Bonafede: “Non scriviamo leggi in base alle rivolte, ma per la sicurezza nelle carceri” di Davide Varì Il Dubbio, 8 ottobre 2020 Il ministro della Giustizia commenta le novità introdotte con il nuovo dl sicurezza: “Il decreto non spalanca le porte all’immigrazione clandestina”. “Entro il 2020 tutto il processo civile, dal primo grado alla Cassazione, sarà digitale, mentre è già stata avviata la digitalizzazione del processo penale”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, intervistato a Radio anch’io. “Confidiamo nella possibilità che la digitalizzazione faccia arrivare presto i frutti delle nuove tecnologie per migliorare i tempi e l’efficienza della giustizia”, ha aggiunto. Il guardasigilli affronta poi il tema dei telefonini in carcere, per il quale, con il decreto sicurezza, è stato previsto un apposito reato. Un “fenomeno diffuso che si è aggravato” di fronte al quale “è importante porre un freno”, ha spiegato. “Ci sono anche casi che riguardano detenuti appartenenti alla criminalità organizzata - ha osservato Bonafede - e serve interrompere qualsiasi possibilità di comunicazione con l’esterno. Per questo l’intervento riguarda anche i detenuti al 41bis”. A chi gli chiede se questa nuova misura possa scatenare nuove rivolte nei penitenziari, Bonafede risponde: “Non dobbiamo scrivere le leggi in base alle rivolte, lo Stato fa il suo dovere e l’Amministrazione penitenziaria si muove per la sicurezza nelle carceri. Quello dei telefonini è un fenomeno grave, è giusto che lo Stato intervenga”. Quanto ai 1.761 cellulari trovati in carcere in questi primi 9 mesi del 2020, il Guardasigilli ha rilevato che “nella maggior parte dei casi si tratta di telefonini individuati dalla Polizia penitenziaria prima che arrivassero nelle mani dei detenuti”. “Di fronte a fatti di violenza soprattutto nei locali o nei luoghi della movida l’approccio del Governo è stato di tolleranza zero”, ha ribadito il ministro parlando del “Daspo” antirisse contenuto nel decreto sicurezza. “Il decreto non spalanca le porte all’immigrazione clandestina” piuttosto, “oltre a recepire le osservazioni del presidente Mattarella”, cerca di “individuare elementi di miglioramento affinché lo Stato possa monitorare e conoscere la situazione di ogni persona che si trova sul territorio italiano: in questo modo aumenta la sicurezza”. Il Guardasigilli definisce inoltre “critiche infondate” quelle mosse al M5s che aveva approvato nel primo governo Conte i decreti Salvini: “Nel primo anno abbiamo visto chiari segnali di difficile applicazione di quei decreti - sottolinea Bonafede - gli immigrati arrivavano in Italia ma non erano monitorati dallo Stato”. “Zero fondi per la formazione dei detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 ottobre 2020 Per ora, secondo l’ultima relazione al Parlamento della Corte dei Conti, sono pari a zero le spese stanziate dal ministero della Giustizia per la promozione e sviluppo della formazione professionale per i detenuti. Una questione non da poco, considerando il fatto che il lavoro - non quello volontario, ma quello retribuito e professionalizzante - è funzionale alla rieducazione del detenuto. Ma i dati della Corte dei Conti, descritti nella relazione presentata a giugno scorso, parlano chiaro. L’intervento di istruzione, di formazione professionale, culturale e sportiva rimane quello collocato nella categoria di spesa “Trasferimenti correnti a famiglie e istituzioni sociali private”, che ha visto per il 2019 la previsione definitiva di 7.019 milioni, risultati poi impegnati per 6.546,7 milioni e quasi interamente pagati. Le spese stanziate in via definitiva per l’istruzione, di 5,598.09 milioni sono state impegnate per 5.139,8 milioni, quelle per attività culturali, ricreative e sportive di 980.000 euro sono state impegnate per 960.000 euro e - si legge sempre nella relazione- “quelle per la promozione e lo sviluppo della formazione professionale derivanti dal lavoro dei detenuti sono state pari a zero”. Per corroborare tale dato, la Corte dei Conti fa riferimento alla documentazione fornita dall’Amministrazione precedente. Relativamente alla formazione professionale, i dati forniti al primo semestre 2019 riferiscono di 230 corsi frequentati da 2.936 detenuti. Per quanto riguarda il lavoro, si registra, poi, la modalità di autoproduzione per le esigenze dell’Amministrazione che va dal settore dell’arredamento (falegnameria) a quello tessile (predisposizione di divise ed altro). Al 30 giugno 2019 sono risultati 661 i detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione in attività di produzione cosiddetta industriale (falegnameria ed altro); 309 in attività agricole. Sono risultati 2.459 i detenuti impiegati alle dipendenze di datori di lavoro esterni, che per tale ragione godono di agevolazioni fiscali ai sensi della legge n. 193/ 2000 (legge Smuraglia). Quindi sono numeri da prefisso telefonico, considerando il numero enorme della popolazione detenuta. Ma la Corte dei Conti sottolinea anche un passaggio in relazione agli adempimenti derivanti dalla recente riforma penitenziaria del 2018, volta tra l’altro all’accentuazione della funzione rieducativa della pena, alla valorizzazione dell’istruzione in carcere, della formazione professionale e del lavoro, nonché dell’attività culturale e sportiva. Ricorda, appunto, che, nella categoria di spesa “Altre uscite correnti”, il “Fondo da destinare alla riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario” a ciò dedicato (capitolo di spesa 1773), “è stato ridotto, a seguito della manovra, da una dotazione di 20 milioni su base legislativa previgente rispetto alla manovra di bilancio, a 8 milioni di stanziamento iniziale, nonostante che la legge di bilancio abbia assegnato a valere sullo stesso anche un nuova finalità, di finanziamento degli interventi urgenti per la funzionalità delle strutture e dei servizi penitenziari e minorili”. Purtroppo, nella relazione, la Corte dei Conti non ha affrontato il discorso dell’enorme spesa sull’effettiva produzione dei braccialetti elettronici. Quest’ultimo è un capitolo non del tutto chiaro. Sanità penitenziaria, serve una riforma della riforma guardando ai fondi Ue di Luciano Lucania* Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2020 Il tema dell’eradicazione dell’Epatite C nelle carceri ha avviato il XXI Congresso nazionale Simspe (Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria) “L’Agorà Penitenziaria 2020” dell’1-3 ottobre scorsi. Le relazioni si sono sviluppate su quattro moduli principali che esprimono, a nostro parere, le attuali principali criticità della sanità in carcere: “La gestione dei pazienti detenuti in era CoViD” (focus su screening e vaccinazioni, Hcv e Hiv), “Infermieristica penitenziaria e conflittualità ambientali”, “Il paziente psichiatrico detenuto e la presa in carico multidisciplinare” e infine “Aspetti di medicina legale per medici e professioni sanitarie”. Si sono portate al centro del dibattito anche le situazioni che gli operatori sanitari tutti hanno vissuto in questi mesi e le esperienze acquisite, preziose per trovare le soluzioni migliori ai diversi problemi clinici, organizzativi e logistici che quotidianamente emergono in questo ambito. Il sovraffollamento degli istituti penitenziari è decisamente migliorato, passando dal 20,3% al 6,6%, per l’assenza di arresti nel periodo del lockdown. Adesso, e da molti mesi con la nuova fase, appare nuovamente in crescita e diventa necessario eseguire estesamente sia i test Hcv che Sars-CoV2, non solo in chiave di prevenzione della pandemia, ma nella possibilità concreta di avviare cure necessarie sotto il profilo generale anche per problematiche gravi e significative quali l’epatite C, che oggi è divenuta certamente più gestibile, anche in ambienti difficili quale il carcere. La possibilità, nonostante questa situazione generale, di ottenere anche in carcere la remissione della patologia e di avere sezioni HCV-free limitando la sua diffusione, non appare irrealizzabile, anche valutando i dati presentati in uno specifico studio su 8 istituti penitenziari. Il Covid-19 ha reso più evidente un’altra emergenza sanitaria: quella della salute mentale. Depressione, ansia e disturbi del sonno, durante e dopo il lockdown, hanno accompagnato e stanno riguardando più del 41% degli italiani. Le persone rinchiuse nelle carceri costituiscono soggetti particolarmente vulnerabili: secondo dati noti, circa il 50% dei detenuti era già affetto da questo tipo di disagi prima della diffusione del virus. Erano frequenti dipendenza da sostanze psicoattive, disturbi nevrotici e reazioni di adattamento, disturbi alcol correlati, disturbi affettivi psicotici, disturbi della personalità e del comportamento, disturbi depressivi non psicotici, disturbi mentali organici senili e presenili, disturbi da spettro schizofrenico. Questo oggi si pone come una delle questioni più gravi del sistema penitenziario italiano. Il confronto su questo tema delicato ha evidenziato la necessità di avviare una concreta e diffusa integrazione dei servizi del territorio e di quelli attivi all’interno del carcere; è parimenti necessario che anche il sistema penitenziario sia in grado di affrontare in sinergia questo problema che in questo momento storico, seguente la chiusura degli Opg, si manifesta come una delle maggiori criticità interne agli istituti di pena. Il ruolo dell’infermiere nell’ambito penitenziario è centrale, sebbene spesso non venga messo a fuoco a sufficienza. La sua è una responsabilità che va ben oltre quella sanitaria, poiché coinvolge la sicurezza personale di tutti coloro che lavorano in carcere. Il gruppo infermieristico di Simspe ha in corso lo sviluppo di diversi filoni di ricerca che permettano di valorizzare la figura dell’infermiere e di ottimizzarne il contributo professionale. Il XXI Congresso è stato concluso con una partecipata web conference sugli “Aspetti di medicina legale per medici e professioni sanitarie”, tema centrale nello sviluppo delle attività sanitarie del Ssn all’interno del carcere e del mondo dell’esecuzione penale. La definizione e modulazione del rischio clinico, lo stesso risk management, la piena cognizione degli aspetti critici dell’attività quotidiana hanno scandito questa sezione, che ha espresso anche un focus per individuare i più opportuni rapporti di comunicazione fra il medico penitenziario e l’Autorità giudiziaria. Dal panorama delineato è emerso come la pandemia abbia portato in assoluta evidenza le criticità del sistema. Di quel sistema già anacronistico nel 2008 che come tale è transitato al Ssn nelle articolazioni regionali, ognuna delle quali ha attivato modelli operativi e gestionali, nonché rapporti di lavoro con il personale disomogenei e spesso confusi nella persistenza perdurante di vecchio e nuovo. Quali le necessità? Le evidenze scientifiche, sotto il profilo infettivologico, psichiatrico, internistico, modulate alle esigenze del sistema penitenziario e quindi con la necessità di coniugare la sicurezza sociale e l’esecuzione della pena con il rispetto della persona e la cura della malattia eventuale (cronica pre-detenzione o acuta intercorrente) esprimono paradigmi che pur nel rispetto delle esigenze penitenziarie, non antepongano queste alle esigenze strettamente cliniche e sanitarie. Un sistema da ripensare. Riteniamo che necessiti identificare con chiarezza la sanità penitenziaria, con pari dignità rispetto agli altri servizi delle Aziende Sanitarie. Con analoghi modelli ed organizzazione. Necessita a livello regionale un adeguato numero di posti ospedalieri di medicina “protetta”, cioè un reparto ospedaliero ristrutturato in sicurezza detentiva e sede di specifica aliquota di Polizia Penitenziaria, attraverso cui erogare le prestazioni in ricovero (mediche e chirurgiche) oltre che i servizi di day hospital e day surgery. All’interno degli istituti di pena è necessario definire e potenziare gli attuali presìdi per consentire una offerta di prestazioni ambulatoriali in linea con le richieste, e attivare una rete di sezioni sanitarie vocate alle cronicità mediche ed alla disabilità, categorie sanitarie in crescita, ed infine ripensare globalmente la gestione del disagio psichico e della patologia mentale, nell’ambito del definitivo superamento Opg ma rammentando che proprio per questi aspetti il binomio carcere-territorio diviene una assoluta necessità. Una riforma della riforma, complessa e probabilmente onerosa sotto il profilo strutturale e strumentale, ma i fondi non sembrano mancare alla luce delle disponibilità espresse dall’Unione Europea nelle varie forme di finanziamento dei progetti. Forse manca il progetto. Potrebbe essere il momento di scriverlo e stimarne i costi. Noi ci siamo. Le nostre professionalità e l’esperienza nel settore sono disponibili per dare finalmente questa svolta, ormai non più differibile. *Presidente Simspe - Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria “Detenuti fragili non seguiti e disperati, mentre al Dap c’è poca trasparenza” di Giacomo Andreoli Il Riformista, 8 ottobre 2020 In cella per droga a 22 anni denuncia molestie e si uccide. È solo l’ultimo dei suicidi in carcere, in drammatico aumento rispetto allo scorso anno. Bernardini (Radicali): “Detenuti fragili non seguiti e disperati, mentre al Dap c’è poca trasparenza. Con Bonafede deriva securitaria”. “Perché il Dap non pubblica via via i nomi di chi muore in carcere? C’è reticenza. E capita che i suicidi non siano registrati, soprattutto quando si tratta di stranieri, perché spesso non ci sono parenti che li “reclamano”. Da quando c’è il ministro Bonafede, poi, c’è una deriva securitaria”. La radicale Rita Bernardini non ha dubbi: il dramma dei suicidi in carcere si consuma senza trasparenza da parte delle istituzioni, in un clima generale di disinteresse. Nel frattempo, dopo i disagi e i disordini provocati dal Covid-19 e dalla sua problematica gestione negli istituti penitenziari, il numero di chi si toglie la vita continua a salire: sono già 45 casi accertati dal 1 gennaio ad oggi. “Un dato che supera quello dello stesso periodo dello scorso anno e che ci preoccupa, soprattutto per l’aumento degli ultimi giorni” ammette Daniela de Robert, dal collegio del Garante nazionale dei detenuti, che sottolinea però come non sia evidente e dimostrata la connessione diretta con la pandemia. Piuttosto, sostiene, “è oggetto di nostra attenzione l’aumento dei detenuti a fronte di pochi spazi”. Come riporta il sito del Ministero della Giustizia al momento sono 54.277, con 356 persone in più nell’ultimo mese e soli 45 mila posti disponibili. Ancora più sovraffollamento del solito quindi, a peggiorare le condizioni di sicurezza e vivibilità in tempi in cui, tra l’altro, si dovrebbe assicurare sempre la distanza di sicurezza. “E siamo solo ad ottobre - ricorda Bernardini - andando avanti così si rischia di raggiungere record di suicidi poco invidiabili”. Il pericolo, infatti, è quello di avvicinarsi al numero horribilis del 2009, quando a togliersi la vita furono addirittura in 72. L’ultimo caso è quello di ieri: un ragazzo di 22 anni originario del Senegal ha preferito farla finita pur di non continuare a vivere segregato nel carcere di Brescia. Era ai domiciliari per droga e non aveva rispettato gli impegni con i medici che lo avevano in cura, motivo per cui il tribunale di sorveglianza cittadino aveva aggravato la misura. Il giovane era depresso e forse il suo stato era connesso alle denunce di molestie che diceva di aver subito per anni da un imprenditore locale, che in cambio gli offriva soldi e vestiti. Per questo sta indagando la Procura di Brescia. Sempre ieri Il Giorno ha reso noto che si potrebbe essere suicidato anche un pakistano di 23 anni trovato senza vita a metà settembre nel carcere Bassone di Como. Era stato condannato a due anni e quattro mesi, che stava finendo di scontare, dopo aver rapinato nel 2018 un minore a Malgrate. Con un gesto estremo avrebbe deciso di uccidersi, anche se poco prima del decesso aveva scritto lettere nelle quali si diceva pronto a ricominciare dopo aver lasciato l’istituto. Proprio per questo la Procura di Como ha disposto l’autopsia e l’avvocato difensore del giovane, come conferma l’associazione Ristretti Orizzonti, è in attesa di risultati per decidere il da farsi. Un altro ragazzo, che aveva problemi psichiatrici, è morto tre giorni fa nel carcere di Rebibbia, a Roma. A soli 27 anni, dopo sei mesi dietro le sbarre, si è impiccato. A nulla è servita la vigilanza a cui era stato sottoposto dopo aver già tentato il suicidio. “L’ennesimo caso di una persona che forse poteva essere curata all’esterno. Il carcere si dimostra sempre di più il luogo utilizzato per risolvere i problemi che all’esterno non trovano soluzione” ha scritto polemicamente su Facebook la Garante dei detenuti della Capitale, Gabriella Stramaccioni. “Soprattutto le persone più fragili in carcere non possono essere seguite perché non ci sono le strutture mediche e psicologiche adeguate” ci spiega Bernardini. E aggiunge: “Il Covid ha peggiorato la situazione, nel senso che le attività culturali, di lavoro e studio per i detenuti non si fanno più in carcere. Già erano poche prima, adesso sono ridotte all’osso. Per il detenuto rimane quindi solo la disperazione di stare in cella o andare a passeggio. In più la sanità penitenziaria fa acqua da tutte le parti e il personale dedicato allo sviluppo del detenuto è scarsissimo: mancano direttori, educatori e assistenti sociali”. Che ne rimane quindi della finalità rieducativa della pena? “Si perde - sostiene l’ex deputata - D’altronde la gestione Bonafede è sempre meno finalizzata al reinserimento nella società”. Sull’eventuale maggiore comunicazione da parte del Dap, però, il Garante nazionale dei detenuti, non concorda con l’esponente radicale. “Il Dipartimento non deve dare tutti i giorni i dati sulle morti - spiega de Robert- perché non si deve procurare allarme. Noi pure abbiamo fatto attenzione in questi mesi nel non trasmettere continuamente troppe informazioni, anche per non rischiare l’effetto emulazione”. La “pena” di morire in carcere di Carlo Alberto Romano Corriere della Sera, 8 ottobre 2020 Un ragazzo si è tolto la vita in carcere; possiamo solo chiedere scusa. A lui e a tutti coloro che abbiano ancora voglia di piangerlo. Un ragazzo si è tolto la vita in carcere. Preferisco non aggiungere altro alla essenzialità di questo fatto, perché ogni aggiunta, anche un semplice aggettivo, porterebbe inevitabilmente qualcuno ad attribuire connotazioni causali. Infatti se al crudo fatto si collegasse, per ipotesi, la circostanza che egli rientrava in carcere da una misura esterna, l’attenzione si sposterebbe sulla magistratura che ne ha disposto il destino. Se si ricordasse invece e a titolo esemplificativo la necessità di isolamento, il discorso scivolerebbe sul deterioramento delle condizioni di vita che la pandemia ha prodotto in generale per tutti i detenuti e in special modo per coloro che rientrano da una esperienza di esecuzione in comunità. Se fossero evocati eventuali disturbi del comportamento non mancherebbe chi richiamerebbe le carenze del nostro sistema penitenziario, che troppo spesso porta in carcere chi dovrebbe invece curare altrove le proprie patologie. Se poi fosse ventilato un coinvolgimento in un fatto giudiziario in cui questo ragazzo era vittima, allora lo scenario chiamerebbe in causa incapacità di ascolto da parte di chi è chiamato a vigilare sulla sicurezza dei cittadini, detenuti inclusi. Se si dicesse poi che il ragazzo era africano, certamente i commenti avrebbero insistito sulla tragica ineluttabilità di alcune esistenze. Ma questi discorsi non servono più, annodati nel cappio che li ha stretti mortalmente e ha tolto loro senso. Oggi possiamo - anzi dobbiamo - solo riconoscere che la morte di un ragazzo in carcere è la nostra sconfitta; la sconfitta di una istituzione che non è in grado di assolvere al mandato costituzionale se neppure riesce a mantenere in vita chi dalla costituzione gli viene affidato. La sconfitta di una comunità che durante la pandemia focalizza l’attenzione su qualche decina di 41bis ignorando il dramma di migliaia di persone detenute in condizioni assolutamente incompatibili con le quelle procedure anti contagio che fuori sono invece rese obbligatorie per preservare la salute pubblica. La sconfitta di un pensiero che dopo aver constatato che, durante l’emergenza, il carcere può tranquillamento essere sostituito da altre misure di comunità non ha il coraggio di renderle definitive dopo il (supposto) venir meno dell’emergenza. La sconfitta di un sistema che ha comunque paura di rendersi consapevole della propria inutilità concettuale, come dimostrano le ricerche svolte in altri paesi nei mesi della pandemia, nelle quali si è rilevato che il rilascio di persone non ha prodotto quell’aumento dei reati che pure da taluni era stato preannunciato come inevitabile. “Sei anni in carcere da innocente, nessun risarcimento” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 8 ottobre 2020 “La legge sull’ingiusta detenzione va cambiata”. Giulio Petrilli ha trascorso 6 anni in cella con l’accusa di banda armata. Assolto, la sua richiesta è stata rigettata per un dettaglio della legge. Con il comitato che presiede ne chiede la modifica. I numeri dell’ingiusta detenzione: mille casi (riconosciuti) all’anno, 43 milioni sborsati dallo Stato nel 2019. Aveva 20 anni Giulio Petrilli quando entrò in carcere. L’accusa era pesante: banda armata. Era il 1980 e per gli inquirenti lui era uno dei capi di Prima Linea, organizzazione terroristica di estrema sinistra. L’imputazione gli è costata sei anni di detenzione, in un regime simile al 41bis. Qualche tempo dopo, la tesi dell’accusa viene smontata. Nel 1986 la Corte d’Appello di Milano lo assolve e, tre anni dopo, la sua innocenza viene confermata dalla Cassazione. Petrilli, quindi, era stato in carcere ingiustamente. Sarà stato risarcito? La risposta è no. Ha dovuto attendere prima di poter chiedere i danni per ingiusta detenzione. La sua istanza, poi, è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Milano e la Cassazione ha confermato quel giudizio. Il motivo? Le “cattive compagnie” che frequentava ai tempi avrebbero indotto l’accusa a ritenere che dovesse stare in carcere Per Petrilli, e per chi con lui conduce da decenni questa battaglia, il fondamento della decisione è in un comma della la norma che garantisce il diritto al risarcimento per chi ha scontato un periodo di prigione - mentre era imputato o condannato in via non definitiva - e poi è stato assolto. Il risarcimento viene concesso a patto che la persona che ha subìto l’ingiusta detenzione “non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. Tradotto, a meno che non abbia tenuto un comportamento che abbia indotto i magistrati a ritenere che ci fossero delle buone ragioni per farlo stare in carcere. Per Petrilli, oggi presidente del Comitato per il diritto al risarcimento di tutti gli assolti, questo passaggio va cambiato, perché allarga troppo le maglie della discrezionalità del giudice. Insieme a chi si trova nella sua stessa situazione chiede al Parlamento di intervenire per fare in modo che chi è assolto in via definitiva venga sempre risarcito per il periodo ingiustamente trascorso in carcere. Senza altri paletti. Una richiesta rilanciata ieri mattina in un sit-in davanti a Montecitorio. “Subito dopo l’assoluzione non ho potuto chiedere i danni perché la norma non era considerata retroattiva. Abbiamo dovuto fare una battaglia perché che fosse ritenuta tale”, dice Petrilli ad Huffpost. In effetti la possibilità di chiedere allo Stato dei soldi dopo aver subito un’ingiusta detenzione è stata introdotta nel 1989, dopo l’inizio del procedimento che lo ha coinvolto. Ma la storia va avanti: quando finalmente riesce a fare istanza, questa viene rigettata, perché giudice sostiene, in sostanza, che le amicizie che Petrilli aveva all’epoca dell’arresto, con esponenti di Prima linea, hanno indotto i magistrati a ritenere che avesse delle colpe anche lui. Alla base della decisione quella parte della norma che esclude dal risarcimento chi ha “contribuito” alla detenzione per dolo o colpa grave. Per chi sostiene che la legge va cambiata, questo meccanismo porta a delle storture: “Le istanze a volte vengono rigettate anche se un imputato si è avvalso della facoltà di non rispondere. È un diritto ma può diventare un ostacolo. È come se venisse introdotto nell’ordinamento il giudizio morale”, spiega Petrilli. Anche Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, ritiene che sia necessaria una modifica: “È una palese ingiustizia - dice ad HuffPost - che chi è assolto in via definitiva non abbia diritto al risarcimento per ingiusta detenzione. La norma è incostituzionale: ricordiamo che sei anni, quando una persona è giovane soprattutto, come nel caso di Petrilli, sono determinanti nella vita di una persona. Trascorrerli in carcere da innocente e non ricevere neanche il risarcimento, con queste motivazioni poi, è scandaloso”. Petrilli, dopo essere andato davanti al giudice italiano, ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. La sua richiesta, però, è stata dichiarata inammissibile. A distanza di quarant’anni dal giorno in cui è entrato in cella, non solo non ha ricevuto un euro ma, molto probabilmente, non lo riceverà mai. “L’istanza può essere fatta una volta sola - spiega - la mia ora è una battaglia di principio”. La storia di Petrilli è esemplare, ma non è unica. Le richieste di danni per ingiusta detenzione vengono fatte alle corti d’Appello competenti ed è quindi molto difficile avere i dati sulle domande fatte ogni anno. In particolare manca una cifra ufficiale sulle istanze rigettate. Che, sostengono gli addetti ai lavori, sono molte di più di quelle accolte. Queste ultime, invece, sono note. Nel 2019, si legge nella Relazione annuale del Guardasigilli sulle misure cautelari, sono state risarcite mille persone. L’importo massimo che può essere corrisposto, per legge, è di poco superiore al mezzo milione. Ma mediamente nel 2019 il giudice ha stabilito per ogni ingiusta detenzione una cifra che si aggira intorno ai 43mila euro. Il pagamento viene effettuato dal ministero dell’Economia. Lo Stato, l’anno scorso, ha speso poco più di 43 milioni di euro per risarcire chi era stato in carcere per una valutazione che si è poi rivelata errata. Un dato superiore a quella del 2018, quando erano state risarcite 825 persone, per una spesa di poco più di 33 milioni di euro. Questi sono i pagamenti effettuati, ma quante richieste sono state accolte l’anno scorso? I dati, spiega il ministero nella relazione, sono parziali perché mancano quelli di alcune corti d’Appello. Dalle cifre a disposizione, però, risulta che siano state accolte in via definitiva 465 istanze. Nel 2018, anno di cui si dispongono i dati completi, erano 509. All’appello mancano tutti i rigetti. Molti dei quali, verosimilmente, motivati in base a quel dettaglio che Petrilli, e chi ha vissuto un’esperienza simile alla sua, chiede che sia modificato. In carcere come ambasciatori di misericordia di Davide Dionisi vaticannews.va, 8 ottobre 2020 La due-giorni organizzata dall’Ispettorato Generale dei Cappellani delle carceri Italiane per festeggiare i sacerdoti con 25 anni di servizio, che oggi hanno incontrato il Papa all’udienza generale. Don Grimaldi: seminiamo speranza nel cuore di molti disperati. “Noi cappellani ci sentiamo padri di tutti e nessuno viene escluso dal nostro sguardo di azione pastorale. Siamo dei punti di riferimento per le nostre amministrazioni, ma siamo anche la coscienza critica costruttiva, di coloro che conoscono bene, attraverso la lunga esperienza, le dinamiche delle nostre carceri e le vorrebbero migliorare anche con il loro piccolo e pur prezioso contributo”. Con queste parole, don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, ha aperto ieri la due-giorni dedicata a questa categoria, che ha svolto venticinque anni di servizio presso gli istituti di pena italiani. Legati e pienamente inseriti nelle comunità territoriali, si sono fatti portavoce delle diverse realtà ecclesiali, cerando di far conoscere il carcere, sensibilizzare istituzioni, privato sociale, promuovere la solidarietà, entrare nel vivo di quella dinamica che lavora per prevedere uscite di sicurezza dal sistema penale quando ciò può assicurare al meglio il recupero del condannato. Incontro con il ministro della Giustizia e le onorificenze Il programma della giornata è iniziato con l’incontro con il guardasigilli, Alfonso Bonafede, presso la sede del Ministero della Giustizia. Nell’occasione monsignor Grimaldi ha guidato il gruppo dei cappellani “storici” raccontando le “difficoltà, gli ostacoli, le incomprensioni e le chiusure” incontrate negli anni. “Ma noi - ha detto il sacerdote - per il bene dei nostri fratelli più poveri e abbandonati, siamo stati fermi e con la forza della fede, siamo rimasti vigilanti sul campo di battaglia”. La pandemia e le polveriere di rabbia - Non è mancato il riferimento al periodo più duro dell’anno: “In questi mesi di pandemia - ha spiegato monsignor Grimaldi - abbiamo vissuto, unitamente a tutti gli operatori, il dramma delle nostre carceri, le violenze che si sono consumate dietro le sbarre; inostri istituti sono diventati delle vere polveriere di rabbia e sono emersi certamente i limiti delle nostre strutture” Crediamo nella rieducazione - “Grazie perché voi sapete guardare dentro il cuore delle persone. Anche dentro quelli più duri. Riuscite a far vedere una prospettiva e un futuro anche a coloro che pensano di non averne più”, ha sottolineato il ministro della Giustizia, salutando e ringraziando i presbiteri ai quali ha donato un attestato per i tanti anni spesi al servizio delle persone private della libertà. “Noi crediamo nella rieducazione”, ha aggiunto il Guardasigilli, “nella possibilità che i detenuti possano tornare a provare la magnifica sensazione dell’onestà. Laicità e fede lavorino insieme per dare una vita migliore a tutti i cittadini, anche a coloro che hanno commesso degli errori”. All’incontro hanno preso parte anche Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) e Gemma Tuccillo, capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità (Dgmc). Nel ringraziare le autorità, i quattordici cappellani presenti hanno fatto riferimento alla professionalità e all’umanità dimostrata dagli agenti di Polizia penitenziaria. Diritto alla speranza - L’ispettore generale ha definito in passato e nel presente “non facile” il “delicato servizio come cappellani. Ma - ha aggiunto - siamo grati al Signore, perché ci ha scelto e ci ha dato la pazienza degli agricoltori, che con fiducia hanno seminato la speranza nel cuore dei molti disperati. Perché a nessuno possiamo negare il diritto alla speranza”. “Le nostre carceri, oltre ad accogliere uomini di mafia e delle diverse organizzazioni malavitose, è pieno di poveri, di uomini e di donne che non sanno difendersi, non hanno voce; pieno di innocenti - ha ricordato monsignor Grimaldi - che credono nella giustizia ed attendono di essere scagionati; di circa ventimila immigrati che affollano i nostri istituti”. Nel pomeriggio la delegazione ha partecipato alla Messa presieduta da Mons. Stefano Russo, segretario della Conferenza episcopale italiana, presso la Casa circondariale di Regina Coeli. L’Udienza generale e l’incontro con Papa Francesco - Oggi, il momento clou con la partecipazione all’udienza generale. “L’incontro con il Papa è stato un momento bellissimo”, ha raccontato don Grimaldi al termine. “Il tema di oggi è stato la Preghiera e la forza del nostro servizio e del nostro ministero è proprio ancorato nella preghiera. Il Santo Padre ci ha incoraggiato. ‘Andate avanti perché il vostro servizio è importante’ e ha aggiunto: ‘Dite sempre ai nostri fratelli detenuti che Dio perdona tutto’”. Detenuti a Italia’s Got Talent e scoppiano le polemiche: quando la rieducazione fa paura di Giusy Santella linkabile.it, 8 ottobre 2020 Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato: è così stabilito dall’articolo 27 della nostra Costituzione, che pone quindi come fine della pena - che nel nostro ordinamento per mancanza di volontà politica in tal senso è diventata quasi unicamente il carcere - la rieducazione e la risocializzazione del condannato. I tre pilastri su cui si fonda la rieducazione sono senza dubbio l’istruzione, la formazione e il lavoro, diritti che devono essere garantiti al detenuto in base a precise norme dell’ordinamento penitenziario. Eppure un’attività che rientra a pieno titolo tra queste e che ha coinvolto 5 reclusi della casa circondariale di Marassi di Genova, ha destato moltissimo scalpore e polemiche Si tratta di cinque membri della compagnia teatrale “Scatenati” interna al penitenziario che si sono recati la scorsa settimana a Roma per girare una puntata di Italia’s Got Talent, durante la quale i cinque attori sono riusciti ad emozionare i giudici, mettendo in scena una rappresentazione tipica della vita di un detenuto: la separazione dagli affetti e le lettere ricevute da una compagna lasciata fuori. Il segretario ligure del sindacato di polizia penitenziaria Uil-Pa Fabio Pagani ha tuonato: “Il nostro compito non è scoprire talenti ma garantire la sicurezza”. E ha proseguito lamentandosi del fatto che gli agenti abbiano dovuto effettuare una trasferta in orari solitamente non consentiti e durante un’emergenza pandemica, mettendo a repentaglio la propria salute. In realtà la direttrice della Casa circondariale di Genova ha subito precisato che tutti i trasferimenti sono stati effettuati in sicurezza e che soprattutto si tratta di una parte del percorso trattamentale dovuto in base alla Costituzione a tutti i detenuti, che non può essere sospeso neppure durante l’emergenza sanitaria in corso. I cinque detenuti, infatti, svolgono da anni attività teatrali gestite dall’Associazione Teatro Necessario all’interno del penitenziario, e hanno diritto ad usufruire di tutte le attività risocializzanti a loro disposizione, qualunque sia il reato da essi commesso. Non si è fatto attendere ovviamente l’intervento del Leader della Lega Matteo Salvini, che non ha perso occasione per fare becera propaganda politica. “Si è trattato di un’iniziativa scellerata e vergognosa. Il Governo investe soldi pubblici in iniziative del genere, anziché investire in divise, dotazioni e mezzi, e pagare gli straordinari agli agenti”. Ha proseguito, poi, promettendo un’interrogazione parlamentare della Lega al Ministro della Giustizia Bonafede. Al di là del fatto che gran parte dei costi sono stati sostenuti dall’associazione che gestisce i laboratori teatrali, è chiaro che il problema non siano i soldi ma l’essenza stessa della pena e del carcere, che per molti rimangono sinonimo di punizione. Le spinte securitarie nel nostro Paese sono sempre più forti e la necessità di rieducare attraverso specifici trattamenti individuali cede sempre di più il passo alla voglia di vendetta e repressione. Il ministro della Giustizia Bonafede, dal canto suo, non ha perso tempo a correre ai ripari, precisando di aver disposto accertamenti sullo svolgimento dei fatti. Innanzitutto, è facile notare come una tale solerzia non sia stata dimostrata in altre occasioni in cui il suo intervento sarebbe stato molto più necessario, ma soprattutto per un evento del genere, a rigor di logica, non dovrebbero servire giustificazioni, trattandosi di atti autorizzati non solo dalla direttrice della casa circondariale ma anche dal magistrato di sorveglianza dei detenuti. Uno di loro, infatti, ha usufruito per la trasferta di un permesso premio, gli altri quattro, invece, sono stati inseriti in un programma di lavoro all’esterno, in base all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. Ancora una volta, anziché incentivare le attività risocializzanti necessarie per un’effettiva possibilità di riscatto, si punta il dito e a fare scalpore è un carcere che funziona bene e che rieduca. A chi non crede nell’utilità, oltre che nell’umanità, di tali pratiche, basterebbe guardare un film di molti anni fa dei fratelli Taviani, che rimane profondamente attuale, Cesare deve morire, per ricordarsi che coloro che sono reclusi sono innanzitutto delle persone, e non dei mostri da chiudere in gabbia. Delle persone a cui tutti dobbiamo una seconda possibilità. Processo penale, gli avvocati demoliscono Bonafede di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 8 ottobre 2020 Tutte le associazioni forensi criticano in audizione alla Camera la riforma che dovrebbe velocizzare i tempi delle udienze: sacrifica i principi costituzionali e non otterrà il risultato. Il disegno di legge delega Bonafede che ha l’obiettivo di velocizzare i processi penali procede, lentamente, in commissione giustizia alla camera dove ieri è andato a sbattere contro una montagna di critiche e di bocciature sollevata dalle diverse associazioni dell’avvocatura. In programma il secondo ciclo di audizioni, dopo quelle dei rappresentanti della magistratura. “Il disegno di legge interviene in modo random sulle fasi processuali senza realmente incedere sui tempi delle indagini e dei processi”, ha detto il segretario dell’Unione camere penali Eriberto Rosso. Aggiungendo che Bonafede “mira a costruire una sorta di velocizzazione, violando l’essenza stessa del contraddittorio”. “Noi abbiamo partecipato a tutti i tavoli con il ministro - ha detto l’avvocato Alessandro Vaccaro, rappresentante dell’Organismo congressuale forense - le nostre proposte sono state bypassate e dimenticate”. Mentre secondo l’avvocata Giovanna Ollà, rappresentante del Consiglio nazionale forense, “i principi costituzionali di presunzione di non colpevolezza e della funzione rieducativa della pena, posti a presidio del giusto processo, sono stati relegati a rango accessorio e subordinato”. Molte le critiche nel merito del provvedimento. Gli avvocati penalisti hanno detto no alla norma del disegno di legge che prevede che le notifiche successive alla prima siano fatte al solo difensore. No alle restrizioni della possibilità di proporre appello e no al fatto che l’appello possa essere affidato a un giudice monocratico: “Impatta negativamente contro un sistema che, a garanzia di maggiore correttezza e ponderatezza delle decisioni, è improntato a un principio di collegialità sempre e dovunque”. Sui patteggiamenti il Consiglio nazionale forense ha detto di sentirsi “tradito”. “È positivo che si aumenti la pena fino a otto anni per aver accesso al patteggiamento allargato, che ora è limitato ai cinque anni”, ha detto l’avvocata Ollà. Ma ha aggiunto che questa indicazione “viene smentita da tutti i filtri dei reati ostativi che troviamo nella delega”. Mentre il rappresentante delle Camere penali ha attaccato la novità in base alla quale la sostituzione di un giudice durante il processo non comporterà più l’obbligo di rinnovazione degli atti. “È un colpo di grazia al contraddittorio - ha detto l’avvocato Rosso - il tema è molto semplice: o si crede o non si crede alla logica del giudice della decisione”. Le audizioni degli avvocati, secondo la deputata di Forza Italia della commissione giustizia Giusi Bartolozzi, “rassegnano in maniera unanime e convergente il fallimento della riforma annunciata dal ministro Bonafede”. Al contrario per il presidente 5 Stelle della commissione, Mario Perantoni, le posizioni critiche dell’avvocatura erano “note” e intervengono “dopo l’orientamento positivo espresso dalla magistratura”. Secondo Perantoni “i timori che la riforma possa comprimere i diritti della difesa sono eccessivi”. “Diritto di difesa a rischio. Così il ddl penale serve solo a umiliare l’avvocato” di Errico Novi Il Dubbio, 8 ottobre 2020 L’altolà di Cnf, Ocf e Ucpi. Il parere delle rappresentanze forensi audite ieri alla Camera sulla riforma. La cosa sorprendente è che per compensare il blocca-prescrizione, contestatissimo dagli avvocati, si indebolisce proprio il ruolo del difensore. È il paradosso, grave e poco rassicurante per il sistema dei diritti, descritto ieri, nell’audizione sul ddl penale davanti alla commissione Giustizia della Camera, da Cnf, Ucpi e Ocf. Le modifiche a vari istituti “impattano fortemente sul sistema garantistico e sui diritti di difesa”, si legge nella nota diffusa dal Cnf subito dopo l’intervento della consigliera Giovanna Ollà e del componente dell’Ufficio studi Nicola Cirillo. “Una riforma del processo non può prescindere dal porre al centro dell’attenzione l’indagato”, mentre “giusto processo”, “presunzione di non colpevolezza” e “la stessa funzione rieducativa della pena” sembrano ora relegati “a rango accessorio e subordinato”. E a propria volta l’Unione Camere penali, rappresentata a Montecitorio dal segretario Eriberto Rosso e dal responsabile Comunicazione Giorgio Varano, ricorda in un comunicato che da una parte non si incide realmente “sulla certezza dei tempi delle indagini” e dall’altra si prevedono “ulteriori erosioni delle garanzie al dibattimento”. Un esempio? “Gli interventi sul sistema delle impugnazioni che aboliscono la collegialità per una grande parte dei processi in appello, limitando la portata cognitiva del giudizio”. È stato così “tradito” il pacchetto di proposte unitarie definito da “Avvocatura e Magistratura”, ricordano i penalisti, incentrato su “rilancio dei riti speciali” e “depenalizzazione”. Un progetto discusso al tavolo istituito dal guardasigilli Alfonso Bonafede a via Arenula, e che è stato “bypassato e dimenticato”, come dichiara il tesoriere dell’Organismo congressuale forense Alessandro Vaccaro. Il quale, intervenuto subito dopo l’audizione dell’Ucpi, ha parlato di un “ascolto che il ministro ha avuto, a lungo, nell’interlocuzione con avvocati e Anm, ma che se il testo della riforma penale restasse com’è ora, si rivelerebbe solo apparente, inutile”. Il vizio di fondo del percorso è in quel paradosso ricordato all’inizio. La storia della riforma è assai intrecciata con la norma che ha stravolto la prescrizione. Fin dalla famigerata “spazza-corrotti” che nel 2019 ha incistato in sé stessa la modifica dell’istituto, già il refrain dell’allora maggioranza gialloverde è sempre staro “ridurremo i tempi dei processi al punto da rendere irrilevante la prescrizione”. Continua ad essere la chiave opposta dalla maggioranza attuale a chi contesta il “blocco” entrato in vigore a Capodanno scorso. Solo che appunto ieri, in un incontro interessante perché scarnificato, in particolare dalla consigliera Cnf Ollà, di ogni connotazione politicista, è emerso che l’obiettivo di risparmiare tempo nel processo penale è perseguito, nel ddl, con modifiche che spesso mortificano la funzione difensiva. Dalla previsione di “rendere l’avvocato destinatario di tutte le notifiche successive alla prima, con il risultato di snaturarlo in messo notificatore, e di imporgli l’onere di provare l’irreperibilità dell’assistito”. Fino alla modifica forse più sgradevole, e sottilmente spregiativa, “la pretesa che l’impugnazione in appello richieda l’attribuzione, da parte dell’imputato, di un nuovo specifico mandato al difensore. Quasi come se”, ha detto Ollà, “si volesse insinuare un abuso dell’esercizio della funzione difensiva”. Insinuazione che d’altronde nel testo illustrativo del ddl è esplicitata “quando si evoca la necessità di limitare l’abuso di diritto. Ma”, spiega la componente del Cnf, “riguardo alla coerente scelta dell’avvocato sulla proposizione dell’appello, è in gioco un profilo di correttezza verso l’assistito perfettamente presidiato dal nostro codice deontologico. Obbligare l’imputato a sottoscrivere un’espressa volontà di impugnare compromette il diritto di difesa in circostanze in cui, per esempio, la persona sottoposta a giudizio si trova all’estero per lavoro” Ecco, risparmiare tempo. Con soluzioni che rimandano a una supposta interpretazione manipolativa della difesa. Come se a pesare sulla macchina della giustizia non fosse l’urgenza di un “massiccio intervento sugli organici della magistratura, del personale di cancelleria, su una adeguata distribuzione delle risorse e su una corretta ‘ ristrutturazione’ dell’edilizia giudiziaria”, reclama la nota del Cnf. Nel testo galleggia insomma la fantomatica ombra dell’avvocato- intralcio, la presunta implacabile e perfida ricerca dell’appiglio per prolungare il processo. “Non si tiene conto”, ha ricordato Ollà, “di casi in cui ad esempio, per motivi sui quali l’ordinamento neppure ha motivo di sindacare, l’avvocato non è in condizioni di connettersi col proprio assistito in quel frammento di tempo disponibile, 45 giorni, per ricorrere in appello. Non si possono sanzionare implicitamente circostanze in cui l’imputato è irreperibile o lontano, e neppure impedire che l’appello sia proposto dal difensore nel proprio Foro di appartenenza, senza poter utilizzare la raccomandata e che sia allo stato disponibile il deposito telematico”. Sono forzature che potrebbero risultare in conflitto con l’articolo 24 della Costituzione, in cui si sancisce il diritto inviolabile alla difesa in giudizio. Ma al di là della sopravvivenza di norme simili, è lo spirito stesso di alcune parti della legge a essere definito “sorprendente”, e a “lasciare perplessi”, come dice Ollà. L’appello dell’Ucpi ai “deputati-giuristi” - Ci sarà molto da lavorare, dunque, sul testo, nonostante il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni, del M5S, definisca “eccessivi” i “timori espressi dalle rappresentanze dell’avvocatura” per una riforma che “possa comprimere i diritti di difesa”. Ma il punto è, come ricorda anche l’Unione Camere penali nel proprio comunicato, l’addio all’impostazione proposta a via Arenula insieme con l’Anm: “Se da un lato aumenta il limite edittale per poter accedere al patteggiamento, dall’altro si rimpolpa l’elenco delle ostatività, e la disciplina del giudizio abbreviato continua a impedire alla difesa l’individuazione di prove necessarie per la decisione”. Le proposte “maturate in sede di consultazione”, cioè al tavolo col ministro e l’Anm, hanno ricordato Rosso e Varano, sono “a disposizione” per raggiungere “l’obiettivo della ragionevole durata del processo”. L’Ucpi fa appello “in particolare ai componenti giuristi della commissione Giustizia affinché, al di là dello schieramento politico di appartenenza, non consentano ulteriori menomazioni del sistema accusatorio”. Sarebbe possibile, come spiegato ancora da Ollà, se si adottassero con coerenza, appunto, le innovazioni in materia di riti speciali: “Da una parte si innalza dea 5 a 8 anni la pena massima che può essere applicata col patteggiamento. Dall’altra però, in contraddizione con le ipotesi avanzate al tavolo tecnico, sono state previste preclusioni per molti reati. Se si arriva a un limite di 8 anni vuol dire, tenuto conto dello sconto di pena, consentire il patteggiamento per condotte potenzialmente punibili con 12 anni di carcere. È ovvio”, fa notare Ollà, “che si tratti di fattispecie gravi. Escluderle a tavolino come ostative vanifica la prima parte dell’intervento. Solo se si esce da una logica che pare guardare più all’impatto mediatico e al consenso che alla deflazione e all’equilibrio del sistema, solo se si rinuncia a forzature come la scelta delle priorità in capo agli uffici giudiziari, si eviterà di ridurre la riforma a una mortificazione della difesa”. Troppi giovani tornano a delinquere, perché? di Giacomo Di Gennaro Il Riformista, 8 ottobre 2020 È sempre spiacevole commentare fatti di cronaca che investono giovani vite che si spezzano in realtà urbane sempre più critiche. La morte del 17enne Luigi Caiafa, sorpreso dalla polizia a compiere una rapina insieme con un complice, lascia sgomenti non solo perché è l’ennesima morte di un giovane la cui dinamica rimanda inevitabilmente ad aspetti che attengono le modalità con cui si realizza il controllo del territorio, ma ancor più invoca una riflessione più accurata sugli itinerari di riabilitazione e risocializzazione previsti dal nostro ordinamento minorile. Luigi aveva già incrociato l’autorità giudiziaria e si era avvalso dell’istituto della messa alla prova, introdotto nel 1988. Come sanno gli addetti ai lavori, la misura costituisce un superamento della concezione afflittiva della pena ed è stata una grande innovazione introdotta per riformare il processo penale minorile in un’epoca in cui il dibattito culturale e teorico, nonché le prassi operative, oscillavano ancora tra la necessità di un ordinamento giuridico che non derogasse dalla punizione del minore quale responsabile di un reato e l’esigenza di bilanciare la punizione con un approccio impostato al principio riabilitativo, alla tutela del minore e dei suoi fondamentali diritti. La decisione che guida in generale l’autorità giudiziaria pure di fronte a un reato grave (magari un omicidio o uno stupro o una rapina a mano armata) è la rieducazione e risocializzazione del minore nel presupposto, anche se non sempre valido, che l’immaturità presente possa essere corretta ovvero guidata verso uno sviluppo rispettoso dei limiti imposti dalla convivenza civile e dalla contemporanea volontà di restituire alla società una persona responsabile. Non ho contezza del reato commesso in precedenza da Luigi ma non ha importanza, tant’è che il fatto di essere titolare della misura di messa in prova lascia intendere che il giudice ha ritenuto che vi potessero essere, ad esito del progetto di intervento elaborato dai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia in collaborazione con i servizi socio-assistenziali degli enti locali, forti margini di intervento sulla persona offrendo l’opportunità di collocarlo per un periodo presso una comunità e consentendo altresì l’acquisizione di una significativa esperienza formativa per imparare un mestiere. Luigi, infatti, è stato impegnato per un certo periodo in una pizzeria. Durante il periodo di prova, dunque, il minore può svolgere attività di volontariato, riprendere gli studi, lavorare, svolgere un apprendistato. Insomma, la tendenza è offrire opportunità ed esperienze alternative che spesso sono estranee alla biografia di persone contigue ad ambienti di devianza grave o che l’unico mondo che conoscono ed esperiscono è costituito dalla marginalità sociale e dall’esclusione. Ma nonostante l’investimento di operatori sociali, giudici e dei servizi della giustizia minorile il risultato non è sempre positivo. L’interrogativo è innanzitutto questo: cosa sappiamo dell’efficacia di tale misura? Quali limiti presenta un quadro normativo pensato per una devianza minorile che nel frattempo è molto cambiata? Come è stato possibile che Luigi da un lato abbia mostrato interesse ad apprendere un mestiere e manifestare desiderio di affrancarsi da relazioni ed esperienze che l’hanno portato comunque davanti a un tribunale penale e, dall’altro, si sia accompagnato a un amico o abbia avuto come sodale un giovane un po’ più grande ma il cui legame genitoriale non rimanda certo ad una biografia di santità? Ovviamente, se qualcuno si aspetta di leggere degli esiti valutativi a livello nazionale su misure come la messa alla prova o l’irrilevanza del fatto o il perdono giudiziale, resterà deluso. Infatti, pur a distanza di oltre trent’anni dall’approvazione da parte del legislatore, il Dipartimento della Giustizia minorile (tranne che nel 2003 per un limitato campione) non si è mai posto il problema di capire se i tassi di recidiva o di ricaduta criminale fossero alti o bassi per ognuna delle misure previste dal processo penale e dall’ordinamento di cui sopra. Abbiamo, adesso anche per Napoli, ricerche limitate ad aree giurisdizionali e purtroppo quella napoletana presenta i più alti tassi di recidiva e ricaduta criminale sia rispetto a quelle poche aree dove gli studi sono stati condotti che rispetto alla media nazionale. Perché? Innanzitutto, perché la qualità della devianza e della devianza grave nel contesto metropolitano risente della forte presenza dei gruppi organizzati e delle storie familiari di camorra. Poi perché a Napoli la “periferia”, la marginalità, è nel cuore della città, non solo ai margini dell’area metropolitana. In più, i servizi di welfare sono un disastro e se non ci fossero tanti gruppi e associazioni di volontariato che operano con programmi seri sarebbe ancora peggio. In più c’è un problema di formazione sia degli operatori sociali che di quanti operano nelle comunità di accoglienza. Non c’è sinergia tra esse, non si fa aggiornamento e i profili professionali sono spesso deboli e con competenze limitate. Si può andare avanti così? Quanti Luigi conteremo ancora? Comuni sciolti per mafia, ecco perché Gomorra non se ne va di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 8 ottobre 2020 Gli ultimi due Comuni sciolti per mafia, all’inizio di agosto, sono calabresi: Cutro e Sant’Eufemia d’Aspromonte. Dieci giorni prima era stata la volta di Partinico, in Sicilia. Dall’inizio dell’anno sono già 9 le amministrazioni comunali mandate a casa (tra cui quella di Saint-Pierre, la prima in Valle d’Aosta), undici in cui la gestione dei commissari è stata prorogata. In quasi trent’anni, da quando nel 1991 è stata introdotta la legge sull’onda dell’emozione per il macabro omicidio di un innocente, il salumiere Giuseppe Grimaldi a Taurianova, sono stati 349 i decreti di scioglimento e 216 quelli di proroga. ciogliere un Comune, mandare a casa gli eletti dal popolo, è una misura estrema, un decreto firmato dal Capo dello Stato solo quando emergono collegamenti “concreti, univoci e rilevanti” tra la criminalità e gli amministratori locali. La finalità è soprattutto preventiva, non sanzionatoria. Qualora si sospetti che i clan influenzino gli atti di un ente pubblico, il Viminale nomina una commissione d’indagine che ha tre mesi (più tre di proroga) per consegnare una relazione al prefetto. Se reputa che ci siano i presupposti, il prefetto trasmette le carte al ministero dell’Interno che propone a Palazzo Chigi lo scioglimento. In tal caso, viene nominata una commissione straordinaria di tre membri che si insedia e guida il Comune dai 12 ai 18 mesi, prorogabili a 24 in casi eccezionali. Dopodiché si tengono nuove elezioni. Un iter lungo e complesso che finora ha toccato ben 263 enti, compresi un capoluogo di provincia (Reggio Calabria) e sei aziende ospedaliere. Praticamente oltre il 3% dei 7.903 comuni italiani sono stati sciolti, in 50 casi il decreto è scattato due volte, in 18 addirittura tre. Lo scorso anno oltre 900 mila italiani non sono stati più amministrati dagli organi locali che avevano eletto. Quella sui comuni sciolti per mafia è una normativa pilastro nella lotta alla criminalità organizzata, tuttavia, dopo tre decenni, mostra crepe e lacune. E da più parti se ne chiede la modifica. Attualmente sono in discussione alla Camera dei deputati tre proposte di riforma, che cercano di rimediare ai problemi emersi durante l’applicazione. Partiamo dai 68 comuni sciolti più di una volta, come Casal di Principe (Caserta) tra i primi ad essere sciolti nel 1991, e poi ancora nel 1996 e nel 2012. È evidente che i tempi previsti dalla legge in cui può operare la commissione straordinaria (2 anni al massimo) a volte non sono sufficienti a recidere i fili del malaffare. Quali le ragioni? L’associazione Avviso pubblico, che mette in rete 400 enti locali e 10 regioni e che attraverso l’Osservatorio parlamentare monitora costantemente la situazione, indica tra l’altro la “penuria di risorse umane e strumentali” delle commissioni. Chi subentra al posto di sindaco e giunta, è un numero ristretto di funzionari, quasi sempre costretti a dividersi tra più impegni, con scarse risorse finanziarie e con pochi mesi a disposizione. La legge 132 del 2018, di cui però manca ancora il decreto ministeriale attuativo, prevede un “nucleo” di uomini da cui attingere in caso di scioglimento, formato da 50 persone. Troppo poche, secondo il Sinpref, l’Associazione sindacale dei funzionari prefettizi, che chiede di arrivare ad almeno 75 unità, ma anche di prevedere “sezioni apposite in cui siano presenti, per esempio, professionisti con competenze finanziarie visto che quasi un comune su tre (il 28,6%) di quelli sciolti ha dichiarato il dissesto o è ricorso alla procedura di riequilibrio (a fronte di una media nazionale del 4,7%). Personale adeguato e competenze specifiche che andrebbero previste anche per le commissioni di accesso. Per i commissari imprimere una svolta a un Comune sciolto è spesso una vera e propria impresa: si ritrovano ad operare con una struttura di dirigenti e impiegati legati ai politici rimossi, se non direttamente agli ambienti criminali. In più la popolazione è in gran parte scettica, o indifferente, se non ostile. Lo certificano i dati contenuti nell’ultima relazione del Viminale al Parlamento dello scorso maggio. I commissari trovano un atteggiamento “indifferente anche protratto nel tempo” nel 7,3% dei casi, addirittura ostruzionistico e indisponibile (9,1%), oppure di finta collaborazione (14,5%). In un comune su due (51%), i commissari devono districarsi tra chi collabora e chi invece prova a mettergli i bastoni tra le ruote. Atteggiamenti che per il 65,5 per cento dei casi rimangono inalterati anche dopo la gestione straordinaria. Sempre il rapporto del Viminale segnala che più della maggioranza (54,5%) percepisce lo scioglimento con indifferenza, a volte con indignazione (32,7%), rassegnazione (25,5%), come una perdita di tempo (12,7%), come un complotto politico (11%), con stupore (11%) e perfino con paura (3%). Ha rilevato il presidente del Sinpref Antonio Giannelli nell’audizione alla Camera: “La Commissione straordinaria è come se entrasse in una stanza buia e si muovesse a tentoni in un ambiente spesso ostile e certamente poco collaborativo”. E così spesso due anni non bastano, e se gli scioglimenti si ripetono la paralisi del Comune diventa infinita. Con perdita di fiducia nello Stato che finisce per alimentare proprio quelle metastasi che si vogliono eliminare. Un altro dato salta subito all’occhio, scorrendo trent’anni di scioglimenti. Su 349 casi, soli 13 hanno toccato comuni fuori dalle regioni meridionali con tradizionali radicamenti mafiosi, appena il 3,7%. Una cifra troppa bassa, anche tenendo conto del radicamento storico delle mafie nel Sud. La Calabria è la regione con il numero più alto numero: 123 enti sciolti, con Reggio Calabria che guida con 70 casi la poco prestigiosa classifica delle province, seguita da Campania (110), Sicilia (84) e Puglia (19). Eppure le inchieste negli ultimi anni hanno purtroppo svelato come le cosche hanno trovato radici e nuove collusioni al Nord, dove peraltro riescono a intercettare più ingenti flussi di denaro. Una migrazione geografica a cui non fa riscontro un incremento dei consigli comunali sotto osservazione o sciolti. Da tempo si chiede anche maggiore trasparenza. Aspetto sottolineato dal coordinatore di Avviso Pubblico nella recente audizione alla Camera: “risulterebbe di fondamentale importanza la pubblicazione in forma integrale di tutti i documenti funzionali all’individuazione delle cause che hanno condotto allo scioglimento dell’ente”. Attualmente vengono rese pubbliche solo le relazioni del ministero dell’Interno e del prefetto, ma non quella della commissione di accesso che è sicuramente più puntuale e dettagliata. Così come nessuna pubblicità è prevista se si decide di non procedere allo scioglimento (i decreti di archiviazione sono stati finora 52, di cui 5 nel 2020). Una maggiore trasparenza permetterebbe di capire meglio cosa ha spinto lo Stato a una misura così drastica nei confronti di amministratori, che ovviamente ogni volta protestano innocenza e gridano allo scandalo. In alcune circostanze probabilmente non a torto. In 23 casi infatti i decreti di scioglimento sono stati annullati, ovvero il Tar o il Consiglio di Stato hanno accolto i ricorsi e reputato che non c’erano i presupposti per interrompere quell’esperienza di governo. Che tuttavia c’è stata, provocando comunque una ferita nella comunità. La Commissione siciliana antimafia, nella relazione dello scorso aprile sul “ciclo dei rifiuti”, ha denunciato possibili forzature della legge. Cita espressamente tre scioglimenti (Siculiana, Scicli e Racalmuto) e manifesta “la preoccupazione che ci possa essere stato un uso disinvolto e strumentale delle norme” e che, “in taluni casi, lo scioglimento sia oggettivamente servito a rimuovere, assieme alle amministrazioni comunali, le posizioni contrarie che quelle amministrazioni avevano formalizzato sulla apertura o sull’ampliamento di piattaforme private per lo smaltimento dei rifiuti”. Non c’è dubbio che la legge sullo scioglimento dei comuni è un’arma potente per fermare gli interessi dei clan su appalti e controllo del consenso. Una lama per recidere legami illegali che però andrebbe affilata, come chiede chi si trova a operare in questi contesti complicatissimi. Le toghe “di sinistra” implodono. Area e Md sono separate in casa di Giulia Merlo Il Domani, 8 ottobre 2020 La sigla che unisce le correnti progressiste rischia di dividersi. Alla base differenti visioni nella gestione del caso Palamara. Area l’ha considerato un problema degli altri, Md chiedeva lo scioglimento dell’Anm. Area, la grande scommessa delle toghe progressiste, rischia di fallire. Nata nel 2010 come cartello elettorale, unisce i due gruppi delle toghe di sinistra: Magistratura democratica, la corrente storica dei progressisti, e Movimento per la giustizia, costola di Unicost in rotta con la gestione verticistica del potere della corrente centrista di Luca Palamara. I due gruppi non si sciolgono in Area, ma i loro iscritti partecipano come singoli al cartello, che ha ottenuto negli anni un buon successo elettorale. Eppure, qualcosa rischia di rompersi. “In molti hanno guardato con favore a questo esperimento di riunione della magistratura progressista, ma ora il progetto sta mostrando le corde”, dice un magistrato di Md. Oggi il gruppo è diviso in due blocchi: da un lato i sostenitori del progetto di Area, i cui nomi forti sono quello del presidente dell’Anm, Luca Poniz, dell’ex presidente e segretario di Area, Eugenio Albamonte e dei consiglieri del Csm, Giuseppe Cassini e Giovanni Zaccaro; dall’altro gli scettici, come il presidente di Md, Riccardo De Vito, la segretaria Mariarosa Guglielmi e Silvia Albano, che si è dimessa dalla giunta dell’Anm in disaccordo con la scelta di Poniz di non sciogliere l’associazione e convocare elezioni anticipate dopo il cataclisma del caso Palamara. La linea di demarcazione, però, è frastagliata: Md non è un blocco monolitico e alcuni dei suoi storici membri credono ancora nella bontà del progetto unitario. Le ragioni della spaccatura riguardano, come spesso è nelle dinamiche politiche, la concezione del potere. Secondo un deluso di Area “il cartello ha tradito le speranze iniziali: si richiama al progressismo giudiziario e alla questione morale, ma nei fatti l’unico obiettivo è conquistare l’egemonia all’Anm”. Il modello di Area si ispirerebbe a quello del partito pigliatutto della Prima repubblica: l’obiettivo è raccogliere consensi da tutte le aree, scegliendo posizioni di compromesso anche sui temi considerati caratterizzanti per le toghe progressiste, come la gestione dell’immigrazione e il referendum costituzionale. Il conflitto tra Area e una parte di Md si è acuito durante la crisi del Csm, in particolare a causa della scelta del presidente dell’Anm, Poniz, di non sciogliere il sindacato delle toghe all’indomani dello scandalo Palamara. “Area non ha voluto restituire la parola ai magistrati, ma ha preferito mantenere il potere e attendere la scadenza naturale di ottobre, in modo da consolidare elettoralmente la propria posizione”, dice un membro di Md critico con la gestione del presidente. Il timore di una parte di Md è che Area voglia appropriarsi dell’Anm, diventando forza egemone dopo aver inglobato una parte di Unicost, estromettendo poi Magistratura indipendente dalla gestione unitaria. Questo, però, presterebbe il fianco alla creazione di un nuovo sindacato alternativo all’Anm che romperebbe la storica unità sindacale e costringerebbe la magistratura a parlare con più voci. Una tentazione, questa, che sta iniziando a circolare con insistenza in coincidenza con l’avvicinarsi delle elezioni del 18 ottobre. La divisione riguarda anche la valutazione della riforma del Csm proposta dal governo. I critici la considerano di fatto ispirata da Area e in particolare dal magistrato fuori ruolo al ministero della Giustizia, Giuseppe Santalucia. Secondo Md, il nuovo sistema elettorale di stampo maggioritario snaturerebbe la magistratura, perché non tiene conto delle diverse anime dei togati ma assimila il Csm alla politica. Così facendo, si renderebbe il terzo potere “sempre più verticistico e burocratizzato”, si legge in un documento. “Così Area punta a governare indisturbata la magistratura per i prossimi trent’anni”, dice un magistrato di Mi, che conferma il sospetto che il tosto proposto dal governo sia frutto di una sinergia tra il Partito democratico e la corrente delle toghe. Proprio questa ricostruzione è stata fermamente smentita dal segretario di Area, Eugenio Albamonte: “Area ha criticato la riforma elettorale e non vuole il bipolarismo: è una forma di rappresentanza non utile alla magistratura, soprattutto se i poli sono così distanti tra di loro “. Poi spiega in questi termini le tensioni interne al suo gruppo: “La differenza tra Area e Md è che, sulla riforma del Csm, pur condividendo entrambi le stesse critiche su alcuni aspetti, Area ha scelto di vedere il bicchiere mezzo pieno, perché il testo recepisce una buona parte dell’elaborazione culturale delle toghe progressiste”. Sul fronte dello scandalo al Csm, Area ha affrontato la questione Palamara uscendone da vincitrice: secondo le altre correnti, i progressisti sono riusciti nell’operazione di farsi percepire come gli unici non toccati dallo scandalo e ne hanno approfittato per appropriarsi dell’Anm. E l’opinione è condivisa anche tra i magistrati di Md: “Liquidare la questione Palamara scaricando la responsabilità sulla precedente consiliatura del Csm è ipocrita: anche in Area c’era chi sosteneva che bisognava dialogare con lui, in quanto interlocutore più progressista”. In Area, invece, la valutazione del caso è diversa. “Una cosa è riunirsi di notte per decidere chi mettere a capo della procura di Roma, che indaga uno dei presenti. Altro è un tentativo di ottenere consenso con favoritismi nella gestione delle nomine: pratica deteriore che abbiamo riscontrato al nostro interno e che abbiamo provato a debellare ben prima che venisse all’attenzione”, dice un esponente di primo piano di Area. L’incognita Cascini - Del resto anche in Area è emersa una zona grigia, rappresentata dal togato al Csm e uomo forte della corrente, Giuseppe Cascini. Il magistrato ha lasciato Md nelle scorse settimane in polemica con la dirigenza, che non lo avrebbe difeso a sufficienza dopo la pubblicazione delle conversazioni in cui chiedeva a Palamara informazioni per ottenere un accredito allo stadio Olimpico per il figlio. Oggi, il conflitto interno alle toghe progressiste potrebbe avere una rappresentazione plastica: alle elezioni dell’Anm, i candidati di Md stanno valutando di candidarsi nelle liste di Area, ma come indipendenti. Alle divergenze sulla gestione dell’Anm, infatti, si è aggiunta un’altra frizione: la nomina di Raffaele Cantone a capo della procura di Perugia che indaga su Palamara. Sponsorizzata da Area, la scelta è stata accolta con contrarietà da Md che, vista la sensibilità della posizione, avrebbe preferito un magistrato non fuori ruolo e senza precedenti nomine politiche. Eppure, l’opinione di Albamonte è che non ci siano ragioni sostanziali per una divisione interna alla lista: “Tra i due gruppi vedo più differenze sulle scelte comunicative che nella sostanza. Non trovo ragioni insuperabili che giustifichino una rottura”. L’attesa, ora, è per il congresso di Md fissato per gennaio, che dovrebbe definitivamente chiarire il futuro del cartello dei progressisti. L’Avvocatura dello Stato: “Tra due settimane Davigo dovrà lasciare il posto al Csm” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 8 ottobre 2020 Il magistrato simbolo il 20 ottobre compirà 70 anni e deve ritirarsi. Sostiene di aver diritto di restare nel Consiglio, ma si annuncia battaglia. Piercamillo Davigo deve lasciare il Consiglio superiore della magistratura, a metà del mandato, perché un pensionato non può rappresentare gli ex colleghi. Lo sostiene l’Avvocatura dello Stato, in un parere richiesto dal Csm. Davigo andrà in pensione il 20 ottobre, a 70 anni. All’inizio di settembre egli stesso ha posto con una lettera alla commissione titoli del Csm la questione, che non conosce precedenti: la possibilità di rimanere in carica da pensionato, essendo stato eletto nella quota riservata ai magistrati in servizio. Davigo sostiene di averne diritto con due argomentazioni, una giuridica e una politica. La prima: il pensionamento non è espressamente previsto dalla legge tra le cause di decadenza dei membri del Csm, e in materia elettorale vige la tassatività dei requisiti di chi accede alle cariche pubbliche. La seconda: un’estromissione con voto a maggioranza del plenum introdurrebbe un pericoloso precedente, comportando la precarietà (se non la condizionabilità) di una posizione costituzionalmente rilevante. La commissione titoli, che deve istruire la pratica e riferire al plenum per il voto finale, ha preso tempo. Dopo aver scartabellato invano vecchi pareri, ha deciso di rivolgersi all’Avvocatura dello Stato, che assiste e difende le amministrazioni pubbliche (e il Csm, nei ricorsi dei magistrati al Tar contro nomine e trasferimenti). L’iniziativa ha suscitato la prima tensione. A volerla Loredana Micciché e Paola Braggion (entrambe di Magistratura Indipendente, corrente da cui Davigo uscì nel 2015 in polemica con Cosimo Ferri), mentre Alberto Benedetti, membro laico indicato dal M5S, ha votato contro. Schermaglie che preludono a quel che accadrà la prossima settimana, quando i tre componenti della commissione titoli dovranno redigere una relazione (o due, in caso di spaccatura) su cui il plenum si pronuncerà. A quel punto il parere dell’Avvocatura, pur non vincolante, sarà squadernato. Tre pagine per sostenere che l’assenza di una specifica norma per il caso Davigo dipende dal fatto che la sua decadenza è “scontata”, sulla scorta di una lettura sistematica del ruolo del Csm nell’assetto costituzionale e della rigida ripartizione dei suoi membri tra togati (in servizio) e laici eletti dal Parlamento, che sarebbe alterata dal “seggio del pensionato”. In tal senso valorizza una sentenza del Consiglio di Stato del 2011. Una “lettura formalistica e insufficiente” delle cause di decadenza, rifiutando il principio secondo cui “l’appartenenza all’ordine giudiziario costituisce condizione sempre essenziale e imprescindibile” per la permanenza nel Csm e non solo “per il mero accesso”, pervertirebbe il senso “dell’autogoverno”. plenum se ne occuperà mercoledì. Sarà battaglia. Anche perché nel frattempo Davigo presenta un altro conto al Csm per una mancata nomina in Cassazione nel 2018. Il Consiglio di Stato gli ha dato ragione, chiede un risarcimento sia economico che di carriera. Liquidato Palamara se ne fa un altro di Paolo Comi Il Riformista, 8 ottobre 2020 Meno di un mese per processarlo, cacciarlo e far finta di avere spazzato via il cancro della lottizzazione. Ecco la contro-storia dell’ex leader dell’Anm che paga il grave errore di aver rotto l’asse con i pm progressisti. Da oggi pomeriggio, è una certezza, i problemi che affliggono da anni la magistratura italiana, ad iniziare dalla lottizzazione degli incarichi da parte delle correnti, saranno tutti risolti: Luca Palamara, l’ex potente presidente dell’Associazione nazionale magistrati, sarà radiato dalla sezione disciplinare del Csm. Il processo a suo carico è stato rapidissimo: meno di un mese. Un record assoluto. Chi ha avuto modo di parlare con Palamara in questi giorni l’ha sentito sereno. E non è una frase di circostanza. Palamara da tempo aveva capito che il suo destino era segnato. Ha provato a difendersi, assistito dal consigliere di Cassazione Stefano Giame Guizzi, uno dei magistrati più esperti di questioni disciplinari al Csm. Una difesa a 360 gradi che ha sollevato anche diverse eccezioni di costituzionalità. Ma tutto è stato vano. Quello che è successo non poteva essere archiviato con un semplice “buffetto” da parte della disciplinare del Csm, normalmente ben predisposta nel perdonare i magistrati che inciampano in qualche illecito. Il danno di immagine è stato senza precedenti per poter chiudere un occhio. Riavvolgiamo, dunque, il nastro di questi mesi. Tutto inizia a settembre del 2018. Sono gli ultimi giorni al Csm per Palamara. Il magistrato è potentissimo. Capo delegazione di Unicost, il correntone di centro delle toghe, ha ricoperto l’incarico di presidente della Commissione per gli incarichi direttivi di Palazzo dei Marescialli nel quadriennio delle oltre 1000 nomine. Complice l’abbassamento dell’età pensionabile voluto dal governo Renzi, tanti magistrati sono andati via. Il Csm per coprire i posti vacanti ha lavorato a pieno regime, trasformandosi in un “nominificio”. Il Fatto Quotidiano pubblica la notizia che a Perugia è aperto un fascicolo nei suoi confronti. È un brutto colpo. Palamara è proiettato verso incarichi di prestigio, come del resto tutti i consiglieri uscenti. Lui punta a diventare aggiunto alla Procura di Roma. Il procedimento di Perugia non gli impedisce, però, di continuare la sua attività preferita: le nomine. Il vice presidente del Csm David Ermini, ad esempio, è una sua creatura. È stato Palamara a far convergere i voti sul responsabile giustizia del Pd, bruciando il professore di Forza Italia Alessio Lanzi e il laico pentastellato Alberto Maria Benedetti, appoggiato dalla sinistra giudiziaria. Il primo errore è questo. Abbandonare le toghe progressiste per puntare sui colleghi di Magistratura indipendente, il gruppo di destra. Uno sgarro che certi ambienti non gli perdonano. Il fascicolo di Perugia era nato da una nota trasmessa dalla Procura di Roma che stava indagando su Fabrizio Centofanti, un faccendiere tipico del sottobosco capitolino. Centofanti aveva avuto un’idea geniale. Sponsorizzare i convegni dei magistrati. In questo modo è riuscito ad “agganciare” decine di toghe, dal Consiglio di Stato alla Corte dei Conti. Oltre ad offrire cene a base di vino bianco ghiacciato e crudi di pesce ai magistrati, Centofanti paga a Palamara dei soggiorni termali in Toscana e alcuni viaggi in località esotiche. I pm di Perugia vogliono capire il perché. Acquisiscono le dichiarazioni di Giancarlo Longo, un pm che aspirava a diventare procuratore di Gela. Longo, che patteggerà una condanna per corruzione a cinque anni, riferisce di aver saputo che due professionisti avrebbero dato 40mila euro a Palamara per questa nomina. I pm di Perugia decidono allora, nella primavera dello scorso anno, di intercettare Palamara. Prima tradizionalmente e poi con il trojan. Le indagini vengono affidate al Gico della guardia di finanza di Roma comandato dal colonnello Gerardo Mastrodomenico, un ufficiale fra i fedelissimi del procuratore Giuseppe Pignatone. A maggio del 2019 Pignatone deve andare in pensione. Per la prima volta ci sono i numeri per un cambio a Roma. Perché, bisogna saperlo, alcuni uffici giudiziari sono da sempre appannaggio di magistrati appartenenti alla stessa corrente. A Milano, ad esempio, i procuratori capo da oltre trent’anni sono tutti di Magistratura democratica. Ovviamente sarà una coincidenza. A Roma pare fatta per Marcello Viola, toga di Magistratura indipendente e procuratore generale a Firenze. Una manina mai identificata, una settimana prima del voto in Plenum, fa filtrare ai giornali le intercettazioni dell’incontro avvenuto la sera fra l’8 ed il 9 maggio all’hotel Champagne di Roma, un albergo di terza categoria vicino alla stazione Termini dove era solito alloggiare Cosimo Ferri. Ferri e Palamara avevano organizzato questo incontro a cui parteciperanno cinque consiglieri del Csm e Luca Lotti. Si discute di nomine. Fra cui, appunto, Roma. Dopo la pubblicazione della notizia dell’incontro sui giornali, Palamara viene perquisito ma non arrestato, sorte che sarebbe capitata a chiunque fosse accusato per i medesimi reati. di Perugia ha la prima discovery. I giornali, tre per la precisione, Corriere, Repubblica e Messaggero, pubblicano a puntate stralci di questo incontro. La notizia costringe alle dimissioni tutti i consiglieri coinvolti. Paolo Criscuoli è l’unico che resiste. Dopo la pausa estiva tenterà di entrare in Plenum ma gli verrà impedito da alcuni togati. Non si è mai saputo chi. La nomina di Viola viene annullata e al Csm si consuma il ribaltone. Autonomia & Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo raddoppia la sua rappresentanza. Il nuovo procuratore di Roma sarà Michele Prestipino, magistrato di fiducia di Pignatone. E poi c’è lui. L’Iphone di Palamara con le sue chat. Un assedio quotidiano. Anche a notte fonda. Si scoprirà che erano centinaia i magistrati che si rivolgevano a lui per un incarico, un fuori ruolo, un direttivo. Un caso celebre è quello di Marco Mescolini, futuro procuratore di Reggio Emilia che arriva ad inviare a Palamara una bozza di parere di nomina che il Csm dovrà poi votare. Tutti i beneficiati del “sistema” Palamara sono adesso scomparsi e sono al sicuro. Il procuratore generale Giovanni Salvi ha sdoganato “l’auto promozione”. Nessuna sanzione per il magistrato che “anche in modo petulante” chiama il consigliere per attività di self marketing. Palamara fino ad oggi non ha raccontano nulla di quel sistema. Forse per timore della propria incolumità personale o forse perché sperava che non parlando si sarebbe salvato. Non è stato così. Sarebbe interessante, invece, conoscere come sono avvenute in questi anni le nomine degli uffici giudiziari più importanti del Paese. Se ci sono state trattative sottobanco con la politica, baratti, fascicoli archiviati e tenuti in sonno da parte degli aspiranti prima di passare all’incasso a Palazzo dei Marescialli. Palamara tutte queste cose le sa. Deve trovare il coraggio per una operazione verità. La Repubblica, non il quotidiano, gli sarà riconoscente per sempre. Difensore, no al sequestro degli atti pertinenti al reato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2020 Nullo il sequestro disposto dal pubblico ministero sui beni del difensore pertinenti al reato necessari all’accertamento dei fatti che non sono però corpo del reato. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 27988, respinge il ricorso della pubblica accusa contro la decisione del Tribunale del riesame di annullare il provvedimento con il quale si disponeva la ricerca e il sequestro di tutte le pratiche dell’avvocato relative all’ammissione al gratuito patrocinio. Un provvedimento, disposto dal pubblico ministero nell’ambito di un’indagine che vedeva coinvolto il professionista accusato di aver falsificato la firma del cliente in calce ad una domanda di ammissione al beneficio. Sul luogo della perquisizione era presente anche un consulente del pubblico ministero, con il compito di estrarre copia forense dei dati telematici presenti sui supporti fissi e mobili usati dall’indagato. La polizia giudiziaria aveva dunque asportato due hard disk, senza sequestrare cellulari o pen drive. Per i giudici del riesame, ai quali la Suprema corte si allinea, era comunque troppo. Il provvedimento è, infatti, stato annullato, per quanto riguardava le pratiche di ammissione al patrocinio a spese dello Stato diverse da quelle dell’assistito oggetto di indagine. Per i giudici il sequestro di atti relativi ad altri soggetti, non era possibile neppure a fronte degli accertamenti della guardia di finanza dai quali risultava che il legale, che aveva un precedente specifico, aveva dei redditi da ricondurre alle liquidazioni per partiche di gratuito patrocinio superiori a quelle dei colleghi del foro. Inutilmente il Pm chiarisce la necessità di accertare altre falsificazioni oltre alle due precedenti e lamenta un sindacato non consentito sulle ipotesi dell’accusa. Ma tutto questo non basta a superare la tutela che l’articolo 103, comma 2, del Codice di rito penale garantisce ai difensori, che limita la possibilità di sequestro al corpo del reato. Secondo i giudici di legittimità, la norma va interpretata in senso stretto. Devono dunque fuori dal sequestro, a pena di inutilizzabilità, le cose pertinenti al reato, necessarie per l’accertamento dei fatti. Per le quali il sequestro probatorio è invece in genere previsto, allo scopo di acquisire elementi utili agli sviluppi investigativi. L’utilizzo di carte di credito clonate non è riciclaggio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2020 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 7 ottobre 2020 n.27885. Non risponde del reato di riciclaggio il titolare del supermercato che riceve e utilizza carte di credito clonate. Il reato, che può a seconda della modalità in cui è messo in atto costituire presupposto del riciclaggio, è indebito utilizzo o falsificazione di carte di credito, previsto dall’articolo 493-ter del Codice penale. Per l’imputato scatta anche l’associazione delinquere. La seconda sezione penale della Cassazione, con la sentenza 27885, chiarisce però che il soggetto che utilizza la carta di credito o di pagamento non “ripulisce” la somma, ma la consegue senza mettere in atto le ulteriori e distinte operazioni che caratterizzano il reato di riciclaggio. Ed è quanto accaduto nel caso esaminato in cui l’imputato riceveva e utilizzava nel suo supermercato le carte di credito clonate al solo fine di prelevare il denaro. Una condotta che, per la Cassazione esclude il riciclaggio e va correttamente inquadrata nell’indebito utilizzo di carte di credito. Alcoltest, l’omologazione e la verifica annuale vanno provate solo su richiesta di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2020 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 7 ottobre 2020 n. 27879. La prova tecnica del corretto funzionamento dell’etilometro scatta solo se l’accusato contesta la validità dell’alcoltest cui è stato sottoposto. Come ha precisato la Cassazione, con la sentenza n. 27879, non basta a far scattare l’onere probatorio a carico dell’accusa la mera affermazione difensiva di non aver potuto visionare il libretto dell’apparecchio, attestante la sua omologazione e il compimento delle verifiche periodiche richieste dal regolamento di attuazione del Codice della strada. Infatti, l’accusa a sostegno dell’imputazione non è tenuta “immediatamente” a corredare il risultato dell’etilometro con i dati relativi alla sua omologazione e verifica periodica. La prova contro il rilievo - L’omologazione e la verifica dell’apparecchio non hanno di per sé valore probatorio ai fini dell’accertamento dello stato di ebbrezza del conducente, che può essere desunto da altri elementi come avvenuto nel caso specifico: l’alito vinoso e l’incidente contro una rotatoria. Si tratta di attività prodromiche al concreto rilevamento della quantità assunta dal guidatore e la sussistenza di esse va verificata su specifica sollecitazione dell’imputato attraverso puntuale onere di allegazione della prova contraria con cui di fatto si contesta la validità del test positivo nei propri confronti. Nel caso specifico, invece, l’accusato aveva solo eccepito la questione senza aver espressamente sollecitato l’assunzione della prova ritenuta contraria al risultato. La vicenda - Solo dopo molti mesi dall’alcoltest l’accusato aveva avanzato la richiesta di ottenere copia del libretto metrologico con la vidimazione annuale. Richiesta inevasa dal Comando provinciale dei Carabinieri per l’asserita circostanza di aver riconsegnato il libretto insieme allo stesso apparecchio alla ditta costruttrice proprio per l’espletamento della verifica periodica. Protezione umanitaria: comparare integrazione sociale in Italia e situazione nel paese d’origine Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2020 Straniero - Protezione umanitaria - Valutazione comparativa tra integrazione sociale raggiunta in italia e situazione del paese di origine - Necessità - Fattispecie. In tema di protezione umanitaria occorre accordare rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese d’origine al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità umana. Nel giudizio di comparazione occorre dunque tener conto sia delle condizioni in cui si troverebbe il richiedente in caso di reinserimento nel paese d’origine, sia delle sue attuali prospettive di inserimento in Italia sia sulla base di dati oggettivi che soggettivi quali la minore età o maggior fragilità del richiedente. (Nella specie erroneamente il giudice di merito ha valutato e dato per scontata la capacità di un possibile successo nel reinserimento nel paese d’origine del richiedente in quanto si era reso capace di superare, anche in minore età, molte situazioni difficili, non procedendo a valutare la sua condizione attuale in Italia al termine del suo percorso di integrazione) • Corte di cassazione, sezione III civile, ordinanza 24 settembre 2020 n. 20147. Straniero - Protezione umanitaria - Valutazione comparativa tra integrazione sociale raggiunta in Italia e situazione del paese di origine - Necessità. In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente e astrattamente considerato. • Corte di cassazione, sezioni Unite civili, sentenza 13 novembre 2019 n. 29459. Protezione internazionale umanitaria - Integrazione dello straniero in Italia e contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza - Insufficienza. Non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, né il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 Cedu, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Sentenza Cedu 8/4/2008 Ric. 21878 del 2006 Caso Nyianzi c. Regno Unito). • Corte di cassazione, sezione VI civile, ordinanza 28 giugno 2018 n. 17072. Protezione umanitaria - Necessaria valutazione comparativa tra integrazione sociale raggiunta in Italia e situazione con riferimento al paese d’origine - Fattispecie. In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine). • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 23 febbraio 2018 n. 4455. Lazio. Covid-19, il Garante dei detenuti: “Tutela sì, ma anche diritto alle relazioni familiari” consiglio.regione.lazio.it, 8 ottobre 2020 Carceri e pandemia tra i temi al centro dell’assemblea annuale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà che si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 ottobre a Napoli. “L’appuntamento dei garanti è un momento di grande importanza per il mondo carcerario e della privazione della libertà. Anche nel nostro paese i casi di positività al Covid tornano a crescere, proprio mentre in carcere riprendono alcune attività e un barlume di vita normale. Individuare il giusto bilanciamento tra le necessità di prevenzione del virus e la garanzia di un minimo di attività e di relazioni con i familiari resta la sfida più difficile a cui spero che l’appuntamento annuale dei garanti territoriali possa portare un contributo concreto di conoscenza e di esperienza”. È quanto ha dichiarato il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, nell’annunciare l’assemblea annuale della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà che si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 ottobre, nella sede della Regione Campania (Centro direzionale isola C3) a Napoli. A presiedere l’assemblea sarà il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, mentre la relazione introduttiva sarà affidata proprio ad Anastasìa, in qualità di portavoce della Conferenza. Del Consiglio regionale del Lazio (che ha istituito il Garante del Lazio con la legge regionale 31/2003) interverrà il vicepresidente Devid Porrello, per i saluti istituzionali. Parteciperanno, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralìa, la capo dipartimento Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. L’assemblea si concluderà con l’intervento del presidente dell’Autorità garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Dopo i saluti istituzionali e la relazione introduttiva di Anastasìa (il quale è anche garante dei detenuti dell’Umbria), nel pomeriggio di venerdì si svolgeranno quattro sessioni di lavoro, con la partecipazione dei garanti territoriali e dei rappresentanti di associazioni, sindacati e dell’amministrazione penitenziaria. Due sessioni parallele toccheranno i temi legati all’emergenza Covid-19 nelle carceri: una sessione riguarderà le misure di prevenzione sanitaria e il diritto alle relazioni familiari, la seconda il lavoro, l’istruzione e l’offerta trattamentale. Altre due sessioni tematiche riguarderanno la funzione rieducativa della pena in contesti di criminalità organizzata e il reinserimento sociale e l’accoglienza delle persone private della libertà. La Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Nel corso degli ultimi 15 anni, 17 regioni e province autonome, 9 province e aree metropolitane, 50 comuni hanno istituito garanti dei detenuti o delle persone private della libertà, ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza rappresenta i garanti territoriali nei rapporti istituzionali con le autorità competenti e collabora con il Garante nazionale. La sede è presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome. La sede operativa è presso il Garante dei detenuti del Lazio. Tra i compiti previsti dal proprio regolamento, la Conferenza dei garanti elabora linee-guida per la regolamentazione, l’azione e l’organizzazione degli uffici dei garanti territoriali, monitora lo stato dell’arte della legislazione in materia di privazione della libertà, effettua studi e ricerche, organizza eventi di dibattito e promuove occasioni di confronto e di formazione comune dei garanti territoriali, esercita ogni forma di azione ritenuta opportuna per la risoluzione delle problematiche relative alla privazione della libertà, elabora documenti comuni ai fini dell’unitarietà dell’azione dei garanti territoriali e promuove l’istituzione di nuovi garanti a ogni livello. Friuli Venezia Giulia. “Scuola, promuovere la legalità e contrastare l’odio” ilfriuli.it, 8 ottobre 2020 Queste le priorità tracciate dal Garante regionale dei diritti della persona Pittaro. “Educazione a legalità e rispetto ma anche contrasto al linguaggio-odio”. Sono le priorità relative al mondo scolastico delineate dal Garante regionale dei diritti della persona (Grdp), Paolo Pittaro, nel corso di una riunione dell’Ufficio di presidenza del Consiglio Fvg. Nell’annunciare le linee programmatiche per il 2021, Pittaro ha citato la funzione di garanzia per bambini e adolescenti, quella per le persone private della libertà personale e quella per i soggetti a rischio di discriminazione. Per i minori stranieri non accompagnati (Msna), il principale obiettivo è quello di attuare le disposizioni in materia di selezione e formazione dei tutori volontari, istituendo allo scopo un apposito elenco presso i Tribunali per i minorenni e attuando un corso di formazione unito alla divulgazione dei Quaderni dei diritti. Il protocollo d’intesa su Prevenzione e contrasto del fenomeno del bullismo, del cyberbullismo e dell’infanzia violata vede come principali destinatari le scuole primarie e secondarie di primo e di secondo grado. Sono previsti incontri e tavole rotonde, anche in modalità web seminar (webinar), che porteranno alla stesura di un ulteriore Quaderno tematico. Per tutelare l’infanzia e l’adolescenza verranno rafforzati i contatti con le altre Autorità della penisola, insieme a quelli con gli organismi di assistenza sociale, anche attraverso la partecipazione alla conferenza nazionale per la garanzia dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. In tema di persone private della libertà personale, l’attenzione viene riposta nei confronti delle cinque Case circondariali della regione (Trieste, Udine, Gorizia, Pordenone e Tolmezzo) e, per gli stranieri, del Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Gradisca d’Isonzo. I contatti con i direttori delle strutture e con il Prefetto di Gorizia saranno seguiti da almeno due visite annue comprensive di colloqui personali richiesti dagli ospitanti. Anche in questo specifico settore vengono rafforzati i contatti con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, ma anche con i funzionari dell’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr) e con la Magistratura di Sorveglianza regionale. In accordo con i direttori degli istituti di pena verrà promosso l’inserimento dei detenuti all’interno di cooperative sociali e la loro partecipazione alle attività lavorative, confermando la collaborazione con i servizi sanitari. Infine, in materia di garanzia per le persone a rischio di discriminazione, si svilupperanno rapporti di collaborazione con l’Autorità di garanzia operante nel settore della promozione della parità di trattamento, l’Ufficio nazionale anti-discriminazioni razziali (Unar). Sulmona (Aq). Detenuto morto in cella, la Procura acquisisce cartella clinica di Andrea D’Aurelio ondatv.tv, 8 ottobre 2020 Si svolgeranno oggi alle ore 15, presso la Chiesa di Cristo Re a Sulmona, i funerali di Mariano Di Rocco, il detenuto sulmonese trovato morto nella cella del carcere di Castrogno dove stava scontano la pena definitiva per alcuni reati. L’esame autoptico sul corpo senza vita di Di Rocco è stato svolto nella giornata di ieri dall’anatomopatologo, Giuseppe Sciarra, che ha effettuato tutti i prelievi del caso. All’autopsia ha preso parte anche il perito incaricato dalla parte offesa. Per l’esito degli accertamenti ci vorrà del tempo ma la Procura della Repubblica di Teramo, che ha aperto un’inchiesta sul caso dopo la denuncia contro ignoti presentata dalla madre, ha acquisito la cartella clinica dell’ultimo ricovero avvenuto circa un mese fa nell’ospedale di Teramo. Quello dei magistrati è sostanzialmente un atto dovuto che serve però a ricostruire tutti i passaggi legati alla degenza ospedaliera del detenuto nonché ad approfondire il suo quadro clinico che, a detta della madre e dei suoi legali, non era compatibile con il regime carcerario. Da qui la denuncia e l’apertura di un fascicolo contro ignoti. Di Rocco aveva due anni e undici mesi di pene accumulate per furti, spacci e lesioni. A febbraio 2021 avrebbe finito di scontare il suo conto con la giustizia. Ma il punto, come già hanno sottolineato i suoi avvocati Stefano Michelangelo e Paolo Vecchioli, è che in carcere non doveva proprio entrarci. Due istanze di scarcerazione non hanno trovato risposta. In cella Di Rocco ci era finito dopo l’evasione dalla detenzione domiciliare, per aver perso cioè il bus per tornare a casa dopo il permesso accordato per una visita all’Aquila. E chi l’avrebbe detto che sarebbe stato il suo ultimo viaggio prima di quello più lungo che, per lui, comincia proprio adesso. Intanto la madre e i suoi familiari chiedono giustizia, che si vada cioè fino in fondo alla vicenda. Brescia. Cinque detenuti positivi al coronavirus: trasferiti a San Vittore di Paolo Cittadini Brescia Oggi, 8 ottobre 2020 L’allarme è scattato nelle scorse ore quando uno dei detenuti del Nerio Fischione è risultato positivo al Covid. Negativo ai primi due tamponi, la positività è emersa dopo il terzo controllo, quello fatto nelle scorse ore. Immediatamente nel penitenziario si è messo in moto il protocollo previsto in caso di positività e i detenuti del penitenziario cittadino sono stati tutti sottoposti ai controlli sanitari. Dopo il “giro” di tamponi altri quattro detenuti sono risultati positivi al coronavirus. Una sorta di piccolo focolaio all’interno del penitenziario che la direzione ha subito provato a spegnere trasferendo i cinque detenuti risultati positivi a Milano nel carcere di San Vittore dove già nei mesi scorsi era stata allestito uno spazio per la popolazione carceraria risultata positiva. Venezia. “Carceri, condizioni allarmanti” di Marta Gasparon Il Gazzettino, 8 ottobre 2020 La denuncia della Cgil sui due istituti veneziani di Santa Maria Maggiore e Giudecca. Un incontro all’esterno del carcere maschile di S. Maria Maggiore per fare il punto sulla situazione dei penitenziari veneziani. Oltre che sui contenuti della campagna nazionale “Stare bene dentro”, per migliorare le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria. Una mattinata che prevedeva anche una visita alla casa della Giudecca - dove le detenute sono un’ottantina - sospesa per una positività al Covid. “Una detenuta è arrivata dall’esterno, ma il tampone è stato eseguito solo dopo 7 giorni dall’ingresso - ha spiegato R.C., del coordinamento dell’istituto dell’isola - forse perché era asintomatica. Solitamente all’ingresso ogni detenuto viene messo in isolamento, fino al tampone. Quanto accaduto ha creato malcontento tra il personale”. Parole a cui si è aggiunta la denuncia di ciò che non va nella struttura, girano topi (la derattizzazione viene fatta, ma il problema si trascina da tempo) e mosche. Inoltre non c’è una differenziazione fra i bagni degli uomini e delle donne. I nostri spogliatoi sono angusti”. “Il personale è carente e mancano rifornimenti”, denuncia Gampietro Pegoraro, coordinatore regionale Cgil Polizia penitenziaria. Sigla sindacale che, oltre ad aderire a “Star bene dentro”, si è fatta promotrice di una proposta per una nuova organizzazione del lavoro nelle carceri che prevede pure la formazione del personale “intorno al quale si sta investendo poco. l 55% della popolazione del nostro istituto - ha detto, riferendosi alla casa circondariale maschile - è costituita da extracomunitari, per un totale di 217 detenuti. Il personale è stressato e non è formato sulla gestione dei conflitti che spesso nascono proprio da incomprensioni di lingua”. L’ultima aggressione a S. Maria Maggiore la settimana scorsa, a un agente penitenziario che ha riportato 7 giorni di prognosi. “Per tutelare il personale dovrebbero essere presi più provvedimenti per i detenuti aggressivi”, ha dichiarato B.G., delegato Cgil della Casa circondariale. “E quelli con problemi psichiatrici avrebbero bisogno di cure specifiche” dice Franca Vanto, segreteria funzione pubblica, che aggiunge: “A S. Maria Maggiore ho visto laboratori che funzionano ma allo stesso tempo spazi inadeguati per la parte impiegatizia, indecorosi in un’epoca di digitalizzazione. Le risorse del Recovery Fund dovrebbero arrivare anche ai penitenziari”. Inoltre sistemare due aree del carcere per recuperare spazio per il personale. Venezia. Carcere e virus, rischio tensioni: “Mancano spazi comuni” Corriere del Veneto, 8 ottobre 2020 Mancano le aree comuni, gli spazi attrezzati, i bagni e gli spogliatoi separati. Si finisce persino per usare come schedari vecchi frigoriferi. Era già un problema un anno fa, ora in tempi di pandemia rischia di diventare una miccia. E qualche esplosione, pur contenuta, c’è già stata. Ieri mattina, davanti al carcere di Santa Maria Maggiore, Franca Vanto e Gianpietro Pegoraro della Fp Cgil, assieme ai delegati sindacali delle due case circondariali veneziane, sono tornati a chiedere maggiori investimenti. “Oggi ci sono 148 agenti e 220 detenuti solo qui nel carcere maschile - ricorda Pegoraro - C’è un cortile che può ospitare giusto trenta persone, due ali in fase di ricostruzione mai completate”. La mancanza di spazi collettivi si fa più pesante quando cresce l’insicurezza, come a causa del Covid-19. Il risultato sono anche le aggressioni, come quella della settimana scorsa ai danni di un secondino: “Abbiamo chiesto alla dirigenza come mai non abbia trasferito il detenuto, ci hanno risposto che hanno provveduto con misure disciplinari. Ma non è questo il protocollo”. Per “stare bene dentro”, come recita il nome della campagna promossa dal sindacato, serve però anche maggiore impegno sulla formazione: “I detenuti fanno già molto qui, tra borse, magliette e altri prodotti - ricorda Vanto - Restituire loro il senso del lavoro, la dignità della retribuzione, è importante, ma è solo il primo passo. Poi serve anche maggiore preparazione per gli agenti, che spesso si trovano anche a dover gestire personale psichiatrico, magari senza esserne consapevoli. Con il Pon Metro i soldi ci sono, ora però bisogna decidere come spenderli al meglio”. Rovigo. In via Verdi si insedierà il nuovo carcere minorile del Veneto di Roberta Merlin Il Gazzettino, 8 ottobre 2020 È confermato: in via Verdi si insedierà il nuovo carcere minorile del Veneto, che lascerà l’attuale sede di Treviso. Tramonta così definitivamente l’ipotesi di ampliamento del tribunale negli spazi adiacenti, un tempo occupati all’ex carcere circondariale, traslocato lungo la Tangenziale Est. Ad annunciarlo è il sindaco Edoardo Gaffeo, dopo mesi di interlocuzione con il Ministero di Grazia e Giustizia nel tentativo di evitare l’arrivo in città del Minorile. Il progetto però è ormai in stato avanzato: la precedente Amministrazione non è intervenuta per evitare che la struttura di via Verdi diventasse una nuova struttura detentiva dedicata ai minori e quindi la burocrazia ha fatto il suo corso. I lavori per la realizzazione del nuovo carcere procedono e non possono essere fermati. La struttura ospiterà una quindicina di ragazzi che avranno la possibilità di seguire percorsi scolastico-educativi, ma anche attività sportive e professionali. Una parte della struttura sarà invece probabilmente dedicata ad un gruppo di detenuti in semilibertà. Il destino dunque di via Verdi è già segnato. Fermare l’arrivo del nuovo carcere, a questo punto, è davvero poco probabile. In particolar modo in questo periodo delicato per l’Italia, in quanto lo stop a un progetto esecutivo, ormai in stato avanzato, esporrebbe il Governo a cospicue perdite economiche dal momento che l’appalto per la sistemazione dell’ex casa circondariale è già stato affidato a un’impresa. “Non sembra proprio sia possibile tornare indietro ha spiegato ieri il sindaco Gaffeo - Il Tribunale dunque non può essere ampliato nella sede attuale, è necessario individuare una nuova struttura. Siamo al lavoro per questo”. Un piano B per realizzare il nuovo palazzo di Giustizia mantenendolo nel centro storico della città, per il momento, non c’è. Anche infatti per l’ex Caserma Silvestri all’Amministrazione è stato risposto picche dal Demanio, proprietario dell’area che è stata già assegnata all’Archivio di Stato e Notarile. Il Comune ha un progetto per la realizzazione di un ampio parcheggio negli spazi esterni dell’ex caserma, ma non ci sarebbero metrature e presupposti per farci stare Tribunale e Procura. Insomma, la caccia di palazzo Nodari alla nuova sede del Palazzo di Giustizia, tramontata l’ipotesi dello stop all’ex carcere minorile, in questi giorni è ripartita ritmo serrato. “La decisione di dove collocare il Tribunale è del Ministero spiega il sindaco - C’è comunque un dialogo aperto con Roma per cercare di trovare una sede idonea”. Stralciata, nei mesi scorsi, anche l’ipotesi di collocare il palazzo di Giustizia in Commenda, cambiando la destinazione dell’ex Maddalena che si appresta ad essere riqualificato grazie al Bando Periferie. Per il futuro del Tribunale in città, le possibilità sembrano davvero risicate. Tra le ipotesi che erano state avanzate dall’Ordine degli avvocati c’erano l’ex Questura, la sede dell’ex Banca d’Italia e piazzale di Vittorio. Il Ministero però, secondo quanto aveva spiegato mesi fa il presidente del Tribunale Angelo Risi, sarebbe alla ricerca di acquisire una sede unica per la realizzazione del Palazzo di Giustizia, in modo da liberare le attuali sedi in affitto disseminate in centro. Non solo. Il nuovo Tribunale dovrà essere facilmente raggiungibile da chi proviene anche dalla Bassa Padovana, dunque nella scelta un ruolo decisivo avrà sicuramente l’aspetto legato alla viabilità e alla possibilità di avere un ampio e comodo parcheggio. Padova. “L’università in carcere”: testimonianze ed esperienze in un incontro online padovaoggi.it, 8 ottobre 2020 “L’Università in carcere l’accesso allo studio delle persone in regime di detenzione” è il titolo dell’incontro in zoom (https://unipd.zoom.us/j/2328608956) che si terrà giovedì 8 ottobre alle ore 16 nell’ambito degli appuntamenti del Festival dello Sviluppo sostenibile. Il progetto - L’Ateneo di Padova, attivo con il progetto Università in carcere dal 2003, principalmente nella Casa di reclusione di Padova, rientra tra i promotori della nascita della Conferenza nazionale dei delegati dei Rettori per i Poli universitari penitenziari, rete di Atenei costituitasi per garantire il diritto allo studio universitario alle persone in regime di detenzione. La Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp), istituita presso la Crui il 9 aprile 2018, rappresenta la formalizzazione del Coordinamento dei responsabili di attività di formazione universitaria in carcere. In questi anni un numero crescente di Università è impegnato a garantire il diritto allo studio agli studenti detenuti o sottoposti a misure di privazione della libertà personale. Sono attualmente 24 gli Atenei coinvolti, con attività didattiche e formative in poco meno di 50 Istituti penitenziari e circa 600 studenti iscritti. La Cnupp in primo luogo intende svolgere attività di promozione, riflessione e indirizzo del sistema universitario nazionale e dei singoli Atenei in merito alla garanzia del diritto allo studio delle persone detenute o in esecuzione penale esterna o sottoposte a misure di sicurezza detentive. In secondo luogo, la Conferenza è organo di rappresentanza della Crui nel confronto con il Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità e loro articolazioni periferiche) e con ogni altra istituzione competente, per la definizione delle condizioni che, all’interno degli istituti penitenziari e più in generale per le persone in situazioni di limitazione della libertà personale, rendano fruibile tale diritto, in maniera omogenea e per tutti coloro che intendano esercitarlo. L’evento - All’appuntamento di giovedì 8 ottobre partecipano il Presidente della Cnupp, Franco Prina dell’Università degli Studi di Torino, e la delegata al Progetto patavino, Francesca Vianello dell’Università di Padova, infine daranno testimonianza della propria esperienza tutor e studenti del progetto padovano che sono stati coordinati dall’ufficio Servizi agli studenti dell’Ateneo. Festival dello Sviluppo Sostenibile. Il Festival dello Sviluppo Sostenibile, promosso dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (Asvis) in sinergia con un’importante rete di partner, è la più grande iniziativa a livello nazionale per la promozione dei temi della sostenibilità economica, sociale e ambientale. Il Festival, realizzato con il coinvolgimento della comunità accademica e la collaborazione del Comune di Padova, ha un ricco cartellone di iniziative su scala locale e nazionale: convegni, workshop, mostre, spettacoli e molto altro. Si propone di coinvolgere cittadini, imprese e istituzioni nella costruzione di un background culturale ed economico che consenta l’attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e il raggiungimento, a livello nazionale, dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Le iniziative proposte sono pensate per coinvolgere il grande pubblico prevalentemente attraverso l’utilizzo di piattaforme online, consentendo così il rispetto delle norme sanitarie prescritte per il contenimento dell’epidemia. Ulteriori info web: ilbolive.unipd.it/it/event/luniversita-carcere-laccesso-studio-persone-regime Trento. Liberi Dentro, “nelle carceri c’è fame di cultura” di Riccardo Lichene Corriere del Trentino, 8 ottobre 2020 Ogni mese a Trento scrittori e registri, obiettivo fare da ponte tra città e detenuti. “Liberi da Dentro è un’attività di rete che vuole mettere insieme le realtà di volontariato che si preoccupano del fatto che in questa città c’è un carcere e che viene percepito dalla popolazione come qualcosa a sé stante e non integrato alla città”. Così Alberto Zanutto, presidente della Scuola di Preparazione Sociale di Trento vuole descrivere il progetto “Liberi Dentro”, composto da una serie di iniziative per avvicinare il carcere alla cittadinanza. “Noi lavoriamo sulla cultura - continua - non ci occupiamo di strategie di gestione legate alla giustizia ma siamo motivati dall’idea che è necessaria una giustizia riparativa: giuste pene e giusti modi di sopportare queste pene. In questo senso noi lavoriamo affinché le persone rielaborino l’esperienza in termini narrativi e partecipino a laboratori di lavoro teatrale piuttosto che letterario e quindi possano maturare consapevolezza del perché della loro esperienza nell’ottica di un reintegro con la città”. A causa del Covid gli eventi di quest’anno (il progetto è alla sua terza edizione) non potranno svolgersi con pubblico, studenti e detenuti insieme ma ogni singola iniziativa sarà ripetuta tre volte: nella casa circondariale, nelle scuole e con la cittadinanza di Trento. “L’evento che più ci piace citare è quello che faremo venerdì (domani, ndr) alle 20.30 al teatro San Marco (per iscriversi è necessario prenotarsi sul sito ndr) ovvero la presentazione di un film realizzato con la Corte Costituzionale che si è presa l’impegno di andare in alcuni istituti correzionali per trovare chiavi di lettura alternative alla gestione tradizionale delle carceri. Possiamo intervenire per trasformare il modo tradizionale di gestire le carceri che tende a separarle di netto dalla cittadinanza. Lì ci sono relazioni, lì ci sono persone e lì c’è anche fame di cultura e ricostruzione dei propri profili personali”. Da ottobre a giugno 2020 è in programma un evento culturale al mese ed è già confermata la presenza di scrittori di punta come Marco Malvaldi, Annalisa Graziano e Adolfo Ceretti. Niente panico e niente litigi inutili di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 8 ottobre 2020 È necessario un clima di collaborazione e gli italiani meritano di essere trattati come un popolo adulto. Adesso l’importante è non perdere la testa, parlare poco e chiaro, individuare regole semplici e farle rispettare; e soprattutto evitare la guerra di tutti contro tutti, governo e Regioni, maggioranza e opposizione, Pd e 5 Stelle. Nei momenti più gravi della nostra storia, la forza morale e la capacità di resistenza degli italiani hanno spesso dovuto sopperire all’inadeguatezza delle classi dirigenti. È accaduto durante le due guerre mondiali; meno nella Ricostruzione, quando gli sforzi dei nostri padri furono assecondati da una generazione politica che seppe unirsi per scrivere la Costituzione e poi, nella sua parte cattolica e liberale, compiere la scelta atlantica e reggere l’urto della guerra fredda. Anche quello che stiamo vivendo è un tornante della storia. I numeri di ieri confermano che la seconda ondata sta arrivando. E colpisce anche Regioni dal sistema sanitario fragile, che la prima ondata aveva risparmiato. Le crisi da arginare sono due, strettamente collegate: quella sanitaria e quella economica. Si tratta di trovare norme di comportamento che evitino di sovraccaricare ospedali e terapie intensive, senza deprimere ulteriormente i consumi e di conseguenza la produzione e il lavoro. Non è semplice. Ma alcune cose le abbiamo imparate. Il virus sarà meno letale, ma non è affatto “clinicamente morto”; anzi. Le mascherine servono: al chiuso e anche in caso di assembramenti all’aperto. I test rapidi sono necessari se vogliamo tenere aperte le scuole. Tracciare i contatti resta fondamentale, ma lo è anche mettere in sicurezza - ad esempio negli alberghi purtroppo vuoti di turisti stranieri - le persone positive al virus che non hanno bisogno di essere ricoverate, ma non possono neppure restare a casa a rischio di contagiare i familiari. Soprattutto, è necessario costruire un clima di collaborazione. Già i virologi litigano di continuo, in tv e su Twitter. Ministri e amministratori dovrebbero proprio risparmiarci lo stesso spettacolo. Il voto regionale ha premiato la continuità: campani e pugliesi di destra hanno votato De Luca ed Emiliano; veneti e liguri di sinistra hanno votato Zaia e Toti; gli elettori hanno chiesto esperienza e protezione. Vale per l’opposizione, che dovrebbe respingere la tentazione di sottovalutare l’allarme e gridare al liberticidio per una mascherina. E vale per il governo, che sbaglierebbe a confondere il generico consenso dei sondaggi (in particolare per il premier) in una licenza in bianco a decretare per quattro mesi su ogni dettaglio. Gli italiani, con le consuete eccezioni, hanno dimostrato maturità e senso di responsabilità. Meritiamo di essere trattati come un popolo adulto. Niente panico, e niente litigi inutili. Se stavolta la classe politica sarà all’altezza di medici, infermieri, forze dell’ordine, operai, insegnanti e di tutti gli italiani - e più ancora le italiane - che hanno tenuto vivo e fatto ripartire il Paese, allora lo spirito del 2020 sopravvivrà anche a un autunno che si annuncia durissimo. Il Papa chiude una volta per tutte l’eterno dibattito sulla “guerra giusta” di Daniele Menozzi Il Foglio, 8 ottobre 2020 La terza enciclica di Papa Francesco - “Fratelli tutti”, firmata ad Assisi sulla tomba del Poverello il 3 ottobre scorso - costituisce una riepilogazione dei temi che Bergoglio ha sviluppato nel corso di sette anni di governo della chiesa universale. Non a caso ne appaiono tessuto connettivo le citazioni di suoi precedenti interventi. Sono ben 180! Non manca però una linea unitaria. Il Pontefice intende offrire, dopo il fallimento della proposta di neo-cristianità evidenziata dalle dimissioni di Benedetto XVI, una nuova via per restituire alla chiesa la capacità di rendere attrattivo il messaggio evangelico a uomini contemporanei che continuano a guardare con indifferenza al cristianesimo. Questa via trova il criterio sintetico di presentazione nel modello offerto dalla parabola del “buon samaritano”. La sua spiegazione costituisce uno degli aspetti più interessanti del documento, giungendo a una conclusione paradossale, ma per il credente, inquietante e stimolante a un tempo: “Il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace. Una persona di fede può non essere fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio”. Il criterio generale si sfrangia poi nell’articolazione di una serie di atteggiamenti con cui i cattolici possono tradurre, in relazione ai problemi del mondo attuale la disinteressata fratellanza che il samaritano ha manifestato per l’altro, per quanto da lui “diverso”, che si trova in condizioni di sofferenza. Ciascuno di essi meriterebbe un’analisi puntuale. Qui se ne prende in considerazione soltanto uno, che peraltro ha un ruolo cruciale sia nell’insegnamento di Francesco che nella società contemporanea: la questione della guerra e della pace. Il Papa ripropone sulla questione l’analisi già avanzata in precedenza. Dopo la Seconda guerra mondiale gli sforzi di costruire una pacifica convivenza internazionale - che hanno trovato nella Carta delle Nazioni Unite la formulazione di regole che avrebbero dovuto assicurarla - si sono rivelati inefficaci. Lungi dall’essere un fantasma del passato, come si era sperato, la guerra non solo continua a essere presente, ma si stanno creando le condizioni per una sua proliferazione. Non siamo in presenza di tanti circoscritti conflitti locali, alla fine controllabili senza catastrofiche conseguenze, bensì a una vera e propria Terza guerra mondiale, per quanto “a pezzi”. In questa situazione quale deve essere il comportamento del cristiano che voglia essere coerente con l’insegnamento del Vangelo? Bergoglio ricorda che un’indicazione fondamentale era venuta dall’enciclica Pacem in terris pubblicata da Giovanni XXIII nel 1963. Davanti alla minaccia di distruzione della vita sul pianeta che sarebbe inevitabilmente scaturita da un conflitto nucleare tra le superpotenze che se ne contendevano il dominio, affermava che la guerra non era più uno strumento idoneo a ristabilire la giustizia nelle relazioni internazionali. In tal modo Roncalli rapportava alla situazione del mondo bipolare la millenaria teologia della “guerra giusta”. Essa prevedeva che era lecito ai cristiani ricorrere alla violenza delle armi per ristabilire un diritto, ma solo nella misura in cui gli inevitabili mali provocati dalla guerra fossero inferiori al bene derivante dal ristabilimento della giustizia. La Pacem in terris prendeva atto di una nuova realtà: nessun diritto si sarebbe potuto ripristinare in un mondo distrutto dalle bombe nucleari. Proclamava perciò l’intrinseca immoralità dei conflitti nell’èra atomica. Tuttavia lasciava ancora aperta la possibilità di una “guerra giusta”. Per legittima difesa. Francesco nota che nel successivo catechismo della chiesa cattolica si sono approfondite le modalità con cui il ricorso alla violenza delle armi poteva assumere una piena legittimità morale. Tuttavia l’esperienza degli ultimi decenni ha ormai dimostrato che si è fatto un uso eccessivamente disinvolto di quella giustificazione etica della guerra: si sono moltiplicate guerre - via via definite “umanitarie”, “preventive”, “difensive” - che in realtà hanno comportato mali e disordini più gravi dei mali che avrebbero voluto eliminare. Davanti a questa situazione la conclusione del Papa è perentoria: “Oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile ‘guerra giusta’. Mai più la guerra”. Nessuna guerra oggi ha giustificazione etica. L’affermazione è sostenuta da una nota in cui, attraverso la citazione di un passo di sant’Agostino, si mostra come questa asserzione corrisponda perfettamente all’insegnamento di colui che ha iniziato a elaborare la dottrina della legittimità morale del ricorso alla violenza bellica. L’abbandono della teologia della guerra giusta non lascia però passivo il cristiano di fronte all’attuale proliferare dei conflitti. Ricorrendo a citazioni sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, Papa Francesco ricava che egli vi si immerge come operatore di pace. In altre occasioni - in particolare nel messaggio per la Giornata della pace del 2016 - aveva sostenuto che per il credente il metodo della non violenza rappresenta la via evangelica con cui affrontare le guerre. Ma, pur senza esplicite dichiarazioni, il modello del “buon samaritano” porta a questo stesso risultato. Addio dl Sicurezza? Non per le norme contro i lavoratori di Marco Palombi Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2020 I porti semi-aperti, le piazze del tutto chiuse. Potremmo riassumere così le modifiche ai decreti Sicurezza del Conte 1 nel 2018 e 2019 varate lunedì sera dal Conte 2: alcune modifiche hanno cioè riguardato le scelte sull’immigrazione, nessuna quelle sulla repressione del dissenso e della conflittualità sindacale che erano l’altro cuore delle norme predisposte da Matteo Salvini (ma certi decreti di Marco Minniti e alcune parti di quello di ieri dimostrano che c’è una certa continuità sul tema nei governi italiani d’ogni colore). Le vittime. Per capire di che si parla, serve qualche esempio. Lunedì prossimo, davanti al Tribunale di Nuoro, ci sarà un presidio convocato dall’associazione “Libertade”; dentro invece il Gup deciderà se rinviare a giudizio 12 pastori accusati di blocco stradale (durante una manifestazione di febbraio 2019 avevano versato latte per strada dai loro camion). A Prato, a dicembre 2019, 21 operai della tintoria industriale Superlativa hanno ricevuto multe fino a 4mila euro sempre per blocco stradale: lavoravano in condizioni assurde e non ricevevano stipendio da 7 mesi. Dopo le sanzioni ci furono scontri con la polizia durante un corteo di solidarietà coi lavoratori multati: per quello la questura diede il foglio di via a due sindacalisti dei Cobas sulla base di una legge del 1931 inasprita dal governo Gentiloni (i Daspo urbani cari a Minniti e poi a Salvini). Il Tar toscano, fortunatamente, annullò poi il provvedimento, come fece in un caso analogo il Tribunale di Bologna: è un pezzo, uno dei meno inquietanti, della vertenza Italpizza di Modena, dove sulla base dei decreti sicurezza - ma non solo, va detto - vanno a processo 67 lavoratori (il conto arriva ben oltre 300 se si aggiungono i processi per le vertenze Alcar Uno, Emilceramica, Bellentani, Gls, eccetera). Dl Sicurezza/1. E allora cosa c’era nei decreti Sicurezza di Salvini che non è stato toccato? Intanto la reintroduzione nel 2018 del reato di blocco stradale su strada ordinaria (da uno a sei anni), che era stato depenalizzato negli anni Novanta: per questo vanno a processo i pastori sardi. Per di più il leghista s’inventò di sana pianta le multe per il blocco stradale realizzato “con il proprio corpo” (è il caso di Prato). Di fatto, può diventare reato improvvisare un picchetto fuori da una fabbrica. Sempre nel primo decreto Sicurezza c’erano anche un aumento delle pene per l’occupazione di edifici e terreni, a non dire - alla voce “decoro” - la resurrezione del reato di “esercizio molesto di accattonaggio” depenalizzato nel 1999 dopo una parziale dichiarazione di incostituzionalità. Dl Sicurezza/2. Nel decreto Sicurezza bis (estate 2019) la componente anti-sindacale è persino più estesa. Quel testo, ad esempio, ha trasformato una serie di comportamenti finora puniti con contravvenzione in “delitti”: rischia fino a 12 mesi di galera il promotore di un corteo in cui qualcuno compia i reati di devastazione e danneggiamento e la stessa condanna pende sul capo di chi partecipa a un corteo non autorizzato. Di più, si arriva al paradosso che diventa “delitto” usare caschi o altri mezzi per non farsi riconoscere, ma solo durante una manifestazione: se succede altrove resta contravvenzione. Tra le altre cose, il decreto Sicurezza bis ha creato pure un nuovo reato: il lancio di “cose, razzi, bengala, fuochi artificiali, petardi, strumenti per l’emissione di fumo (...) ovvero bastoni, mazze, oggetti contundenti o, comunque, atti a offendere” (cioè tutto quel che si può lanciare) è oggi punibile anche con due anni di carcere. Il dl giallorosa. Tra i provvedimenti del genere “viva la repressione” ce n’è solo uno modificato dal Conte 2. Un articolo del decreto Sicurezza bis (peraltro peggiorato in Parlamento) esclude a priori - dio solo sa perché - il fatto che i reati di violenza, minaccia o oltraggio a “un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni” possano essere “non punibili per la lieve entità del fatto” come moltissimi altri reati, furto compreso. Di questa previsione, che era al vaglio della Consulta, si lamentò Sergio Mattarella al momento della promulgazione. Ebbene da ora la tenuità del fatto resta comunque esclusa a priori, ma solo in caso quei reati siano rivolti a “un ufficiale o agente di pubblica sicurezza” o a “un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni”. Insomma, dire “cretino” a un carabiniere o a un poliziotto in servizio (e a “un magistrato in udienza”, categoria negletta nella prima formulazione) sarà sempre reato, mentre restano senza questa fondamentale tutela i controllori delle FS, i vigili urbani e altri occasionali pubblici ufficiali assortiti, tra cui ci piace citare i parlamentari. Immigrazione, si volta pagina grazie a chi non si è mai arreso di Nicola Fratoianni, Matteo Orfini Il Manifesto, 8 ottobre 2020 Decreti sicurezza. Modifiche decisamente oltre le sacrosante indicazioni del Quirinale. Restano aperte molte questioni, a cominciare dal superamento della Bossi Fini e dallo Jus Soli. Finalmente il governo è intervenuto sui Decreti Sicurezza di Salvini. Al netto delle cose che ancora non ci piacciono, consideriamo questo primo passo un risultato importante, frutto della lotta dei molti che non si sono arresi e che, anche controcorrente, hanno continuato a battersi per un Paese più giusto e umano. Come abbiamo detto molte volte, le politiche migratorie nel nostro Paese soffrono da anni una impostazione sbagliata, tutta concentrata sulla gestione di un’emergenza che non può più essere seriamente definita tale. Sia perché l’invasione più volte denunciata dalle destre non esiste nei numeri, sia perché l’immigrazione è e sarà un fenomeno e globale di natura strutturale. Da questo punto di vista, c’è il doppio effetto tra la Bossi Fini e i decreti di Salvini. Tanto la Bossi Fini che di fatto ha cancellato ogni strumento di ingresso “legale” nel paese quanto i pessimi decreti sicurezza hanno prodotto un peggioramento significativo nel sistema di accoglienza e di protezione, alimentando l’irrazionalità di un sistema nel quale hanno prospettato corruzione, discrezionalità nelle scelte, e procedure d’eccezione. A pagarne le conseguenze sono state decine di migliaia di persone migranti, ma anche di cittadine e cittadini italiani sulle cui comunità si sono scaricati gli effetti di questa gestione disastrosa. Quanto al capitolo della ricerca e del soccorso in mare, i decreti Salvini sono intervenuti in modo assai peggiorativo in un contesto segnato negativamente dalle scelte degli ultimi governi. L’attacco alle Ong, combinato con l’abdicazione da parte dell’Italia e dell’Europa rispetto ai propri doveri di ricerca e soccorso, si è così dispiegato in pieno. Nello stesso tempo, l’implementazione della collaborazione con la Libia, e con la sua cosiddetta Guardia Costiera, ha fatto il resto. È in questo quadro dunque, e nella più generale valutazione dei rapporti di forza, che va letto il risultato ottenuto nell’ultimo consiglio dei ministri. Andiamo dunque per ordine: 1) Viene ripristinata la protezione umanitaria (anche se non si chiamerà così) nella stessa estensione del previgente articolo 5 comma 6 del TU, ovvero nel rispetto degli obblighi internazionali e costituzionali. Una vera terza forma di protezione riconosciuta come status di diritto soggettivo, non una concessione (come nella impostazione salviniana). 2) Non solo: la protezione speciale viene riconosciuta a chi ha un buon livello di integrazione sociale in Italia e la violazione del diritto alla vita privata e famigliare viene addirittura inserita nelle clausole di inespellibilità. Un avanzamento che non c’era mai stato. 3) Sulle operazioni di soccorso in mare, è ben vero che la formulazione trovata è frutto di compromessi ma non ci potrà essere nessuna interdizione all’ingresso e al transito nelle acque territoriali delle operazioni di soccorso in mare “comunicate” (non autorizzate) dall’organo di coordinamento dei soccorsi, il quale dovrà agire nel rispetto del diritto internazionale del mare e dello statuto dei rifugiati. Viene drasticamente ridimensionato l’ambito discrezionale della politica in questo campo (no a porti chiusi o aperti a piacimento del politico di turno) 4) La convertibilità dei permessi di soggiorno per protezione speciale, come per calamità o assistenza al minore, permette alle persone che si trovano in condizioni di soggiorno particolari di poter confluire nel più ampio canale delle migrazioni ordinarie. È la stessa logica del punto 2 ovvero si riconoscono e valorizzano i “percorsi di vita” delle persone” 5) Si chiude la pagina della concentrazione dei richiedenti asilo nelle caserme e simili e ritorna lo Sprar (oggi Sai) come unico sistema di accoglienza diffusa per richiedenti e rifugiati. Qui va detto che il testo è un po’ carente perché ripristina una situazione ex-ante (ottobre 2018), ma non si sa come concretamente si assorbiranno i Cas (Centri di Accoglienza Straordinari). Su questo punto è evidente il carattere incompleto della riforma che va considerata come un primo passo da sviluppare. 6) Sulla riduzione dei tempi di trattenimento nel Cpr c’è un passo avanti ma purtroppo l’impianto radicalmente sbagliato della normativa sulla detenzione amministrativa (sia i presupposti che le modalità del trattenimento e i diritti dei trattenuti) non viene in alcun modo modificato. Si tratta di una questione su cui occorre continuare a battersi. 7) Ugualmente rimangono in piedi “procedure di frontiera” e procedure accelerate con scarse garanzie e rischio di loro indebita ed estesa applicazione. Su questo campo bisognerà mettere ancora mano a una riforma effettiva. Come si vede, le modifiche sono andate decisamente oltre le pur sacrosante indicazioni del Quirinale. Nello stesso tempo, è chiaro che restano aperte molte questioni, a cominciare dal superamento della Bossi Fini e dallo Jus Soli. Noi, continueremo a batterci in questa direzione. Zanotelli: “Chi salva vite non può essere multato. Il razzismo di Stato resta nei decreti” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 8 ottobre 2020 Qualche passo avanti, ma le Ong sono deluse per la mancata abolizione delle penali per chi soccorre i naufraghi: l’impianto di Salvini è rimasto. Soddisfatti, un po’, ma molto lontani dal sentirsi appagati. Quei “decreti Salvini”, il mondo solidale avrebbe voluto che fossero abrogati e non semplicemente “riformulati”. A dar conto di questo sentire comune è un delle “icone” del movimento pacifista: padre Alex Zanotelli. “Un piccolo passo in avanti ma è davvero troppo poco contro i decreti Salvini, un distillato di razzismo di Stato”, afferma all’Adnkronos il missionario. “Sono grato per questo piccolo passo in avanti e in discontinuità ma è ancora troppo poco - spiega padre Zanotelli - Siamo ancora lontani da una politica migratoria verso queste persone che non sono migranti, ma profughi e rifugiati che fuggono da guerre, violenze di ogni genere, hanno diritto all’accoglienza”. “Basterebbe leggere l’enciclica del Papa Fratelli tutti per capire quanto siamo lontani. Salvare vite umane è quello che dovrebbe fare lo Stato e che non fa. È grave che rimanga dentro questa roba, non è tollerabile, bisogna urlarlo con forza”, aggiunge Zanotelli. “Il problema grave è che non è possibile continuare a trattenere le navi delle Ong nei porti per futili ragioni. Anche in questo periodo, tra ci il 14 e il 24 settembre, sono morte 200 persone in mare. C’è ancora una politica che non può essere accettata bisogna dirlo con chiarezza. Ancora più grave poi continuare a finanziare la Guardia costiera libica”. “In termini generali, sebbene con tanto ritardo, apprezziamo che si sia proceduto alla revisione di norme che in molti casi erano state smentite stessa magistratura, come nel caso del divieto di iscrizione anagrafica, e che si siano voluti superare i rilievi minimi espressi a suo tempo dal presidente della Repubblica”, dice Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty International Italia, ma, aggiunge “desta molta preoccupazione la riformulazione della norma relativa alle sanzioni. Contestiamo l’idea che si debba rispettare il requisito della non violazione del codice della navigazione per non incorrere in multe e carcere. Salvare vite umane non dovrebbe essere considerato reato in alcuna circostanza”. Sulla linea di padre Zanotelli è Giorgia Linardi, la portavoce di Sea Watch, che a Huffpost dice: “Perché introdurre multe per un illecito mai verificatosi?”. Per la portavoce di Sea Watch “il nuovo decreto non doveva essere pensato sulla base dell’impianto salviniano, noi infatti avevamo chiesto al governo di partire da basi del tutto diverse. Con Salvini erano stati fatti due passi indietro, ora è stato fatto un passo in avanti, di fatto però si rimane un passo indietro rispetto alla situazione di partenza di due governi fa, che comunque non era ottimale”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Mediterranea Saving Humans APS, secondo cui con il nuovo decreto “si è optato per una modifica, e non per l’abolizione che avrebbe reso più giustizia sulla valutazione sull’obbrobrio culturale e giuridico, che erano quei decreti”. Per concludere che: “È l’impianto politico culturale nel suo complesso che andrebbe radicalmente cambiato, a partire dallo sblocco delle navi della società civile che rimangono in porto mentre la gente continua a morire in mare”. Per Action Aid sono ancora diversi gli aspetti fortemente critici che restano del vecchio impianto dei decreti sicurezza: “Le multe alle Ong, la criminalizzazione del soccorso in mare e l’iter che scatta al momento dell’ingresso delle persone straniere”. Per Emergency, che pure rimarca gli aspetti positivi dei decreti modificati, “rimane però ancora sospeso un punto cruciale: il testo non affronta la questione dei rimpatri verso i cosiddetti “Paesi di origine sicuri”, una lista di 13 Paesi stilata dal ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, che include zone in cui è dimostrato che persistano persecuzioni nei confronti delle donne, delle minoranze sessuali, etniche, religiose e politiche, nonché violenze legate al fenomeno della tratta. Nonostante questa riforma rappresenti un passo in una direzione di maggior rispetto dei diritti umani - sottolinea Emergency - siamo ancora lontani da una riforma organica volta a gestire le migrazioni come un fenomeno strutturale e non più emergenziale o di ordine pubblico, istituendo canali legali e sicuri per l’ingresso nel nostro Paese. Serve costruire un nuovo modello, che rompa sia con la logica della legge Bossi-Fini e dei decreti Salvini, sia con l’impostazione securitaria delle politiche dell’Unione Europea, stabilendo norme per ingressi regolari e corridoi umanitari per garantire un’alternativa sicura ai viaggi organizzati dai trafficanti di essere umani”. Se i giovani arabi vogliono fuggire di Danilo Taino Corriere della Sera, 8 ottobre 2020 Quest’anno, il 42% dei giovani arabi ha preso in considerazione l’idea di emigrare dal proprio Paese, di andarsene perché non vede prospettive. Un sondaggio condotto in 17 Nazioni di Medio Oriente e Nord Africa tra quattromila ragazze e ragazzi tra i 18 e i 24 anni rivela questa realtà allarmante. Quando si dice votare con i piedi: durante quest’anno, il 42% dei giovani arabi ha preso in considerazione l’idea di emigrare dal proprio Paese, di andarsene perché non vede prospettive. Un sondaggio condotto in 17 Nazioni di Medio Oriente e Nord Africa tra quattromila ragazze e ragazzi tra i 18 e i 24 anni rivela questa realtà allarmante. Realizzato da Asdaa-Bcw, una delle maggiori agenzie di comunicazione della regione, il survey si compone di una parte di base, condotta tra il 19 gennaio e il 3 marzo scorsi, cioè prima dell’inizio della pandemia, e un supplemento - Covid-19 Pulse - tra il 18 e il 26 agosto. Nel dettaglio, il 15% dei giovani intervistati ha “attivamente” cercato di emigrare e un 27% ha “considerato” di farlo. Un altro 25% ha risposto di poterci pensare in futuro e solo il 32% dice “Non lascerei mai il mio Paese”. Diviso per regione: ha provato o considerato di emigrare il 13% dei giovani del Paesi del Golfo Persico, il 47% di quelli del Nordafrica, il 63% di quelli del Levante (Giordania, Iraq, Libano, Territori Palestinesi, Siria, Yemen). È molto più di un disagio. Le proteste popolari del 2019 in Algeria, Libano, Iraq e Sudan raccolgono un sostegno tra i giovani arabi ben superiore all’80%. Il 77% ritiene che nel proprio governo ci sia corruzione (per il 44%, “diffusa”). L’87% degli intervistati (metà ragazze, metà ragazzi) si dice preoccupato dalle prospettive dell’occupazione e il 51% non ha fiducia nella capacità del proprio governo di combattere la disoccupazione: la pandemia ha peggiorato la situazione del mercato del lavoro, è l’opinione diffusa. Tanto che il 35% dei giovani dice di avere al momento, 2020, debiti personali, un salto notevole dal 21% del 2019. Interessante che il 64% delle donne dica di godere nel proprio Paese degli stessi diritti degli uomini, che il 25% sostenga di averne di più e solo l’11% consideri di averne meno. Su un piano più politico, il Paese che attrae maggiormente come luogo di emigrazione sono gli Emirati Arabi Uniti, graditi dal 46%, seguiti dagli Stati Uniti al 33%, dal Canada e dal Regno Unito al 27%. La potenza araba emergente nella regione è individuata dal 39% nell’Arabia Saudita e dal 34% negli Emirati. Tra i Paesi non arabi il 46% vede emergere gli Stati Uniti, il 20% la Turchia, il 16% la Russia, il 14% l’Iran. Gran tensione attorno al Mediterraneo. Colombia. Mario Paciolla, abitante del nostro oblio di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 8 ottobre 2020 Intervista a Manuel Rozental, attivista di Pueblos en Camino, sul clima da guerra civile in Colombia. In 4 anni assassinati mille attivisti, compreso Paciolla: “Ucciso perché era come noi”. Nelle ultime settimane un nuovo picco di violenza si è abbattuto contro la popolazione colombiana che dall’inizio della crisi sanitaria cerca di resistere all’emergenza del Covid-19 e alla repressione che colpisce i leader sociali e i giovani che si ribellano alla corruzione del governo. Omicidi selettivi, massacri e spari sui manifestanti stanno generando un clima da guerra civile che rappresenta solo l’ultima ondata di violenza che, dalla firma degli Accordi di Pace del 2016 ad oggi, ha ucciso più di mille attivisti ed attiviste sociali. Tra i territori più colpiti c’è la regione del Cauca dove si è sviluppata una delle resistenze indigene più importanti del paese e un modello di governo autonomo e alternativo alla violenza dello Stato e dei gruppi armati. Abbiamo intervistato Manuel Rozental, attivista dell’organizzazione Pueblos en Camino, che proprio dai territori del Cauca tesse alleanze con altre lotte comunitarie e in difesa della terra del Paese e del continente. Come si interpreta questa nuova ondata di violenza e in che modo si vincola con gli scandali giudiziari che stanno travolgendo l’establishment politico colombiano? L’ex-presidente Uribe Vélez è la personificazione di un sistema di potere che si sostiene grazie all’appropriazione dei terreni per produrre cocaina e che con la scusa della guerra alle Farc ha creato organizzazioni paramilitari che sono diventate gigantesche strutture del traffico di droga. Grazie al controllo sui partiti politici e sulle elezioni questo modello può assicurarsi sia il potere legale che quello illegale per generare ingenti profitti e transazioni economiche verso il Nord. Tutto questo viene messo a rischio ora, nel momento in cui Uribe Vélez potrebbe essere finalmente processato e l’intera struttura che lo sostiene inizia a sentirsi minacciata. Come conseguenza ricominciano ancora una volta gli omicidi selettivi e i massacri. Se si cerca di comprendere le stragi che stanno avvenendo in diverse parti del territorio provando a identificarne gli artefici si rischia di cadere nella trappola dell’establishment che spinge a focalizzarsi sugli esecutori materiali. Quando invece ci si domanda chi sono coloro che beneficiano di quest’ondata di violenza diventa perfettamente chiaro che uccidere giovani e commettere massacri ogni giorno sia un meccanismo per generare terrore nella popolazione e legittimare l’uso della forza pubblica. Nessuno ha le informazioni e la capacità di agire in questa maniera se non le autorità statali legate ai militari, ai paramilitari e ai narcotrafficanti che vogliono controllare i territori. Siamo di fronte a una strategia mafiosa e fascista volta a soggiogare l’intero territorio nazionale con la forza del terrore, in particolare nelle regioni dove ci sono maggiori risorse naturali e dove sta crescendo la resistenza dei processi di autonomia territoriale. Quale ruolo giocano le Farc in questa nuova fase del conflitto? Quando le Farc hanno firmato gli Accordi di Pace pensavano di poter diventare immediatamente un partito politico con una forza elettorale di massa, ma il popolo non gli ha mostrato sostegno e anche in termini elettorali non hanno ottenuto un risultato significativo. In altre parole, il sostegno politico di cui godono le Farc è molto debole e, in questa situazione di tremenda vulnerabilità, sono state attaccate violentemente. Da un lato vi è il mancato rispetto degli Accordi di Pace e dall’altro gli ex-combattenti vengono chiamati banditi e assassini nonostante abbiano avuto il coraggio di riconoscere i crimini di guerra commessi durante il conflitto. Lo Stato invece, e chi detiene il potere economico in Colombia, non ha riconosciuto nessuno dei suoi crimini. Si è quindi alimentata una strategia di persecuzione e isolamento ai danni delle Farc che si è sommata al problema delle lotte interne all’organizzazione. Di conseguenza il partito delle Farc ha subito un processo di indebolimento e isolamento impressionante che ha portato coloro che hanno guidato il processo di pace, come per esempio Iván Márquez, a riprendere le armi ingrossando le fila delle dissidenze armate. Esistono inoltre un certo numero di fazioni che nel nome delle Farc hanno intessuto legami con il narcotraffico e cercano di sottomettere con l’uso della forza e delle armi la popolazione civile, i movimenti sociali e le autonomie pur non avendo nessuna legittimità politica. A ciò si aggiungono diverse azioni terroristiche e di guerra che vengono attribuite ai dissidenti delle Farc ma esiste il sospetto che in realtà siano compiute dai paramilitari o dall’esercito dato che sono loro coloro che ne beneficiano. Ci troviamo quindi in una situazione di guerra tra diversi attori e le Farc, che in questo momento non possono contare con una forza politica importante soprattutto perché gli Accordi di Pace non sono stati rispettati e continuano a essere violati. Personalmente credo che non siano stati rispettati proprio per alimentare questo scenario di guerra permanente tra i gruppi insurrezionali, tra le altre fazioni armate e tra i narcotrafficanti, e di conseguenza per legittimare il modello mafioso e fascista di occupazione del territorio e di guerra totale. Qual è il ruolo delle Organizzazioni non governative e delle Nazioni unite in questo contesto? C’è una grande varietà di organizzazioni non governative in Colombia e anche se gran parte delle Ong hanno buone intenzioni, si tratta di un settore istituzionale parastatale che finisce per smantellare i processi di resistenza e autonomia in cambio di risorse e progetti in aree specifiche. In alcuni casi denunciano violazioni dei diritti umani in determinati territori ma in generale non sono in grado di fare un’analisi e promuovere una strategia che consenta e incoraggi l’organizzazione e l’autonomia delle popolazioni. Ci sono eccezioni a questa regola, ma questa è in linea di massima la norma. Le Ong ti assumono per il tuo impegno nelle lotte sociali ma quando sei dentro ti scontri con i limiti legati alle risorse economiche e l’orientamento politico di chi le finanzia e ti dirà che lavorerai solo in questo settore, solo con queste persone e solo con questo preciso obiettivo. Queste limitazioni si scontrano con le logiche territoriali regionali delle popolazioni e dei loro processi e finiscono per creare divisioni. Le Nazioni Unite sono entrate come organizzazione multilaterale dopo la firma degli Accordi di Pace e hanno una presenza gigantesca per quanto riguarda l’osservazione del processo di pace e la smobilitazione e il reintegro degli ex-combattenti. Come dimostrato dall’inchiesta sul caso Mario Paciolla però, all’interno delle Nazioni Unite e di tutto il processo di osservazione, ci sono una serie di questioni che limitano l’autonomia dell’Onu nell’adempiere alla sua missione di difendere il processo di pace. Ad esempio Claudia Juieta Duque ha rivelato che una persona che ricopriva un’alta carica dell’intelligence militare stava ricevendo tutti i rapporti interni secretati che le Nazioni Unite producono sul processo di smobilitazione. Ci sono quindi una serie di cose che non sono note e che frustrano molte brave persone che lavorano all’interno delle Nazioni Unite e che non possono essere rese pubbliche perché se le Nazioni Unite abbandonassero questo processo gli ex-combattenti smobilitati rimarrebbero senza nessun tipo di protezione. Come si inserisce il caso di Mario Paciolla in questo contesto? Molte persone credono che il caso di Mario Paciolla sia importante solo perché Mario era uno straniero, mentre non viene prestata altrettanta attenzione ai colombiani che vengono uccisi quotidianamente. Ma questo è ingiusto oltre che sbagliato. Mario Paciolla rappresenta come pochi tutte quelle persone meravigliose con cui sentiamo un certo tipo di connessione che viene dal cuore e dalla vita stessa, quel tipo di persone che non credono nella nazionalità italiana, colombiana, francese, ecuadoriana o qualunque essa sia, ma credono che la vita debba essere costruita prendendoci cura gli uni degli altri, riconoscendoci, essendo critici e autocritici e costruendo alternative concrete di fronte a ciò che sta accadendo. Attraverso il suo sentire e il suo cuore Mario, il poeta, non ha mai voluto apparire o sostituirsi alle persone con cui lavorava, anzi, Mario voleva imparare, ascoltare e partecipare, e lo ha fatto. L’omicidio di Mario ci dimostra cosa si nasconde dietro la perversità degli omicidi di leader sociali e nelle stragi di giovani. Mario non era uno straniero che ci è venuto ad aiutare, Mario è stato un compagno che si è innamorato delle persone che lottano per l’autonomia, che credono in questo territorio e che sono state costrette ad abitare nell’oblio. Mario è un abitante dell’oblio, è andato a vivere in quell’oblio pieno di memorie ed è proprio per averlo vissuto e averci creduto fino in fondo che lo hanno perseguitato, lo hanno emarginato e lo hanno ucciso. Mario è la nostra poesia, Mario è la nostra parola e Mario non è qualcuno che viene da fuori. Non è uno qualsiasi che è stato ucciso, Mario è uno di noi, uno che fa parte di quel mondo che verrà dove le barriere che ci allontanano scompariranno. Questa morte fa molto male e fa male perché lo Stato normalmente non osa toccare persone straniere, ma Mario aveva smesso di essere straniero, era diventato territorio, era diventato autonomia, era diventato pace. Per questo lo hanno ucciso, perché questo è quello che stanno uccidendo in Colombia. Stati Uniti. Esce su cauzione il poliziotto che causò la morte di George Floyd Il Giornale, 8 ottobre 2020 È Derek Chauvin, il poliziotto incriminato per la morte di George Floyd, un omicidio che per settimane ha scatenato proteste in tutti gli Stati Uniti e anche all’estero, ha ottenuto la libertà su cauzione dietro il pagamento di un milione di dollari. L’agente era detenuto in isolamento nel carcere di massima sicurezza di Oak Park Heights, Minnesota, in attesa del processo. Ed è l’uomo che ha scatenato il movimento di protesta “Black Lives Matter”, che chiede maggiore tutela per i diritti degli afroamericani negli Usa. Con una mossa simbolica ieri Amnesty International ha consegnato oltre un milione di firme da tutto il mondo al ministro della Giustizia degli Stati Uniti, William Barr chiedendo giustizia per Floyd: “Il governo degli Stati Uniti sembra più attaccato allo status quo, caratterizzato da pratiche di polizia razziste e mancanza di responsabilità, che non ad ascoltare l’appello globale per la giustizia e la fine della violenza della polizia razzista”, ha dichiarato Julie Verhaar, segretaria generale ad interim di Amnesty International. “Floyd è stato ucciso nel corso di un arresto, mentre era disarmato e ammanettato, quando un poliziotto gli ha premuto un ginocchio sul collo per otto minuti”. Intanto emerge che andranno a processo i coniugi Mc Closkey, la coppia scesa in strada armata a difesa della propria casa a St. Louis, mentre i manifestanti antirazzismo marciavano nella loro strada privata. L’immagine aveva fatto il giro del mondo e i due erano diventati i nuovi idoli dei conservatori e l’icona del diritto americano a portare le armi. Adesso, a tre mesi e mezzo di distanza da quel 28 giugno, è arrivata l’incriminazione. Mark e Patricia Mc Closkey, lui 63 anni, lei 61, verranno processati per uso illegittimo di armi da fuoco: lui imbracciava un fucile d’assalto, lei una pistola, a difesa della loro proprietà, temendo che i manifestanti di Black Lives Matter, scesi in strada per protestare dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, potessero devastare la loro casa. Le indagini hanno accertato che la manifestazione era pacifica e che i Mc Closkey non erano in pericolo. Il caso ha un valore nazionale perché affronterà il tema dei limiti sull’uso di armi, in un Paese in cui è possibile acquistare un Ak-47 al supermercato. Il governatore dello stato del Missouri, il repubblicano Mike Parson, ha già annunciato che, nel caso i Mc Closkey venissero condannati, lui concederà subito la grazia. Egitto. Zaki in carcere altri 45 giorni. “L’Italia agisca” Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2020 Il Cairo affibbia altri 45 giorni di detenzione a Patrick Zaki, il ragazzo egiziano che studia a Bologna, in prigione da 8 mesi. L’ennesima presa in giro di al Sisi. Resterà in carcere altri 45 giorni Patrick Zaki. A decidere di prolungare ancora la custodia cautelare dello studente egiziano dell’Università di Bologna fermato al Cairo a febbraio è stata una “Corte d’Assise riunitasi presso la Facoltà di sottufficiali a Tora”, secondo quanto riferito dal suo avvocato, Hoda Nasrallah. Zaki, accusato di propaganda sovversiva su Facebook e istigazione alla violenza, è in attesa di una decisione che viene continuamente rimandata. L’ultima volta era il 27 settembre, due settimane fa, quando il legale del giovane aveva riferito che il Tribunale del Cairo aveva ulteriormente posticipato la sentenza. “Occorre veramente un impegno serio da parte del governo italiano, che riesca a far uscire Patrick da questo incubo, perché è inimmaginabile che possa andare avanti a oltranza questo meccanismo di rinvio della scarcerazione per chissà quali presunti supplementi di indagine, basati sul nulla”, è l’appello all’esecutivo di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Non possono rimanere solo Amnesty, gli studenti, gli amici di Patrick, l’Università di Bologna e gli enti locali a portare avanti questa campagna”, ha detto Noury per cui l’ennesima mancata scarcerazione “è una notizia pessima”. Per Amnesty a questo punto “la cosa urgente è, con le piazze di Milano, Roma e Torino, di far sapere a Patrick che non è solo e che c’è una solidarietà fortissima intorno a lui”. Il timore, infatti, è per lo stato non solo fisico, ma anche mentale del giovane studente egiziano recluso da più di sette mesi. La famiglia, che ha potuto incontrarlo solo a fine agosto, l’ha trovato dimagrito e molto preoccupato. Al ragazzo non sarebbero mai state consegnate neanche le lettere della famiglia, mentre di quelle scritte da lui alla madre ne sarebbero arrivate solo due. “Il governo chieda il rispetto dei diritti umani come condizione delle relazioni bilaterali con l’Egitto”, ha esortato il sindaco di Bologna, Virginio Merola. “Non rassegniamoci”.