Decreto sicurezza: nuovo reato in carcere e più poteri al Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 ottobre 2020 Introdurre i telefonini in carcere diventa reato, c’è l’aggravante per quanto riguarda il 41bis e nello stesso tempo si valorizza la figura del Garante nazionale delle persone private della libertà dandogli potere di delega. Inoltre l’attuale collegio presieduto da Mauro Palma viene prorogato per un periodo di due anni oltre la scadenza naturale. Parliamo delle misure introdotte nel nuovo decreto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri. Aggravante per gli avvocati e agenti se introducono il cellulare - Prima, introdurre i cellulari, era un illecito disciplinare sanzionato all’interno del carcere. Da oggi invece diventa reato attraverso l’introduzione nel codice penale dell’articolo 391ter, ovvero “l’accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti”. Nel decreto approvato, infatti, si legge che “chiunque indebitamente procura a un detenuto un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni o comunque consente a costui l’uso indebito dei predetti strumenti o introduce in un istituto penitenziario uno dei predetti strumenti al fine renderlo disponibile a una persona detenuta è punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni”. Inoltre, si legge sempre nel nuovo articolo introdotto dal decreto, “si applica la pena della reclusione da due a cinque anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense”. Quindi se ad introdurre il cellulare è un agente o un avvocato, la pena può arrivare anche fino a cinque anni di carcere. Inoltre, salvo che il fatto costituisca più grave reato, “la pena prevista dal primo comma si applica anche al detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni”. In sostanza, il decreto sicurezza interviene aggiungendo un’ipotesi di reato nel codice penale, articolando due distinte ipotesi di reato, oltre che descrivendo un’aggravante. 41bis, sanzioni più elevate per la norma introdotta dal Governo Berlusconi - Il decreto sicurezza introduce anche un’aggravante per quanto riguarda il 41bis. Interviene sulla disposizione introdotta dal governo Berlusconi nel 2009 allo scopo di sanzionare chiunque agevoli il detenuto sottoposto al carcere duro nelle comunicazioni con l’esterno, completandone il perimetro ed elevando il regime sanzionatorio. In sostanza si modifica l’articolo 391bis del codice penale, quello che riguarda il regime sanzionatorio alzando la pena base, ora fissata nel range “da uno a quattro anni” per collocarla nella misura più elevata “da due a sei anni”. Per quanto riguarda la pena aggravata prevista per il caso in cui il fatto sia compiuto da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio oppure da un soggetto che esercita la professione forense, si passa dai “due a cinque anni” ai “tre a sette anni”. In più si è estesa la punibilità anche al detenuto che, sottoposto alle restrizioni del 41bis, comunica con altri eludendo le prescrizioni imposte. Da ricordare che per un buongiorno e una buonanotte, dei reclusi al 41bis hanno subito dei provvedimenti disciplinari, nonostante che poi - grazie al ricorso - sia stato riconosciuti dalla cassazione come un diritto che non esula le esigenze di sicurezza del 41bis. Ora potrebbe diventare tutto più complicato nel momento in cui diventa una questione da codice penale. Valorizzazione e proroga mandato dell’attuale garante nazionale - Il decreto sicurezza approvato contempla anche un intervento normativo che apporta alcune modifiche alla disciplina sul Garante nazionale delle persone private della libertà personale, al fine di rendere più efficace l’esercizio del mandato assegnato dalla legge e di ridefinire sul piano normativo primario il ruolo di meccanismo nazionale di prevenzione della tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti in coerenza con l’obbligo previsto dalla legge 9 novembre 2012 n. 195 di ratifica ed esecuzione del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti, fatto a New York il 18 dicembre 2002. Visto il particolare momento di crisi emergenziale e nell’ottica di potenziare le funzioni di coordinamento delle azioni in tema di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, si consente espressamente al Garante nazionale di delegare i garanti territoriali, in specifiche circostanze e per un tempo limitato (sei mesi), per lo svolgimento dei compiti assegnati dalla legge. In sostanza la novità consiste nel dare al Garante Nazionale il potere di delega. Un passaggio importante, perché in questa maniera il monitoraggio nei luoghi dove le persone sono private della libertà (non solo carcere) può avvenire in maniera capillare. Inoltre, l’emergenza della pandemia da Covid-19 e le note conseguenze sul piano della libera circolazione delle persone sul territorio nazionale, oltre che di quello del mantenimento dell’ordinaria attività lavorativa, non ha determinato la sospensione dell’attività del Garante nazionale che ha mantenuto inalterate le sue funzioni di vigilanza nella situazione eccezionale data ed ha acquisito ulteriori competenze operative. Per questo motivo il decreto sicurezza valorizza le sue funzioni in un arco temporale più lungo garantito da un tempo contenuto di proroga. In sostanza si è deciso di prorogare il mandato del collegio presieduto da Mauro Palma per ulteriori due anni, oltre la scadenza naturale del mandato. In sintesi si interviene ad integrare la disciplina contenuta nell’articolo 7 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 con quattro punti: rimodula la denominazione del Garante nazionale per renderla coerente alla pluralità dei compiti svolti; ridefinisce sul piano normativo primario il ruolo di meccanismo nazionale di prevenzione ai sensi dell’articolo 3 del Protocollo opzionale alla Convenzione contro tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottato il 18 dicembre 2002; consente espressamente al Garante nazionale di delegare i garanti territoriali, in specifiche circostanze e per un tempo limitato, per lo svolgimento dei compiti assegnati dalla legge allo stesso Garante nazionale e proroga di due anni il mandato del collegio attualmente in carica. Nel 2020 scoperti 1.761 cellulari in carcere. E Bonafede inventa un reato che non c’era di Liana Milella La Repubblica, 7 ottobre 2020 Da uno a quattro anni la pena. Finora era solo un illecito disciplinare. Incredibili storie per introdurre telefonini e carica batterie in cella. Uno “sfizio” di Bonafede, il “manettaro” Alfonso Bonafede come lo considerano i suoi nemici, oppure una non più rinviabile necessità? Parliamo del nuovo reato - l’ha creato lunedì notte il Consiglio dei ministri su proposta del Guardasigilli di M5S - per punire chi introduce un cellulare in carcere e anche per chi lo possiede. Pena salata, da uno a quattro anni. Prima non esisteva nulla, né il reato, né, quindi, la pena. C’era soltanto un illecito disciplinare sanzionato all’interno delle prigioni. Eppure non si tratta affatto di uno “sfizio”. Per scoprirlo basta leggere un articolo appena pubblicato su Gnewsonline, la rivista di via Arenula, a firma di Fiorenza Elisabetta Aini. Che non solo fornisce un dato numericamente incredibile, ma soprattutto racconta dettagli che fanno comprendere bene quanto possa essere importante per un detenuto impossessarsi di un cellulare e poter quindi comunicare all’esterno. A leggere i singoli episodi pare davvero impensabile che, fino a oggi, ci si potesse limitare a contestare solo un illecito disciplinare. Perché, come dice il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, che plaude all’iniziativa di Bonafede, lo stesso carcere duro, il regime del 41bis, viene messo in crisi proprio dalla possibilità di comunicare con l’esterno. Basta, del resto, un dato per rendersene conto: nei primi nove mesi di quest’anno, nelle patrie galere, sono stati scoperti 1.761 cellulari, “confusi nel cibo, sistemati negli indumenti intimi, ingoiati, nascosti nel corpo, inseriti dentro un pallone per poi essere lanciati, trasportati da un drone, collocati nel fondo delle pentole” come riassume la Aini. Nel 2019 ne avevano trovati 1.204, e 394 l’anno prima. Segno evidente di un’esplosione che giustifica sicuramente un nuovo reato. Reato che è accompagnato da un’altra misura molto dura per chi sta al 41bis: chi agevola quel detenuto nelle comunicazioni con l’esterno, quindi non solo tramite i cellulari, vedrà la sua pena fissata da 2 a 6 anni, mentre oggi era da 1 a 4 anni. Se, poi, il reato è commesso da un pubblico ufficiale, o da un incaricato di pubblico servizio o da chi fa l’avvocato, la pena sarà da 3 a 7 anni, rispetto ai 2-5 anni di oggi. Ma torniamo agli incredibili episodi che documentano come vengono introdotti i cellulari in carcere inventando le più incredibili strade. La Aini su Gnewsonline documenta più di una dozzina di episodi che, se non ci fosse il carcere di mezzo, sarebbero un trionfo dell’inventiva italiana. Invece parliamo della possibilità, con un telefono in mano, anche di commissionare da dietro le sbarre un omicidio. O di tenere in piedi un’organizzazione mafiosa, di dirigerla, di organizzare traffici di droga. Ecco, di seguito, gli incredibili episodi, proprio come li racconta la collega Aini. Il 3 settembre un pallone con all’interno 16 telefonini è stato trovato all’esterno del muro perimetrale del carcere di Avellino. Il 25 settembre, a Roma-Rebibbia, gli agenti scoprono due micro-telefoni e un carica batteria nascosti dentro tre pezzi di formaggio. A giugno ecco quattro mini-cellulari celati dentro due salami scavati ad hoc per la bisogna. Scrive Gnews: “A Secondigliano, durante il lockdown, un drone si è schiantato contro uno dei muri del carcere mentre cercava di recapitare due piccoli involucri contenenti smart-phone, microcellulari, con batterie, sim card e kit completo di alimentazione”. Ma non basta perché “proprio ieri, sempre nel penitenziario campano, un drone è stato intercettato dagli agenti e dentro sono stati trovati dieci telefonini cellulari, otto carica batteria e dieci schede telefoniche”. E che dire di quanto è avvenuto nel carcere di Carinola dove dei detenuti ad agosto lanciavano pietre di calcestruzzo dentro al penitenziario, nelle quali erano chiusi in sacchetti di plastica 20 smart-phone? Sempre a Carinola, “un sacerdote che doveva celebrare la messa domenicale nell’istituto è stato trovato con 9 cellulari nascosti nelle buste di sigarette e tabacco che aveva intenzione di portare ai detenuti, con tanto di carica batteria e cavetti Usb”. E chiudiamo con una pentola, sì proprio una pentola, nel cui fondo ad Avellino erano nascosti 19 microcellulari, 4 smart-phone e 2 telefoni satellitari. Non mancano neppure quelli che Gnews chiama “sistemi tradizionali”, cellulari ingoiati, come l’8 maggio nel carcere di Pagliarelli a Palermo. O quattro telefoni nascosti nello stomaco come nel 2019. O giusto qualche giorno fa, in Sicilia, il detenuto che durante il trasferimento da un carcere a un altro cela nel retto “un microtelefono, tre microsim e un carica batterie”. Una rassegna incredibile che porta a una sola domanda: come è possibile che finora tutto questo sia stato punito solo con un illecito disciplinare all’interno del carcere? Della serie, non c’è mai fine alle anomalie della giustizia italiana. In piazza per i diritti di chi è stato in cella ingiustamente di Giulio Petrilli Il Riformista, 7 ottobre 2020 Dovrebbe essere scontato che un cittadino messo in carcere e poi assolto sia risarcito, ma in Italia non è così. Oggi alle 10 a Montecitorio sit-in per portare avanti una battaglia di democrazia. Abbiamo dato appuntamento oggi a Roma, alle ore 10 davanti Montecitorio, per il diritto al risarcimento dei cittadini che hanno subito una ingiusta detenzione. All’appello lanciato dal nostro Comitato hanno risposto in tanti e tante che saranno con noi, sia del mondo politico che culturale: dal portavoce nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni al deputato Gennaro Migliore, all’ex segretaria nazionale del Partito Radicale Rita Bernardini, al segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, a Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione Internazionale Enzo Tortora, alla redazione del Riformista, a Damiano Aliprandi, giornalista del Dubbio, a rappresentanti delle istituzioni locali, come il consigliere della Regione Abruzzo Americo Di Benedetto, ad altri autorevoli esponenti politici da sempre impegnati sul fronte del garantismo, come i già senatori Claudio Grassi e Russo Spena ed Eleonora Forenza, che ha seduto nei banchi dell’Europarlamento fino all’anno scorso. Raccogliamo come elemento di grande positività il fatto che diversi rappresentanti che siedono in Parlamento o che hanno occupato posizioni rilevanti sia nelle istituzioni che nella vita politica e civile si sentano investiti di questa battaglia di tutela democratica fondamentale. Dovrebbe essere scontato che chi viene arrestato e costretto alla reclusione ingiustamente, poi assolto, venga poi risarcito dei danni materiali e psicologici subiti, invece nel nostro Paese purtroppo non è così. Ogni anno in Italia sono circa 8.000 le persone che chiedono il risarcimento per ingiusta detenzione e a 6.000 di loro viene risposto no, adducendo motivazioni inaccettabili. Ovvero motivazioni che nulla hanno a che vedere con l’innocenza del richiedente, accertata da una sentenza del tribunale, ma da presunti errori commessi nella difesa che avrebbero tratto in inganno il Pm e il Gip. Insomma, nei fatti il giudice non ha responsabilità alcuna se sbaglia e priva un cittadino, anche per anni come spesso accade, della propria libertà ingiustamente. Un paese democratico non può convivere con questa orrenda stortura democratica, che invece è consentita dall’articolo 314 del codice di procedura penale, su cui chiediamo quindi un intervento di immediata modifica. La Commissione petizioni del Parlamento Europeo, che ovviamente oggi non può interferire in materia sulle vicende nazionali, ci ha dato ragione ed è a lavoro per una legge europea che sancisca il diritto al risarcimento per tutti gli assolti. Spero però che il Governo Conte mostri attenzione e ragionevolezza verso le questioni da noi sollevate ed intraprenda una iniziativa risolutiva a prescindere dalle indicazioni della Ue. Carceri, la Rete dei Garanti venerdì in assemblea a Napoli Ristretti Orizzonti, 7 ottobre 2020 Emergenza Covid-19: prevenzione, diritto alle relazioni familiari e didattica. Tra i temi trattati anche la funzione rieducativa della pena in contesti di criminalità organizzata. Venerdì 9 e sabato 10 ottobre, nella sede della Regione Campania (Centro direzionale isola C3) a Napoli, si svolgerà l’assemblea annuale della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. A presiedere l’assemblea sarà il Garante della Campania, Samuele Ciambriello, mentre sarà il Garante dei detenuti del Lazio e dell’Umbria, Stefano Anastasìa, a introdurre i lavori con la sua relazione in qualità di portavoce della Conferenza. Parteciperanno, tra gli altri, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralìa, la capo dipartimento Giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo. L’assemblea si concluderà con l’intervento del presidente dell’Autorità garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. è prevista la diretta streaming su Facebook nella pagina della Conferenza. Dopo i saluti istituzionali e la relazione introduttiva di Anastasìa, nel pomeriggio di venerdì si svolgeranno quattro sessioni di lavoro, con la partecipazione dei garanti territoriali e dei rappresentanti di associazioni, sindacati e dell’amministrazione penitenziaria. Due sessioni parallele toccheranno i temi legati all’emergenza Covid-19 nelle carceri: una sessione riguarderà le misure di prevenzione sanitaria e il diritto alle relazioni familiari, la seconda il lavoro, l’istruzione e l’offerta trattamentale. Altre due sessioni tematiche riguarderanno la funzione rieducativa della pena in contesti di criminalità organizzata e il reinserimento sociale e l’accoglienza delle persone private della libertà. La Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale (Il Garante del Lazio è stato istituito con legge regionale 31/2003). Il decreto-legge 146/2013 ha consentito ai detenuti e agli internati la facoltà di “rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa… ai Garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti” e ha istituito il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, al quale affida la responsabilità di “promuovere e favorire rapporti di collaborazione con i garanti territoriali, ovvero con altre figure istituzionali comunque denominate che hanno competenza nelle stesse materie”. Nel corso degli ultimi 15 anni, 17 regioni e province autonome, 9 province e aree metropolitane, 50 comuni hanno istituito garanti dei detenuti o delle persone private della libertà, ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza, con sede presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome e sede operativa presso il Garante dei detenuti del Lazio, rappresenta i garanti territoriali nei rapporti istituzionali con le autorità competenti e collabora con il Garante nazionale. Tra gli altri compiti previsti dal proprio regolamento, la Conferenza dei garanti ha i seguenti: elabora linee-guida per la regolamentazione, l’azione e l’organizzazione degli uffici dei garanti territoriali; monitora lo stato dell’arte della legislazione in materia di privazione della libertà; coordina la raccolta di informazioni relative alle forme e ai luoghi di privazione della libertà nei territori di competenza dei garanti territoriali; effettua studi e ricerche, organizza eventi di dibattito e confronto promuove occasioni di confronto e di formazione comune dei garanti territoriali e del personale addetto ai relativi uffici; esercita ogni forma di azione ritenuta opportuna per la risoluzione delle problematiche relative alla privazione della libertà; elabora documenti comuni ai fini dell’unitarietà dell’azione dei garanti territoriali, rimanendo ferma l’autonomia di azione e di espressione di ogni garante; sostiene e promuove l’istituzione di nuovi garanti a ogni livello. Daspo anti rissa, stretta al carcere duro del 41bis e altre “tolleranze zero” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 ottobre 2020 Le norme targate Bonafede nel Dl Sicurezza. Allontanamenti e pene più severe per i violenti. Diventa reato il telefono in cella. Ogni governo ne ha una: la “tolleranza zero” in salsa giallo-rossa riguarda le risse. Che naturalmente sono state scoperte con l’omicidio del povero Willy Duarte ucciso di botte a Colleferro il 5 settembre scorso da una banda di violenti. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che ne ha subito rivendicato la paternità su Facebook, ha perciò ottenuto che tra le norme del dl Sicurezza, approvato nel Cdm di lunedì notte, ci fosse un “Daspo anti-risse” per i violenti, come lo ha battezzato egli stesso, e l’inasprimento delle pene per chi partecipa ad una rissa. È quanto prevede uno degli ultimi articoli del testo, cofirmato da Conte e dalla ministra Lamorgese, che esulano dalla questione migranti e che invece, rispondendo a recenti sollecitazioni dell’opinione pubblica, introducono nuove fattispecie di reato. Nel tentativo di dare una stretta al regime di detenzione del 41bis, di arginare il fenomeno della vendita on line di stupefacenti, e di centrare maggiormente il reato di oltraggio a “pubblico ufficiale” sostituendo quest’ultimo termine con un meno generico “ufficiale o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria”. Rimarrà comunque punibile l’”oltraggio” ad un magistrato (art.343 cp). Per quanto riguarda la vendita di sostanze sul web, modificando il testo unico 309/90 il decreto estende la modalità di oscuramento utilizzato per i siti pedopornografici a quelli che, “utilizzati per la commissione di reati in materia di stupefacenti”. Spetta ai “fornitori di connettività alla rete internet” impedire l’accesso ai siti segnalati, pena una sanzione pecuniaria da 50 mila a 250 mila euro. Ci sono poi le norme per aumentare l’isolamento dei detenuti sottoposti al regime del 41bis e di Alta sicurezza (non solo mafiosi) configurando come nuovo reato l’introduzione o la detenzione in carcere di telefonini, con una pena da 1 a 4 anni sia per chi li introduce che per chi li detiene. “Nel regime precedente - spiega il 5S Nicola Morra, presidente della Commissione antimafia - il reato si configurava come un semplice illecito disciplinare sanzionato all’interno del carcere. Questa innovazione normativa penale finalmente pone un argine a prassi criminali che stavano fiaccando l’efficacia del 41bis e dell’Alta Sicurezza, in un contesto in cui anche culturalmente si sta cercando di screditare tali regimi, anche a livello europeo”. Morra si riferisce alle condanne della Corte europea dei diritti umani sul carcere duro italiano del luglio 2016 (Provenzano) e a quelle che potranno venire dopo la bocciatura dell’ergastolo ostativo. Ricorda però il ministro Bonafede, che “sono 1.761, i telefoni rinvenuti dalla polizia penitenziaria nelle carceri italiane fino al 30 settembre scorso. In pratica, 200 al mese, oltre 6 al giorno. Il fenomeno è esponenzialmente in crescita: nei primi nove mesi del 2019 erano stati 1.206 e a fine settembre 2018 solo 394”. Ma sapendo come, nella maggior parte dei casi, arrivano i telefoni in cella, il testo governativo prevede anche (secondo quanto annunciato dal Guardasigilli, anche se nella bozza non compare), l’aggravante con la reclusione da 2 a 5 anni quando a commettere il fatto è un incaricato di pubblico servizio o un avvocato. Eppure un modo meno criminogeno ci sarebbe: “Altro discorso - ammette il senatore Morra - sarebbe schermare, con strumenti che tecnologicamente già oggi lo consentono, gli ospiti degli istituti di pena da tentativi di comunicazione non via cavo. Ma intanto si è fatto un passo in avanti con l’introduzione di questo nuovo reato”. Un altro reato. D’altronde è la via più semplice, come quel “Daspo anti-risse” che secondo Bonafede renderà innocue le “persone incivili e violente, persone che spesso sono già state denunciate e sono note alle forze dell’ordine, persone che credono di poter sfogare violenza, rabbia e prevaricazione su chiunque”. Più poteri al questore, dunque, per “vietare l’accesso ad un elenco di locali, da sei mesi a due anni: un vero e proprio Daspo per i violenti. In caso di violazione del Daspo, cioè per il solo fatto di violare il divieto di recarsi in uno dei locali indicati dal questore, si configura un reato con pena fino a 2 anni di reclusione e una multa da 8000 a 20 mila euro”. Inoltre, spiega ancora il Guardasigilli, “abbiamo stabilito un giro di vite per il reato di rissa con inasprimento delle pene. Se da una rissa deriva la morte o lesioni personali, si rischia una pena fino a 6 anni di reclusione per il solo fatto di aver partecipato a quella rissa”. Si noti che finora l’art. 588 c. p. prevedeva comunque già 300 euro di multa per chi partecipa ad una rissa e da 3 mesi a 5 anni di carcere se ci sono morti o feriti. Ma così anche il ministro Bonafede può rivendicare la propria “tolleranza zero”. Decreto “Willy”. Più carcere non fermerà violenza e barbarie di Fabio Anselmo* Il Domani, 7 ottobre 2020 Ecco l’arrivo della “norma Willy”. Un provvedimento pensato dalla politica per evitare A che un omicidio come quello di Willy Duarte possa accadere ancora. A Willy non potrà più essere fatto nulla perché Willy è morto barbaramente ucciso. Non potrà essere restituito alla sua vita, alla sua famiglia e al suo paese, Colleferro, alle porte di Roma. Willy è andato per sempre. Questa è la sola e unica verità. Ora il governo ha pensato che la soluzione all’imbarbarimento culturale sia l’inasprimento della repressione. E così in un decreto nuovo di zecca, intitolato alla memoria del ragazzo ucciso, ha previsto pene più severe per chi partecipa ad una rissa davanti a un locale: saranno aumentate da tre mesi fino a 5 anni, a sei mesi fino a sei armi. Ai protagonisti dei disordini potrà essere imposto il Daspo da specifici locali o esercizi pubblici. In pratica non potranno più avvicinarsi a quei luoghi della movida. Tutto questo risolverà il problema? Eviterà il ripetersi dei fatti che hanno portato alla morte di Willy? No. Certo che no. È fin troppo evidente che aumentare le pene di qualche mese o di un anno non serve assolutamente a nulla. Questi ragazzi, spaventosi protagonisti di siffatte brutali aggressioni, non girano certo col codice penale in mano. Tantomeno si fanno intimidire da un Daspo. Sono provvedimenti che accontentano, ancora una volta, la pancia dei cittadini i quali, prendendo felicemente atto dell’inasprimento delle pene, li vedono già tutti in galera. Soddisfatti e rimborsati. Rimborsati per l’orrore provato davanti al racconto della tragedia che ha devastato la vita della famiglia Duarte. Ancora una volta si vuole prendere la scorciatoia emotiva abbandonando qualsiasi altra via. Ancora una volta non ci si fa carico del vero problema che innesca questi fatti criminali. Ancora una volta si scommette su repressione e punizione, che tengono, però, lontana l’origine di queste terribili vicende. Andrebbe fatto uno studio serio di questi fenomeni criminali indagando su cause ed effetti. E poi si dovrebbe passare ai fatti. Fare sociologia in questo contesto, postuma all’uccisione di quel bellissimo ragazzo, assomiglierebbe troppo a una scontata e stucchevole giustificazione di quelle violenze. Va fatto prima e a prescindere perché il problema esiste ed è fin troppo evidente. E non lo si può risolvere con qualche sindaco sceriffo o con una inutile e dannosa repressione. Ma qual è la reazione della famiglia di Willy? Può sentirsi meglio vedere il nome del proprio figlio ucciso associato ad un provvedimento di legge repressivo? Sbaglierò ma non credo. Penso che lo sarebbe ben di più se, viceversa, a portare il suo nome fosse un qualcosa di positivo che restituisse speranza e fiducia a una generazione martoriata dal nostro cinismo costantemente emergenziali A parlare è il loro avvocato e già questo è un segnale: “La famiglia di Willy vuole una pena certa e giustizia. Come avvocato non credo che legiferare in emergenza sia la cosa più saggia. Ci sono le norme ma bisogna far sì che le pene siano espiate. ed abbiano funzione rieducativa. Bisognerebbe valutare perché episodi del genere si verificano”. Come dargli torto? *Avvocato Se il Pm non è affidabile che riforma vuoi fare? di Alberto Cisterna Il Riformista, 7 ottobre 2020 L’ipotesi di riforma di Bonafede punta soprattutto ad incentivare il rito abbreviato. Qual è l’ostacolo? Il problema è la fiducia. In questi anni, man mano che le indagini hanno ceduto il passo al duopolio costituito dalle dichiarazioni dei pentiti, prima, e dalle intercettazioni, poi, i difensori hanno nutrito un sentimento di sempre maggiore sfiducia circa l’affidabilità delle attività del pubblico ministero e della polizia giudiziaria. La gestione dei pentiti e l’incerta completezza e corrispondenza delle intercettazioni trascritte ai contenuti effettivi delle conversazioni, sono divenuti il terreno friabile in cui è affondata la possibilità di un’intesa collaborativa tra accusa e difesa. La Commissione Giustizia della Camera sta procedendo all’esame del disegno di legge del ministro Bonafede che contiene la “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale”. Un disegno tutto sommato ambizioso che punta, anche, a mitigare gli effetti distorsivi che si produrranno inevitabilmente non appena andrà a pieno regime la nuova disciplina della prescrizione del reato, entrata in vigore il primo gennaio scorso. Inutile discutere della parte del testo che descrive il nuovo regime delle notificazioni degli atti processuali. Abbracciata senza remore ed entusiasticamente la tesi che a rallentare le indagini e i processi siano le impicciose comunicazioni da fare agli imputati e ai difensori per far sapere loro cosa sta accadendo sulle loro teste, si vuole intraprendere la strada salvifica delle notifiche telematiche. Qualcuno giura che servirà. Altri giurano che, se si abbandonassero mistificazioni mediatiche e ingenue semplificazioni, ci si accorgerebbe che il deposito telematico degli atti nel processo civile è in piedi da anni e non ha portato alcun serio beneficio all’efficienza della giustizia civile. Se le pendenze scendono un po’ non è perché gli atti processuali circolano via mail, ma perché molti cittadini rinunciano a far valere le proprie ragioni in un’aula di giustizia. Il tutto in un Paese in cui i torti civili (dai danni alla salute ai fallimenti, dai licenziamenti alle locazioni e via seguitando) producono danni molto più gravi dei torti penali e segnano la vera cifra dell’inaffidabilità dei rapporti economici e della precarietà legale della nazione. L’altra opzione del disegno di legge è quella di favorire la deflazione penale ampliando in modo considerevole le ipotesi di patteggiamento (sino a 8 anni) e di giudizio abbreviato. È noto si tratti di strumenti che, nella trama originaria del codice del 1988, avrebbero dovuto evitare quel che poi è successo per qualche decennio: ossia che praticamente quasi tutto finisse a dibattimento una volta che il pubblico ministero ha esercitato l’azione penale. La deflazione per riti alternativi ha funzionato male per molto tempo perché troppo marginale e troppo poco allettante per l’imputato. Poi, quando le maglie sono state allargate, ossia a partire dal 1999, è subentrato un atteggiamento ancora più pernicioso per il buon funzionamento di questi strumenti. Man mano che le indagini hanno ceduto il passo al duopolio costituito dalle dichiarazioni dei pentiti, prima, e dalle intercettazioni, poi, i difensori hanno nutrito un sentimento di sempre maggiore sfiducia circa l’affidabilità delle attività del pubblico ministero e della polizia giudiziaria. La gestione dei pentiti e l’incerta completezza e corrispondenza delle intercettazioni trascritte ai contenuti effettivi delle conversazioni, sono divenuti, tante volte, il terreno friabile in cui è affondata la possibilità di un’intesa collaborativa tra accusa e difesa. Affidarsi (con i riti alternativi) ai risultati delle attività investigative comporta un fidarsi delle stesse. Se questa relazione fiduciaria si incrina, il sistema sprofonda in una palude in cui il pachiderma investigativo viene sottoposto a una minuziosa, capillare e sospettosa verifica. Non è questa la sede per discuterne, ma tutti i più recenti strappi che si sono imposti in giurisprudenza sul tema del contraddittorio dibattimentale non sono altro che il segnale di questa profonda incomprensione delle ragioni che colorano, talvolta, come ostruzionistico l’atteggiamento delle difese. Le Alte Corti hanno reagito con una certa durezza a comportamenti delle difese che, distillati nell’alambicco del diritto, sembrano in effetti contrari ai principi di lealtà e di ragionevole durata del processo, ma che una volta ricondotti nella loro sede di incubazione non sono altro che la reazione a opacità, forzature, lacune di un’attività investigativa che troppe volte, riversata nel dibattimento, incespica, annaspa, si scolorisce, quando non inquieta. Non è il caso di menzionare specificare indagini o singoli episodi in cui pentiti e intercettazioni, giunti al vaglio del dibattimento, hanno mostrato incrinature, vuoti, se non manipolazioni, benevolmente o maldestramente trascurate. In fondo, gran parte della difesa dei magistrati coinvolti nell’affaire Palamara si fonda proprio sulla contestazione delle legittimità e, finanche, della liceità delle intercettazioni svolte, con giudizi severi sulla completezza dell’attività di polizia giudiziaria. Ossia la durissima contesi svolge esattamente su quel terreno che, oggi, impedisce agli imputati (salvo che siano beccati col classico dito nella marmellata) di farsi giudicare sulla scorta delle attività del pubblico ministero. Snodo fondamentale della questione e che riguarda, soprattutto, i processi per reati che già prima della riforma mai si sarebbero estinti per prescrizione. Come guadagnare o riguadagnare quella fiducia e quell’affidamento sui risultati delle indagini preliminari è il vero punto su cui si gioca il tema dell’efficienza e della celerità del processo penale. È un tema che, a macchia di leopardo, traspare nella lunga relazione che accompagna il disegno di legge Bonafede, ma che non può che essere affrontato riposizionando il pubblico ministero in un ruolo di responsabile e garante non della legittimità delle indagini (cosa che non gli compete), ma della regolarità e trasparenza delle attività investigative. Subito dopo Tangentopoli si pretese che gli interrogatori degli arrestati fossero registrati e si fece divieto ai pm, a caccia di confessioni, di interrogarli prima di un giudice. Dopo 25 anni occorre costruire una nuova architettura che rassicuri gli imputati che possono interamente fidarsi delle acquisizioni dell’accusa e farne con serenità la base, se giusta, della loro condanna. Non mancano gli ottimi pm da cui partire. “Al Csm un ribaltone trasformistico. Palamara solo un capro espiatorio” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 ottobre 2020 Paola D’Ovidio, segretaria generale di Magistratura indipendente: “I colleghi non hanno creduto nell’attuale dirigenza della Anm. Palamara? Quelle condotte non potevano essere totalmente sconosciute a chi con lui si è confrontato per anni”. “Guardi, Magistratura indipendente era in crescita esponenziale di consensi ed è stata messa all’angolo con un ribaltone le cui reali dinamiche stanno ora lentamente venendo alla luce: un manuale Cencelli diffuso ad ogni latitudine correntizia, così come il collateralismo con la politica”, afferma Paola D’Ovidio, segretaria generale di Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, travolta nel 2019 dall’affaire Palamara. Dottoressa D’Ovidio, Mi è finita lo scorso anno nel tritacarne mediatico- giudiziario. Una sorte che in Italia, purtroppo, capita di frequente... Si. Inizialmente c’è stata una discovery incompleta ovvero una rappresentazione parziale condotta da alcuni grandi organi di informazione. Magistratura indipendente, comunque, è uscita rafforzata dalle elezioni per i rinnovi della componente togata dei Consigli giudiziari (diramazione del Csm nei distretti, ndr). Pensava ad un risultato simile dopo i noti fatti dell’Hotel Champagne? I colleghi hanno dimostrato di saper leggere quegli accadimenti con intelligenza. È un giusto riconoscimento per il percorso di rinnovamento che abbiamo intrapreso, sempre e comunque nel solco dei valori in cui crediamo. All’ultima assemblea generale dell’Anm, quella per intenderci che ha votato per l’espulsione di Luca Palamara, hanno partecipato poco più di 100 magistrati sui circa 9000 iscritti. Qual è il suo giudizio al riguardo? Esiste un problema di rappresentanza fra l’attuale dirigenza dell’Anm e la base dei magistrati? I numeri non sono un’opinione. I colleghi non hanno creduto nella idoneità dell’attuale dirigenza della Anm, ormai in prorogatio da oltre sei mesi, ad iniziare un cammino di reale rinnovamento dell’associazione, che non si limiti a censure le condotte del dottor Palamara, ma prenda atto che quelle condotte non potevano essere totalmente sconosciute a chi con lui si è confrontato per anni. L’attuale dirigenza della Anm non le sembra essere in grado di intervenire per recidere tali condotte? Ricordo che Magistratura indipendente già nell’assemblea del settembre 2019 aveva proposto di inserire nello statuto dell’Associazione una seria incompatibilità di ruoli, ma la nostra idea non ha ottenuto la maggioranza dei voti necessaria. Si sente spesso ripetere che fra i magistrati convivono diverse sensibilità. Non ritiene, però, che su un certo modo di esercitare la giurisdizione queste sensibilità siano inconciliabili? Per alcuni, ad esempio, il giudice non deve limitarsi ad applicare al diritto ma andare oltre fino alla cd giurisprudenza creativa. Può dirci il suo punto di vista? La attività interpretativa è spesso densa di principi valoriali irrinunciabili e quindi in sé non è affatto sbagliata. Ciò che è totalmente sbagliato ed enormemente pericoloso è il cortocircuito magistratura- politica e l’uso politico della giustizia che ne deriva. La separazione deve essere netta. C’è spazio per una nuova formula associativa in magistratura? Magistratura indipendente vuole vincere le elezioni dell’Anm (in programma il prossimo 20 ottobre, ndr) proprio per proporre un nuovo modo di fare associazione rilanciando il ruolo dell’Associazione come luogo di confronto alto sui valori; occorre poi riportare l’Anm a promuovere le attività istituzionali previste dallo Statuto a garanzia della autonomia ed indipendenza della magistratura, a fare sindacato nell’interesse dei colleghi piuttosto che ad atteggiarsi a partito politico. Mi consenta un’ultima domanda. Palamara sembra destinato a diventare il classico capro espiatorio, responsabile solitario della deriva ‘ spartitoria’ degli incarichi fra le correnti. E per questo è destinato a pagare per tutti. Vedendo i recenti lavori del Csm, però, non sembra comunque che sia cambiato molto. Ogni nomina “importante” è oggetto di polemiche e contenziosi amministrativi. Non c’è stata unanimità neppure sulla nomina del Procuratore generale della Cassazione. Concorda? Già all’indomani dei fatti di maggio del 2019 ebbi a denunciare che il “ribaltone” al Csm stava generando un colossale trasformismo gattopardesco: non ho cambiato idea. Il mistero del parere sulla permanenza di Davigo in Csm di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 ottobre 2020 Il parere dell’Avvocatura dello Stato sulla legittimità della permanenza di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura è coperto dal massimo riserbo. Il parere dell’Avvocatura dello Stato sulla legittimità della permanenza di Piercamillo Davigo al Consiglio superiore della magistratura è coperto dal massimo riserbo. Il parere era stato richiesto nei giorni scorsi, con l’astensione del laico indicato dal M5S Alberto Maria Benedetti, da parte della Commissione verifica titoli. L’Avvocatura dello Stato lo ha inviato a Palazzo dei Marescialli venerdì scorso. Il vicepresidente David Ermini, come riferito da Repubblica, lo avrebbe messo in cassaforte senza che nessun consigliere abbia avuto modo di leggerlo. Un “giallo”, dunque. Davigo compirà il prossimo 20 ottobre i settanta anni. Età massima per il trattenimento in servizio delle toghe da quando l’allora premier Matteo Renzi decise di modificare il termine, voluto dal governo Berlusconi, dei settantacinque anni. I fautori della permanenza di Davigo al Csm affermano che l’incarico di consigliere avrebbe una diversa regolamentazione. II requisito dell’età doveva essere posseduto all’atto della elezione a piazza Indipendenza. Una volta eletto si deve tenere conto solo della durata quadriennale del mandato indicata all’articolo 104 della Costituzione. Il direttore della rivista di Magistratura democratica Questione giustizia, Nello Rossi, all’inizio dell’estate aveva aperto il dibattito su questo tema. La sua tesi è che Davigo non possa continuare a far parte del Csm, una volta congedatosi dalla magistratura. Fra i motivi, l’impossibilità di essere sanzionato nel caso in cui commettesse un illecito di carattere disciplinare. L’Ufficio studi del Csm aveva redatto anni addietro un parere, che è tornato di attualità, sul tema dell’età pensionabile dei magistrati eletti al Csm, evidenziando i vari scenari. In caso di decadenza di Davigo per perdita dei requisiti, il suo posto verrebbe preso dal primo dei non eletti alle elezioni del 2018, il giudice di Cassazione Carmelo Celentano, candidato nelle liste di Unicost. Il voto sulla permanenza di Davigo avverrà in Plenun a scrutinio segreto. E di riunioni plenarie, prima del 20 ottobre, ne sono in calendario solo due: una questa settimana e l’altra la prossima. I tempi sono quindi strettissimi. In caso fosse votata la permanenza di Davigo, sarebbe la prima volta nella storia del Csm che un consigliere togato, cessato dalle funzioni giudiziarie, permanga nell’incarico. In vista delle elezioni per il rinnovo dell’Anm, lo scorso fine settimana si sono tenute quelle per il rinnovo dei Consigli giudiziari, i “piccoli” Csm nei distretti. Dai primi dati, buona affermazione di “Magistratura indipendente”, la corrente moderata. Stabile il raggruppamento progressista di “Area”. In calo “Unicost”, la corrente dell’ex presidente Luca Palamara, finito al centro dello scandalo nomine. Ma in attesa dei risultati relativi all’autogoverno “locale”, la tensione è tutta protesa verso il voto per il “parlamentino” dell’Associazione, previsto in via telematica dal 18 al 20 ottobre prossimi. La prima tornata elettorale dopo il caso aperto con l’inchiesta di Perugia, inevitabilmente avvolta in un clima di tensione pesantissimo. “Innocenti, ma rovinati dall’Antimafia”: la rivolta degli imprenditori onesti di Giorgio Mannino Il Riformista, 7 ottobre 2020 A Palermo l’incontro di Nessuno tocchi Caino contro i guasti di un sistema di prevenzione asservito a interessi opachi. Cavallotti: “Troppi abusi: ci rivolgeremo alla Corte europea. L’Italia va condannata”. Gli obiettivi, chiari e netti, li fissa Rita Bernardini, membro del consiglio generale del Partito Radicale ed ex deputata: “Dobbiamo informare i cittadini, magari fare qualche sciopero della fame per farci sentire. E poi organizzare in Parlamento una conferenza, con l’associazione Nessuno tocchi Caino, per raccontare le storie di chi ha subito sulla propria pelle misure di prevenzione ingiuste. Persone la cui vita è stata distrutta. Perché c’è una fetta della politica ignara del fatto che parte dell’antimafia è occasione di guadagno, di affari. Con le misure di prevenzione si favoriscono le imprese che si vogliono, si distrugge l’economia del territorio. Serve più trasparenza nel settore troppo opaco della giustizia”. Un intervento che suona come una vera e propria chiamata alle armi, quello che domenica scorsa, ha concluso il convegno tenutosi a Palermo dal titolo “La difesa nel processo di prevenzione - la vita del diritto per il diritto alla vita delle imprese”, organizzato dall’associazione Nessuno tocchi Caino rappresentata, nel capoluogo siciliano, da Pietro Cavallotti, uno dei figli degli imprenditori edili di Belmonte Mezzagno il cui patrimonio è stato ingiustamente sottoposto a sequestro in una lunga vicenda giudiziaria legata a doppio filo col sistema messo in piedi da Silvana Saguto. Durante la lunga mattina che si è snodata tra i limoneti di un luogo simbolico - lo Spazio Lab di via Faraone, tenuto sotto sequestro per cinque anni e poi dissequestrato - sono state tante le storie raccontate dalla viva voce di quegli imprenditori vessati dalle misure di prevenzione che hanno distrutto le loro vite personali e professionali: da Massimo Niceta, Simona Amodeo, Ester Fedeghini, passando a Francesco Bombolino, Francesco Lena, Pasquale Saraco, Andrea Cuzzocrea, Gaetano Virga e Giuseppe Monaco. Nomi più o meno sconosciuti all’opinione pubblica “ma il cui calvario - ha detto Elisabetta Zamparutti, tra i fondatori di Nessuno tocchi Caino - è l’espressione plastica di uno Stato che usa armi non convenzionali. E noi dobbiamo andare oltre questo uso violento di armi. Queste storie drammatiche mettono in scena il verosimile della lotta alla mafia i cui strumenti di contrasto sono inadeguati”. Da qui nasce l’esigenza, promossa da Zamparutti, “di realizzare un libro che racconti queste storie e un altro docu-film, proprio come Spes contra spem. Pensando anche a una grande marcia che manifesti visivamente il problema di una drammatica tragedia”. Perché il passepartout della lotta alla mafia, in molti casi, garantisce carriere e affari. Lo raccontano i casi di molte interdittive sospette, di scioglimenti di Comuni pieni di dubbi che sfociano in inquietanti grumi d’interessi: “Nella lotta alla mafia c’è una vetrina e un retrobottega pericoloso”, ha detto Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino e coordinatore della presidenza del Partito Radicale, domenica nella veste di moderatore del convegno. “Siamo impegnati - aggiunge - a scongiurare il pericolo concreto che nel nome della lotta alla mafia si compiano mali altrettanto distruttivi per le persone e le imprese. Di solito c’è una colpa, un reato che provocherà una sentenza e semmai una condanna. Con le misure di prevenzione ci troviamo davanti a un’inversione per la quale prima c’è la pena e poi, forse, si dimostra l’innocenza. Le misure di prevenzione sono afflittive. È il futuro che decide sul presente. Credo molto nel ruolo dell’opinione pubblica, dell’informazione. Ed è fondamentale che Il Riformista stia raccontando le storie di questi imprenditori”. Uomini e donne assistiti da avvocati - molti dei quali presenti al convegno - che, però, in materia di misure di prevenzione hanno le armi spuntate. “Ecco perché lanciamo un appello a tutti gli avvocati per rivoluzionare il modo di difendere”, ha detto Cavallotti. “Dobbiamo sollevare - ha proseguito - eccezioni di costituzionalità che metteremo a disposizione degli avvocati. Dobbiamo fare più ricorsi possibile alle alte giurisdizioni e quindi alla Corte Europea, creando un team di avvocati e professori. Ottenere sentenze di condanna dello Stato Italiano. Il problema non è più eludibile. Prepareremo un dossier da sottoporre alla Corte Europea per fare capire qual è lo stato dell’arte delle misure di prevenzione in Italia. In tal senso faccio un appello agli avvocati che vogliono impegnarsi per sollevare queste questioni. Il rischio è che gli avvocati continueranno a vedere ‘morirè, sotto il peso di leggi inadeguate, i loro clienti”. Estesi i permessi di soggiorno convertibili di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2020 Il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e altro. Il provvedimento affronta il tema della convertibilità dei permessi di soggiorno rilasciati per altri motivi in permessi di lavoro subordinato o autonomo. Alle categorie di permessi convertibili già previste dall’articolo 14 del Dpr 394/1999, si aggiungono i permessi per protezione speciale, per calamità, per residenza elettiva, per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide, per attività sportiva, per lavoro di tipo artistico, per motivi religiosi e per assistenza ai minori. La scelta governativa appare dettata per un verso dalla giurisprudenza amministrativa consolidatasi nel tempo (si pensi ai permessi di soggiorno per motivi religiosi) che ha visto prevalere la tesi dello straniero, mentre in altri casi la volontà ministeriale appare quella di ridurre il contenzioso pendente avanti ai Tribunali per i minorenni (si pensi ai ricorsi ex articolo 31 del Testo unico immigrazione per il rilascio del permesso di soggiorno per assistenza minore che, di solito, vengono reiterati fino alla maggiore età del figlio) e dall’altro, infine, nel tentativo di limitare l’occupazione irregolare (per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide visti i lunghi tempi dell’istruttoria delle domande). Meno chiara la scelta della convertibilità dei permessi di soggiorno per residenza elettiva che riguardano gli stranieri che hanno scelto di vivere in Italia dimostrando considerevoli disponibilità economica. La convertibilità dei permessi di soggiorno per assistenza minore non tiene conto della possibilità che tale scelta - che, fino ad oggi, ha rappresentato la soluzione (unitamente alla richiesta di asilo - protezione internazionale) per un soggiorno regolare sul territorio italiano - potrebbe, in futuro, determinare una forte immigrazione di famiglie che, attraverso la soluzione prevista dall’articolo 31 citato, cerchino, in un arco temporale di circa due anni, una stabilizzazione definitiva per sé ed il loro nucleo familiare (ricorso al Tribunale per i minorenni, rilascio del soggiorno per assistenza minore e, alla scadenza, rinnovo per lavoro). Il decreto legge apporta modifiche al divieto di espulsione e di respingimento nel caso in cui il rimpatrio determini, per lo straniero, il rischio di tortura. Con il nuovo decreto, si aggiunge il rischio che lo straniero sia sottoposto a trattamenti inumani o degradanti e se ne vieta l’espulsione anche nei casi di rischio di violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare e si prevede il rilascio del permesso di soggiorno per protezione speciale. Il provvedimento riforma anche il sistema di accoglienza destinato ai richiedenti protezione internazionale e ai titolari di protezione, con la creazione del nuovo Sistema di accoglienza e integrazione che si articolerà in due livelli di prestazioni: il primo dedicato ai richiedenti protezione internazionale, il secondo a coloro che ne sono già titolari, con servizi aggiuntivi finalizzati all’integrazione. Il provvedimento interviene poi sulle sanzioni relative al divieto di transito delle navi nel mare territoriale. In caso di violazione previste sanzioni della reclusione fino a due anni e una multa da 10.000 a 50.000 euro, quelle dettate dal Codice della navigazione. Si prevede che, nel caso in cui ricorrano i motivi di ordine e sicurezza pubblica o di violazione delle norme sul traffico di migranti, il provvedimento di divieto sia adottato, su proposta del ministro dell’Interno. Peculato d’uso se il cellulare di servizio lo utilizza il marito di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2020 Peculato d’uso per il dirigente Rai che fa utilizzare il telefono di servizio al marito. Giustificato il no al minimo edittale, oltre che per l’intensità del dolo, per la durata dell’abuso e i costi delle telefonate internazionali. La Corte di cassazione, con la sentenza 27742, bolla come inammissibile per la non specificità dei motivi, il ricorso di una dirigente della Rai, contro la condanna per peculato d’uso, con una pena superiore al minimo previsto dal Codice, e un no alla pena pecuniario sostitutiva. La ricorrente, senza successo, aveva fatto presente ai giudici di aver interamente rimborsato l’intero importo delle telefonate illecite alla Rai. In più aveva affermato la sua buona fede, perché l’uso del cellulare aziendale da parte del marito, che si trovava all’estero era frutto di un errore: un semplice scambio di telefonini. Circostanza che i giudici considerano non credibile per una serie di fattori: i numeri erano diversi e il telefono era stato usato dal consorte per le telefonate internazionali per ben 4 mesi senza che la ricorrente si accorgesse dello scambio. In più, l’uso “improprio” era stato interrotto solo dopo la denuncia dell’amministrazione Rai. Pesa poi l’intensità del dolo, “la gravità oggettiva del fatto desunta dalla durata dell’abuso del telefono protrattasi per quattro mesi e dai costi delle telefonate internazionali”. Pari a poco meno di 4 mila euro al mese. Non passa neppure la richiesta di far valere la dichiarazione della prescrizione avanzata in sede di discussione. I giudici ricordano, infatti, che l’inammissibilità del ricorso in Cassazione, preclude la possibilità di far valere o di rilevare d’ufficio l’estinzione di un reato maturata nel corso del giudizio di legittimità. E anche la manifesta infondatezza rientra tra le cause di inammissibilità. Sequestro liquidità per dati falsi nella voluntary disclosure di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2020 Corte di cassazione - Sentenza 27603/2020. La comunicazione di dati e informazioni non veritiere nella relazione di accompagnamento allegata alla domanda di voluntary disclosure consente il sequestro della liquidità del contribuente. Il profitto illecito sul quale eseguire la misura cautelare va quantificato nel maggiore onere fiscale che sarebbe derivato da una fedele dichiarazione. L’illecito è riferibile al soggetto che si avvale di questo strumento anche se la relazione è stata redatta da un professionista, salvo l’ipotesi di una sua autonoma iniziativa. A fornire questi principi è la Corte di Cassazione, con la sentenza 27603 depositata ieri. Un contribuente era indagato per il reato di esibizione di atti falsi e comunicazione di atti non rispondenti al vero previsto dall’articolo 5 septies del Dl 167/1990, introdotto nell’ordinamento a tutela della fedele presentazione della domanda di adesione alla cosiddetta voluntary disclosure. Tale norma, in sintesi, sanziona con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni, colui che, nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria esibisca o trasmetta atti o documenti falsi, in tutto o in parte, ovvero fornisca dati e notizie non rispondenti al vero. Nella specie l’indagato, nella relazione di accompagnamento prodotta dal proprio professionista, aveva dichiarato falsamente, tra l’altro, di detenere all’estero una collezione di opere d’arte quale semplice collezionista, mentre secondo gli investigatori si trattava di attività imprenditoriale. Aveva poi omesso di indicare la detenzione indiretta di una società titolare di un ingente patrimonio di opere d’arte all’estero ed ancora dava atto di detenere opere d’arte all’estero in realtà custodite in Italia. La Procura della Repubblica chiedeva il sequestro delle somme liquide nella disponibilità dell’interessato per un importo ritenuto pari al maggior onere fiscale che sarebbe, invece, derivato da una fedele e puntuale dichiarazione. Il Gip rigettava la richiesta del Pm, che veniva invece confermata dal Tribunale a seguito dell’appello cautelare di quest’ultimo. L’indagato ricorreva così per Cassazione lamentando, tra l’altro, che le compravendite di opere d’arte erano state tutte indicate e non era stato contestato alcun reato tributario. Il patrimonio poi era di origine lecita e di conseguenza non poteva diventare illecito per effetto di un falso nell’ambito di una procedura di collaborazione volontaria avente natura meramente dichiarativa di pregresse attività e disponibilità. Inoltre, la procedura di voluntary disclosure non poteva configurarsi come fatto generatore di evasione fiscale, e comunque era contestato l’inquadramento di imprenditore e non di collezionista operato dagli investigatori. La Cassazione ha rigettato il ricorso e ritenuto validi, per la fase cautelare, gli elementi addotti dall’accusa. I giudici precisano peraltro che la condotta illecita contestata è riferibile al soggetto che si avvale della voluntary disclosure anche se la relazione sia stata redatta da un professionista salvo l’ipotesi di un’autonoma iniziativa di quest’ultimo. È stata poi condivisa la quantificazione delle somme sequestrate (quali profitto del reato) corrispondenti all’importo “risparmiato” in conseguenza della condotta illecita e calcolati, in buona sostanza, per il differente inquadramento dei redditi “emersi” considerati di impresa da parte degli investigatori. Piemonte. Il Garante: “rendere più adeguata la presa in carico socio-sanitaria dei detenuti” lavocedialba.it, 7 ottobre 2020 “La sanità penitenziaria è una responsabilità della Regione, ora si tratta di consolidare il dialogo e il confronto anche per mettere a sistema procedure e relazioni per rendere sempre più adeguata e moderna la presa in carico socio-sanitaria delle persone recluse”. In merito all’incontro svoltosi ieri all’Assessorato regionale alla Sanità tra l’assessore Luigi Icardi e il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Pierpaolo D’Andria, il garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Bruno Mellano dichiara: “Ringrazio l’assessore per la disponibilità dimostrata e l’attenzione dedicata alle problematiche della sanità penitenziaria. Mi è parso un incontro molto positivo e fecondo di possibili significative ricadute La sanità penitenziaria è una responsabilità esclusiva del Sistema sanitario nazionale, e quindi della Regione, sin dal decreto ministeriale del 1° aprile 2008. Con la delibera di Giunta 26/2016 è stato definito il quadro dei servizi che le Asl competenti devono fornire alle 13 carceri per adulti e all’unico istituto penitenziario minorile presenti in Piemonte. Un monitoraggio sull’applicazione della delibera e sul Servizio sanitario regionale in carcere è stato avviato e io sono stato chiamato a coordinare il gruppo di lavoro”. “Il contagio del Covid-19 ha toccato anche la comunità penitenziaria, che ha dovuto organizzarsi nell’emergenza, mettendo in moto una macchina complessa, anche nelle relazioni istituzionali fra due Amministrazioni diverse, Sanità e Giustizia. Ora si tratta di consolidare il dialogo e il confronto anche per mettere a sistema procedure e relazioni per rendere sempre più adeguata e moderna la presa in carico socio-sanitaria delle persone recluse. Si tratta di essere concreti nella gestione delle tante questioni aperte, che coinvolgono i detenuti ma anche il personale. Le prospettive dell’incontro sono sembrate davvero interessanti anche per il ruolo nazionale dell’assessore Icardi, coordinatore della Commissione Sanità della Conferenza delle Regioni”. Brescia. Suicida in carcere detenuto 22enne originario del Senegal bresciaoggi.it, 7 ottobre 2020 Un 22enne che aveva denunciato violenze sessuali subite, si è tolto la vita in carcere a Brescia dove era arrivato venerdì. Era in detenzione domiciliare per fatti di droga e per non essersi presentato dai medici che lo avevano in cura. Il tribunale di sorveglianza di Brescia aveva aggravato la misura. Il 22enne era sprofondato in una crisi depressiva, certificata dai medici, dopo che aveva denunciato le presunte violenze sessuali subite per anni da un imprenditore locale che in cambio di rapporti offriva soldi e capi d’abbigliamento firmati. La Procura di Brescia stava per chiudere l’indagine a carico dell’uomo. Como. Muore in carcere a soli 23 anni, forse si è suicidato: disposta l’autopsia casateonline.it, 7 ottobre 2020 È stato rinvenuto senza vita nella cella del carcere Bassone di Como, dove si trovava detenuto da qualche settimana. È stata già rimpatriata in Pakistan per la sepoltura la salma di un giovane di 23 anni appena, residente insieme alla famiglia a Cesana Brianza. Con un gesto estremo avrebbe deciso di farla finita, anche se solo poche ore prima del decesso, aveva inviato lettere di speranza nelle quali si diceva pronto a ricominciare, una volta lasciata la casa circondariale comasca. Proprio per queste ragioni e per non lasciare alcun dubbio sulle circostanze nelle quali è avvenuto il decesso, la Procura di Como ha disposto l’autopsia, come ci ha confermato il difensore del giovane, l’avvocato lecchese Simona Crippa, che ora resta in attesa dei risultati, per decidere eventualmente il da farsi. Sul 23enne gravava una pena di due anni e quattro mesi per rapina e furto aggravati che stava finendo di scontare, a seguito delle indagini effettuate dai carabinieri di Valmadrera avviate nell’estate 2018, quando un minore era rimasto vittima di un’aggressione sfociata in rapina a Malgrate. Ottenuto il marsupio del ragazzino, contenente denaro e uno smartphone, il ragazzo qualche giorno più tardi aveva rubato una bicicletta con pedalata assistita all’esterno di un supermercato di Cesana. Individuato tramite le immagini della videosorveglianza, i carabinieri lo avevano rintracciato e arrestato, scoprendo presso la sua abitazione anche un ciclomotore rubato a Malgrate. Affidato ad una comunità di Castione della Presolana, in provincia di Bergamo, a Ferragosto se ne era allontanato, presentandosi spontaneamente in carcere a Pescarenico. Da lì il trasferimento al Bassone dove un mese più tardi è deceduto. Una morte che resta senza un perché e che ha lasciato sgomenta l’intera famiglia: a Cesana vivono infatti la madre, il fratello e le due sorelle, mentre il padre è mancato da qualche anno. Intanto nei giorni scorsi in tribunale a Lecco il giudice Maria Chiara Arrighi, chiamata ad esprimersi su un fascicolo che riguardava ancora una volta un presunto reato commesso dal cesanese, ha sentenziato il non doversi procedere per morte dell’imputato. Napoli. Il fallimento delle politiche per contrastare la devianza minorile di Vincenzo Morgera, Silvia Ricciardi e Giovanni Salomone La Repubblica, 7 ottobre 2020 La morte di un ragazzo di 17 anni è sempre una tragedia. Una morte che non avviene per caso, per mano di un giustiziere delia notte, ma per un colpo di pistola sparato da un poliziotto impegnato nel proprio compito di garantire la sicurezza di tutti e che porterà sulla propria coscienza la responsabilità morale, prima che giudiziaria, di aver tolto la vita ad un ragazzo di 17 anni. Tutto questo avviene in uno scenario di violenza dove il ragazzo è protagonista, con un suo amico appena maggiorenne, di una rapina, e questo, oltre ad essere preoccupante e desolante, pone alla coscienza di tutti noi degli interrogativi che non possono restare senza risposta. È normale che un minorenne giri alle 3 del mattino con un amico appena maggiorenne, su un motorino rapinato, alla ricerca della preda di turno da sacrificare? Domande pregnanti ad un livello generale, ma che assumono un rilievo ancora maggiore se si pensa che quello stesso ragazzo è già nel circuito penale e sta svolgendo un programma di messa alla prova. Ecco, se un ragazzo in questa condizione continua ad avere uno stile di vita a dir poco discutibile, bisogna prendere atto che forse qualcosa non ha funzionato, e riflettere anche sull’istituto della messa alla prova, che sta diventando come quel gioco che si faceva da bambini e che torse adesso non va più di moda: “31 salvi tutti”. Anche perché questo episodio è l’ultimo di una lunga serie. Una lunga seria di giovani vite tutte uguali che si spengono come si spengono i riflettori della cronaca accompagnati dalle solite dichiarazioni di rito degli esperti che lasciano ben poco nella coscienza collettiva. Di certo, e la storia recente ce lo insegna, non restano né lo sdegno né la vergogna di vivere in una città dove lo Stato arretra perché incapace di garantire a questi ragazzi un diritto essenziale come quello alla salute, figuriamoci la prospettiva di una vita diversa. In questo vuoto la camorra avanza contagiando con i suoi modelli vincenti tanti giovani ragazzi che vivono nell’indifferenza generale. I risultati di questo fallimento sono sotto gli occhi di tutti. Contiamo i morti ma non facciamo l’errore di contare solo quelli stesi a terra, mettiamo nel conto, e facciamolo una buona volta, anche le migliaia di ragazzi che in questa nostra città non hanno nessuna speranza di uscire dalla loro condizione di povertà economica, emotiva e sociale, da questa “non vita”. Parliamo di quei ragazzi che sono dei “morti viventi” perché lasciati soli in famiglie che vivono di illegalità o in povertà, ragazzi lasciati soli da una scuola che non ha timore di lasciare indietro gli ultimi ed infatti molti di loro lasciano la scuola o se arrivano al “pezzo di carta” presentano un altissimo tasso di analfabetismo di ritorno; ragazzi lasciati soli da un sistema di welfare incapace di guardare oltre l’assistenzialismo. La verità è che attorno a questi ragazzi purtroppo ci sono solo slogan vuoti: una bolla mediatica che ancora oggi è buona per riempire i talk show utili agli esperti di turno per costruirsi carriere e attività. Questa è la verità e se la si vuole cambiare non la si può più tacere. Senza ipocrisia bisogna avere il coraggio di ammettere il fallimento delie politiche messe in campo per fronteggiare l’attuale devianza minorile, politiche orientate al risparmio, o sarebbe più corretto dire al ribasso, che non tengono conto dei cambiamenti e dell’evoluzione che tale fenomeno ha avuto negli anni. Soprattutto in termini di investimenti economici e di professionalità nei servizi che accolgono questi ragazzi (e le comunità dell’area penale ne sono l’esempio più lampante). A questo punto la questione richiede una riflessione più approfondita, in considerazione del fatto che molti ragazzi sono fortemente condizionati dall’assenza dello Stato e da una presenza strutturata e organizzata della camorra e quando diventano “visibili” presentano già una personalità e un’adesione formale ai valori e ai modelli della camorra. Teoricamente, ai tempi degli scugnizzi, dei muschilli, il “Metodo Montessori” poteva avere un suo significato. Ma oggi ai tempi delle “paranze”, che poi sono niente altro che veri e propri clan formati da minorenni, bisogna, come sosteneva Amato Lamberti, essere più attratti vi della camorra nei servizi e nelle opportunità che offriamo a questi ragazzi. Non è possibile pensare, in un momento in cui il mondo del lavoro sta attraversando una vera trasformazione, continuare ad offrire come opportunità di formazione esclusivamente corsi di pizzaioli e pasticcieri. Ci vorrebbe una rivoluzione che nessuno vuole fare. Una riqualificazione dei servizi e degli interventi. Ovvero migliorare la loro qualità di vita investendo nella formazione professionale in settori più diversi per mettersi al passo con i tempi che viviamo. Ci sono esempi concreti di come l’acquisizione di competenze possa creare occasioni di lavoro anche nei ragazzi con una bassa scolarizzazione. Di questi esempi siamo testimoni diretti; di come ragazzi accolti in comunità si sono allontanati dalla “bella vita” promessa dalla camorra per una alternativa reale e concreta basata sul lavoro e sul sacrificio. E sarebbe anche l’occasione, nell’economia di una riflessione generale, ragionare in termini di prevenzione primaria e secondaria, vale a dire ragionare senza pregiudizi, sull’ipotesi di allontanare i bambini (prima che diventino ragazzi) da contesti familiari inadeguati ed “inquinati” da modelli e comportamenti devianti, come viene teorizzato, a nostro avviso in maniera ineccepibile, dal modello “Liberi di Scegliere” del giudice Roberto Di Bella. Napoli. Quattro giovani su dieci tornano a delinquere, servono strategie mirate di Viviana Lanza Il Riformista, 7 ottobre 2020 Su un campione di 423 ragazzi napoletani destinatari del provvedimento di estinzione del processo per messa alla prova, 176 si sono resi protagonisti da maggiorenni di altri reati. La percentuale di recidivi tra giovanissimi a Napoli è del 41,6%. Un dato allarmante che spinge a domandarsi cosa si può fare per invertire questa tendenza, per salvare giovani vite da destini di galera o di morte. Il dato è emerso dallo studio condotto dal centro di ricerca Res Incorrupta dell’università Suor Orsola Benincasa a fine 2019 su richiesta della Commissione parlamentare antimafia. È una delle fotografie più aggiornate della realtà dei minori a rischio in città. Giovani che sono tanti e sempre più condizionati da contesti familiari e ambientali. Quando non è l’arruolamento vero e proprio nelle fila di clan della camorra, è l’ambiente della microcriminalità ad assorbirli, influenzarli, portarli su strade dalle quali è quasi sempre difficile tornare indietro. La giustizia ripartiva è uno strumento utile per contrastare il fenomeno della delinquenza minorile ma non basta. “Ci troviamo di fronte a dati scoraggianti - spiega la criminologa Simona Melorio, che ha curato la ricerca - La messa alla prova non riesce a essere un argine effettivo rispetto alla commissione di altri reati. Dobbiamo renderci conto del fatto che Napoli e le zone di criminalità organizzata sono ambienti particolari per cui richiedono specifici interventi. Dove ci sono quartieri che sono da tempo conquista di clan, serve un intervento ancora più specifico”. Per la criminologa è importante puntare su “spazi di ascolto e di osservazione più lunghi”, su “interventi personalizzati per ogni ragazzo”. “Ogni percorso deve tener conto dell’indagine socio-ambientale e dei fattori di rischio del territorio - aggiunge l’esperta, citando il caso di Luigi Caiafa, protagonista del più recente fatto di cronaca che ha riacceso a Napoli il dibattito sui minori a rischio - Luigi era in una situazione di messa alla prova, ma lavorava nella pizzeria accanto casa e quindi in qualche modo rimanda all’interno del suo territorio, continuava ad avere rapporti con il suo gruppo amicale che poteva essere anche un gruppo deviante. È su questo che dobbiamo cominciare a ragionare”. “Non sto dicendo - chiarisce - che bisogna togliere i ragazzi dal loro ambiente e portarli altrove, però l’intervento di messa alla prova richiederebbe un’attenzione più lenta, più lunga, uno spazio di osservazione maggiore, che possa garantire un accompagnamento costante del ragazzo perché dalla nostra ricerca è emerso che la messa alla prova rimane spesso un’esperienza che non ha contatto con la realtà”. Per molti ragazzi finisce per essere una sorta di vacanza, e i problemi tornano quando si ritorna alla vita di sempre. “I ragazzi sono sempre molto bravi ad accogliere tutti gli stimoli. Sicuramente è a loro vantaggio terminare il percorso e vedere estinto il reato, ma spesso sono sinceramente coinvolti - racconta Melorio. Poi però, quando le attività finiscono e i ragazzi rientrano nel loro ambiente, se intorno ad essi non si è costruita una rete, se non si è lavorato con le famiglie, se non si è individuato il problema nella rete amicale è difficile immaginare che questi ragazzi siano del tutto cambiati, con una nuova pelle. Spesso il rientro alla normalità comporta il dismettere i panni nuovi e rimettere i panni vecchi”. Ed ecco, dunque, la necessità, secondo l’esperta, di un potenziamento della rete di assistenza sociale territoriale, di spazi di ascolto, di percorsi più mirati. Napoli. Lo Stato per vincere ha perso: ha seppellito i clan che sono stati sostituiti dalle bande di Gioacchino Criaco Il Riformista, 7 ottobre 2020 Sono guaglioni a miez’a via. Figli di una Napoli che partorisce la prole direttamente sul marciapiede, in una nuttata fatta per non passare, prossima a un’alba che è una beffa: così vicina ed eternamente irraggiungibile. Vittime, vittime, vittime: i tentati rapinatori, i poliziotti, i mancati rapinati. Uguali pur essendo diversi, uniti da un appuntamento tragico alle quattro e mezza di mattina, che se stai lì, a quell’ora, la tua vita è in bilico, qualunque sia la giacca che indossi. A Napoli lo Stato ha realizzato il paradosso perfetto: per vincere ha perso. Ha spazzato via i clan con migliaia di arresti e sepolture carcerarie e non ha saputo creare un mondo normale, le opportunità. Ha lasciato che i clan venissero sostituiti dalle bande, dall’anarchia di una malavita stracciona. E Napoli è passata dall’immoralità alla amoralità, la camorra si è trasformata in gomorra e le pistole, a volte finte, sono finite in mano ai bambini: che non c’è un meglio o un peggio, un prima o un dopo. È tragedia sempre, solo con meno speranza, con vie d’uscita ridotte. Luigi guidava il motorino e Ciro stava dietro, la versione della Polizia è che abbiano tentato di rapinare tre ragazzi che avevano appena parcheggiato la macchina. I Falchi della squadra mobile sono intervenuti: Ciro ha puntato la pistola, un poliziotto ha sparato. A terra, faccia alla luna, è rimasto Luigi. La pistola è risultata finta, ma questo non cambia le cose, e non ci saranno piazze piene a chiedere verità, si lascerà urlare una madre in solitudine, la mamma di un ragazzino di 17 anni che non è più figlio della città, ne sta cercando una migliore fra le nuvole. Ha raggiunto Ugo, che per un rolex è morto uguale a 15 anni, qualche mese fa. Staranno insieme ai tanti bambini di Napoli che nella vita hanno fatto da tappeto all’asfalto. Staranno insieme ai morti del passato, che campavano qualche anno in più perché i clan comandavano e i Falchi le pistole le usavano raramente: la camorra era orribile ma restava un fatto da grandi. I bambini, per quel paradosso perfetto della vittoria-sconfitta, non si azzardavano a salire sui motorini di notte, e nemmeno uno soprannominato Carogna si sarebbe lasciato sfuggire il figlio dal controllo. C’era una legge dei fuorilegge, ignobile non buona, ma che aveva una breccia in cui potersi infilare e mutare il destino, si poteva oltrepassarla per costruirle contro qualcosa di buono. La speranza di salvare. Lo Stato ha eliminato i prodotti della disperazione, ha lasciato intatte le ragioni del disagio, e ogni bottega che chiude, ogni saracinesca che si abbassa, ogni porta sbarrata in faccia al bisogno, è una banda che nasce, un cane arrabbiato che si scioglie: infrange un patto sociale tradito. Oggi il terreno è senza punti di riferimento, la malavita è nebbia: l’attraversi e si riforma alle spalle. Napoli non lo ha più un Eduardo che la porti sul palcoscenico, le note di Pino Daniele non li bazzicano i vicoli, il genio di Maradona è sostituito dalla burocrazia dell’ASP. La città nemmeno si è accorta che un bambino è mancato, Napoli è una madre distratta, se accenni alla rapina non pensano a quella in cui Luigi è volato giù dallo scooter: scattano, imprecando, riferendosi al Napoli che non ha giocato a Torino e temono che gli venga rapinata la partita. Luigi è morto perché Napoli, il Sud, non sanno fare le rivoluzioni: i meridionali si agitano un poco per poter dire, dopo, che si stava meglio quando si stava peggio. Per poter fare le restaurazioni, campo in cui sono campioni imbattibili. Luigi è morto perché tutti capissero quanto Napoli sia andata a fondo, con quelli che si aggrappano sulle salite aristocratiche e non le sentono le urla dei bambini, giù nei quartieri. Viterbo. Torture nel carcere, detenuto denuncia: “Mi hanno squagliato plastica sulle dita” di Valerio Renzi fanpage.it, 7 ottobre 2020 Un nuovo grave racconto di abusi e violenze arriva dal carcere Mammagialla di Viterbo, dove un detenuto trasferito da pochi mesi racconta di essere sottoposto a insulti, minacce, isolamento punitivo e arbitrario, violenze di vario genere. “Mi hanno squagliato dei pezzi di plastica sulle dita”, scrive in una missiva indirizzata alla compagna. Fanpage ha raccolto la sua denuncia e letto le sue lettere. Il carcere Mammagialla di Viterbo è un istituto penitenziario tristemente noto per le denunce di abusi da parte dei secondini nei confronti dei detenuti, dei suicidi e delle condizioni durissime di detenzione. Un buco nero nell’ordinamento democratico del nostro paese da dove, nonostante le denunce coraggiose dei detenuti, gli accessi dei pochi rappresentanti istituzionali che si interessano alle condizioni di vita e ai diritti di chi si trova in carcere, l’azione delle associazioni e del Garante, continuano ad arrivare testimonianze che parlano di torture e pestaggi. Solo lo scorso gennaio il Comitato per la prevenzione della tortura aveva comunicato una situazione preoccupante, tra violenze e insulti a sfondo razzista. Sono passati altri dieci mesi e nulla sembra essere cambiato Ecco la lettera che Valerio, arrivato al Mammagialla poco prima del lockdown, ha inviato alla sua compagna: “Usano violenze, mi hanno messo in isolamento, ogni giorno si divertono a fare degli esposti nei miei confronti. Me ne hanno già fatti quindici, tranquilla uno in più. Mi hanno messo in una stanza buia, stretta, uno schifo. La sera vengono in quattro e si divertono a squagliare della plastica sulle mie mani, un inferno. L’unica forza sei tu. Esponi quanto prima tutto. Mi dicevano ‘tanto noi ti vogliamo morto’. Invia tutto al magistrato. Noi sai come si divertono a farmi male, ma non sento nulla, sono forte no?”. Sara dopo aver letto questa e altre missive di denuncia del suo compagno, si è recata dai carabinieri, ma sporgere denuncia non è così semplice. In un primo caso gli viene consigliato di lasciare perdere e la denuncia non viene presa dai militari, così ripiega sulla caserma di Ardea dove, dopo lungo insistenze, la sua denuncia viene verbalizzata. “I carabinieri di Aprilia che non hanno voluto raccogliere la denuncia a loro volta rischiando una denuncia per omissione di atti di ufficio. Sta al magistrato decidere se i fatti denunciati hanno rilevanza penale, possono essere oggetto di ulteriori approfondimenti e così via”, chiarisce Rita Bernardini del Partito Radicale che sta seguendo la battaglia di Sara. Chi segue quotidianamente quello che accade nel Mammagialla è Alessandro Capriccioli, consigliere regionale di Radicali +Europa, che spiega come si è in attesa ormai da mesi “che dalla Procura che indaga arrivino segnali di chiarezza” sulle numerose accuse di violenze e pestaggi in quello che si configura come un vero e proprio carcere con un regime punitivo. “È un contesto su cui bisognerebbe fare luce - aggiunge chiedendo di fare presto, di agire - Nessuno designa colpevoli prima che i fatti vengano dimostrati. Si deve far luce soprattutto a beneficio dei tantissimi agenti di polizia penitenziaria che lavorano bene, con grande dedizione, in condizioni ambientali e strutturali difficili”. Durante il periodo del lockdown Sara e Valerio hanno una videochiamata: “L’ho visto con gli occhi gonfi, con un cerotto in testa, con le vesciche sulle dita. Gli ho chiesto “che hai fatto?” e mi ha risposto ‘hanno preso dei piccoli pezzi di plastica e me li hanno squagliati sulle dita”. Poi quella frase che la donna non si riesce a togliere dalla testa: “Sono sepolto vivo”. Ciclicamente, dopo il racconto di fatti gravi e gravissimi, i riflettori si riaccendono su quello che accade dentro il Mammagialla. Sarebbe ora di non spegnerli più finché le cose non cambieranno. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Pestaggi in carcere, FdI chiede di premiare gli agenti di Nello Trocchia Il Domani, 7 ottobre 2020 I deputati di Giorgia Meloni vogliono l’encomio solenne per gli agenti indagati. In una interrogazione parlamentare gli esponenti di Fdl chiedono il riconoscimento per i poliziotti della Penitenziaria che sarebbero coinvolti nelle violenze di Santa Maria. Matteo Salvini, leader della Lega, lo scorso 11 giugno, è andato a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, per esprimere la sua vicinanza agli agenti della polizia penitenziaria. Quel giorno 57 di loro sono stati destinatari di un decreto di perquisizione, indagati dalla procura per reati gravissimi come abuso di autorità, violenza privata e tortura per i fatti accaduti in nel carcere della cittadina campana i16 aprile. L’iniziativa del leader della Lega non è niente, però, rispetto a quanto è accaduto il 15 giugno quando quindici deputati di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, hanno chiesto al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, di conferire un encomio solenne agli agenti della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Un encomio ad agenti indagati per tortura e incastrati dai video ripresi dalle telecamere di sorveglianza. Il pestaggio degli agenti Il 6 aprile un contingente di 300 poliziotti penitenziari entra nel carcere Francesco Uccella, la perquisizione finisce con pestaggi e violenze contro i detenuti. I fatti vengono denunciati, subito, dai garanti per i detenuti e dall’associazione Antigone. Manca la prova, si resta nel campo delle ipotesi, dei dubbi, delle ricostruzioni contrapposte. Il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dice che non è possibile che ci siano stati episodi di violenza e che i poliziotti siano entrati in carcere con caschi e volti coperti. Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato la notizia dell’esistenza di video che mostrano i pestaggi, confermati da testimonianze incrociate di un detenuto picchiato oggi libero di raccontare la sua verità, ma anche di un alto funzionario del Dap. In mezzo c’è un atto ufficiale della procura di Santa Maria Capua Vetere. Lo scorso 11 giugno i carabinieri hanno infatti notificato un decreto di perquisizione a 57 agenti, indagati con accuse gravissime che vanno dalla violenza privata alla tortura. Il primo a difenderli è stato Salvini. Sollecitato dagli agenti, l’ex ministro è corso all’esterno del carcere per abbracciare gli indagati. “Le rivolte non si tranquillizzano con le margherite, pistole elettriche e videosorveglianza prima arrivano e meglio è. Costringere domani 50 persone a venire sul posto di lavoro derisi, aggrediti e sbeffeggiati da spacciatori e camorristi è demenziale”. Sulle violenze, Salvini tagliava corto: “Qualcuno è indagato per presunte violenze senza neanche essere sul luogo di lavoro, uno il 6 aprile come ha fatto a torturare qualcuno a distanza visto che non era in carcere. Le violenze? vengano dimostrate”. Di fronte alle testimonianze e alla notizia dei video che mostrano i pestaggi, l’ex ministro, pur sollecitato a rispondere, non ha mai voluto rilasciare un commento. Ma c’è di più. Il 15 giugno quindici deputati di Fratelli d’Italia hanno presentato un’interrogazione parlamentare. Il primo firmatario è il responsabile giustizia del partito, Andrea Delmastro Delle Vedove. “Il giorno 5 aprile 2020 - scrivono raccontando quanto avvenuto a Santa Maria Capua Vetere - è esplosa una violentissima rivolta nell’istituto penitenziario nel corso della quale circa 150 detenuti, dopo aver occupato alcuni reparti, hanno minacciato gli agenti della polizia penitenziaria con olio bollente e alcuni coltelli; dopo diverse ore, gli agenti della polizia penitenziaria sono riusciti a contenere la rivolta iniziata alle ore 20.30 circa e terminata alle ore 24.00 circa”. Nessuna menzione al fatto che il 6 aprile il magistrato di sorveglianza Marco Puglia era entrato nel carcere e aveva negato che fosse scoppiata una rivolta violenta. La ricostruzione, frutto del materiale raccolto dai deputati attraverso i sindacati di categoria, continua: “Nel corso della predetta gli animi si sono surriscaldati e vi sono stati alcuni contusi che, comunque, non hanno riportato conseguenze tali da essere ricoverati in ospedale fra i detenuti mentre 50 agenti della Polizia penitenziaria sono stati refertati”. I deputati passano poi a criticare metodo e merito dell’iniziativa della magistratura. “In data 11 giugno 2020, con operazione altamente spettacolare di dubbia utilità investigativa, la procura di Santa Maria Capua Vetere, contestando, ai danni degli agenti di polizia penitenziaria, i reati di tortura, violenza privata, abuso di autorità, asseritamente avvenuti il 6 aprile nell’istituto di pena, ha notificato 44 avvisi di garanzia ad altrettanti agenti della polizia penitenziaria e sequestrato diversi dispositivi mobili, oltre a notificare 57 decreti di perquisizione, senza alcuna discrezione e per il tramite dei militi dei carabinieri”. L’interrogazione si conclude con una richiesta al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede: “Se il ministro interpellato intenda sollecitare da parte del direttore generale dell’amministrazione penitenziaria il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa”. In attesa della risposta del ministro e nonostante quanto è emerso, il deputato Delmastro non ha alcuna intenzione di ritirare l’interrogazione e la richiesta di un encomio: “Confermo tutto, non c’è nessuna condanna definitiva”. Asti. Sanità, per la Casa di reclusione si vaglia la sperimentazione della telemedicina lavocediasti.it, 7 ottobre 2020 Modalità di visita “telematica” che potrebbe servire da prototipo anche per le case di riposo. L’assessore regionale alla Sanità del Piemonte, Luigi Genesio Icardi, ha incontrato questa mattina nella sede dell’assessorato il nuovo provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, Pierpaolo D’Andria, accompagnato dalla dirigente dell’Ufficio del Provveditorato Catia Taraschi e dal garante dei detenuti del Piemonte, Bruno Mellano. Durante l’incontro sono stati analizzati i rapporti tra le due Amministrazioni, anche alla luce delle nuove competenze sanitarie e dell’Area giuridico amministrativa dell’Unità di crisi per l’emergenza coronavirus in Piemonte. Tra gli argomenti in primo piano, la campagna vaccinazione antinfluenzale, per la quale l’assessore Icardi ha garantito ai detenuti gli stessi diritti di tutta la popolazione, con priorità alle persone over 60 e alle categorie a rischio. Molta attenzione è stata dedicata al possibile avvio di un progetto sperimentale di telemedicina per le visite in carcere, a cominciare dai centri di alta sicurezza di Asti e Saluzzo e delle case di reclusione per il 41bis di Novara e Cuneo. Un modello che, come ha osservato l’assessore Icardi, potrebbe servire anche da prototipo per le case di riposo. Si è parlato, infine, della situazione dell’assistenza psichiatrica in Piemonte e della necessità di ribadire, in ambito nazionale, l’importanza di attivare quanto prima il Fascicolo sanitario elettronico, per evitare la dispersione e la duplicazione delle informazioni sanitarie personali. Un tema, quest’ultimo, sul quale l’assessore Icardi, in qualità di coordinatore nazionale della Commissione Salute, ha già avanzato numerose sollecitazioni e che potrebbe trovare nuovo slancio grazie alle misure di semplificazione della privacy varate per l’emergenza pandemica. Sassari. Isola dell’Asinara, storie di magistrati e detenuti La Nuova Sardegna, 7 ottobre 2020 Un convegno della Camera penale di Oristano ha ricordato l’ergastolano Trudu. Grande partecipazione di magistrati nel convegno “L’Asinara liberata” organizzato dalla Camera penale di Oristano per la conclusione del corso di formazione in Esecuzione penale e Diritto penitenziario. All’interno della sala congressi del museo della Tonnara di Stintino - location alternativa per le avverse condizioni meteo climatiche dell’Asinara - si è parlato di 41bis, di ergastolo ostativo, ma anche di figure che all’Asinara hanno trascorso momenti fondamentali della loro vita professionale. Come i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ricordati in particolare da Maria Brucale del foro di Roma. Durante la sessione del mattino, dopo i saluti introduttivi del sindaco di Stintino Antonio Diana e del direttore del Parco Vittorio Gazale, si è affrontato il delicato tema del tempo della pena con gli interventi coordinati da Rosaria Manconi, presidente della Camera penale di Oristano. Si sono poi susseguiti Stefania Amato, Raffaele Bianchetti, Maria Brucale, Herika Dessì, Antonella Calcaterra, Davide Galliani, Fabio Gianfilippi, Francesco Lai, Veronica Manca, Michele Passione, Riccardo Polidoro, Domenico Putzolu, Claudio Sarzotti e Franco Villa. A concludere la mattinata il Presidente dell’Unione camere penali italiane Giandomenico Caiazza. La seconda sessione, intitolata “L’epopea di una pena: tra diritto e lirica”, si è aperta con un’esibizione musicale del quartetto d’archi del conservatorio Canepa di Sassari, ed è proseguita con la presentazione del libro “La mia Iliade” di Mario Trudu, detenuto condannato all’ergastolo ostativo che ha iniziato a scrivere il suo romanzo poema all’Asinara, e recentemente scomparso dopo aver scontato 40 anni di carcere. Ha coordinato i lavori l’avvocato di Trudu, Monica Murru, con il giornalista Natalino Piras. Presente alla manifestazione anche il fratello con alcuni familiari. È seguita una suggestiva rappresentazione teatrale per la regia di Giovanni Carroni, che ha interpretato Mario Trudu, e la partecipazione del complesso vocale di Nuoro diretto da Franca Floris. Padova. “Pallalpiede” ha deciso di rinunciare per questa stagione a disputare il torneo di Daniele Pagnutti Il Gazzettino, 7 ottobre 2020 La Polisportiva “Pallalpiede”, società che organizza da sei anni la partecipazione di una squadra di detenuti del carcere Due Palazzi al campionato di terza categoria, ha deciso di rinunciare per questa stagione a disputare il torneo. Vista l’emergenza epidemiologica dovuta al Covid19, Pallalpiede aveva già ottenuto il rinvio delle prime due partite nel tentativo di trovare un protocollo adeguato ad evitare eventuali contagi derivanti dall’ingresso di società calcistiche ospiti all’interno del Due Palazzi. Per motivi facilmente comprensibili, infatti, la squadra di detenuti disputa tutte le partite sul terreno di gioco del carcere, anche quelle in trasferta. Perciò, il comitato regionale della Figc e il delegato padovano Giampiero Piccoli avevano intrapreso una serie di confronti con Claudio Mazzeo, direttore della casa di reclusione, e con Lara Mottarlini, presidente della società, per discutere la situazione e verificare se c’erano le condizioni di sicurezza sanitaria per impedire la diffusione del virus fra i detenuti. Questa verifica non ha dato esito positivo. Pertanto, “al fine di evitare qualsiasi rischio connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, è stato deciso di comune accordo di sospendere la partecipazione della società Pallalpiede al campionato di terza categoria. Quella di Pallalpiede è un’esperienza unica in Italia, un progetto pilota che intende usufruire della pratica sportiva nel quadro del reintegro delle persone nella vita sociale una volta conclusa la pena detentiva. Un progetto che fin qui aveva dato buoni frutti, non solo sul piano sportivo - la squadra era sempre risultata molto competitiva nonostante il frequente turn-over dei giocatori - ma anche su quello comportamentale, perché nei suoi cinque anni di partecipazione al campionato Pallalpiede aveva sempre vinto la coppa disciplina messa in palio dalla Figc per la squadra più corretta in campo. Dell’esperienza di Pallalpiede hanno spesso riferito gli organi di informazione e l’anno scorso anche Sky aveva partecipato alla presentazione della squadra. La Figc veneta ha comunque tenuto a precisare che Pallalpiede tornerà a giocare in campionato non appena l’emergenza covid sarà stata superata. La pena detentiva nei suoi percorsi contraddittori e dolorosi di Massimo Congiu Il Manifesto, 7 ottobre 2020 “Carcere, idee proposte e riflessioni” di Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti della Campania, per Rogiosi editore. Un libro che “racconta la storia di molti uomini rinchiusi, scoraggiati e abbandonati, ed è accompagnato dall’esperienza di molti operatori e volontari che toccano con le loro mani il terreno spinoso delle nostre strutture penitenziarie, con l’obiettivo di aiutarci a capire quanto sia difficile il loro compito”. “Carcere è l’anagramma di cercare”, così Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti della Campania, esprime la sua visione delle pene detentive. Sfruttare il periodo di reclusione per andare alla ricerca di sé stessi, provare a ricostruire un dialogo intimo e riuscire, magari, a perdonarsi dopo aver elaborato i propri errori. Un percorso che risulterebbe agevolato da condizioni di detenzione rispettose della dignità umana. La pratica però ci dice che siamo ancora lontani, in Campania e nel resto del paese, dal realizzare questa situazione. Carcere, idee proposte e riflessioni (Rogiosi editore, pp. 192, euro 12,50) contiene la quarantennale esperienza di Ciambriello a contatto con i carcerati, con i loro problemi e con quelli degli addetti che sono partecipi, insieme ai primi, delle numerose criticità esistenti nei nostri affollati istituti di pena. Sentimenti di rabbia, scoramento, la convinzione di non avere ormai più posto nel mondo di fuori animano spesso i detenuti; ma da qualche parte, tra di loro, alberga il rifiuto della rassegnazione e dell’idea che sia tutto finito, un rifiuto che va coltivato in funzione di una rinascita da cercare, per quanto difficoltosa e impegnativa. Scrive Ciambriello che il libro “racconta la storia di molti uomini rinchiusi, scoraggiati e abbandonati, ed è accompagnato dall’esperienza di molti operatori e volontari che toccano con le loro mani il terreno spinoso delle nostre strutture penitenziarie, con l’obiettivo di aiutarci a capire quanto sia difficile il loro compito”. La funzione rieducativa della pena carceraria è sancita dall’art. 27 della Costituzione; in altri termini la pena non può essere considerata esclusivamente un castigo né può consistere in trattamenti contrari alla dignità umana. È la privazione di quest’ultima a ostacolare il principio costituzionale del recupero; essa ha luogo con i già citati fenomeni di sovraffollamento e con la scarsa quando non assente attenzione nei confronti di tutta una serie di problematiche e di disagi frequenti fra i detenuti. Tra essi quelli dovuti alla mancanza di dialogo, all’insufficienza del tempo dedicato alle attività di studio e apprendimento di un mestiere in funzione di un futuro reinserimento sociale, all’abbandono dei reclusi afflitti da problemi psichici, cose che negano qualsiasi prospettiva di recupero e cambiamento. Quello dei suicidi in carcere, fenomeno in crescita l’anno scorso, è per l’autore del libro “l’epilogo che chiude la porta alla speranza”. È la fine di una storia, una delle tante storie di umanità, sbagliata quanto si vuole ma sempre umana. E brani di queste storie, ricordi, sensazioni, sono raccontati brevemente nel libro da ex carcerati che ripensano a quegli interminabili pomeriggi nelle celle quando terminano le attività mattutine “e si spalanca il vuoto”. Nel libro le testimonianze di detenuti ed ex, spesso caratterizzate da sfumature agrodolci, si uniscono ai ricordi di Ciambriello, quelli degli anni ‘70 e dell’inizio del decennio successivo, epoca di grandi riforme in termini di gestione delle pene carcerarie con l’introduzione e l’ampliamento dei trattamenti alternativi alle misure puramente detentive e di cambiamenti sul piano della giustizia minorile. Una stagione di speranze di cui è tuttora oggetto il pianeta carcere che l’autore descrive nella sua quotidianità dedicando ampio spazio alle figure d’ausilio e a quella del garante sempre più esposta a critiche strumentali provenienti dal giustizialismo bieco di certa parte politica. Presenti nell’opera contributi focalizzati su argomenti specifici: l’analisi della fenomenologia carceraria da parte di Celestina Frosolone, Liberare i minori, educare gli adulti di Anna Malinconico, le detenute madri di Anna Buonaiuto e il tema dei sex-offenders curato da Dea Demian Pisano, valide collaboratrici e compagne di viaggio del garante nonché studiose delle materie in questione. Il libro invita a una riflessione su cosa sia oggi la detenzione ed è riassunto dall’anagramma della parola carcere che per Samuele Ciambriello “è un luogo in cui si cerca ancora: altre persone, una nuova identità, un sogno: un ritrovarsi insieme anche per risarcire, metabolizzare il dolore causato agli altri e alla stessa società” e magari anche a sé stessi, si potrebbe aggiungere. “Quei ragazzi di Mare Fuori li conosco già dall’infanzia” di Alessandro Ferrucci Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2020 Anna Ammirati è tra i protagonisti della serie tv di Rai1 sul carcere minorile di Napoli. “Sono nata in quella realtà”. Il rovescio dei piani, non la sovrapposizione, è negli occhi di Anna Ammirati quando parla di “Mare Fuori”, la serie tv di Rai1 dedicata ai ragazzi “ospiti” di Nisida, l’istituto di Pena Minorile di Napoli. “È stato un po’come ritrovare gli occhi dei miei compagni di viaggio quando da adolescente prendevo la Circumvesuviana per andare a scuola. E con il passare degli anni ho visto mutare i loro sguardi”. Lei nella serie interpreta Liz, un’educatrice non totalmente in grado di schermarsi da certe storie; storie che le invadono l’io, le relativizzano l’esistenza, affondano nel suo regresso. “Il focus è sul punto di vista dei ragazzi, delle loro famiglie, e il rapporto che si costruisce con gli educatori”. Lei quella realtà la conosce bene. Tempo fa, per uno spettacolo teatrale, avevo bisogno di entrare meglio dentro certi meccanismi famigliari, dentro il sistema della delinquenza. E... Rifletto sulla responsabilità degli adulti; (silenzio) c’era un ragazzo che desiderava diventare barbiere, ma il fratello, boss del quartiere, glielo impedì con ogni mezzo seduttivo. Un classico... Ripenso a cosa gli gridava perché non era in grado di tenere in mano una pistola: “Ti devi far rispettare, non fare il ricchione”. È cresciuta da quelle parti... A Torre Annunziata: non è stata una passeggiata, per fortuna sono nata in una famiglia solida e presente. È l’unica salvezza. Altrimenti? Come dicevo prima, per me la Circumvesuviana ha rappresentato lo schermo più nitido rispetto alla realtà che vivevo: già allora guardavo i compagni di viaggio e tentavo di andare oltre gli input esteriori. Cioè? Dalla seconda fermata i vagoni si riempivano di eroinomani, spacciatori, piccoli ladri: un’umanità varia e disperata. Tutti i giorni così. E alcuni oramai li conoscevo di vista, avevo imparato a decifrare i loro momenti bui, i tic, le nevrosi, i timori. Soprattutto gli occhi infossati. Non mentono... Lo sguardo da vivace e attento, magari in caccia di una preda, diventava arreso e diretto all’ineluttabile. Poi all’improvviso quegli occhi sparivano e non sapevo se erano morti o finiti in galera. A un certo punto è andata a vivere a Roma: fuga o altro? Entrambi gli aspetti: per un lungo periodo mi sono sentita in conflitto con la mia realtà d’origine; (sorride) quando ho letto Gomorra, non mi sono sconvolta come la maggior parte delle persone. L’avranno presa per snob. Forse, in realtà per me era solo una fiction sulla mia infanzia. Rispetto a 30 anni fa, com’è cambiata Napoli e l’hinterland? Si sono mostrificati di più; però a vedere dove sono nata ci sono tornata una sola volta. È entrata in carcere, ha parlato con i ragazzi... Un paio di volte e l’effetto è straniante, ho avuto la percezione di confrontarmi con persone che sbagliano non dei delinquenti assoluti da emarginare. L’approccio loro con lei. (S orri de) Molto vivace, con un paio di apprezzamenti colorati; ma era previsto, è un modo per incutere timore, o solo difendersi. In certi casi l’errore più banale è quello di scomporsi, mostrarsi offesi o superiori. Per gli attori a volte è complicato schermarsi. Invece in alcuni casi è importante trovare le forze per permettere alle emozioni di affrontare le nostre convinzioni: non si può sempre e solo restare degli spettatori partecipi. Insomma, un po’ è fuggita da lì... Da ragazza? Quando mi presentai al provino per entrare all’accademia di teatro, temevo di non aver studiato alla perfezione. Io ci tenevo tantissimo e loro erano giustamente esigenti. Quindi? Durante il saggio capii che non stavo rendendo secondo le aspettative: decisi di simulare uno svenimento. Funzionò? Sì, salvo poi mandarmi via perché avevo accettato il ruolo da protagonista in un film di Tinto Brass (silenzio, sorride). Ma? Come dicono quelli bravi? Quella è tutta un’altra storia. Adesso mi interessa aiutare questi ragazzi che sbagliano. Cinema e diritti: sei film per ripensare il presente di Orlando Trinchi Il Dubbio, 7 ottobre 2020 Migrazioni, discriminazione e speculazione economica: con la rassegna “Internazionale a Roma” tornano i grandi temi dell’attualità. Riparte il cinema, dopo l’emergenza sanitaria prodotta dal Covid-19 e il relativo lockdown. Riparte con tutte le precauzioni del caso, suggerite da una situazione che risulta tuttora problematica. E, dopo le asperità della pandemia e dell’isolamento, i sei film al centro della rassegna “Internazionale a Roma” - dal 6 all’ 11 ottobre al Palazzo delle Esposizioni - offrono altrettanti spazi di riflessione sui temi dei diritti umani e dell’attualità più stringente, invitando a rifuggire comodi ripiegamenti solipsistici o giudizi di maniera. Curata da Cine Agenzia per Internazionale, la manifestazione, a ingresso libero fino a esaurimento posti con prenotazione obbligatoria, presenta pellicole di impegnati registi e documentaristi provenienti dalle realtà più diverse, come i tedeschi Carmen Losmann e Marc Wiese, l’austriaca Katharina Weingartner, gli statunitensi Ian Cheney e Sharon Shattuck, il cinese Zhou Bing e la danese Mira Jargil. Tante le tematiche affrontate, tanti gli sguardi gettati su un presente inquieto. Si parte dal lungometraggio “Reunited” di Mira Jargil, che esplora le problematiche connesse alle migrazioni attraverso la storia di una famiglia siriana approdata in Occidente e delle infinite peripezie burocratiche che ne ostacolano il ricongiungimento. Non mancano lavori incentrati sulle restrizioni delle libertà promosse da taluni governi - quella di stampa in primis - e sulle accese contestazioni che le accompagnano. In “We Hold The Line” di Marc Wiese, trova spazio la testimonianza del brutale regime del presidente filippino Rodrigo Duterte, fornita dalla giornalista Maria Ressa - scelta dalla rivista Time come persona dell’anno 2018 - e dai suoi colleghi della redazione del sito di notizie Rappler, che per la loro attività sono stati oggetto di campagne di discredito via web e di minacce alla professione e alla loro stessa incolumità. Recentemente arrestata, Maria Ressa è stata destinataria, sul Washington Post, dell’appello di 400 intellettuali al presidente americano Trump affinché convinca il regime di Manila a porre fine alle persecuzioni contro di lei. “Hong Kong Moments” di Zhou Bing, dal canto suo, racconta la vita di sette cittadini di Hong Kong, diversi fra loro sia per estrazione sociale che per orientamento politico, durante i moti di protesta che, da oltre un anno, vedono contrapposti i movimenti a favore della democrazia da una parte e il governo della regione e la polizia dall’altra. A far luce sulle criticità del sistema capitalistico contemporaneo e sul rapporto diretto tra crescita dell’economia e dei profitti e indebitamento delle persone ci pensa il documentario “Oeconomia” di Carmen Losmann, mentre la questione della discriminazione sessista - che dal venire escluse come destinatarie di mail importanti o vedersi assegnare laboratori di minuscole dimensioni può spingersi fino al livello di vere e proprie molestie sessuali - è affrontata, in “Picture A Scientist” del duo Ian Cheney e Sharon Shattuck, dal punto di vista della biologa Nancy Hopkins, della chimica Raychelle Burks e dalla geologa Jane Willenbring. Problema che, ovviamente, non attiene al solo ambito scientifico. In conclusione di rassegna, Katharina Weingartner esamina in “The Fever” il nodo fra organizzazioni internazionali, multinazionali farmaceutiche ed enti portatori di interessi di vario genere e grado, coinvolti da anni nella gestione della più grande emergenza sanitaria che l’Africa si sia mai trovata ad affrontare, la malaria, che persevera nel provocare più vittime di tutte le guerre e le altre malattie che imperversano nel pianeta. Se si scoprisse che una semplice pianta, a disposizione di chiunque, fosse in grado di combattere il paludismo e salvare mille vite al giorno? Come reagirebbero le multinazionali farmaceutiche? In tempi di coronavirus, nell’attesa spasmodica di un vaccino, sarebbe utile una riflessione puntuale su valori come correttezza ed equanimità, che dovrebbero garantire la distribuzione universale delle risorse e delle cure. Migranti. L’umanità prima di tutto di Luigi Manconi La Repubblica, 7 ottobre 2020 Si può dire che, con il decreto appena approvato, i migranti e i profughi tornino a essere quelle persone in carne e ossa che sempre sono state: l’esito ultimo di un mondo attraversato da iniquità e sperequazioni. I provvedimenti del precedente governo avevano collocato in una dimensione criminale le vittime di questa tragedia economica, ambientale e politica, riducendole a problema di ordine pubblico, a minaccia sociale e, infine, a fattispecie penale. Dunque, il nuovo decreto costituisce un significativo atto di rinnovamento, che interviene su nodi cruciali dell’intero sistema. Viene ripristinata quella che era la protezione umanitaria, ora definita “speciale”, per chi nel proprio Paese rischierebbe “trattamenti inumani o degradanti”, e viene introdotto il divieto di espulsione in caso di violazione dei diritti umani nel luogo di origine; e in relazione al livello di integrazione raggiunto in Italia. Pertanto, non si potrà rimpatriare, salvo motivi di sicurezza nazionale, chi si sia inserito nel tessuto sociale del nostro Paese. Coerente con questa impostazione è la norma che prevede la convertibilità dei permessi di soggiorno in permessi di lavoro per motivi di calamità, residenza elettiva, acquisto cittadinanza o apolidia, attività sportiva e lavoro artistico, confessione religiosa e assistenza ai minori. Ancora in linea con un progetto complessivo di integrazione, si investe nuovamente sul Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), ora accessibile anche ai richiedenti asilo, ripristinando i servizi destinati all’inclusione, come l’assistenza sociale, quella sanitaria e psicologica, la mediazione linguistico-culturale, i corsi di italiano, i servizi di tutela legale e, per i rifugiati, quelli di orientamento al lavoro e alla formazione professionale. Si tratta di un passaggio decisivo. La misura più sciagurata dei cosiddetti decreti Salvini era stata proprio il drastico ridimensionamento del sistema Sprar, che aveva sortito l’effetto di precipitare un numero crescente di stranieri in una condizione di marginalità, interrompendo un faticoso processo di inserimento sociale e incrementando l’insicurezza pubblica. Operare in senso esattamente opposto, ampliando e rafforzando il sistema dell’accoglienza diffusa, basata sulla distribuzione degli stranieri per piccoli gruppi all’interno delle comunità locali, è la sola prospettiva capace di favorire la convivenza tra residenti e stranieri. E l’unica in grado di rendere l’immigrazione una reale opportunità sotto il profilo demografico, economico-sociale e culturale, riducendo per quanto possibile i conflitti interetnici. Importante: l’attività delle Ong del soccorso in mare viene liberata dal pesante pregiudizio negativo che ne oscurava l’operato, riconoscendone - fatte salve alcune condizioni - il ruolo essenziale nel salvataggio dei naufraghi. Si tratta di una questione vitale. Non penso solo al richiamo a quella che viene definita la “legge del mare”, mi riferisco all’irrinunciabile diritto-dovere al soccorso quale principio fondativo del vincolo di reciprocità, del legame sociale e della stessa comunità umana. Insomma, il mutuo aiuto in stato di pericolo come l’atto costitutivo della nostra idea di società. Certo, il decreto presenta anche limiti e punti critici, come quello relativo ai tempi di conclusione della pratica per la richiesta di cittadinanza e quello che rende più rapide - quindi più sbrigative e superficiali le procedure di richiesta asilo alla frontiera. Ma resta la complessiva validità dell’impianto normativo. Va detto, infatti, che il modello-Salvini, presentato come realistico e, perciò stesso, efficace, si è dimostrato fallimentare: esso inseguiva la distopia di una velleitaria fortezza-Italia, rivelatasi drammaticamente impotente a concludere accordi con i Paesi di emigrazione e a controllare sia gli sbarchi informali (quelli dei cosiddetti “barchini”), che i flussi da rotte diverse da quella del Mediterraneo. Da oggi è possibile realizzare una politica dell’immigrazione più razionale, da collegare al negoziato - assai impervio - con l’Unione Europea, per un programma di effettiva e obbligatoria ricollocazione di chi sbarca in Italia. Per farlo, sarebbe bene superare le arretratezze e le pesanti cautele che ancora gravano sul testo del nuovo decreto. Uno slancio maggiore e un atto di fiducia negli italiani (e negli stranieri) non sarebbero segni di imprudenza, bensì di oculata saggezza. I diritti alla prova della pandemia, la detenzione amministrativa dei migranti di Susanna Ronconi dirittiglobali.it, 7 ottobre 2020 Intervista a Gennaro Santoro. La pandemia ha avuto un impatto significativo anche nei molti luoghi della detenzione amministrativa - hotspot, Cpr fino alle navi quarantena - dove sono segregati i migranti. Cild, Coalizione Italiana Libertà e diritti Civili, ha analizzato nel Rapporto Detenzione migrante ai tempi del Covid la gestione della pandemia in queste strutture e le sue conseguenze in termini di diritti, diritto e condizioni delle persone che vi sono rinchiuse. Ne parla in questa nostra intervista redazionale Gennaro Santoro, avvocato di Cild ed estensore del Rapporto. Per tutti noi, la limitazione della libertà per ragioni sanitarie deve rispettare alcuni criteri, per esempio dimostrarsi necessaria ed essere a tempo limitato, accompagnata da una informazione corretta, ecc. Come ha inciso sulle particolari condizioni dei migranti sbarcati in Italia l’ulteriore limitazione della libertà personale dovuta alla necessaria quarantena sanitaria? Si sono poste ulteriori e specifiche questioni di violazione dei diritti, per esempio sulle navi quarantena? In realtà anche rispetto agli italiani e alle persone già presenti sul territorio italiano si pongono dubbi sull’esistenza di una informazione chiara rispetto all’obbligo dell’isolamento volontario (per tutti in fase lockdown; fuori da tale fase, per chi è stato in contatto con positivi o per chi rientra da determinati stati esteri), potendo lo stesso essere comunicato a voce da un operatore Asl. Tuttavia, essendo prevista una sola sanzione amministrativa in caso di violazione dell’isolamento fiduciario non si pongono grandi dubbi sulla violazione dell’art. 13 Cost e art. 5 Cedu. Si tratta di una limitazione della libertà di circolazione (e non di libertà personale). Ciò posto, le navi quarantena in particolare (ma analogo discorso vale per l’isolamento fiduciario all’interno degli hotspot e altre strutture, di cui diamo conto nel report, dove far espletare la quarantena ai migranti appena sbarcati) pongono quesiti e profili problematici in quanto viene di fatto limitata la libertà personale (e non di circolazione) essendo evidentemente impossibile allontanarsi da tali navi durante l’espletamento dell’isolamento fiduciario. Invero fonti secondarie dell’ordinamento italiano ad aprile hanno creato una tenue base di legalità, almeno formale, di tale limitazione della libertà personale. Il protrarsi della crisi sanitaria ha determinato le Autorità italiane a consentire l’utilizzo di navi per lo svolgimento della quarantena delle persone soccorse in mare e per le quali non è possibile indicare nel territorio italiano un cosiddetto Place of Safety (Pos) dal momento che il decreto interministeriale n. 150 del 7 aprile 2020 ha stabilito che “per l’intero periodo di durata dell’emergenza sanitaria […] i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di place of safety […] per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area Sar italiana”. La possibilità di utilizzare navi come luoghi di quarantena per migranti è stata, dunque, espressamente prevista dal decreto del Capo della Protezione civile del 12 aprile 2020 con il quale il Capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’Interno è stato incaricato di provvedere all’assistenza alloggiativa e alla sorveglianza sanitaria delle persone soccorse in mare, prevedendo che, in tali situazioni, nel rispetto dei protocolli condivisi con il Ministero della Salute, possano essere utilizzate navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria Tuttavia, l’assenza di una convalida del trattenimento su queste navi, la differenza sostanziale del trattamento tra chi proviene da determinati stati esteri, ad esempio con visto o permesso (e posto in isolamento volontario per 14 giorni e chi vi arriva con barche di fortuna, pone forti dubbi quanto meno sulla parità di trattamento e il principio di non discriminazione. Ancora: dal punto di vista della salute pubblica e dell’efficacia di questa previsione, nessuna differenza c’è tra un italiano, uno straniero regolare e un irregolare che proviene dall’estero. Ne consegue che, per ragioni di logica prima ancora che di diritto, a tutti andrebbe applicato, da un punto di vista di prevenzione sanitaria, lo stesso trattamento. Nel vostro Rapporto avete sottolineato come la proliferazione di luoghi di detenzione amministrativa dei migranti, rappresenti una giungla opaca con basi legali a dir poco incerte. Quando parlate della necessità di “una normativa di fonte primaria che riconosca chiaramente i diritti delle persone trattenute” a cosa pensate? Che vuoti deve colmare questa normativa e cosa soprattutto deve tutelare? Per rispondere a questa domanda è necessario fare una premessa sull’attuale quadro normativo italiano sui luoghi della detenzione amministrativa e del trattenimento dei migranti. Preliminarmente è opportuno rammentare che per la Corte Edu è possibile la detenzione amministrativa di migranti irregolari. (art. 5 Convenzione Edu). Tuttavia, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione perché tale detenzione sia legittima c’è la necessità (al pari del nostro articolo 13 della Costituzione) che vi sia una base legale, una legge che preveda tale forma di detenzione e una convalida di un giudice che certifichi che quella detenzione è giusta; infine, è necessario che vi sia un giudice al quale poter ricorrere per sostenere che quella detenzione è ingiusta e illegittima o per lamentarsi rispetto alle condizioni di detenzione. Tutti questi aspetti sono stati chiariti nella nota sentenza di condanna dello stato italiano nel 2016 nel caso Khlaifia. Ciò posto, nell’ordinamento italiano, mentre la privazione della libertà personale degli stranieri nei Cpr è astrattamente giustificata alla luce dell’art. 15, §1, della Direttiva 115/2008/CE (c.d. Direttiva Rimpatri), i cui principi sono stati recepiti nel diritto interno all’art. 14 d.lgs. 286/98, lo stesso non può dirsi per gli hotspot. Questi ultimi, infatti, letteralmente “punti di crisi” creati per la gestione dei flussi migratori eccezionali per dare sostegno agli Stati membri in prima linea nell’affrontare le fortissime pressioni migratorie alle frontiere esterne dell’UE, sono stati previsti per la prima volta da una fonte non normativa. Più nello specifico: i centri Hotspot vengono introdotti in Italia dalla “Roadmap” elaborata dal governo ai sensi dell’Agenda Europea sull’immigrazione del maggio 2015. In funzione dalla fine del 2015, hanno ricevuto un parziale avallo giuridico con il decreto legge 13/2017 (così detto decreto Minniti). Il tempo di permanenza in tali strutture, di fatto, può variare da un giorno a settimane e, in casi eccezionali, si è protratto fino a quasi due mesi. Formalmente e ufficialmente in tali luoghi è limitata la libertà di circolazione e non la libertà personale. Nella sostanza, invece, le persone non possono allontanarsi dagli hotspot e perdura l’assenza di una base legale di tale privazione stante la riserva di legge prevista dall’art. 13 della Costituzione e dall’art. 5 Convenzione Edu. Anche a seguito dell’entrata in vigore della legge 132/2018 (conversione in legge del così detto decreto Salvini), la convalida del trattenimento in tali strutture è formalmente circoscritta ai soli richiedenti asilo e, di fatto, tale forma di convalida non ha mai avuto luogo. Di conseguenza continua a non esistere una base legale e un giudice della convalida per la detenzione in tali strutture. In conclusione, la privazione della libertà personale negli hotspot e sulle navi quarantena non ha una base legale perché non c’è nessuna legge che prevede questa forma di privazione della libertà personale. In molte occasioni durante la pandemia Cild, insieme a molte altre associazioni della società civile, ha denunciato come la detenzione nei Cpr fosse priva di basi legali, stante che la chiusura delle frontiere causa Covid-19 rendeva impossibile effettuare i rimpatri. Ha avuto qualche ascolto o effetto questa denuncia? E cosa sta avvenendo adesso che le frontiere sono (per lo più) aperte? Come emerge dal Rapporto, l’effetto delle denunce di Cild e altre associazioni ha avuto l’effetto della sostanziale diminuzione delle presenze nei Cpr durante la fase del blocco dei voli. Ora si assiste a un nuovo aumento delle presenze, nonostante non si abbia notizia di rimpatrio di persone presenti nei Cpr stessi. Quali sono le più importanti iniziative in campo o previste da parte delle associazioni? E la pandemia ha lasciato delle “lezioni apprese” che concorrono a ridisegnare l’agenda del movimento per la riforma delle leggi e delle politiche sulle migrazioni? La partita più importante si gioca in Europa e in Italia. Nell’ambito del Consiglio d’Europa continua ad avere grande rilevanza sia il monitoraggio che il Comitato dei ministri sta effettuando sull’applicazione della sentenza Khlaifia, sia la pendenza di almeno 9 procedimenti innanzi alla Corte Edu relativi a detenzioni simili al caso Khlaifia per fatti avvenuti nel 2018, 2019 e 2020. In ambito italiano il Terzo settore e le associazioni giocheranno un ruolo importante nelle proposte di modifica dei decreti Salvini, che solo apparentemente vanno a colmare le lacune di cui alla sentenza Khlaifia. La pandemia ha solo amplificato l’inutilità della detenzione amministrativa, utile a parlare alla pancia degli elettori ma non a risolvere problemi. Bisogna continuare a sostenere che la detenzione in hotspot è illegittima, quella in Cpr dovrebbe essere limitata a 30-60 giorni ricorrendo maggiormente alle alternative alla detenzione. Migranti. Decreti sicurezza, il nuovo testo blinda le frontiere di Carlo Lania Il Manifesto, 7 ottobre 2020 Esame veloce delle domande di asilo per chi elude i controlli o arriva da un Paese sicuro. Via le maxi multe alle ong ma non si chiude alla Libia. Più luci che ombre, ma queste ultime ci sono. La riscrittura dei decreti sicurezza di Matteo Salvini, varata lunedì notte dal consiglio dei ministri, manda definitivamente in soffitta le misure anti migranti volute dal leader della Lega, senza però arrivare a cancellare l’impostazione di fondo che vede ancora l’immigrazione come un problema di sicurezza. Al punto da fare dell’Italia una sorta di laboratorio nel quale sperimentare alcune delle misure inserite nel piano europeo su immigrazione e asilo presentato nelle scorse settimane a Bruxelles. Un esempio di questa impostazione si trova all’articolo 2 del decreto (“Disposizioni in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale”) che prevede la possibilità per le commissioni territoriali di esaminare le richieste di asilo “entro sette giorni dalla data di ricezione della documentazione” da parte della questura, arrivando a una decisione “entro i successivi due giorni”. Una procedura accelerata che rischia di compromettere pesantemente il diritto di chiedere asilo e riservata a quanti presentano la domanda dall’interno di un Centro per rimpatri e a chi viene fermato alla frontiera per aver eluso i controlli (esclusi quindi i migranti tratti in salvo da una nave). Ma anche per chi arriva da un Paese ritenuto sicuro. Per queste categorie, la richiesta può essere valutata in tempi stretti e “direttamente alla frontiera o nelle zone limitrofe”. Un’altra questione riguarda le navi delle ong. Non ci sono più le maxi multe introdotte da Salvini per le navi che non rispettano il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane (la cui decisione torna al ministero dell’Interno solo per ragioni di sicurezza pubblica) e le sanzioni tornano a quelle previste dal codice della navigazione (tra 10 mila e 50 mila euro) ma potranno essere decise, grazie alla trasformazione del reato da amministrativo a penale, solo da un giudice al termine di un processo. Nessuna sanzione però se il salvataggio viene comunicato al centro di coordinamento competente e al Paese di bandiera della nave ed effettuato “nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e soccorso in mare”. Punto controverso, quest’ultimo, visto che scritta in questo modo la norma non esclude che a fornire indicazioni su dove sbarcare i migranti possa essere anche la Libia, Paese verso il quale nessuna nave delle ong accetterebbe mai di dirigersi. Per quanto ammorbidita dal continuo riferimento al rispetto dei trattati internazionali, resta comunque l’impronta punitiva nei confronti delle navi umanitarie, molte delle quali ieri non hanno fatto mancare critiche al provvedimento. Come si è detto nel nuovo decreto non mancano però gli aspetti positivi. Primo fra tutti l’estensione della protezione speciale a nuove categorie di migranti vulnerabili con la possibilità di convertire il permesso di soggiorno in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Introdotto anche il divieto di respingimento o rimpatrio verso Paesi nei quali vengono compiute violazioni dei diritti umani Altro punto di vera discontinuità con i decreti del precedente governo riguarda l’accoglienza dei richiedenti asilo. Il testo licenziato dal consiglio dei ministri prevede un nuovo sistema denominato Sai (Sistema di accoglienza e integrazione) formato da due livelli: un primo, gestito dai prefetti, che si occuperà della prima assistenza, e un secondo gestito dai Comuni dove avviare l’integrazione e composto da centri piccoli con al massimo cento persone. Reintrodotta anche la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe comunale e di chiedere una carta di identità valida tre anni, mentre scende da 180 giorni a 90 il periodo massimo di detenzione all’interno dei Centri per il rimpatrio, prorogabili di altri 30 se il migrante appartiene a un Paese con cui l’Italia ha sottoscritto un accordo per i rimpatri. Novità infine anche per quanto riguarda le domande di cittadinanza. I tempi di attesa di una risposta, fatti salire da Salvini fino a 48 mesi, scende a 36, mentre il termine fissato prima dei decreti sicurezza era di 24. Un altro punto su cui l’esecutivo avrebbe potuto mostrare maggiore coraggio. Scontata la reazione di Salvini, che ieri ha definito “decreti clandestini” il nuovo provvedimento e annunciato una raccolta di firme per bloccarlo. Migranti. Fiaccolata per Abou, morto in Italia a 15 anni dopo le torture in Libia di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 7 ottobre 2020 Proprio quando si riparla di decreti sicurezza, un caso tragico getta pesanti ombre sulla gestione dell’immigrazione. Si tratta della scomparsa di Abou, un ragazzo di 15 anni, migrante della Costa d’Avorio, sbarcato dalla nave quarantena Allegra, in rada a Palermo, e deceduto presso l’ospedale Ingrassia del capoluogo siciliano i primi giorni di ottobre. Per questo ieri sera si è svolta una fiaccolata organizzata dal Forum Antirazzista di Palermo, per ricordare Abou e mostrare vicinanza “a tutte le persone che sono costrette dopo viaggi ed esperienze terrificanti e dopo le torture e le violenze in Libia a subire respingimenti, odio e rifiuto da parte della nostra Unione europea. Vogliamo dare l’abbraccio che Abou ha cercato e non ha ricevuto”. Tutto comincia l’8 settembre scorso quando la nave della Ong spagnola Open Arms salva e carica a bordo 83 naufraghi partiti da Zuara in Libia. Da quello che è stato ricostruito in quei momenti sembra accertata la presenza di un ragazzo proveniente dalla Costa d’Avorio. I medici di Emergency riscontrano casi di scabbia “problemi di malnutrizione e scabbia. Un altro ragazzo presenta una lesione da decubito sulla natica sinistra a causa di tutto il tempo passato seduto nelle prigioni libiche”. Due giorni dopo, mentre la Open Arms è in attesa di un porto dove sbarcare, altre 87 persone vengono tratte in salve e l’11 settembre se ne aggiungono ben 116 fino a raggiungere 276. Dopo che Malta e Italia rifiutano un attracco sicuro, il 18 i migranti vengono trasbordati sulla nave Allegra per la quarantena. La cosa non avviene in modo tranquillo, 126 persone tentano la fuga gettandosi in acqua, altre 140 rimangono a bordo ma la situazione è tragica. La quarantena inizia in condizioni di salute precarie a causa delle torture subite in Libia e dalle privazioni del viaggio. Abou è tra loro e il suo stato psico-fisico peggiora velocemente. I suoi compagni si allarmano e chiamano urgentemente un medico che visita il ragazzo. Il referto è chiaro: “Mi riferiscono - afferma il personale sanitario, che (il ragazzo ndr) non parla e non si nutre da circa tre giorni. Il paziente è apiretico, apparentemente disorientato, poco collaborante... all’ispezione sono visibili numerose cicatrici verosimilmente conseguenti a torture subite in carcere... il paziente lamenta dolore in sede lombare bilaterale. Si sospetta un coinvolgimento renale conseguente a stato di disidratazione”. I medici riferiscono anche che il quindicenne rifiuta di bere e qualsiasi terapia gli venga proposta. Il 29 settembre si dichiara necessario lo sbarco e il ricovero urgente. Arrivato in ospedale il 30, è riscontrata la negatività al Covid ma viene curato per polmonite, inoltre è certo uno stress post traumatico, denutrizione e disidratazione. Abou entra in coma e muore due giorni dopo. Intanto è stato aperto un fascicolo a seguito di una denuncia ed è stata sequestrata la cartella clinica. Sarà quindi la Procura di Palermo a coordinare le indagini sulla morte del minore non accompagnato. Il tutore Rossella Puccio e il legale Michele Calantropo, autori dell’esposto hanno commentato così la loro decisione: “Noi abbiamo rappresentato tutti i fatti, inclusi quelli più anomali a partire dal fatto che i minori non accompagnati devono avere sempre un tutore, anche su una nave quarantena, che è pur sempre territorio italiano”. Migranti. Abou, 15 anni. Torturato dai libici, lasciato morire dagli italiani di Gioacchino Criaco Il Riformista, 7 ottobre 2020 Il ragazzo, della Costa D’Avorio, aveva solo 15 anni. Dopo il salvataggio in mare inizia a star male, ma viene portato su una nostra nave quarantena. E quando arriva all’ospedale Cervello di Palermo è troppo tardi. Abou è morto di stenti, di botte, lasciato nelle mani di una morte che gli era dipinta in faccia, nel corpo. Sarebbe bastato guardare. Non c’erano occhi per un mucchio d’ossa, talmente folle che si era messo in testa di compiere la grande impresa a 15 anni. Gli hanno mentito tutti: le leggende berbere, la costellazione dell’aquila, le stelle. Sarebbe bastato solo un po’ di cura, di umanità, per trasformare in realtà le favole di una speranza bambina. Abou è arrivato in Italia in un tempo sbagliato, il peggiore fra tutti i tempi passati per chi ha bisogno di un rifugio. Solo chi è convinto di essere immortale attraversa l’inferno di fuoco del Sahara, sopravvive all’inferno di botte della Libia, e affronta la distesa di sale verde del Mediterraneo. E Abou aveva affrontato tutto con serenità: la sete, la fame, le torture. Aveva vinto il deserto, le offese, il mare. Un bambino può abbattere i mostri peggiori, quello che non riuscirà mai a sconfiggere è il cinismo. E Abou, con i suoi 15 anni, non lo poteva sapere che deserto, torture, mare, sono niente. Che il mostro dei mostri è l’egoismo umano. Abou aveva solo 15 anni, era partito dalla Costa D’Avorio perché sognava di raggiungere l’Europa, ma il suo viaggio è terminato in un ospedale palermitano dove ha perso la vita dopo aver trascorso circa un mese in mare, a bordo prima della Open Arms e poi della nave quarantena Allegra. Viaggiava da solo il piccolo Abou; aveva lasciato il suo Paese per cercare una vita migliore da noi, ma nel suo tragitto ha trovato forse un centro di detenzione libico e dopo sicuramente la morte. E allora perché e come è morto il piccolo Abou? Ieri intanto è stata formalizzata al commissariato Porta Nuova di Palermo la denuncia presentata da Alessandra Puccio, tutrice di Abou, assistita dall’avvocato Michele Calantropo che ci dice: “Noi abbiamo chiesto di capire perché questo ragazzo è morto; la cartella clinica è stata sequestrata e domani (ndr oggi) alle 13:30 ci sarà il conferimento dell’incarico al medico legale per l’autopsia. La relazione autoptica potrebbe essere depositata anche fra 60 giorni. Quindi è presto per fare qualsiasi tipo di valutazione. Spetterà alla procura ricostruire quanto successo e accertare eventuali responsabilità”. Ma proviamo a ricostruire questa drammatica vicenda, grazie anche ad una nota di Open Arms ed Emergency: il calvario europeo di Abou inizia il 10 settembre scorso, quando l’imbarcazione su cui viaggiava è stata soccorsa. I superstiti, partiti da Zuara, in Libia, avevano trascorso tre giorni in mare ed erano stremati. Si presume che abbiano passato prima del tempo in una prigione libica per poi essere venduti ai trafficanti di esseri umani. Secondo il medico di Emergency, presente a bordo, al momento del salvataggio “Abou non riportava sintomi particolari, se non una forte denutrizione, comune alla maggior parte delle persone che erano sulla sua barca. Il 17 settembre, verso le 21, il ragazzo ha iniziato ad avere la febbre e un forte dolore lombare: è stato subito condotto nell’ambulatorio della nave, dove è stato sottoposto al test per il Covid-19 che è risultato negativo. Lo staff medico lo ha reidratato per via endovenosa, gli ha somministrato del paracetamolo e una terapia antibiotica, ipotizzando una possibile infezione alle vie urinarie. Quando il ragazzo ha lasciato l’ambulatorio, la febbre era scesa”. C’è da precisare, sottolineano da Open Arms, che “secondo lo staff medico, le cicatrici presenti sugli arti di Abou non sembravano riconducibili a torture o maltrattamenti recenti; sempre secondo quanto riportato da un amico che faceva da interprete, si trattava di lesioni molto vecchie che risalivano al periodo dell’infanzia”. Intanto in quei giorni Open Arms, dopo due salvataggi e con 276 persone a bordo, aveva chiesto ripetutamente - ma invano - uno sbarco sicuro alle autorità maltesi. Stessa cosa avveniva con l’Italia che però poi il 18 settembre ha concesso il trasbordo dei migranti sulla nave Allegra, in rada a Palermo. Abou è quindi stato trasferito con ancora la flebo al braccio: “al momento dello sbarco, Abou sembrava stare meglio, era salito sul rhib con le sue gambe e comunicava sia con lo staff, sia con gli altri ragazzi”, conclude Open Arms. Cominciava così la quarantena. Il 28 settembre l’ivoriano viene visitato dal medico della Croce Rossa da cui sembra emergere invece un’altra versione, secondo i dettagli di un referto che l’Agi ha avuto modo di leggere: “all’ispezione sono visibili numerose cicatrici verosimilmente conseguenti a torture subite in carcere in Libia (questo dato viene riferito da un compagno di viaggio)”. Se Abou sia stato torturato recentemente sarà quindi l’autopsia a stabilirlo. Quello che pare sicuro è che il 29 settembre “le condizioni generali del paziente appaiono peggiorate. I compagni -prosegue il documento riferiscono che si rifiuta di bere, arrivando a sputare l’acqua che gli viene offerta. Rifiuta terapia di qualsiasi tipo: il paziente necessita urgentemente di ricovero in struttura adeguata per studio approfondito di apparato urinario e reintegro alimentare per stato di grave malnutrizione e denutrizione volontaria”. Il medico chiede lo “sbarco urgente” del ragazzo. Il 30 settembre Abou lascia la nave e viene portato in ambulanza all’ospedale Cervello: i tamponi covid risulteranno nuovamente negativi, ma viene ricoverato per “polmonite” e per un forte stress post-traumatico oltre a un grave stato di denutrizione e disidratazione volontaria. Poi il coma e il trasferimento alla Rianimazione dell’Ingrassia dove troverà la morte. Ieri sera il Forum Antirazzista ha organizzato una fiaccolata a Palermo per “ricordare Abou, manifestare vicinanza a tutte le persone che sono costrette - dopo viaggi ed esperienze terrificanti e dopo le torture e le violenze in Libia - a subire respingimenti, odio e rifiuto da parte della nostra Unione europea”. Droghe in Europa. Mercati aggressivi e politiche in stallo di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 7 ottobre 2020 Il Rapporto europeo sulle droghe, curato ogni anno dall’Emcdda- European Monitoring Centre on Drugs and Drug Addiction, quest’anno mostra una versione differente rispetto alle precedenti. Pubblica come sempre dati e trend sulle droghe più diffuse nell’Unione - consumi, mercati, trattamenti - ma è monca della sua parte strategica, inerente le politiche da adottare, quel capitolo Drug-related harms and responses, in cui si indicano le priorità di intervento, con un approccio di Riduzione del danno, un buon esempio anche per ripensare la carente Relazione al Parlamento del Governo italiano. È vero che il Rapporto include la sintesi degli studi condotti sull’impatto della pandemia su consumi, mercato e servizi e relative lezioni apprese, però non c’è dubbio che la prospettiva sulle politiche manchi. Sarà che è in corso la valutazione dell’Emcdda da parte della Commissione, a 25 anni dalla sua nascita? E che questa valutazione possa mutare gli indirizzi del Centro? Peccato, comunque, soprattutto alla luce di una Strategia Europea 2021-2025 deludente e in discussione. In ogni caso, i dati (relativi al 2018 e pochi al 2019) alcune cose le dicono. Intanto, paragonando 2019 e 2020, i consumi nell’Unione (con però variazioni tra i paesi) sono stabili per tutte le sostanze, sia per la popolazione generale che per quella giovanile, non c’è nessuna impennata e nemmeno decrementi significativi: usa cannabis una volta nella vita il 27,2% degli europei (90 milioni), nell’ultimo anno il 7,6%, (+0,2) il 15% degli under 34 (+0,6); considerando l’ultimo anno, sono stabili Mdma (0,8% e 1,5% per gli under 34, +0,2%) e anfetamine (0,6% e 1,2%, +0,2%); sull’eroina non ci sono dati di prevalenza ma solo relativi all’uso ad alto rischio, che rimane stabile a 1,3 milioni, e ai trattamenti, con un aumento di 6mila casi. Infine la cocaina merita attenzione, perché se l’incremento è minimo (stabile l’uso nella vita, + 0,1% quello dell’ultimo anno e + 0,3% quello under34), e se è vero che dal 2014 è decisamente salita la richiesta di trattamento per uso problematico, dal 2017 è stabile se non, in alcuni paesi, in calo. Perché allora questo allarme? Perché il focus è sul mercato, anzi sui sequestri, che sono cresciuti in maniera esponenziale (181 tonnellate, 138 nel 2017), e perché si osserva una particolare aggressività del narcotraffico: con la differenziazione delle rotte e con una politica di prezzi stabili e qualità migliore, che fa pensare a una offerta molto maggiore nel breve periodo. Il mercato è anche protagonista del secondo allarme Emcdda, la cannabis, per cui si segnala un aumento della potenza del Thc del doppio in 10 anni, aumento che riguarda però soprattutto la resina e molto meno la pianta. In entrambi i casi - strategie di mercato e oscillazioni nella qualità - i dati sono utili e l’attenzione è necessaria, ma forse le previsioni andrebbero meglio mediate con uno sguardo sui consumi e sui consumatori, che hanno le loro strategie, apprendimenti e conoscenze, che fanno sì che maggiore disponibilità o maggiore purezza non debbano tradursi per forza in una profezia di danno conclamato. E anche le politiche sono una variabile di contesto che dovrebbe contenere i rischi da mercato illegale, le cui strategie e incontrollate variazioni impattano sulla sicurezza e la salute di chi consuma. Il Rapporto 2020, con il grave limite della mancanza di una significativa parte sulle politiche, sembra suggerire una rinnovata centralità della riduzione dell’offerta (come del resto fa la nuova Strategia), contraddicendo se stesso, a leggere i trend stabili dei consumi: tonnellate di cocaina e cannabis nelle mani delle polizie europee non hanno avuto alcun effetto. Non è tempo di pensare a politiche alternative? Libia. I pescatori italiani detenuti a Bengasi saranno giudicati dalla Procura militare di Francesco Mezzapelle primapaginamazara.it, 7 ottobre 2020 “Difficile soluzione in pochi giorni. I pescatori italiani saranno sottoposti a un procedimento da parte della Procura generale competente e saranno giudicati secondo la legge dello Stato libico”. Lo ha detto il generale Khaled al-Mahjoub, portavoce dell’autoproclamato Esercito Nazionale Libico guidato da Khalifa Haftar in un’intervista esclusiva rilasciata a “Quarta Repubblica”, il programma di approfondimento politico ed economico condotto da Nicola Porro in onda ieri sera su Rete Quattro. In studio vi era anche la moglie di uno dei 18 pescatori detenuti da più di 30 giorni nel carcere di El Kuefia, a 15 km sud-est di Bengasi; i pescherecci, “Antartide” e “Medinea”, sequestrati nella serata del primo settembre a 35 miglia dalla Libia, sono ormeggiati nel porto della stessa capitale cirenaica. Il portavoce dell’LNA ha annunciato che “sarà la Procura Militare a occuparsene perché il reato è stato commesso durante uno stato di emergenza”. Rispondendo alla domanda sulle condizioni degli 8 pescatori italiani e di altri 10 di diverse nazionalità sequestrati ormai da trentaquattro giorni, ha dichiarato: “le loro condizioni di salute sono ottime, sono in carcere a Bengasi ed è noto che noi abbiamo cura dei nostri detenuti. Hanno buon cibo, li trattiamo nel rispetto dei diritti umani. Mi risulta che abbiano avuto modo di avere dei contatti con i loro familiari. Certo, sono sotto indagine, ma non gli succederà niente al di fuori di quanto prevedono le procedure di legge. Voglio chiarire che noi non arrestiamo nessuno se non viene violata la legge e i marinai italiani hanno violato le acque territoriali ed economiche della Libia. La verità che il popolo italiano dovrebbe conoscere è, che questa non è la prima volta, ci sono state numerose precedenti violazioni. Continue”. Proseguendo, il il generale Khaled al-Mahjoub ha aggiunto: “I marinai italiani sono stati sottoposti a normali procedure di legge, nei loro confronti non c’è stata e non c’è nessuna persecuzione. Non siamo una milizia, noi siamo un’autorità e un esercito e li abbiamo consegnati alla Procura generale, competente per questo tipo di reato. È stata aperta un’indagine di polizia seguendo le procedure legali al fine di salvaguardare i loro diritti. Sarà dato un incarico a un avvocato per la loro difesa, questo nel caso in cui non ne verrà nominato uno da parte del loro Stato”. Ha aggiunto: “Riguardo alla droga, sono stati sequestrati dei materiali che dovranno essere analizzati dalle autorità competenti. Spetta agli inquirenti verificarlo e prendere provvedimenti. I pescatori italiani saranno sottoposti a un procedimento da parte della Procura generale competente e saranno giudicati secondo la legge dello Stato libico”. Poco dopo, via messaggio, Al-Mahjoub invia una precisazione alla giornalista nel quale ha scritto: “sarà la Procura Militare a occuparsene perché il reato è stato commesso durante uno stato di emergenza”. Rispetto all’indiscrezione nella quale il generale Haftar avrebbe richiesto in cambio, per la liberazione dei pescatori italiani, uno scambio con quattro libici condannati in Italia, il portavoce ha risposto: “Non esiste nessuna dichiarazione ufficiale in tal senso, però possono esistere degli accordi riguardanti lo scambio tra detenuti o tra persone condannate. Se poi in futuro verrà preso un provvedimento di rilascio in tal senso, questo non significa necessariamente che faccia parte di trattative diverse”. Infine, in merito alla presunta trattativa tra Italia e l’autoproclamato Stato libico per il rilascio dei pescatori italiani, Al-Mahjoub ha precisato: “Sono in corso certamente dei contatti. Il Governo italiano ha contattato il nostro comando generale, sicuramente abbiamo discusso della questione. Ci sono delle procedure che devono fare il loro corso. Si tratta di questioni legali, quindi è difficile che si risolva in pochi giorni. Pensiamo che la questione andrà avanti, c’è un percorso di giustizia da seguire”. Nel frattempo a Mazara del Vallo si vivono giorni di grande preoccupazione fra i familiari dei 18 pescatori sequestrati. Da alcuni giorni madri, padri, mogli, figli, che non hanno notizie dei marittimi dalla loro partenza, occupano pacificamente l’aula consiliare “31 marzo 1946”; non sono mancati i momenti di tensione quando sabato scorso hanno bloccato le strade limitrofe al Palazzo comunale. Adesso si pensa ad una grande manifestazione organizzata che possa coinvolgere l’intera cittadinanza con un ulteriore appello al Governo italiano per una più rapida soluzione della vicenda. Iran. “Liberiamo Nasrin Soutudeh e tutti i prigionieri politici” di Victor Castaldi Il Dubbio, 7 ottobre 2020 L’intervento di Michelle Bachalet, Alto Commissario per i diritti umani. Un intervento per la liberazione di tutti i prigionieri politici in un Iran sferzato dalla repressione e dal Covid. A cominciare dall’avvocata e attivista per i diritti umani Nasrin Soutudeh, condannata a n a 33 anni di carcere e a 148 frustate. “Profonda preoccupazione” arriva infatti dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michel Bachelet, per la situazione in cui si trovano attivisti per i diritti umani, avvocati - Nasrin Sotoudeh per prima - e prigionieri politici in carcere in Iran. Preoccupazione unita alla denuncia secondo cui le misure adottate dalle autorità iraniane per contenere la diffusione del virus “sono state utilizzate in modo discriminatorio contro questo gruppo specifico di detenuti”. Da febbraio le autorità iraniane hanno concesso “rilasci temporanei” per ridurre il sovraffollamento nelle carceri e contenere i rischi di contagio (l’Iran ha confermato quasi 480.000 casi di Covid-19 e oltre 27.000 morti). Ne avrebbero beneficiato, secondo i dati ufficiali, circa 120.000 detenuti. Ma ora sarebbe tutto sospeso e molti detenuti sarebbero tornati in carcere. In particolare i detenuti politici non hanno beneficiato di alcuna agevolazione per la pandemia; per il regime degli ayatollah si tratta infatti di detenuti “simbolici” la cui prigionia serve ad esercitare pressione su tutte le voci critiche che si alzano dalla società iraniana, E comunque sono rimasti esclusi i detenuti condannati a più di cinque anni di reclusione per reati contro la “sicurezza nazionale” fa notare ancora Bachelet. Condanne spesso inflitte a persone “arrestate in modo arbitrario”, anche e soprattutto “attivisti per i diritti umani, avvocati, cittadini con la doppia nazionalità o stranieri”, e altre persone “private della loro libertà di esprimere le proprie opinioni o esercitare i propri diritti”. Vittime di accuse montate ad arte e condannate in seguito a processi farsa decisi ancora prima che inizino le udienze in cui gli imputati non possono nemmeno esercitare il diritto ad avere una difesa legale. “Sono turbata nel vedere come queste misure volte a contenere la diffusione del Covid-19 vengano usate in modo discriminatorio contro questo gruppo di detenuti in particolare - ha proseguito Bachelet - Le persone detenute solo per le loro opinioni politiche o altre forme di attivismo a sostegno dei diritti umani non dovrebbero essere in carcere e questi detenuti non dovrebbero assolutamente essere trattati in modo più severo o essere esposti a maggiori rischi”. “Esprimere il dissenso non è reato - ha incalzato - È un diritto fondamentale che deve essere protetto e difeso”. Siria. “Chiudiamo i campi”: i profughi restano senza terra di Giordano Stabile La Stampa, 7 ottobre 2020 I curdi aprono le porte dell’accampamento nelle ex zone del Califfato. Dentro restano solo i miliziani dell’Isis. Gli sfollati sono più di 15 mila. Amira ha da poco compiuto cinque anni ed è in volo per Toronto, Canada. Era stata trovata dai guerriglieri curdi da sola, mentre vagava ai bordi del villaggio di Baghouz, l’ultima roccaforte dello Stato islamico in Siria, nel marzo dell’anno scorso. I suoi genitori, due canadesi, erano rimasti uccisi pochi giorni prima in un raid, assieme ai suoi tre fratellini. ll premier di Ottawa, Justin Trudeau, ha annunciato ieri il salvataggio ma ha escluso che altri ne seguiranno. Amira, come decine di canadesi e centinaia di europei, era rinchiusa nel campo profughi di Al-Hol, nel Nord-Est della Siria. La sua storia è la stessa dei quattro figlioletti di Alice Brignoli, la moglie di un foreign fighters italiano, portati in Italia dopo il suo arresto. Gli altri attendono di essere salvati ma il loro destino è sempre più incerto. Al-Hol è il più grande campo profughi per le famiglie del Califfato, metà rifugio e metà prigione, ma soprattutto un fardello per l’amministrazione autonoma curda, che non ha risorse né uomini sufficienti per gestirlo ed è assediata da tutte le parti. La Turchia lo scorso ottobre si è presa un pezzo del Rojava, il Kurdistan siriano, gli americani si sono ritirati lungo una striscia di territorio al confine con l’Iraq, mentre le forze del regime e i militari russi premono e allargano le zone sotto il loro controllo. E che l’area sia instabile lo dimostra anche l’autobomba esplosa ieri nella città di al-Bab, nella provincia di Aleppo controllata dai turchi. Il bilancio parla di 18 morti e più di 70 feriti. Curdi e turchi si accusano a vicenda. Proprio per questa pressione i curdi hanno deciso di svuotare il campo. Verranno rilasciati tutti i cittadini siriani, a parte gli ex militanti jihadisti. Sono soprattutto donne e bambini, almeno 15 mila in tutto sui 65 mila profughi che ancora vivono ad Al-Hol. I combattenti detenuti sono circa 10 mila, sia all’interno del campo che in prigioni in altre città del Rojava. I siriani sono quasi tutti delle province di Raqqa e di Deir ez-Zor, la maggior parte proviene da zone ormai passate sotto il controllo del governo di Bashar al-Assad e non sanno dove andare. “Quelli che vorranno rimanere - ha avvertito Ahmed - non saranno più sotto la nostra responsabilità”. Bisogna dar loro da mangiare e vestire, mandare i bambini a scuola e gli aiuti internazionali arrivano con il contagocce. I curdi devono chiedere aiuto al regime che in cambio rivendica la sua sovranità anche su quelle zone. Il Consiglio democratico siriano ha cercato finora di svuotare il campo poco alla volta. Le famiglie venivano rilasciate in accordo con gli sceicchi delle tribù beduine che popolano la media valle dell’Eufrate. I capi clan si facevano garanti, per evitare che gli uomini venissero riarruolati nelle cellule dell’Isis ancora attive nel deserto. In questo modo i curdi mantenevano i rapporti con le tribù arabe ed evitavano che si schierassero con i governativi, o con lo Stato islamico. Oltre quattromila persone hanno ritrovato la libertà a partire dal marzo 2019 ma adesso occorre dare una casa a 15 mila, molti ex famigliari dell’Isis. Sono “i profughi dei profughi”, i più poveri fra i poveri. La loro integrazione nelle comunità locali si è rivelato difficilissima e per Omar Abou Leila, direttore del sito d’informazione Deir ez-Zor 24, la liberazione in massa “è un atto di irresponsabilità”, con il rischio ulteriore di mescolare “famiglie dell’Isis con altre che non lo sono”. Resta poi il nodo dei foreign fighters. Circa cinquemila sono arrivati dall’Europa. Secondo l’Egmont Institute, almeno 400-500 adulti, e 700-750 bambini, dovrebbero essere rimpatriati, come ha fatto il Canada con Amira. Il Kirghizistan insorge e gira pagina, tutto in 24 ore di Yurii Colombo Il Manifesto, 7 ottobre 2020 Asia centrale. Notte di guerriglia dopo le elezioni contestate. La piazza rovescia i poteri in carica. A guidare la rivolta popolare a Bishkek i socialdemocratici esclusi con i brogli dal parlamento. Sono bastate meno di 24 ore perché un’insurrezione popolare rovesciasse, dopo le contestate elezioni di domenica, governo e presidente nella repubblica centroasiatica del Kirghizistan. Subito dopo che la tv aveva annunciato l’esito del voto che dava vincenti i partiti sostenitori del presidente Sooronbai Jeenbekov, nella capitale Bishkek, intorno alla presidenza e alla sede del parlamento si andavano radunando i membri del partito socialdemocratico, erede formale del partito comunista e membro dell’Internazionale socialista. Il partito più vecchio del paese. che ha governato fino al 2017, denunciava giganteschi brogli ai suoi danni che gli avrebbero impedito di sedere nel nuovo parlamento e invitava i sostenitori degli altri 10 partiti esclusi a unirsi a loro. Ma a cambiare la situazione ci pensava “il popolo dell’abisso” della capitale, quella massa di proletari e sottoproletari che vivono nelle banlieue di Bishkek, che davano vita a una guerriglia che accendeva la notte della capitale. I reparti antisommossa dopo ore di scontri in cui secondo l’agenzia kirghiza kloop.kr “hanno usato gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cannoni ad acqua, non sono stati in grado di fermare i manifestanti”. E così dopo la morte di un dimostrante il ferimento di altri 700, di cui 150 ospedalizzati, la polizia decideva di ritirarsi nelle caserme, non si sa se dietro indicazioni del presidente in carica o del ministero dell’Interno. Nella notte i manifestanti hanno fatto irruzione nell’edificio del Comitato statale per la sicurezza nazionale e hanno rilasciato l’ex presidente socialdemocratico Almazbek Atambayev e altri detenuti dello stesso partito e messo a sacco la residenza presidenziale. La mattina dopo entravano anche nella sede del parlamento e chiedevano, un po’ sbrigativamente le dimissioni del presidente giudicato corrotto, del governo, e l’indizione di nuove elezioni. I poteri in carica in poche ore si scioglievano come neve al sole. La commissione elettorale dichiarava le elezioni non valide e si dimetteva. Seguita in poche ore dal governo, mentre la banca centrale decideva in via cautelativa di non distribuire contanti negli sportelli bancomat. Mentre isolato e al sicuro in qualche parte del paese il presidente Jeenbekov per ora non si dimette accusando in una intervista mandata in onda dalla Bbc Russia i suoi avversari di aver ordito un colpo di Stato, il popolo kirghizo sembra aver voltato pagina e pensare già al futuro. Equidistante per ora la posizione del governo russo, primo partner commerciale del paese, che ospita milioni di migranti nelle sue grandi città europee ed è presente militarmente sul territorio con una base aerea. Una insurrezione questa - la terza in 15 anni - che mostra come la fase di assestamento politico del vicino oriente, dopo il crollo dell’Urss, non sia ancora conclusa. La Kirghizia è uno dei paesi più poveri della regione. Il reddito medio è di 1360 dollari l’anno, i poveri sono il 25,2% della popolazione e molte famiglie vivono delle rimesse che i parenti mandano dalla Russia. Il paese è il più dinamico politicamente tra quelli centroasiatici e sono attivi oltre 20 partiti, mentre i sindacati malgrado la deindustrializzazine, organizzano ancora il 20% della popolazione. Paradossalmente però è anche quello più arretrato da punto di vista civile: esiste ancora oggi, anche nella capitale, la consuetudine del “ratto della sposa” che prevede il rapimento delle donne costrette poi a sposare uomini sconosciuti.