. Quando venerdì scorso a Fiumicino hanno impedito a Laura Boldrini ed Emanuele Fiano di imbarcarsi perché, al pari di Lia Quartapelle, già segnalati, con Andrea Orlando abbiamo deciso di usare la “distrazione” del regime nei nostri confronti e di partire ugualmente. Che invidia per chi scrivendone sa comunicare l’intensità e il dramma di un popolo. Non ne sarò capace però se ci provo è perché le donne e gli uomini che abbiamo incontrato ci hanno chiesto di raccontare, fare conoscere il loro dramma anche come un modo perché maturi il senso esteso di una solidarietà. In Bielorussia c’è un regime oppressivo e torturatore. Aleksandr Lukashenko è al potere da ventisei anni, per molto tempo ha goduto del consenso di un paese che doveva ricostruirsi. È stato il padre-padrone dell’amministrazione, della magistratura, della polizia, della tv di stato, delle carriere e del parlamento. In cambio offriva una qualche sopravvivenza dello stato sociale tacitando e reprimendo le opposizioni. Qualcosa però a un certo punto non ha più funzionato e di quello scarto oggi Minsk è la fotografia più evidente e inquietante. In apparenza una città “distesa”. Ma poi? Ma dentro? Ma poi, e dentro, ci trovi la stratificazione di abusi, privilegi, ingiustizie, e ancora il dramma del Covid-19 e la crisi fino alla scintilla scattata ora in tutta la sua carica di ribellione. Racconti terribili Come un orologio che da tempo indicasse un’ora falsata sino a quando una bimba ha svelato quel che molti sapevano, che l’ora era un’altra. Quella bimba ha avuto il profilo di un popolo offeso dalla truffa elettorale del 9 agosto e che questa volta si era organizzato in gruppi spontanei. Un popolo organizzato anche piegando la scheda in un certo modo. Comunicando via social la vittoria di Svetlana Tikhanovskaya, invece il risveglio brusco è stato quello di urne sparite, seggi bloccati con verbali distrutti, dati truccati sino all’annuncio-provocazione di un dittatore che sarebbe stato votato dall’80 per cento della popolazione. A quel punto l’indignazione è esplosa e la rete l’ha rilanciata e moltiplicata, convocando la prima manifestazione accompagnata da migliaia di fermi, arresti, pestaggi, 7.000 carcerazioni solo nei primi giorni. Abbiamo ascoltato racconti terribili Una dottoressa accorsa per prestare soccorso e arrestata, testimonianze di violenze, stupri, ricatti che usano la minaccia sui figli. Cosa deve succedere ancora a due ore e mezzo di volo da noi, dalla mia Milano? Forse solo ascoltando, vedendo, capisci il senso più vero della politica, la difesa ovunque dei diritti umani e della dignità di ciascuno. Sono loro, a Minsk, che in questo momento ci insegnano qualcosa: non si fanno chiamare “dissidenti” perché si sentono maggioranza Si definiscono “protestanti”, nel senso letterale di essere quelli della protesta per i diritti politici. O anche “resistenti” di una rivoluzione per la libertà di ciascuno. Quello in Bielorussia è un movimento pacifico, plurale, creativo nell’uso delle tecnologie. Hanno figure riconosciute a partire da Svetlana Tikhanovskaya, Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova, le tre donne simbolo della protesta. Senza una ideologia predeterminata usano con sapienza i social, il passaparola, la street art, dispongono la merce nelle vetrine per messaggi impliciti, tante donne indossano l’abito bianco. Nel salutarci, alcuni tra quelli con maggiori responsabilità ci hanno detto: “Se domani dovessi finire in carcere, cercate un’altra o un altro amico”. Tentavo di interpretare quella compostezza e forza. Domenica la manifestazione mi ha dato una risposta: un fiume fatto di tanti affluenti dai vari quartieri, il sentimento che li muove è in quel messaggio, insieme (together) per reinventare democrazia e indipendenza. Come? Donne e uomini, ragazze e ragazzi neppure nati al tempo, mi dicono. “Siamo un nuovo ‘68”. Altri semplicemente si battezzano bielorussi, innamorati del loro paese. Io dico che sono la libertà e allora che il governo italiano incontri le loro leader, che l’Europa usi sanzioni più severe, che si liberino tutti i detenuti politici, che si facciano libere elezioni con osservatori internazionali, che si costruiscano diplomazie e aiuti. Si deve fare tutto tranne una cosa, operare una rimozione della tragedia che li si consuma perché quello sì equivarrebbe a una rimozione dei nostri valori più profondi. E questo per nessuna ragione ci è consentito farlo. *Deputata Pd