Carceri e pandemia: riduzione del sovraffollamento ma anche nuovi disagi psichiatrici di Monia Sangermano meteoweb.eu, 6 ottobre 2020 “Il sovraffollamento degli Istituti Penitenziari è decisamente migliorato: si è passati dal 20,3% al 6,6%, per l’assenza di arresti nel periodo del lockdown”. La pandemia di Covid-19 ha colpito anche le carceri, provocando diversi effetti. Fortunatamente i casi di Covid-19 sono stati sporadici e non particolarmente critici. “Dopo le proteste iniziali e gli inevitabili timori che le carceri divenissero una polveriera, le norme previste dal Dpcm dell’8 marzo per gli istituti penitenziari hanno consentito di limitare i contagi: i casi sintomatici dei nuovi ingressi sono stati posti in isolamento; i colloqui si sono tenuti in modalità telematica; sono stati limitati i permessi e la libertà vigilata” evidenzia il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico SIMSPe - Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari - Tuttavia, con questa seconda ondata il virus si è diffuso in diversi ambiti, ben oltre ospedali e RSA che erano stati i principali incubatori del virus in primavera: di conseguenza, adesso qualsiasi nuovo detenuto va in un’area di quarantena e viene sottoposto a tutti i consueti protocolli, secondo un filtro analogo ai triage degli ospedali”. “Tra le conseguenze della pandemia emergono anche dati positivi - aggiunge il Prof. Babudieri - Il tema cronico del sovraffollamento, che costituiva una minaccia proprio per una potenziale diffusione del Covid, è invece andato incontro a un notevole miglioramento: si è passati dal 20,3% al 6,6%, poiché non vi è stato il normale turn over dovuto all’assenza di arresti nel periodo del lockdown. Più precisamente, al 31 gennaio 2020 nei 190 istituti penitenziari italiani vi era una capienza di 50692 (dati ufficiali del Ministero della Giustizia) e 60.971 detenuti presenti, con un surplus quindi di 10.279, pari al 20,3%. Adesso a fronte di una capienza di 50.574 posti letto, i detenuti effettivi sono 53921, con un sovraffollamento sceso a 3347, ossia il 6,6%, mostrando dunque un calo radicale. Questo però deve imporci controlli sempre più accurati, perché la popolazione ristretta è praticamente tutta suscettibile al Coronavirus ed in più in questo ambito sappiamo come sia cronicamente elevata la circolazione di altri virus, in particolare epatici come HCV. Ne consegue che in questa nuova fase dell’epidemia Covid divenga mandatoria l’esecuzione dei test combinati Hcv/Covid nei 190 Istituti Penitenziari Italiani”. Il Covid-19 ha evidenziato, accanto alla pandemia, un’altra emergenza sanitaria: quella della salute mentale. Depressione, ansia e disturbi del sonno, durante e dopo il lockdown, hanno accompagnato e stanno riguardando più del 41% degli italiani. Le persone rinchiuse nelle carceri costituiscono soggetti particolarmente vulnerabili: secondo dati noti, circa il 50% dei detenuti era già affetto da questo tipo di disagi prima della diffusione del virus. Erano frequenti dipendenza da sostanze psicoattive, disturbi nevrotici e reazioni di adattamento, disturbi alcol correlati, disturbi affettivi psicotici, disturbi della personalità e del comportamento, disturbi depressivi non psicotici, disturbi mentali organici senili e presenili, disturbi da spettro schizofrenico. “Il problema psichiatrico o quantomeno quello del disagio mentale è diventato una delle questioni più gravi del sistema penitenziario italiano - sottolinea il Presidente Simspe Luciano Lucanìa - In sede congressuale abbiamo avuto un confronto su questo tema delicato con i contributi di accademici, direttori di penitenziari, medici specialisti che lavorano alla psichiatria territoriale e operatori attivi nel sistema penitenziario stesso. È evidente come la pandemia di Covid e soprattutto i primi mesi abbiano reso queste problematiche ancora più evidenti. Nelle ultime settimane la situazione è diventata ancora più complessa. Non esistono soluzioni pronte e preconfezionate, ma noi di Simspe crediamo che sia necessario per gli operatori, per la comunità carceraria, per i decisori politici, far presente limiti, problemi, prospettive e chiedere soluzioni. Da una parte si devono integrare i servizi del territorio e i servizi del carcere; dall’altra serve un sistema carcerario che sia in grado di affrontare autonomamente questo tipo di problemi”. Il ruolo dell’infermiere nell’ambito penitenziario è centrale, sebbene spesso non venga messo a fuoco a sufficienza. In virtù del Decreto 739 del 1994, l’infermiere è colui che si occupare dei servizi assistenziali. Tuttavia, rappresenta una figura chiave perché è insignito di una responsabilità che va oltre quella sanitaria, poiché coinvolge la sicurezza personale di tutti coloro che lavorano in carcere. Da una parte, infatti, lavora in equipe con i medici; dall’altra, ha rapporti anche con altre figure, come gli educatori, toccando così anche gli aspetti sociali oltre a quelle sanitari. “Come gruppo infermieristico di Simspe stiamo sviluppando diverse ricerche che permettano di valorizzare la figura dell’infermiere e di ottimizzarne il contributo - evidenzia Luca Amedeo Meani, Vice Presidente Simspe - Uno studio riguarda l’azione del Covid sull’operatività dell’infermiere: il Moral Distress (Disagio Morale) degli infermieri era preoccupante e si è aggravato in questi mesi. I dati emersi mostrano un livello molto elevato rispetto ai parametri mediani di valutazione e spesso coinvolgono ragazzi che avevano solo tre o quattro anni di esperienza in servizio. Da qualche settimana stiamo integrando lo studio con item che riguardano il Covid. In secondo luogo, stiamo portando avanti anche un’analisi che riguarda la gestione Rischio Clinico, che permette di determinare in modo scientifico quali potrebbero essere le misure correttive per abbassare i rischi da un livello potenzialmente elevato a uno standard accettabile. Questo lavoro del Gruppo infermieristico Simspe è iniziato prima della pandemia e ha aiutato molto nella prevenzione del Covid: l’assenza di casi gravi e il mancato diffondersi della pandemia in questi ambienti è stato anche grazie a questo sistema di prevenzione e di analisi del rischio”. Infermiere penitenziario. De Palma (Nursing Up): “Rivalutiamo il loro ruolo chiave” quotidianosanita.it, 6 ottobre 2020 “La condizione contrattuale dei colleghi che operano tra i detenuti dev’essere oggetto di concreta rivalutazione e valorizzazione”. Questo l’invito degli infermieri del sindacato al ministro degli interni, che lanciano un appello anche agli infermieri che operano nelle carceri: “Scendano in piazza con noi in occasione della manifestazione nazionale del prossimo 15 ottobre”. “L’infermiere italiano, l’eroe idolatrato da troppi a parole, ma sostenuto da pochi con i fatti, non rappresenta solo la colonna portante di un Ssn pieno zeppo di falle, pronto a tracimare senza il lavoro, la tenacia e la professionalità degli infermieri, ma oggi rappresenta più che mai una figura a tutto tondo che ha dimostrato e continua a dimostrare di essere in grado di occupare, brillantemente, più ruoli in ambito sanitario, nel pubblico e nel privato. In particolare si parla oggi troppo poco della figura dell’infermiere nelle nostre carceri e di quanto il suo impegno abbia contribuito e stia contribuendo tutt’ora alla salute psico fisica dei detenuti e del personale penitenziario in particolare durante questo periodo del Covid”. Così Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Sindacato Infermieri Italiani subito dopo la conclusione del XXI congresso del Simpse, Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari, che ha affrontato e analizzato il ruolo dell’infermiere nelle carceri italiane durante questa fase di pandemia. “La condizione contrattuale dei colleghi che operano tra i detenuti dev’essere oggetto di concreta rivalutazione e valorizzazione: questo chiediamo al Ministro degli Interni. Come sindacato ci sentiamo in dovere più che mai, in un frangente così delicato come quello di questa emergenza, in lenta ma costante fase di nuova crescita, di ribadire quanto l’infermiere, ogni giorno, si dimostra capace di reggere l’impatto di diverse responsabilità: conferisce sicurezza e trasmette ogni giorno fiducia ai cittadini-pazienti nella tempesta della sanità pubblica e privata, rischiando la propria vita in condizioni organizzative e contrattuali tutt’altro che ottimali. L’aver contribuito, con il suo impegno, come ha ribadito nei suoi contenuti il recente congresso del Simpse, a tener circoscritto l’effetto del Covid tra quella specifica e delicata popolazione, non è l’unico merito dei nostri professionisti. Per questa ragione come sindacato siamo vicini e sosteniamo a pieno le loro istanze contrattuali, l’impegno, la responsabilità, le difficoltà dei colleghi che si prendono cura dei detenuti”. Si parla troppo poco di loro, delle loro necessità contrattuali e organizzative, dei problemi di tutti i giorni e delle prospettive lavorative che li riguardano, continua De Palma: “Mettere a fuoco queste problematiche per poi affrontarle insieme è fondamentale. Per questa ragione, essendo noi soggetto sindacale vicino quotidianamente all’infermiere come persona, ovunque egli si trovi a operare, rivolgiamo un appello ai colleghi che prestano servizio nei penitenziari - conclude De Palma - affinché scendano con noi in piazza il prossimo 15 ottobre, in occasione della manifestazione di protesta che stiamo organizzando al Circo Massimo, sostenendo una battaglia che, per gli obiettivi fondamentali che la ispirano, accomuna tutti gli infermieri italiani”. Made in Carcere: dal rispetto per la dignità umana a quello per l’ambiente di Martina Di Domenico identitainsorgenti.com, 6 ottobre 2020 Qualche giorno fa girovagavo tra gli scaffali di un bookshop di un noto museo italiano, rimanendo colpita da una piccola trousse con un intreccio geometrico in bianco e nero. Giro e rigiro tra le mani quel piccolo oggetto, ne ammiro i dettagli, le rifiniture, la perfezione quasi industriale e seriale. Lateralmente scorgo una etichetta in tessuto con su scritto “Made in carcere. New philosophy and life style”. Faccio un breve recap mentale e mi si illumina subito la lampadina: ricordo di aver letto qualcosa su questo argomento qualche anno fa. Incuriosita apro la trousse, ne osservo accuratamente le cuciture e leggo, su una più esaustiva targhetta: “Questo prodotto ha una bella storia da raccontare, fatta d’amore e dignità. Parla di tutela ambientale e di inclusione sociale. È realizzato con tessuti e materiali di recupero, per offrire un’altra chance a donne detenute ed una seconda vita a tessuti e oggetti”. Quella trousse mi ha convinta, ma voglio essere certa che l’iniziativa sia effettivamente valida e chiedo informazioni alla responsabile dello store che, evidentemente emozionata, mi racconta di tenere molto a quei prodotti, molto di più, forse, che agli altri che sono venduti lì. Mi racconta di venti donne detenute al carcere di massima sicurezza di Lecce che, formate al mestiere di sarta, hanno cucito quei tessuti uno per uno, realizzando prodotti straordinari. “È davvero una storia bella sai?” - mi dice mentre mi mostra anche dei shopper e dei braccialetti dello stesso brand - “queste donne sono regolarmente retribuite e stanno imparando un mestiere che gli servirà a reinserirsi nel mondo del lavoro una volta ottenuta la libertà”. “Inoltre” - continua - “una seconda chance viene data non solo alle detenute, ma anche ai tessuti. Questi che vedi sono materiali di scarto donati da diverse aziende che altrimenti li avrebbero gettati. È una storia d’amore e di rispetto per la vita umana e per l’ambiente”. Visibilmente colpita, e anche un po’ emozionata, capisco che quel colpo di fulmine con un oggetto che sembra così futile ma che è invece pregno di significato, di dignità - che è una parola che amo tanto - ha avuto un senso, mi ha aperto gli occhi su delle realtà spesso invisibili, che necessitano di essere illuminate, perché quella stessa luce serve ad indicare la strada a queste donne che spesso si sentono relitti di una società che sembra essersi dimenticata di loro. Perché in Italia è così: c’è a chi si perdona tutto e a chi invece non si perdona nulla. Immaginiamo una donna che deve scontare una pena più o meno lunga di reclusione; i giorni passano e si avvicina il momento della tanta agognata libertà. Cosa c’è fuori da quel mondo? Soprattutto giudizio e, in secondo luogo, strade sbarrate in ogni dove. Perché il pregiudizio, male difficilmente sradicabile dalla mente umana, condanna due volte chi ha pagato per un crimine commesso. È statisticamente provato che il 68,4% dei detenuti che ritornano in libertà senza un lavoro torna a delinquere. Ma il dato ci dice anche che quella stessa percentuale di persone che invece inizia a lavorare già in carcere, una volta uscita ha maggiore possibilità di riscatto, abbassando il tasso di delinquenza post-carcere al solo 1%. Con la testa piena di informazioni, tornata a casa ho studiato a fondo la questione. Made in carcere è un progetto nato nel 2007 su iniziativa di Luciana Delle Donne, un’ex top manager che ha deciso di iniziare una nuova vita fondando Officina Creativa, una cooperativa sociale non a scopo di lucro. I suoi progetti non sono destinati solo alle recluse del carcere leccese ma anche ad altri centri di reclusione, come l’Istituto penale minorile di Nisida. I giovani ospiti di Nisida, e quelli di Bari, producono prodotti dolciari - simpaticamente chiamati “Scappatelle” - che vengono venduti in tutte le attività commerciali che aderiscono all’iniziativa. Lo scopo è quello di indirizzare questi giovani al mestiere della produzione pasticcera, un’opportunità da sfruttare una volta ritornanti a vivere e abbandonato l’istituto. Made in carcere ci fa capire due cose: la prima che è possibile abbassare il tasso di recidività dei detenuti tornati in libertà con iniziative pratiche e progetti concreti; la seconda che bisogna investire di più affinché iniziative del genere continuino a far germogliare nei terreni resi più aridi dalle difficoltà della vita il seme della speranza e della redenzione. In Italia la percentuale dei detenuti impegnati in attività lavorative è bassissimo rispetto agli altri paesi europei. Il problema principale è la mancanza di fondi per il pagamento degli stipendi, il che limita, ovviamente, la possibilità di estendere il progetto in maniera più capillare. Ma se storie del genere ci insegnano che cose belle possono accadere all’uomo che non è privato della sua dignità, allora vale la pena raccontarle, promuoverle, estenderle. Un suicidio a Rebibbia e una “morte naturale” a Teramo: erano compatibili con il carcere? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 ottobre 2020 Due morti nelle carceri nel giro di poco tempo: uno di “morte naturale” e l’altro, invece, si è tolto la vita impiccandosi. Entrambi le morti sono accomunate da un denominatore comune: l’incompatibilità con il carcere per evidenti motivi di salute, una fisica e l’altra psichica. Il 2 ottobre Carlo Romano di soli 27 anni, si impicca nella sua cella del carcere romano di Rebibbia. Lo è venuto a sapere Riccardo Arena, conduttore di Radio Carcere, la rubrica radiofonica di Radio Radicale. Una vicenda, tragica, che è stata appresa grazie a una lettera scritta da un altro detenuto. Dal contenuto della lettera sembrerebbe che Carlo Romano avesse dei gravi problemi mentali, tanto che fino al giorno prima era guardato a vista. Poi, il giorno precedente al suicidio, la sorveglianza a vista gli sarebbe stata revocata e lui si è impiccato. A confermare il tragico gesto è la garante locale del comune di Roma Gabriella Stramaccioni. “Era in carcere da 6 mesi - scrive in una nota pubblica la Garante dei detenuti - ed aveva problemi psichiatrici. È stato sottoposto a vigilanza a vista perché aveva già tentato il suicidio e negli ultimi giorni era passato a regime di vigilanza generale”. La garante Stramaccioni sottolinea che si tratta dell’ennesimo caso di una persona “che forse poteva essere curata all’esterno”. E conclude con un’amara riflessione: “Il carcere si dimostra sempre di più il luogo utilizzato per risolvere i problemi che all’esterno non trovano soluzione”. Questo è il 44esimo suicidio che si consuma dietro le sbarre dall’inizio del 2020 ed è il terzo avvenuto nel carcere di Rebibbia. L’altro caso, emblematico, riguarda un detenuto che era malato da tempo e gli mancava un anno per uscire dal carcere. Due sono state le istanze di scarcerazione per gravi motivi di salute, ma tutte rimaste senza risposta. Il fine settimana scorso però è morto. Parliamo di Mariano Di Rocco, “il tedesco” (era nato a Berlino), 56 anni di Sulmona, ritrovato senza vita nella sua cella del carcere di Castrogno, a Teramo. L’infarto è l’ipotesi più accreditata del decesso, ma come da prassi il sostituto procuratore di turno, Enrica Medori, ha disposto l’autopsia che, molto probabilmente, sarà eseguita nella giornata di domani. Secondo i legali Stefano Michelangelo e Paolo Vecchioli lui in carcere non ci doveva stare proprio. Per due volte, a luglio e a agosto, avevano per questo inoltrato richiesta di sospensione della pena ai tribunali di Sorveglianza di Pescara e L’Aquila, perché il suo quadro clinico era incompatibile con il regime carcerario. Mariano Di Rocco era stato condannato a due anni e undici mesi. Un cumulo di pena per furti, lesioni e piccolo spaccio. Era riuscito ad ottenere l’affidamento in prova, ma a giugno scorso il magistrato lo ha fatto ritornare in carcere dopo che non era rientrato nel suo domicilio come doveva: quella sera Di Rocco era stato all’Aquila e aveva perso il treno di ritorno, oltre al telefono per comunicare il suo problema. Un po’ su di giri, era stato ritrovato che camminava per strada tra Popoli e Bussi, quindi arrestato e spedito dietro le sbarre. Di Rocco, tra i tanti problemi di salute, aveva anche una demenza alcolica riconosciuta da un perito. Secondo l’avvocato Stefano Michelangelo, era evidente che le sue condizioni di salute non fossero compatibili con il carcere. “Soprattutto era diabetico a uno stadio avanzatissimo - aggiunge l’altro avvocato, PaoloVecchioli - gli avevano dato un sostegno, ma era palese che non potesse stare in carcere”. Nessuno però ha risposto alle istanze di scarcerazione che gli avvocati hanno presentato. Passato il dolore e il cordoglio, gli avvocati valuteranno con la famiglia di verificare le eventuali responsabilità di questa morte. Queste tragedie avvengono nel momento in cui nel Parlamento si accentua il discorso carcerocentrico, sia in maggioranza che in opposizione. Un po’ dovuto dagli pseudo scandali “scarcerazione”, un po’ anche dalla retorica della “certezza della pena” scambiata con la certezza del carcere senza se e senza ma. La pena è certa, l’articolo 27 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) un po’ meno. Carcerazione disumana, da 3 anni il ministero non paga di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 ottobre 2020 Nonostante l’ordinanza di risarcimento per carcerazione disumana e degradante sia definitiva, sono passati tre anni e il ministero della Giustizia ancora non versa la somma dovuta. Una vicenda, e forse non l’unica, dove il ministero risulta inadempiente. A denunciare tutto questo a Il Dubbio, è l’avvocata Desi Bruno, già garante regionale dei detenuti dell’Emilia Romagna. Il caso riguarda Giuseppe Buzzi che nel 2015 era detenuto in espiazione per un cumulo di pene che avevano comportato un periodo non breve di carcerazione. Il tempo era trascorso in molte patrie galere, Cremona, Mantova, Monza, Bergamo sino a Piacenza. “Molti reati commessi in carcere - ci scrive l’avvocata Bruno-, nell’incapacità di adattarsi, resistenze a pubblico ufficiale, poi lesioni, tentati furti, danneggiamenti. Anche oggi è in carcere a Milano Opera per un altro cumulo, somma di condanne per reati della stessa tipologia, in attesa di una scarcerazione a conti con la giustizia del tutto saldati”. Come sappiamo, nel 2013, dopo la sentenza Cedu Torreggiani che condannava l’Italia per il sovraffollamento carcerario, venne introdotto nell’ordinamento penitenziario l’art. 35 ter che prevede forme di ristoro nel caso in cui una persona ristretta abbia sofferto una detenzione non conforme ai criteri previsti dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che vieta trattamenti inumani e degradanti. L’avvocata Desi Bruno ricorda il criterio che si scelse allora per decidere il discrimine tra carcerazione umana è disumana. Semplificando è necessario fare riferimento al cosiddetto spazio minimo vitale misurato in 3 mq (al netto del bagno e di arredi fissi). Giuseppe Buzzi decise di fare reclamo all’Ufficio di Sorveglianza di Reggio Emilia, competente per territorio che, a seguito di esaustiva istruttoria condotta in tutti i luoghi di detenzione indicati dal Buzzi, stabilì che per 1883 giorni di detenzione era stata violato il principio di umanità della pena, in quanto nelle celle in quel periodo lo spazio vitale era stato inferiore a 3 mq. Quasi 5 anni di detenzione disumana. L’ordinanza, datata 18 febbraio del 2015, è diventata definitiva il 6 luglio 2017. La somma liquidata dal magistrato di sorveglianza secondo i parametri stabiliti per legge, è pari a 13.904 euro. “Una somma enorme - sottolinea l’avvocata - per chi è un emarginato, senza più familiari viventi, senza prospettive di lavoro ma nemmeno di accoglienza”. Ma da allora, nulla. Innumerevoli sono stati i solleciti e le diffide affinché il ministero competente provvedesse al versamento della somma, anche per evitare una lunga procedura esecutiva nei confronti proprio di chi dovrebbe garantire l’adempimento di quello che ha stabilito un giudice della Repubblica in attuazione di una legge dello Stato. “Ora - spiega Desi Bruno - si attende da mesi che si possa partire con la procedura esecutiva perché l’ufficio competente deve prima apporre la formula esecutiva sul provvedimento”. Sono passati tre anni senza che nulla sia successo. “Per molti è scandaloso che si riconosca una forma di risarcimento a chi ha commesso reati - sottolinea l’avvocata - e che si voglia assicurare un trattamento rispettoso della dignità della persona. Ma il ministro di Giustizia e l’amministrazione della giustizia non possono dimenticare né Buzzi né tutti coloro che, contro l’opinione comune malformata è male orientata sulla condizione carceraria, hanno vissuto una condizione degradante, in violazione di quel senso di umanità che dovrebbe sorreggere e guidare il sistema penitenziario”. Desi Bruno conclude amaramente che “ora come in passato, nulla sembra mutare”. Portare un cellulare a un detenuto in carcere è diventato reato di Stefano Barricelli agi.it, 6 ottobre 2020 Nicola Morra: “Nel corso degli ultimi anni si sono centuplicati i ritrovamenti di microcellulari che si tentava di far pervenire a detenuti, stante anche l’impunibilità di fatto di chi ci provava, non essendoci reato alcuno che sanzionava tale comportamento”. “Nel dl sicurezza approvato poche ore fa in Cdm è stato introdotto, su proposta del ministro Bonafede, una nuova fattispecie penale: chi introduce in carcere un cellulare a vantaggio di un detenuto si rende responsabile di reato, con la pena che andrà da 1 a 4 anni sia per chi lo introdurrà sia per chi lo riceverà”. Lo sottolinea Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia, ricordando che “nel regime precedente al decreto sicurezza il nuovo reato si configurava come un semplice illecito disciplinare sanzionato all’interno del carcere”. “Perché è importante questo provvedimento? Tanti non sanno - continua Morra - che chi è detenuto al regime del 41bis (dovrebbero esserlo i capi di organizzazioni criminali di stampo mafioso) o comunque nel regime dell’Alta sicurezza - e sono migliaia di ristretti - ha severe limitazioni in relazione alle possibilità di comunicazione, sia all’interno dell’istituto di pena sia all’esterno, dal momento che la forza di un sodalizio mafioso è data dalla capacità di relazionamento dei suoi affiliati e comunicare equivale a relazionarsi appunto”. “Nel corso degli ultimi anni - prosegue il presidente della commissione Antimafia - si sono centuplicati i ritrovamenti di microcellulari che si tentava di far pervenire a detenuti, stante anche l’impunibilità di fatto di chi ci provava, non essendoci reato alcuno che sanzionava tale comportamento. Questa innovazione normativa a livello penale finalmente pone un argine a prassi criminali che stavano fiaccando l’efficacia del regime carcerario del 41bis ed anche dell’Alta sicurezza, in un contesto in cui anche culturalmente si sta cercando di screditare tali regimi, figli delle intuizioni di Giovanni Falcone in particolar modo. Sono, infatti, continui gli attacchi al 41-bis, anche a livello europeo, da parte di chi reputa che tale regime carcerario leda i fondamentali diritti dell’uomo. Senza comprendere che non potendo ipotizzare lo scioglimento del vincolo associativo mafioso per il ristretto, la possibilità di comunicare con altri garantita da un cellulare rappresenterebbe una leva formidabile di recupero d’efficacia criminale”. “Altro discorso - conclude Morra - sarebbe schermare, con strumenti che tecnologicamente già oggi lo consentono, gli ospiti degli istituti di pena da tentativi di comunicazione non via cavo. Ma intanto si è fatto un passo in avanti con l’introduzione di questo nuovo reato”. Anm, venti di scissione: “Noi moderati delusi”. Albamonte: “Assurdo” di Errico Novi Il Dubbio, 6 ottobre 2020 Alla vigilia del voto per il “parlamentino” delle toghe, da “mi” non si esclude un esito clamoroso. A volerla mettere in termini paradossali, l’unica prospettiva di grande coesione, per l’Anm, potrebbe essere compromessa da una mossa del guardasigilli Alfonso Bonafede. “Se la norma sulle sanzioni ai magistrati per il mancato rispetto dei tempi fosse stata definita, nel ddl penale, così come era apparsa nella prima versione del testo, si sarebbe prodotta una reazione talmente forte, da parte della magistratura, che le distanze fra le correnti si sarebbero rimarginate, nonostante la battaglia in corso per eleggere il comitato direttivo dell’Associazione”. Ecco, il periodo ipotetico dell’irrealtà è proposto da un magistrato attivo nell’Anm, e riconducibile allo schieramento moderato, che preferisce parlarne in forma riservata. Quel lungo periodo introdotto dal “se” ha una valenza notevole. Perché Bonafede, in realtà, non ha lasciato “nuda” la norma sulle sanzioni. Come anticipato sabato scorso dal Dubbio, il ministro l’ha “vestita” con un correttivo che attenua la portata delle “punizioni”, e che nello stesso tempo smorzerebbe la potenziale rivolta delle toghe. È stato previsto cioè, nel ddl penale, che per gli uffici giudiziari più in difficoltà, con il carico più gravoso, il Csm possa prevedere una sorta di esimente, che esclude sanzioni per pm e giudici. “Con una correzione simile sarà più difficile che l’Anm insorga. E paradossalmente sarà più facile che si divida”, osserva sempre il magistrato della componente moderata delle toghe. Una volta che saranno acquisiti i risultati del voto (si va alle urne telematiche dal 18 a 20 ottobre) ci sono possibilità molto alte che all’interno dell’Associazione nazionale magistrati si crei una scissione. “Avrebbe del clamoroso, certo, ma è ipotesi da non escludere per due motivi. Primo”, spiega la fonte riservata, “perché quando è iniziata la crisi legata all’indagine di Perugia, tutti gli altri gruppi lasciarono intendere in modo esplicito che Magistratura indipendente avrebbe dovuto restare “sotto osservazione”. È chiaro che un simile precedente crea una frattura difficilmente riparabile. In secondo luogo proprio “Mi”, che rappresenta la magistratura moderata insieme con Movimento per la Costituzione, il gruppo formato da chi è fuoriuscito da Unicost, ha un rapporto di forte contrapposizione innanzitutto con Area. Soprattutto se l’esito del voto dovesse essere positivo per la lista “Mi-Mpc”, lo strappo rischierebbe di avvicinarsi. Se invece lo schieramento ottenesse un risultato molto sfavorevole, è plausibile che si limiterebbe a un’opposizione di testimonianza e a una traversata nel deserto, in attesa di tempi migliori”. Analisi molto chiara a cui è difficile trovare limiti di tenuta. E insomma, l’ipotesi di una clamorosa scissione fra le toghe pare sul tappeto. Ai motivi segnalati dall’interlocutore sentito dal Dubbio se ne posso o aggiungere altri. Innanzitutto “Mi” e “Movimento per la Costituzione” non si troverebbero da soli nell’eventuale creazione di una “nuova Anm”. C’è infatti una lista che corre alle elezioni del 20 ottobre e che è in piena sintonia con l’ipotesi della svolta traumatica: è “Articolo centouno”, la compagine che a sorpresa ha deciso di sfidare le altre correnti - che sono, oltre a “Mi- Mpc”, Area, Unicost e Autonomia e indipendenza, il gruppo fondato da Piercamillo Davigo. Articolo 101 schiera magistrati non nuovi alla sfida antagonista interna, come Andrea Reale e Giuliano Castiglia, e non resterebbe indifferente a un’ipotesi scissione. Andrà verificato se il nuovo gruppo riuscirà ad aggiudicarsi qualche seggio nel parlamentino dell’Anm. Se cioè lo scandalo del 2019 favorirà chi chiede, come lo schieramento di Reale e Castiglia, “una palingenesi dell’Anm”. Certo è potrebbero essere due, i gruppi schierati su una linea di contrapposizione ad Area e Unicost. Mentre “Aei” appare molto condizionata dall’eventuale permanenza di Davigo al Csm, su cui si deciderà nei prossimi giorni. E un magistrato di Unicost che pure preferisce parlare riservatamente, quasi va oltre l’analisi proveniente dal gruppo moderato: “È difficile fare previsioni sui rapporti fra Anm e governo senza sapere ancora quale forma assumerà il testo del ddl penale. Ma anche se la norma sulle sanzioni venisse mitigata dai poteri derogatori del Csm, è probabile che le spinte verso una scissione, in “Mi”, non si attenuerebbero. Da mesi le voci all’interno dell’Anm indicano un esito simile. La situazione di crisi generale”, spiega il magistrato del gruppo centrista, “è tale da non poter escludere che uno “sparo di Sarajevo” qualsiasi apra una lesione nella casa comune dei magistrati”. Difficile comprendere quali conseguenze ne verrebbero rispetto al rapporto con la politica. Però è probabile che partiti, Parlamento e governo non ricaverebbero certo vantaggi, da uno sdoppiamento della rappresentanza togata. Ovvio che i fuoriusciti entrerebbero in concorrenza con l’Anm sul piano dell’intransigenza, nella “dialettica sindacale” con l’esecutivo. Eppure c’è chi sposa un altro pronostico: è il segretario di Area Eugenio Albamonte, che dell’Anm è stato presidente subito dopo Davigo e che, interpellato dal Dubbio, non esita a definire “davvero poco comprensibile la scissione di qualche componente”. Il motivo è semplice: “La norma di cui si parla, la sanzione relativa ai tempi, non sarebbe affatto resa innocua dall’ipotesi di derogatorie operate dal Csm. Si salvano i colleghi di qualche ufficio: e gli altri? Sa cosa avverrebbe? Assisteremmo a un fenomeno definibile di “giurisdizione difensiva”. Il giudice consapevole dell’approssimarsi del termine massimo imposto dalla legge per il deposito della sentenza si vedrebbe forzato a revocare i testi a difesa, magari anche quelli dell’accusa, e a pervenire a una pronuncia con minore accuratezza istruttoria di quanto avrebbe voluto. Il procedimento disciplinare non vuole prenderselo nessuno. Idem dicasi per il pm costretto a sfuggire alla tagliola sui tempi massimi consentiti per comunicare la chiusura indagini, e poi esercitare l’azione penale: piuttosto che violarli, opterebbe per un’archiviazione di ripiego, o comunque scaricherebbe sul gup il peso di una valutazione complicata dall’impossibilità di concludere accuratamente l’indagine. Sui rischi della giurisdizione difensiva”, ricorda Albamonte, “abbiamo riscontrato attenzione anche da parte dell’Unione Camere penali. Il presidente Caiazza comprende i rischi e condivide la nostra critica”. Albamonte può rivendicare una primogenitura, sul punto: denunciò i pericoli delle sanzioni ai magistrati con un articolo pubblicato proprio su questo giornale. “Adesso a me sembra insensato che alcuni, nell’Anm, di fronte a tutto questo, anziché pensare a una battaglia comune, ipotizzino una fuoriuscita. Si tratterebbe di una scelta miope. Mi auguro che non si verifichi”. Ma mai come ora la crisi dei magistrati apre uno scenario di fratture impensabile solo fino a pochi mesi fa. Così la corrente di Palamara è diventata un mostro a tre teste di Giulia Merlo Il Domani, 6 ottobre 2020 Il magistrato è stato prima leader e poi eminenza grigia” di Unità per la Costituzione. Dopo lo scandalo del Csm tre suoi togati si sono dimessi. Ora Unicost è in bilico tra lo smembramento e il tentativo di rilancio. Il terremoto provocato dallo scandalo al Consiglio superiore della magistratura rischia di essere il colpo di grazia per Unità per la Costituzione. L’epicentro, infatti, è stato il magistrato Luca Palamara, che per anni è stato prima il leader e poi l’eminenza grigia che ha guidato le scelte della corrente dentro e fuori dal Csm. Oggi Palamara, dopo l’espulsione dal l’Associazione nazionale magistrati, aspetta la conclusione del procedimento disciplinare che rischia di concludersi con la sua definitiva radiazione dal corpo del terzo potere dello stato. Dopo la pubblicazione delle chat e delle intercettazioni del cellulare di Palamara, che hanno ricostruito il dopocena all’hotel Champagne di Roma dove si discuteva di come incidere sulla nomina del nuovo procuratore capo della Capitale, anche i due membri togati eletti al Csm da Unicost, Gianluigi Morlini e Luigi Spina - che erano presenti alla riunione- si sono dimessi, certificando la crisi della corrente e modificando così i rapporti di forza all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura. Oggi Unicost, che rappresenta la componente di centro all’interno dell’Anm ed è stata l’ago della bilancia sia nella spartizione delle nomine che nella costituzione delle maggioranze negli organi rappresentativi, è in preda a stravolgimenti interni. Per provare a ritrovare spazio elettorale e credibilità, sta tentando una difficile riforma interna e la domanda è se sopravvivrà alla prossima tornata elettorale di ottobre per l’Associazione nazionale dei magistrati. L’autoriforma - A provare la strada del rinnovamento sono il segretario nazionale, Francesco Cananzi, e il presidente, Mariano Sciacca, eletti nel febbraio 2020, che hanno impresso il cambio di passo con due iniziative concrete: la prima, l’annuncio che Unicost si costituirà parte civile nel processo di Perugia contro Luca Palamara, in caso di rinvio a giudizio; la seconda, il via a una costituente per rifondare la corrente a cui hanno aderito 80 magistrati provenienti da tutti i distretti e che dovrebbe servire a rimettere in sesto una struttura che negli anni ha ceduto al verticismo fatto di relazioni personali gestito da Palamara. “Anche noi ci siamo sentiti traditi da quanto successo e da due mesi lavoriamo per un ripensamento della corrente e una riscrittura dello statuto. Si potrebbe anche decidere di modificare il nome. L’obiettivo è affrontare quello che è accaduto e superarlo, declinando alla realtà presente i valori di Unicost”, spiega un membro del gruppo che crede nel rinnovamento interno per risanare l’immagine di una corrente che, negli ultimi anni, è stata percepita come fondata su basi puramente clientelari, senza una forte base ideologica e con una organizzazione interna poco strutturata. Non tutti, però, credono nella bontà del progetto. Secondo un ex esponente della corrente, “oggi Unicost è in mano a un gruppo di “giovani turchi”, che però sono solo le maschere dei “vecchi turchi” che attraverso di loro continuano a comandare”. Secondo i detrattori, il “vecchio turco” sarebbe proprio Francesco Cananzi. Gip al tribunale di Napoli ed ex membro del Csm tra il 2014 e il 2018, la stessa consiliatura di Palamara, Cananzi era considerato un leader influente in Unicost anche prima di diventare segretario e viene descritto come un magistrato dall’alto profilo professionale, ma anche non del tutto estraneo al mondo che ruotava intorno a Palamara. I due si confrontavano spesso via chat e si scambiavano giudizi sui colleghi da nominare, in particolare nel distretto di Napoli. Entrambi, poi, si sono spesi per favorire la nomina a procuratore nazionale antimafia di Federico Cafiero de Raho, anche lui membro di Unicost. Gli scissionisti Anche secondo i suoi sostenitori, inoltre, la macchia nel progetto di riforma di Cananzi ha un nome e un cognome: l’ex togato del Csm in quota Unicost, Marco Mancinetti. Uomo forte della corrente e tuttora iscritto, è legato da un rapporto di amicizia stretto con Palamara e il suo nome compare spesso nelle chat come uno degli interlocutori principali per pilotare le nomine, con giudizi taglienti sui colleghi: il capo della corte d’appello di Roma, Luciano Panzani è “un matto, lo dovete asfaltare”; la giudice civile Iaia Covelli invece “è un disastro”. Nonostante questo nessuno dei vertici di Unicost ne ha chiesto apertamente le dimissioni, che Mancinetti ha presentatoil9 settembre 2020, quando gli è stata notificata un’azione disciplinare da parte del Csm “per fatti inerenti alle attività amministrative svolte dalla precedente consiliatura, sulla base delle chat da me intrattenute con Luca Palamara”. Dal punto di vista dei rapporti con le altre correnti, la Unicost di Cananzi è portatrice di una logica anti-bipolare. “Il Csm non ha bisogno di contrapposizioni secche e di maggioranze precostituite, bensì di garantire la rappresentanza delle diverse sensibilità culturali esistenti in magistratura, ripristinando un rapporto di fiducia fra rappresentato e rappresentante”, ha detto in un’intervista. La scommessa è quella di mantenere un pluralismo culturale in magistratura che superi la dicotomia secca dei due poli opposti perché, secondo la visione di Unicost, né il Csm né l’Anm hanno un problema di governabilità interna, anzi sono organi costruiti proprio per garantire tutte le posizioni interne al terzo potere dello stato. A condizionare la tenuta della corrente sono le defezioni: dal blocco di Unicost, infatti, si sono staccate le due ali più estreme. Una fa capo ad Antonio Sangermano, che ha guidato la scissione a destra insieme a Enrico Infante, ed è di fatto diventata una costola di Magistratura indipendente (Mi): il gruppo si chiama Movimento per la Costituzione e ha sposato la visione bipolare degli orientamenti in magistratura, scegliendo di legarsi alle toghe conservatrici. La logica, però, è quella di un cartello sul modello di Area, con i candidati di Movimento per la Costituzione presenti come indipendenti nelle liste di Mi. Alla base della scissione, c’è la mancata condivisione della scelta definita “giustizialista” dei nuovi vertici di Unicost, eletti all’indomani dell’inchiesta: allontanare Luca Palamara come se le sue condotte fossero frutto di interessi individuali e illudersi che questo basti a tenere unita la corrente. Eppure, la convinzione di chi è rimasto in Unicost è che quella di Sangermano con Mi sia una fusione a freddo, con l’unico interesse di sommare i voti in ottica elettorale. Una seconda costola più progressista, invece, ha tra i suoi animatori l’ex presidente Anm Rodolfo Sabelli e guarda al cartello di Area come polo a cui aggregarsi. Non si tratta però di un gruppo consolidato ma di singoli magistrati che, all’interno della corrente di Unicost, si sono sempre collocati a sinistra e che oggi hanno scelto il passo indietro, non convinti dell’autonomia di gestione dell’attuale segreteria. Al netto delle defezioni, dunque, la solidità del progetto di Cananzi verrà misurata il 18 ottobre, con le elezioni dell’Anm: se la corrente sarà relegata all’irrilevanza, si sgretolerà definitivamente. Il “fumus” che avvolse Cosentino e che i Radicali cercarono di diradare di Valter Vecellio Il Dubbio, 6 ottobre 2020 È ormai trascorsa una settimana, dall’assoluzione, in Appello, dell’ex parlamentare Nicola Cosentino, condannato in primo grado a cinque anni e mezzo di carcere, nell’ambito del processo “Il Principe e la scheda ballerina”. Di questa assoluzione (e quello che comporta e significa) quasi tutti se ne sono bellamente “liberati”, con una scrollata di spalle. Dimenticate le paginate a suo tempo dedicate alla vicenda, senza neppure l’avvertenza di un cautelativo punto interrogativo. Capofila l’Espresso. Nell’ottobre del 2008 scrive di una “rete dove affari e politica si confondono, con l’ombra dominante della mafia campana”. E ancora: l’Espresso rivelò come nasceva il potere di Cosentino con una copertina dell’ottobre 2008. Titolo inequivocabile: “La camorra nel governo”. Tra i commentatori più implacabili, il carissimo Roberto Saviano, che il 25 marzo 2013, tra l’altro, scrive: “Nella distorta visione della mia terra, il carcere non è percepito solo come una vergogna. È uno svantaggio, una tragedia, a volte un’ingiustizia, un ostacolo su cui però inciampa chi si relaziona al potere. Su cui inciampano le persone ambiziose… Sono nato e cresciuto dove molti considerano il carcere un’accademia, un luogo di “formazione”, una prova che solo gli “uomini” possono sostenere. Se non sei capace di affrontare il carcere non sarai mai un uomo di responsabilità, un uomo di potere. Non inciderai mai sulle cose… Cosentino, costituendosi e non aspettando l’arresto, intende dimostrare di essere il più forte dei diadochi berlusconiani, più forte di Berlusconi stesso”. Poi arriva l’assoluzione. Saviano questa volta non commenta. Neppure un rigo su l’Espresso, poco o nulla gli altri. Nel dispositivo della sentenza che cancella la condanna di Cosentino si legge: “Assolto per non aver commesso il fatto”. Non per non essere riusciti a provare la colpevolezza; perché gli avvocati siano stati così bravi da trovare chissà quale diavoleria giuridica; per prescrizione. Per “non aver commesso il fatto”. A parte il comportamento di stampa e commentatori, c’è la politica. Politica politicante, ma pur sempre politica. Occorre fare un passo indietro, al 16 gennaio del 2012. Soccorre una dichiarazione di voto, resa dall’allora deputato del Partito Radicale Maurizio Turco, membro della Giunta per le Autorizzazioni a procedere. Conviene, almeno ora, leggerla con attenzione: “Il contesto ed il testo nel quale maturano le accuse rivolte al collega Cosentino fanno riferimento all’esistenza, storicamente accertata e giudiziariamente cristallizzata, del gruppo camorristico denominato “clan dei Casalesi. La natura, la struttura, i protagonisti e le dinamiche del “clan dei Casalesi” sono state approfonditamente delineate nelle sentenze conclusive e definitive dei processi denominati Spartacus 1 e Spartacus 2, oltreché nel saggio “Gomorra”. Sia le citate sentenze, sia il noto saggio, prendono in esame ed approfondiscono un lungo arco temporale di vita dell’associazione criminale di Casal di Principe, paese nel quale è nato ed ha lungamente vissuto l’on. Cosentino. Ciò nonostante e sino al 2005, cioè sino a quando l’on. Cosentino non ha ricoperto un ruolo politico di livello nazionale, le strade del clan dei Casalesi e dell’on. Cosentino non si sono mai, neppure per sbaglio, incrociate. Nessuna traccia nei procedimenti e nei saggi. Oggi l’on. Cosentino viene accusato di condotte che non hanno, in sé, a alcun rilievo penale e delle quali l’on. Cosentino ha fornito ampia ed esaustiva spiegazione nelle memorie depositate presso questa commissione. Ritengo pertanto che la richiesta di esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del collega sia infondata e frutto di un obiettivo fumus persecutionis. Il Partito Radicale, quindi, vota contro l’autorizzazione richiesta. Perché, spiega Turco, “sulla base della documentazione prodotta alla Giunta, più che il fumus della persecuzione è ravvisabile un fumus della Procura stessa che ha agito un po’ come ai vecchi tempi, come il caso Tortora per intenderci. Siamo passati dai processi in stile Tortora a quelli che io definisco gli spezzatini”. Il fatto è che pur nello spazio delle poche ore concesse, Turco coscienziosamente, legge le migliaia di pagine inviate dalla procura. Per questo può giungere alla conclusione cui è giunto. Altri si sono invece “fidati” di quanto veniva detto loro; “semplicemente” non si sono documentati. È vero, come si dice, che ci si deve difendere nel processo, e non dal processo; ma se il compito della Giunta per le autorizzazioni è quello di accertare se vi sia o meno “fumus” nei confronti di un parlamentare, è proprio quello che Turco ha fatto, a differenza della maggioranza dei suoi colleghi di allora. Per aver svolto con coscienza e acribia il suo compito, lui i suoi colleghi, in quei giorni vengono non solo metaforicamente, linciati. Marco Pannella, Turco, i radicali invitano Saviano a leggere con loro le migliaia di carte, per aiutarli a trovare qualcosa che “inchiodi” Cosentino, come chiede la pubblica accusa. Saviano non raccoglie l’invito. Questi sono i fatti. Ignorati allora; occultati ora. La stampa, la comunicazione da una parte; il modo di essere e fare il parlamentare dall’altra. Come si vede c’è ampia materia per riflettere, dibattere, confrontarsi. Cosa si aspetta? Plagio letterario per chi copia all’esame di avvocato di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2020 Tribunale di Nocera Inferiore - Sezione penale - Sentenza 28 gennaio 2020 n. 195. Commette il reato di plagio letterario l’aspirante avvocato che copia pedissequamente da un sito internet specializzato uno degli elaborati previsti durante l’esame di abilitazione professionale. Ad emettere una tale condanna è il Tribunale di Nocera Inferiore con la sentenza n. 195/2020. Il caso - Protagonista della vicenda è un ragazzo che nel corso della sessione dell’anno 2015 dell’esame di avvocato, in occasione della prova consistente nella redazione del parere in materia penale in tema di causalità, consegnava un elaborato per gran parte (6 pagine su 11) copiato da un sito internet specializzato, riportando fedelmente e integralmente anche le note. Scoperto l’inganno, la commissione esaminatrice annullava la prova del candidato, il quale però, in seguito, veniva anche incriminato del reato di cui all’articolo 1 della legge n. 475/1925, che incrimina il plagio letterario, ovvero la condotta di chi nel corso di esami o concorsi presenta, come propri, dissertazioni, studi o lavori che siano opera di altri. La decisione - Il Tribunale analizza i fatti della vicenda e ritiene al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità per l’aspirante avvocato, il quale oltre all’annullamento della prova si ritrova così con una condanna penale a suo carico. Il giudice prende atto “grazie al banale raffronto” fra l’elaborato e la nota pubblicata sul sito internet del plagio compiuto, “reso ancora più evidente ed incontrovertibile dalla circostanza che l’imputato riportava fedelmente, non solo il contenuto della nota presente sul sito, ma anche le parentesi ed il relativo contenuto, dimostrando così, un approccio totalmente acritico e privo di genuinità rispetto alla traccia”. In punto di diritto, il Tribunale spiega che nella fattispecie si applica la norma di cui all’articolo 1 della legge n. 475/1925, che ha la finalità di tutelare l’interesse alla genuinità di un elaborato che deve essere esaminato al fine del superamento di un esame o concorso. Tale ipotesi delittuosa costituisce legge speciale, ex articolo 15 cod. pen., rispetto alla norma incriminatrice di cui all’art. 479 cod. pen., e riguarda le ipotesi di falsificazione di atti pubblici specificamente individuati, in occasioni delimitate e “punisce, altresì, il conseguimento del risultato, concretizzato in un titolo pubblico ottenuto tramite l’inganno dei soggetti deputati a esprimere le necessarie valutazioni”. Inoltre, precisa il giudice, ai fini della configurabilità di tale reato, “non basta la presenza nell’elaborato di due soli frasi tratte da contributi dottrinali, ma vi deve essere una consistente e non marginale riproduzione pedissequa e fraudolenta di un testo, redatto da altre persone, cioè deve trattarsi di un’opera, il cui contenuto risulta copiato per ampie parti”. Proprio come accaduto nel caso di specie. Infine, date la gravità e entità della condotta, il Tribunale non riconosce le circostanze attenuanti generiche né ritiene applicabile la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Nei confronti dell’imputato ordina però la sospensione condizionale della pena “preconizzando che, anche in ragione della sanzione irrogata e della sicura efficacia deterrente che la stessa dispiegherà, questi si asterrà per il futuro dal commettere ulteriori delitti”. Campania. “Il diritto allo studio per i detenuti è il diritto alla speranza e al reinserimento” fanpage.it, 6 ottobre 2020 Intervento di Samuele Ciambriello, Garante Campano dei detenuti sul diritto allo studio per chi è recluso in carcere. “Nelle carceri campane su 6.428 detenuti attualmente abbiamo un alto numero di diplomati alle scuole superiori (514) e un’alta presenza di analfabeti (282), insieme a 69 detenuti laureati. La scuola, l’università, la formazione, la cultura sono straordinari strumenti di conoscenza, rieducazione e reinserimento nella società dei diversamente liberi”. Il diritto allo studio per i detenuti, è il diritto alla speranza, dà valore all’istruzione come strumento riabilitativo e culturale in vista del reinserimento nella società. È un bisogno individuale, un’aspirazione, un valore di conoscenza e di cittadinanza. Il ruolo centrale dell’istruzione nell’edificare una società inclusiva e consapevole, la sua valenza di strumento di riabilitazione e riscatto culturale nelle carceri, ai fini del reinserimento sociale dei detenuti, sono i presupposti che mi hanno portato, come garante campano dei detenuti, a volere fortemente un incontro su questo tema. Esso ha avuto luogo presso l’Istituto penitenziario di Secondigliano, nella forma di un seminario dal titolo “Polo Universitario in Carcere: Diritto allo studio per costruire il futuro”. L’occasione ha impegnato i relatori in una riflessione comune sulla materia, dando modo di fare il punto della situazione e di valutarne le prospettive sottolineando il contributo fondamentale del volontariato operante in questo settore, delle istituzioni locali, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e della scelta coraggiosa e rilevante dell’Università Federico II, di aprire un polo. Sono intervenuti anche tre studenti universitari detenuti. Le conclusioni sono state affidate al Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis e al Ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi. Attualmente in Italia si garantisce il diritto agli studi in 75 Istituti penitenziari su 190, sono coinvolte 27 Università, sono 841 gli studenti universitari in carcere, di cui 476 presso i Poli. Il Polo Universitario di Secondigliano, con i suoi 57 iscritti nei primi due anni e 54 istanze di immatricolazioni, è l’unico del Sud e dopo Bologna conta il maggior numero di iscritti. Adesso bisogna passare da una scelta volontaria, appassionata della Università ad una scelta di sistema. Pur diventando il connubio università-carcere sempre più vitale, la virtuosa esperienza dei Poli Universitari penitenziari deve ancora superare parecchi ostacoli di natura giuridica ed organizzativa. Questo rientra nell’ambito delle mission delle Università: essere strumento di trasformazione nella società, essere Università della strada. Il diritto allo studio si coniuga con il diritto a ricominciare, anche per i diversamente liberi. Organizzare degli efficaci percorsi di trattamento e recupero nelle carceri va nell’interesse non solo dei detenuti ma anche e soprattutto dei cittadini liberi. Accanto alla certezza della pena ci deve essere la qualità della pena. Una volta uscito se la persona non vive la recidiva c’è più sicurezza nelle città. Ho rilevato in questi primi due anni che c’è una discrasia tra i giustificati motivi di sicurezza giudiziari e sanitari e il diritto allo studio universale per tutti. Scarsità di fondi e di nuove tecnologie. Poca attenzione dei giudici di Sorveglianza per i piani trattamentali e i benefici per questi studenti particolari. Ed infine io credo che occorre puntare anche sugli agenti di polizia penitenziaria dove ci sono i poli universitari, usufruendo loro delle stesse possibilità economiche ed organizzative che hanno i detenuti. Il corpo degli agenti di polizia penitenziaria va rimotivato, formato, valorizzato. Napoli. “I ragazzi di Forcella non hanno scampo, respirano illegalità” di Maria Chiara Aulisio Il Mattino, 6 ottobre 2020 Intervista a Don Franco Rapullino. “Io, parroco in quel rione negli anni 90: sono pochi i giovani che cambiano vita”. “Che dire? Niente di nuovo sotto il sole, ormai nemmeno mi sorprendo più quando sento il racconto di episodi tragici come quello di sabato scorso in via Duomo. È morto un ragazzino di 17 anni? Non è il primo e non sarà l’ultimo, lo dico senza alcuna difficoltà. In questa città perfino l’aria è fetida. Puzza di camorra e criminalità”. Don Franco Rapullino, ad Assisi in occasione della beatificazione di un ragazzino di 15 anni, Carlo Acutis, morto in tre giorni di leucemia fulminante - che sarà beato per le opere e i miracoli accertati - è stanco di assistere impotente alla fine di una città senza scampo e senza futuro. Sì, Rapullino, proprio lui, quello della famosa frase - “fujtevenne ‘a Napule” - pronunciata quando, da giovane e tenace parroco nella chiesa di Santa Maria della Pace ai Tribunali, celebrò il funerale del piccolo Nunzio Pandolfi, e di suo padre Gennaro - autista del clan Giuliano e vero obiettivo dell’agguato. Era il 18 maggio del 1990, di anni ne sono passati parecchi, ma don Franco - oggi alla guida della parrocchia di San Giuseppe alla Riviera di Chiaia - non perde smalto, veemenza e lucidità nell’analisi di ciò che accade sotto gli occhi di tutti. Ancora un minorenne coinvolto in una rapina che perde la vita… “Non mi meraviglio. Mi dispiace ma è così”. Vuole dire che ci ha fatto l’abitudine? “Non solo io, immagino. Credo un po’ tutti. Napoli, per quanto mi riguarda, è senza speranza, non c’è salvezza, e la sparatoria dell’altra notte ne è solo l’ennesima dimostrazione”. “Niente di nuovo sotto il sole”. Lo ha detto lei… “È una frase biblica contenuta nel libro dell’Ecclesiaste “niente di nuovo sotto il sole”. Com’era vent’anni fa, così è oggi. Quello che facevano i padri adesso lo fanno i figli e poi toccherà ai nipoti loro, ai pronipoti e a tutti quelli che vengono appresso”. Una delinquenza ereditaria, insomma… “Diciamo pure che le colpe dei padri non devono ricadere necessariamente sui figli, per carità: e manco è detto che se i genitori sono due delinquenti devono esserlo per forza anche loro. In tanti anni a Forcella ne ho visti più d’uno di giovani legati a famiglie di camorra che, per fortuna, hanno preso altre strade. Grazie anche all’impegno di noi parroci”. Ma sono casi rari… “Quando il contesto in cui crescono questi ragazzi è ad alto tasso criminale la tentazione di andare avanti su quella strada è assai forte”. Come è successo ai due giovani che hanno messo in atto la rapina in via Duomo… “Il fascino del danaro facile è irresistibile. Per soldi si fa qualunque cosa. Sono stato parroco a Forcella negli anni 90, oggi mi ritrovo a esserlo a Chiaia: tutto uguale, non è cambiato niente”. Sta dicendo che Chiaia è come Forcella? “Pure peggio”. Addirittura? “Il “virus”, e non parlo del Covid, si respira ovunque. L’aria qui a Napoli è talmente metifica che anche le cosiddette persone perbene sviluppano una tendenza delinquenziale. Il titolo di professionisti non li rende immuni da comportamenti ai limiti della legalità. Probabilmente si nascondono meglio di altri ma il marcio è uguale”. Fa riferimento a qualche episodio in particolare? “C’è una frase dello storico Fabio Torriero che recita così: “La società toglie Dio dalla storia degli uomini. Per questo siamo in crisi”. E siamo tutti in crisi, da Forcella a Chiaia. Anzi qui c’è una indifferenza religiosa che a Porta Capuana non ho mai visto. La gente è convinta di non avere bisogno di Dio, pensano di riuscire a fare tutto da soli”. Ha detto che a Chiaia si “nascondono meglio”. In che modo? “Più soldi, più possibilità, più arroganza. Faccio un esempio: se i figli devono divertirsi, ovvero bere, fumare, per non parlare d’altro, mettono a disposizione le loro belle ville dove i ragazzi fanno quello che vogliono e nessuno sa niente e vede niente. Ma l’illegalità è la stessa che si consuma altrove, sotto gli occhi di tutti solo perché le case per i party non le tengono”. Che fare? “Sono abbastanza scoraggiato. Vedo più risultati in Africa, dove vado a dare una mano alle missioni, che nella chiesa di San Giuseppe qui alla Riviera. Noi sacerdoti ci ammazziamo di lavoro inutilmente. C’è un degrado morale e spirituale ormai diffusissimo”. Nessuna possibilità di salvezza? “Sono ad Assisi per pregare, e venerare, il nome di questo ragazzino che il 10 ottobre, nella Basilica di San Francesco, sarà proclamato beato. In rete si trovano le sue foto. Riccioli neri, sorriso dolce, aria sbarazzina. Un adolescente sereno come tanti. Diventerà beato. E a lui che va il mio pensiero. Sì, sono convinto che chi sceglie di rimettere ordine nella propria vita potrà salvarsi”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Detenuto positivo al Covid: corsa contro il tempo per i tamponi di Luigi Nicolosi stylo24.it, 6 ottobre 2020 Alta tensione nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, dove un detenuto di Napoli ha manifestato forti sintomi febbrili. Screening anche a Poggioreale e Secondigliano Lo spettro del Coronavirus torna ad aleggiare sulle sorti delle carceri campane. Mentre nel mondo “esterno” il nuovo boom di contagi è ormai un fatto conclamato, anche tra i reparti degli istituti di pena inizia a serpeggiare una certa preoccupazione. Un timore diffuso, che riguarda sia i ristretti che gli operatori. E i primi cattivi riscontri non si sono purtroppo fatti attendere. Dopo alcune settimane di relativa tranquillità, è stato infatti registrato un caso di infezione da Sars-Cov-2 all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ad ammalarsi è stato un detenuto semilibero originario di Napoli che pochi giorni fa, dopo aver trascorso la notte in cella al rientro dal lavoro, ha manifestato dei forti sintomi febbrili. L’episodio risale allo scorso fine settimana e, stando alle indiscrezioni raccolte da “Stylo24”, sarebbe però stato risolto con un buon esito nel giro di poco tempo. Se è vero infatti che l’uomo in questione ha trascorso almeno una notte in carcere nonostante i sintomi manifestati, immediatamente la direzione sanitaria del penitenziario sammaritano si è attivata per avviare un’attività di screening di massa su tutti i detenuti semiliberi che sarebbero potuti entrare, anche solo teoricamente, in contatto con il contagiato: “I controlli sono stati rapidissimi - spiega il Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello - Sono stati effettuati circa quaranta tamponi e tutti hanno fin qui dato esito negativo. Intanto abbiamo già presentato istanza al tribunale di Sorveglianza affinché sia consentito ai detenuti semiliberi di non rientrare in carcere, andando quindi in isolamento fiduciario. I controlli, mi preme ribadirlo, vanno avanti a ritmo serrato anche a Poggioreale e a Secondigliano”. Quanto al detenuto risultato positivo al Covid-19, l’autorità giudiziaria, preso atto del suo delicato quadro clinico, gli ha immediatamente concesso la possibilità di rimanere in quarantena a casa fino alla completa guarigione. Rieti. Apre una sezione quarantena Covid che sarà di riferimento per il Lazio rietinvetrina.it, 6 ottobre 2020 La preoccupazione di un agente penitenziario. È giunta alla redazione di Rietinvetrina la lettera scritta da un agente penitenziario di Rieti che esprime tutta la sua preoccupazione per l’imminente apertura di una sezione quarantena Covid nel Carcere Nuovo Complesso: “Do sfogo alle mie preoccupazioni per l’imminente apertura di una sezione dedicata ai nuovi arrestati del bacino laziale per effettuare la quarantena Covid presso la struttura penitenziaria di Rieti. In merito alla questione c’è un silenzio assordante - commenta a Rietinvetrina l’agente penitenziario - tranne che da parte di due sindacati che hanno chiesto delucidazioni in merito alla questione, ma senza riscontro, altrimenti ci avrebbero informati. Le mie domande e preoccupazioni sono: Quanti detenuti devono arrivare? Che misure di prevenzione si adotteranno? Io che lavorerò a contatto con loro, se ci sarà qualche positivo, come devo comportarmi? Dovrò fare la quarantena rinchiuso in Istituto o devo andare a casa mettendo a rischio i miei familiari? Altra domanda che mi pongo è: Se ci saranno dei detenuti positivi chi lavorerà in ospedale, visto che i colleghi che sono stati a contatto verranno posti in quarantena e il numero degli agenti è già risicato? La struttura ospedaliera è in grado di supportare un’eventuale problematica? Ho mille perplessità sulla questione - conclude l’agente - e non nascondo le mie preoccupazioni, visto che non abbiamo risposte. Ho deciso di condividerle con voi, magari qualcuno si sveglierà da questo sonno e darà direttive precise su come affrontare questa decisione di dirottare i nuovi arrestati nella nostra struttura.”. Catanzaro. Vendemmia per i detenuti del carcere di Siano lametino.it, 6 ottobre 2020 La vendemmia è una fase della stagione agricola caratterizzata da un indiscusso fascino: è stata spesso rappresentata nell’arte, nel cinema, nella letteratura, come il momento in cui si raccolgono insieme i frutti di un percorso di lavoro in comune. Un significato che è stato evidente anche l’1 ottobre, nel carcere di Siano, durante la raccolta dell’uva da vino prodotta dalla vigna coltivata dai detenuti. “L’agricoltura ha fatto parte sia dell’attività trattamentale che dell’attività specificamente ergoterapica dei ristretti con problemi psichiatrici - ha affermato la direttrice della Casa Circondariale di Catanzaro, Angela Paravati - e il nostro istituto ha avviato un rapporto di collaborazione con l’azienda vitivinicola Dell’Aera, di Soveria Simeri, che ha dato la disponibilità a trasformare quest’uva di ottima qualità in bottiglie di buon vino: un particolare ringraziamento va a Matteo e al suo staff”. L’obiettivo è che queste esperienze, si legge in una nota: “possano essere un importante volano per creare opportunità di lavoro per i detenuti: è stata bonificata un’area molto grande grazie al lavoro dei ristretti sotto la guida dell’assistente capo coordinatore Francesco Cosentino. La superficie sarà destinata alla coltivazione dell’uva da vino e l’idea è creare lì uno sbocco lavorativo per le persone la cui pena è in corso, le quali presso il carcere di Catanzaro hanno anche la possibilità di frequentare l’istituto tecnico agrario. È fondamentale che il percorso di rieducazione abbia come esito la possibilità di avere un lavoro onesto, e la tradizione vitivinicola calabrese non va sottovalutata. L’azienda Dell’Aera si estende su una superficie di circa 20 ettari e si occupa da generazioni della trasformazione delle uve. I vigneti occupano un territorio rurale a circa 350 metri sul livello del mare, a pochi chilometri da Catanzaro. Insomma, in una realtà come quella calabrese, colpita dalla disoccupazione e dalla desertificazione demografica, uva e vino possono dare ancora lavoro. E forse potranno dare una chance anche a chi sta svolgendo un percorso di reinserimento nel carcere di Siano. È simbolico - conclude la nota - anche il periodo in cui avviene la raccolta dell’uva: tra settembre e ottobre, quando, dopo l’estate, tutti ricominciano a lavorare e a studiare, con rinnovata voglia. La finalità rieducativa della pena, prevista dall’articolo 27 della nostra Costituzione, sta tutta qui: nel dare la possibilità di ricominciare. Una possibilità che va cercata, e che forse può essere trovata anche in un grappolo d’uva”. Terni. La Caritas cerca volontari per il servizio in carcere diocesi.terni.it, 6 ottobre 2020 La Caritas Diocesana e l’associazione di volontariato San Martino intendono sensibilizzare la presenza di volontari nel servizio in carcere, presso le comunità parrocchiali, indicando le persone che si dimostreranno interessate ad aderire. La pandemia, la presenza tra noi di molti over 65 e le misure sanitarie adottate stanno, infatti, riducendo il numero dei volontari e abbiamo necessità di non perdere questa opportunità che ci consente di operare in una delle 7 opere di misericordia corporale: “visitare i carcerati” (Mt 25,31-46). Consapevoli delle difficoltà che si possono riscontrare nel tipo di ascolto specifico e per le modalità da osservare nell’interno della Casa Circondariale saranno messe a disposizione di coloro che vorranno aderire, l’esperienza e l’amore dei nostri volontari e i suggerimenti di professionisti qualificati, attraverso una serie di incontri formativi con modalità che saranno fornite in seguito. Comunicare le adesioni inviando i nominativi, telefono e mail, ai seguenti indirizzi di posta elettronica: segreteria@caritas-tna.it o segreteria@associazionesanmartino.it. Verona. Premio “Salgari”, i finalisti ospiti in carcere di Matteo Scolari veronanetwork.it, 6 ottobre 2020 La settimana scorsa Giorgio Fontana, Marina Magliavacca Marazza e Ben Pastor sono entrati nella casa circondariale di Montorio, grazie all’Associazione MicroCosmo Onlus, per coinvolgere i detenuti anche in questa edizione 2020. Se non si può viaggiare e spostarsi fisicamente, almeno lo si faccia e sia concesso di farlo con la fantasia, come successe a Emilio Salgari. Proprio all’indimenticabile scrittore veronese è dedicato un Premio letterario biennale che da otto edizioni coinvolge e porta al grande pubblico i migliori autori italiani di romanzi d’avventura. Nato nel 2006, il Premio è promosso dall’Associazione “Ilcorsaronero”, dal Comune di Negrar di Valpolicella e dall’Università del Tempo Libero di Negrar (Utl) e quest’anno vede tra i finalisti Giorgio Fontana con “Prima di noi” (Sellerio 2020), Marina Migliavacca Marazza con “Io sono la strega” (Solferino 2020) e Ben Pastor con “La grande caccia” (Mondadori 2020). I tre autori sono stati ospiti giovedì scorso nel carcere di Montorio per l’incontro di presentazione voluto dall’Associazione di volontariato MicroCosmo Onlus presieduta da Paola Tacchella: “I tre scrittori hanno catturato i loro lettori in una appassionante presentazione, seguita da una scia di domande che prelude a futuri e intensi incontri. - si legge in un post su Facebook della stessa Associazione - Gli scrittori torneranno infatti uno a uno, per uno scambio più profondo, una volta che le persone detenute avranno letto tutti i libri”. “Un grazie anche a Massimo Latalardo dell’Università del Tempo Libero e a Claudio Gallo, del Corsaronero, per la loro annuale collaborazione a questo progetto” si legge nel post. I lettori ed i frequentatori di associazioni culturali, circoli di lettura, biblioteche e librerie, e detenuti, potranno esprimere individualmente la loro preferenza per uno dei romanzi finalisti, che risulterà “Vincitore eletto dalla Giuria Popolare” del Premio “Emilio Salgari” di Letteratura Avventurosa 2020. La cerimonia di premiazione dei vincitori e del vincitore della Giuria Popolare avverrà il 21 novembre 2020. Pistoia. Un cortometraggio per i detenuti di Santa Caterina La Nazione, 6 ottobre 2020 Entro fine anno le riprese dello “Stabat Mater”. Nuovo inizio e nuova fine prevista per il progetto promosso dall’associazione culturale Electra Teatro che prevede la realizzazione di un cortometraggio i cui attori-protagonisti sono i detenuti del carcere di Santa Caterina. Interrotto causa lockdown, il progetto ha quindi da adesso rivisto la propria scaletta, con la volontà di terminare le riprese entro dicembre 2020. Il progetto, ricordiamo, gode dell’approvazione del Ministero della Giustizia, del sostegno della Fondazione Caript, Un Raggio di Luce, Ordine degli avvocati, Società della salute pistoiese, Misericordia e Fondazione Giorgio Tesi e vede la partecipazione di attori professionisti tra i quali Melania Giglio e Giuseppe Sartori, con la regia di Giuseppe Tesi che ha pensato la messa in scena dello ‘Stabat Mater’, dramma poetico tratto dall’opera “Madri” di Grazia Frisina. Ma per vedere la luce il corto ha bisogno del sostegno di tutti: per partecipare con una donazione libera è possibile fare un versamento sull’Iban IT34T0760113800000009533944. Per ulteriori informazioni è possibile scrivere una mail all’indirizzo ufficiostampa.electra@gmail. “Vendetta pubblica”: viaggio nelle carceri d’Italia di Teresa Valiani redattoresociale.it, 6 ottobre 2020 Fresco di stampa il libro a quattro mani di Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna che abbatte stereotipi e luoghi comuni con la chiarezza dei numeri e la forza dei fatti. “La pena come vendetta non è compatibile con uno Stato democratico”. Un viaggio lungo 150 pagine nel sistema carcere italiano, raccontato con linguaggio diretto e messaggi che lasciano poco spazio alle repliche mentre abbattono, uno dopo l’altro, come birilli, stereotipi e luoghi comuni. Parte dal nocciolo della questione “Vendetta pubblica - Il carcere in Italia”, il libro, fresco di stampa, scritto a quattro mani dal presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, e dal giornalista del Corriere della Sera, Edoardo Vigna. Pubblicato da Laterza Editori, già nel titolo il volume evidenzia lo scollamento tra la realtà e quello che in materia di esecuzione penale detta la nostra Costituzione “tra le pochissime al mondo ad aver inserito l’esecuzione della pena nel loro testo”. “Buttate via la chiave”, “Alla fine in carcere non ci va nessuno”, “Bella la vita: vitto, alloggio e tutto il giorno davanti alla tv”, “Ci vorrebbero i lavori forzati”: uno ‘slogan’ sviscerato in ogni capitolo, il libro passa ai raggi X gli aspetti salienti della vita dietro le sbarre, dal trattamento al lavoro, dal reinserimento all’affettività, dal diritto alle cure ai doveri dei detenuti, sottolineando che “il carcere è un po’ come la temperatura e il meteo: la realtà è diversa dal percepito. È allora importante ricominciare a ragionare sui fatti concreti”. E di fatti concreti Marcello Bortolato, con la sua esperienza decennale nella magistratura di Sorveglianza, ha infarcito il libro, dimostrando, dati alla mano, che, ad esempio, “in Italia si rimane in carcere di più rispetto ad altri Paesi europei”, a proposito di certezza della pena. Dalle misure alternative al sovraffollamento che ha ricominciato a mordere, dal senso della pena alla vita intramuraria, dalla sfida quotidiana dei magistrati alla nuova emergenza dettata dal Covid, gli autori, partendo dal fatto che prima o poi tutti i detenuti (al di fuori di quelli condannati all’ergastolo) torneranno liberi, si chiedono “cos’è che vuole il cittadino? Vuole che una persona quando esce dal carcere sia migliore o peggiore di come è entrata?”. Perché è “qui che entra in ballo il concetto stesso di sicurezza. Il suo significato profondo e vero. Se il delinquente viene rispettato e trattato come una persona, la comunità, prima ancora dello Stato, ha la ragionevole aspettativa che, una volta espiata la pena, non torni a delinquere. Ecco perché è importante il reinserimento, e le misure alternative e i benefici che sono a esso funzionali”. “Chi dice ‘buttiamo la chiave’ - sostengono gli autori - vuole invece una vendetta pubblica, in cui si ha la soddisfazione di vedere che, se uno ha fatto del male, soffre fino all’ultimo giorno della condanna” senza tenere conto del fatto che prima o poi tornerà libero. “Diciamolo forte e chiaro: la pena come vendetta non è compatibile con uno Stato democratico. E occuparci del carcere vuole dire occuparci dello stato di salute della nostra democrazia”. Sono 53.904 le persone detenute in Italia (al 30 aprile 2020), di cui poco più di due terzi in carcere con una condanna definitiva. 55 mila provvedimenti relativi a misure alternative concessi ogni anno, a fronte di 372 revoche (0,63 per cento dei casi), segno che, se si aggiunge lo 0,45 per cento dei detenuti che non rientrano dai permessi, “nel 98,92 per cento dei casi è andato tutto bene”: cioè, la misura ha funzionato. Questa è la fotografia che il volume ci restituisce in tema di misure alternative e che ribadisce quanto “certezza della pena non debba significare solo certezza del carcere”. “Creare condizioni di vita più umane nelle carceri - concludono gli autori -, quindi più sicurezza per i cittadini, con risorse pubbliche non sprecate, ma impiegate costruttivamente in una prospettiva di reale reinserimento: ecco le vere scommesse per il futuro”. “Pour elles toutes. Femmes contre la prison”. E se abolissimo le carceri? di Rachel Knaebel* comune-info.net, 6 ottobre 2020 Ma siamo proprio certi che la via della delega alle istituzioni per rispondere ai nostri bisogni di sicurezza e giustizia sia la migliore o comunque la sola possibile? L’esplosione della protesta contro il razzismo istituzionale seguita all’assassinio di George Floyd a Minneapolis ha riaperto con forza la discussione sulla polizia e le carceri nei movimenti degli Stati Uniti. Questa intervista a Gwenola Ricordeau, femminista, docente di giustizia penale in California e autrice del libro “Pour elles toutes. Femmes contre la prison”, presenta un punto di vista che offre molti e diversi spunti di riflessione, a partire dal netto rifiuto dell’uso strumentale delle donne per giustificare l’escalation di politiche punitive. Veniamo da decenni di inasprimento delle politiche penali contro la violenza sessuale, dice Ricordeau riferendosi alla situazione in Francia, il risultato sono 94 mila donne adulte ogni anno vittime di stupro o di tentativo di stupro. Il fallimento è evidente. La giustizia penale indica e condanna un colpevole, in modo prettamente “ritorsivo”, ma esistono davvero altre possibilità? Sì, per esempio tra molti e diversi popoli indigeni dell’America che chiamiamo latina, dove si mette maggiormente in gioco la “responsabilità comunitaria” e i procedimenti mirano proprio a “trasformare” la comunità. Ricordeau si rifà, per esempio, al concetto di giustizia “trasformativa” partendo dalle necessità della vittima - sicurezza, verità - per affrontare l’aggressore e lavorare perché sia implicato in un processo individuale e collettivo di riparazione e trasformazione che contribuisce a cambiamenti collettivi di valori e modi di agire. Certo, non sono trasformazioni praticabili dall’oggi al domani ma, se quel che conosciamo non funziona e meno ancora ci piace, potrebbe essere arrivato il momento di ragionarci un po’ su Sei femminista e vuoi abolire il carcere, il luogo dove si rinchiudono gli aggressori. Sono posizioni difficili da conciliare? Sono più che “conciliabili”. Il mio lavoro offre un’analisi femminista del sistema penale e di ciò che fa alle donne. Questo ci permette diverse osservazioni. In primo luogo, la maggioranza dei detenuti sono uomini, però la vita delle donne che li circondano, madre, sorella, compagna, figlia, è sempre influenzata da quest’incarceramento, specie attraverso tutte le forme di lavoro domestico che ci si aspetta da loro, incluso l’appoggio morale con visite, lettere, eccetera. Inoltre, se guardiamo chi sono le donne che sono in prigione, notiamo molte caratteristiche comuni anche ai detenuti uomini: sono in gran parte di origini popolari e provengono dalla storia di colonizzazione e migrazione. Però hanno ovviamente le loro particolarità. Un’ampia parte di loro è stata vittima di una violenza sessuale che ne ha modellato il corso della vita, l’isolamento sociale o i reati. E se si osserva la protezione che le donne possono aspettarsi dal sistema penale, si vede solo un palese fallimento. La sfida del mio libro è quindi mettere in discussione le maggiori correnti femministe che pretendono di fare affidamento sul sistema penale per esigere più condanne e sentenze più dure per gli uomini responsabili di violenza sessuale. In che modo le politiche sulla criminalità contro la violenza sessuale rappresentano un fallimento? Veniamo da decenni di inasprimento delle politiche penali contro la violenza sessuale per arrivare a 94.000 donne adulte che dichiarano, ogni anno, di essere state vittima di stupro o tentativo di stupro [in Francia]. Più di 550.000 vittime di aggressione sessuale ogni anno! Io lo chiamo un fallimento evidente. Non so come qualcuno possa ancora provare a farci credere che questo tipo di politica possa mai funzionare. A questo si somma il disastro in cui si trova la maggioranza delle vittime, dalla presentazione di una denuncia fino all’eventuale processo. Ciò che la detenzione di certi colpevoli di violenza sessuale permette oggi è solo la garanzia che non commetteranno aggressioni durante la condanna, ma questo non tiene conto della violenza sessuale commessa in carcere e dà la sensazione che non tutti i delitti restino impuniti. A mio avviso, è una consolazione molto magra in confronto alla dimensione di massa del crimine di violenza sessuale. Ma è possibile la giustizia fuori dal sistema penale? La “giustizia” o il “sistema penale” è il sistema che si suppone debba “impartire giustizia” quando si commettono crimini o violazioni della legge. La polizia e il carcere sono parte di questo sistema. A partire da qui possiamo fare diverse osservazioni. Prima di tutto, la giustizia non è sempre giusta. In base all’origine sociale, etnica o del genere, i rischi di essere processati, condannati o arrestati non sono gli stessi. Neanche le vittime sono uguali nel sistema di giustizia penale: a seconda dell’aggressore e delle sue caratteristiche, non tutte le vittime hanno le stesse possibilità di ottenere una condanna. Va ricordato che il sistema penale conosce solo una piccola parte dei comportamenti problematici e delle trasgressioni sociali. Per due motivi. Primo, per definizione, il sistema di giustizia è interessato solamente ai fatti che vengono definiti “violazioni della legge” o “reati”. In secondo luogo, spesso scegliamo di non coinvolgere il sistema giudiziario penale nelle nostre dispute o quando ci viene fatto del male. La giustizia impartita dal sistema penale è essenzialmente punitiva e retributiva, nel senso che si basa sull’identificazione del colpevole e sul pronunciamento di una sentenza che rappresenterà una forma di “compenso” al male subito dalla vittima. Ma esistono altre concezioni di giustizia, in particolare non punitive, una giustizia “riparativa” o una “trasformativa”. Su che principi si basano? La giustizia riparativa si basa sul rimediare piuttosto che castigare, anche la giustizia trasformativa si oppone alle strategie punitive. Considera che esistono responsabilità individuali ma anche condizioni sociali che permettono di commettere determinate azioni. Le pratiche di giustizia trasformativa che si sono sviluppate in Nord America a partire dall’anno 2000 partono da una critica della giustizia così come è imposta dal sistema penale. Inizialmente furono concepite e sperimentate all’interno di comunità, di circoli statunitensi radicali che di fatto non potevano aspettarsi “giustizia” dal sistema penale. Di conseguenza è tra le minoranze etniche e le comunità queer che si sono sviluppate queste pratiche, in particolare in risposta alla necessità di giustizia riguardo la violenza contro le donne. Sono pratiche comunitarie, cioè le persone coinvolte dipendono dalle situazioni in esame. Significa anche che la “responsabilità comunitaria” è centrale e che i procedimenti mirano a “trasformare” la comunità. La giustizia penale indica e condanna un colpevole, la giustizia trasformativa partendo dalle necessità della vittima - sicurezza, verità - affronta l’aggressore e lavora perché sia implicato in un processo individuale e collettivo di riparazione e trasformazione. E contribuisce a cambiamenti collettivi di valori e modi di agire. Nel tuo libro parli di “populismo penale”, che cosa significa? L’espressione “populismo penale” è stata usata dagli inizi del 2000 nel mondo anglofono. Indica il modo in cui le politiche penali, basate sull’aumento dei movimenti di vittime e di sentimenti reazionari, utilizzano la necessità di sicurezza della popolazione per giustificare politiche sempre più repressive che non hanno un reale effetto sul numero di crimini e delitti. Analizzando le politiche penali, si osserva che negli ultimi decenni, in Francia come nella maggioranza dei paesi occidentali, le donne sono state usate per giustificare politiche sempre più punitive. La causa della donna si usa come pretesto per creare nuove categorie di reati e delitti, per l’allungamento delle pene, ma anche per innovazioni penali come il braccialetto elettronico o campioni sistematici di Dna. Le politiche penali in materia di violenza sessuale, violenza domestica o prostituzione intesa come “schiavitù sessuale” hanno la pretesa di “salvare” le donne processando certi uomini. Riassumendo, non dovremmo accontentarci di guardare ciò che le politiche penali fanno intendere di fare -proteggere le donne- ma dovremmo analizzare quali effetti hanno sulle donne e sulla violenza contro le donne in particolare. Pensi che una parte del femminismo abbia perso interesse per il destino delle donne detenute o che hanno una persona cara in carcere? Il femminismo dominante raramente ricorda le donne che sono in carcere. Eppure anche le detenute affrontano il patriarcato e questo influisce nelle loro vite in molti modi. Molte donne detenute sono state vittime di violenza sessuale; solo questo dovrebbe bastare per richiamare l’attenzione delle correnti femministe. Il patriarcato, per le detenute, è anche non essere uomini separati dai propri figli perché in carcere o per specifiche sentenze giudiziarie. Sono molto più accusate le donne in carcere di essere “pessime madri” che i detenuti di essere “cattivi padri”. In carcere è diverso anche il trattamento di uomini e donne, il che rientra in una minore offerta formativa o lavorativa per le donne, o una sessualità più controllata rispetto agli uomini. Dovremmo parlare anche della salute sessuale e riproduttiva delle donne in carcere, delle indegne condizioni di detenzione delle donne trans nelle carceri maschili. Il carcere non capita a chiunque. Le donne incarcerate e quelle che hanno familiari detenuti non sono “chiunque”. In alcuni ambienti la detenzione di qualcuno che amiamo è un’esperienza relativamente comune. Ignorando le donne detenute e quelle che hanno familiari in carcere, certe correnti femministe mostrano le origini sociali delle donne che ne fanno parte e la forma di emancipazione a cui aspirano. Al contrario, movimenti che si definiscono femminismo popolare, pensati dalle e per le donne razzializzate, come l’afrofemminismo, riflettono e implementano una sorellanza che non si ferma dietro le porte delle carceri. Pensi che i movimenti abolizionisti del carcere non considerino abbastanza il tema della violenza sessuale e contro le donne? Questi movimenti sono molteplici, specialmente in termini di strategie e di espressioni politiche. Ad esempio negli Stati Uniti ci sono movimenti di donne abolizioniste vittime di violenza, come l’organizzazione Survived and Punished di New York. Sono abolizioniste esattamente perché hanno subito quel tipo di violenza, perché hanno vissuto sulla loro pelle il sistema penale con la sua impostazione punitiva, e perché credono in altri tipi di approcci, sia per sopravvivere che per finirla con questa violenza. In Francia i movimenti abolizionisti sono stati a lungo insensibili alle lotte femministe, in particolare al tema della violenza contro le donne. Penso che questo stia cambiando man mano che sempre più femministe si interessano alle analisi femministe del sistema penale e agli approcci abolizionisti. Il collettivo afrofemminista Mwasi ha una linea abolizionista fin dalla nascita. Qual è la differenza tra abolizionismo penitenziario e abolizionismo penale? L’espressione “abolizionismo penale” designa correnti di pensiero e movimenti che, dagli anni 70, hanno avuto come obiettivo l’abolizione del sistema penale e quindi delle sue principali istituzioni, ovvero le carceri, i tribunali e la polizia. Le lotte contro il carcere sono quindi parte dell’abolizionismo penale. Da parte mia, mi riferisco all’abolizionismo penale più che all’abolizionismo penitenziario. Condivido alcune analisi che mostrano che il carcere potrebbe scomparire per molte ragioni: da un punto di vista capitalista non è redditizio e potrebbe essere sostituito con l’uso di tecnologia di vigilanza che non comprometta l’ordine sociale. Mirare al sistema penale nel suo insieme invece che solamente al carcere mette in luce una posizione politica essenzialmente rivoluzionaria che attacca il capitalismo e il suprematismo bianco. I movimenti per abolire la polizia stanno riacquistando slancio negli Stati Uniti, rafforzati dalle proteste contro la violenza delle forze dell’ordine. È un fenomeno nuovo o si trova invece in diretta continuità con le richieste di abolire il carcere? Come ho già accennato l’abolizionismo penale ha come obiettivo abolire il sistema penale per intero, il carcere quanto la polizia. Per ragioni strategiche alcuni movimenti scelgono di focalizzarsi più specificamente su una sola istituzione, che sia la polizia, il carcere… ma la prospettiva politica è identica. Le lotte contro il carcere spesso sono state l’aspetto più noto dell’abolizionismo penale. Oggi l’idea di abolire la polizia si sta estendendo ben oltre i circoli abolizionisti. Dalla metà dei primi anni 2000, sulla scia di Black Lives Matter è emersa una distinzione sempre più netta tra i movimenti che lottano “contro la violenza della polizia” e quelli che lottano “per abolire la polizia”. Qui le lotte antirazziste giocano un ruolo centrale? Negli Stati Uniti le lotte abolizioniste sono chiaramente schierate come lotte contro la supremazia bianca, quindi contro il razzismo del sistema giudiziario. Non tutti i movimenti antirazzisti sono abolizionisti; alcuni pensano che si possa riformare il sistema, che serva polizia appartenente alle minoranze, che si debbano responsabilizzare gli agenti perché usino meno forza e non adottino comportamenti razzisti. Gli abolizionisti continuano ad essere in minoranza. Tuttavia, decenni di politiche penali razziste e la portata dei crimini commessi dalla polizia contribuiscono a far sì che un numero crescente di persone non creda più negli atteggiamenti riformisti. Qual è il ruolo del femminismo nel movimento per l’abolizione della polizia? Una delle critiche da muovere alla polizia è il suo ruolo nella violenza contro le donne, per non parlare dei poliziotti che perpetrano questo tipo di violenza e che rappresentano una percentuale maggiore in questa professione più che in altre. La critica si può portare a differenti livelli. Prima di tutto si può criticare la polizia perché protegge solo determinate vittime, le “vittime buone”, perché maltratta le vittime, non interviene quando chiamata, arresta tutti indiscriminatamente quando sono chiamati a intervenire a seguito di un’impugnazione per violenza di genere, eccetera. Però i movimenti femministi e abolizionisti stanno formulando critiche più profonde al ruolo della polizia. Al giorno d’oggi il ricorso alla polizia e al sistema penale spesso sembra ovvio per lottare contro la violenza sessuale. Eppure è un sistema profondamente razzista che incide in modo sproporzionato sulle classi lavoratrici. Esistono anche posizioni abolizioniste nei movimenti Lgbt, basate sull’assunto che la polizia non sempre agisce realmente contro la violenza omofobica? Le correnti maggiori di questi movimenti non vogliono essere abolizionisti. Tuttavia esiste una tradizione molto forte di critiche e pratiche abolizioniste nelle comunità Lgbt. Questo sia per la mancanza di protezione che tali comunità possono aspettarsi dal sistema penale, dalle forme di molestie che subiscono da parte della polizia e dalla loro maggiore criminalizzazione rispetto al resto della popolazione. Anche la giustizia trasformativa è vista come un’alternativa alla polizia? L’applicazione di procedimenti di giustizia trasformativa elimina la necessità della polizia. Ma non è in termini di “un’alternativa” che dobbiamo pensare alla giustizia trasformativa. Come tutte le pratiche che si sviluppano da una prospettiva abolizionista, vuole soprattutto contribuire a costruire un mondo dove i nostri bisogni di sicurezza e giustizia, che oggi deleghiamo alla polizia, siano ottenuti collettivamente. *Traduzione di Leonora Marzullo Il rischio intolleranza verso la modernità di Mauro Magatti Corriere della Sera, 6 ottobre 2020 La disuguaglianza si associa al rifiuto sempre più diffuso del progresso. Più che le promesse di una rapida crescita, serve un’analisi critica dei risultati raggiunti. Sono ormai diversi anni che la promessa di benessere garantita dalle società avanzate nella seconda parte del XX secolo stenta a compiersi per un numero crescente di persone. Lo dimostrano i dati sulla disuguaglianza sociale che, già da molti anni prima del Covid, sono cresciuti un po’ dovunque (anche se non mancano vistose differenze dovute alla efficacia delle politiche di contrasto da parte degli Stati nazionali). Ma non si tratta solo di una questione economica. Certo, le disuguaglianze alla fine si traducono in un differenziale di reddito. Però la loro origini e le loro implicazioni (soprattutto quando tendono, come oggi, a diventare strutturali) sono ben più profonde: un percorso scolastico incompiuto, spesso causato da un retroterra familiare difficile; una provenienza territoriale da una delle tante periferie urbane o da una regione arretrata; una storia personale che si perde nelle tante possibilità di questo mondo e finisce per avvoltolarsi in una solitudine sempre più asfittica e malata. Sta di fatto che c’è una quota crescente di persone, ormai deluse delle tante promesse tradite, che non crede più in parole come “progresso” o “crescita”. Una sfiducia che nasce dalla sensazione di non essere più all’altezza di un mondo che diventa sempre più difficile e sfidante. Che si tratti di anziani affidati alla protezione di una pensione spesso misera o di giovani poco scolarizzati che sopravvivono con “lavoretti” che non permettono di costruire alcun curriculum, la sostanza non cambia. Un senso di abbandono che fa perdere la speranza di poter avere ancora qualcosa da dire e fare in un’epoca come questa. E non senza ragione: riuscire a stare al passo della nostra società richiede un continuo adattamento che ha sì bisogno di uno sforzo personale, ma che ha soprattutto bisogno di contesti (affettivi, organizzativi, finanziari, istituzionali) che non sono certo alla portata di tutti. Si potrebbe dire che la società del benessere, nel momento in cui volge al declino, produce una spinta reattiva - una pulsione di morte volta al tentativo (spesso disperato) di proteggere quello spazio di vita che si rischia di perdere - che, mentre rifiuta la modernità e tutti i suoi artefatti, trova espressione nella ricerca di un capro espiatorio su cui scatenare la propria rabbia. Sia esso l’immigrato avvertito come una minaccia o un potere occulto che, attraverso il Covid, vuole dominare il mondo. Sarebbe un grave errore sottovalutare questo cambiamento del clima psicosociale, limitandosi a fare discorsi sul rilancio dell’economia. Non è che ciò non costituisca una parte della soluzione; ma a condizione di non dimenticare che l’esperienza quotidiana di questi mesi e degli ultimi anni dice per molti esattamente il contrario. È in questo contesto che si possono spiegare i negazionismi più assurdi, i populismi più radicali e le pulsioni violente che affiorano d’improvviso un po’ dappertutto. Al fondo, cresce l’intolleranza nei confronti della stessa modernità. Di questo risentimento diffuso hanno approfittato alcuni imprenditori politici e alcuni gruppi religiosi che proprio su questi sentimenti costruiscono il loro consenso. Dimostrando peraltro tutta la loro improvvisazione quando si trovano ad affrontare la prova del governo. Non serve nemmeno una “ideologia”. A differenza del passato non è tanto una propaganda sistematica quella che viene sviluppata quanto piuttosto la capacità di sfruttare le caratteristiche del web che, una volta diventato pane quotidiano di milioni di persone, sviluppa alcuni effetti che solo ora impariamo a conoscere: nessuna distinzione tra il vero il falso; creazione di comunità chiuse dove si ascoltano solo coloro che la pensano allo stesso modo. Col risultato che si prende per vero ciò che l’influencer di turno sostiene, a prescindere dalla realtà delle cose. Il Covid si innesta su questa situazione già creatasi nel decennio alle nostre spalle. Ora, quello che dobbiamo aspettarci è che questi sentimenti antimoderni siano destinati a crescere: perché è irrealistico immaginare che, per quanto possa essere veloce, l’uscita da questa crisi possa riuscire a contenere la disillusione e la rabbia diffuse. Che fare allora? Per tentare di fermare questa spinta è necessario sviluppare un discorso che - facendo lo sforzo di ascoltare davvero le ragioni e i sentimenti di chi sta andando alla deriva - non si limiti semplicemente a promettere una pronta ripresa. Serve, piuttosto, riconoscere finalmente tutta una serie di inadeguatezze, di questioni irrisolte, di contraddizioni che il nostro modello di sviluppo si porta dietro. Non tutto quello che avevamo sperato di ottenere è stato effettivamente raggiunto, né tanto meno è stato messo a disposizione di tutti. Per contrastare il rifiuto della modernità - cioè della scienza, della tecnica, dell’economia, della democrazia - è urgente sviluppare un approccio critico capace di apprezzare i successi ma anche di riconoscere le numerose distorsioni che le nostre società super avanzate hanno prodotto e continuano a produrre. Altrimenti, con la sua drammaticità, il Covid farà esplodere le tensioni. Senza questo approccio critico - che interpella la politica, ma anche le imprese, la scienza, la scuola, la religione - la difesa di principio di ciò che la nostra civiltà ha prodotto di buono rischia di rivoltarsi nel suo contrario. Cambiano i decreti sicurezza. Stop alle supermulte per le Ong di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 6 ottobre 2020 Zingaretti: via le norme di Salvini. E dopo il caso di Willy arriva il daspo per la movida violenta. Le multe alle Ong vengono notevolmente ridotte. Potranno essere comminate solo all’esito di un processo, e non a discrezione del prefetto, passeranno da un massimo di un milione di euro ad un massimo di 50 mila euro. C’è anche lo stop alla confisca della nave (a condizione che gli equipaggi informino le autorità italiane a ogni intervento di salvataggio), il ritorno della protezione speciale per chi, tornando nel proprio Paese, rischierebbe “trattamenti inumani o degradanti”, la convertibilità in permesso di soggiorno per motivi di lavoro di alcune tipologie di permessi (quali ad esempio “per protezione speciale, per calamità, per residenza elettiva”). E tempi più brevi per ottenere la cittadinanza italiana. Via, poi, le norme speciali introdotte con il decreto Salvini che assegnavano al ministro dell’Interno specifiche competenze, prima disciplinate dal codice di navigazione. Ritorna, quindi, al ministero delle Infrastrutture la titolarità di determinare il divieto o la limitazione del transito di navi, fermo restando che il Mit dovrà concertare le proprie decisioni con il Viminale e con il ministero della Difesa, informato il presidente del Consiglio. Insomma “né porti chiusi né aperti”, è la sintesi del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, “ma solo una disciplina più coerente con la Costituzione, la sicurezza e il diritto di protezione dei migranti”. Sono molte le novità approvate ieri dal governo che cancellano o modificano i due decreti sulla sicurezza, per la parte relativa ai migranti, adottati da Matteo Salvini nel 2018 e nel 2019. Dopo i rilievi di Mattarella e della Consulta, il Cdm ha approvato un testo articolato in dodici articoli, che in parte reintroduce la vecchia normativa in parte apporta delle novità. Si prescrive ad esempio il divieto di espulsione e respingimento nel caso in cui il rimpatrio determini, per l’interessato, il rischio di tortura, il rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani. Si introduce poi una nuova fattispecie di divieto di espulsione che consegue al rischio di violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare. Nelle suddette ipotesi, è previsto il rilascio di permesso di soggiorno per protezione speciale, le cui procedure vengono accelerate. Si interviene anche in materia di iscrizione anagrafica, prevedendo il diritto all’iscrizione e anche i casi in cui deve essere rilasciata una carta d’identità. Si prevede la convertibilità dei permessi di soggiorno in motivi di lavoro, mentre gli stranieri potranno essere trattenuti nei Centri di permanenza non più 180 giorni ma 90, mentre rischieranno l’arresto e il processo per direttissima nel caso di danni arrecati al Centro. Il decreto prevede anche un “daspo” per la movida violenta, dopo l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, e una norma per contrastare la vendita di droga tramite i siti web. “I decreti propaganda di Salvini non esistono più” dice il segretario del Pd Nicola Zingaretti. “Ora si garantisce legalità, solidarietà, giustizia, umanità. Non si rimandano indietro i migranti che se tornano nel loro Paese rischiano la vita”. Duro il giudizio del leader della Lega: “Non era la priorità di questo Paese”. Egitto. In carcere la giornalista che svelò il depistaggio nelle indagini su Regeni di Pierfrancesco Curzi Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2020 La 27esima reporter attualmente nelle celle di al-Sisi. Basma Mostafa si trovava a Luxor per indagare sulle azioni compite dalle forze di sicurezza nel corso delle proteste post-20 settembre. Sabato pomeriggio, di lei si sono perse le tracce. Aggiornamenti sono arrivati solo nel pomeriggio di domenica, quando sono state comunicate le accuse a suo carico: unione ad un gruppo terroristico e pubblicazione di notizie false. “Poco fa sono stata fermata da un poliziotto, ha voluto vedere i miei documenti, ha fatto delle domande, poi mi ha lasciato andare, però continua a seguirmi”. Sono queste le ultime parole scambiate al telefono tra Basma Mostafa, giornalista egiziana di 30 anni e suo marito, Karim Abdelrady, avvocato, sabato mattina. Erano circa le 11,30, da quel momento, e fino a domenica pomeriggio, di lei si sono perse le tracce, svanita nel nulla. Come spesso accade in Egitto, la National Security ha fermato, prelevato, tenuto nascosta e portato la reporter davanti al Procuratore del Cairo per la convalida dell’arresto con le accuse di unione ad un gruppo terroristico e pubblicazione di notizie false (caso 959 del 2020) e l’annuncio del primo rinnovo della detenzione, fissato per i canonici 15 giorni. Un copia/incolla di quanto accaduto a Patrick Zaki all’inizio del febbraio scorso e a centinaia di egiziani indigesti al regime. La Mostafa si trovava a Luxor, la capitale dei faraoni, per un reportage giornalistico. Nell’ultima settimana la città lungo il Nilo, 700km a sud del Cairo, è stata teatro di una vera e propria sommossa legata alle proteste post-20 settembre che hanno costretto la Sicurezza Nazionale egiziana a un vigoroso dispiegamento di forze per riprendere il controllo e sedare i focolai di rivolta. Un episodio, su tutti, ha suscitato scalpore: l’uccisione a sangue freddo di un uomo che aveva tentato di difendere suo padre aggredito in casa durante un blitz della polizia. Per questo e per tutto il resto, Basma aveva deciso di scendere a Luxor ed effettuare un reportage per conto del sito web di notizie Almanassa News. Una giornalista in prima linea, Basma Mostafa, fondamentale in passato per smascherare il più grande depistaggio costruito dalle autorità egiziane per allontanare i sospetti attorno al rapimento, alla detenzione, alle torture e al barbaro assassinio di Giulio Regeni, tra il 25 gennaio ed il 3 febbraio del 2016. Il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi, dopo aver tentato di derubricare l’omicidio di Regeni con una serie di panzane colossali (un incidente stradale, un regolamento di conti in ambito sentimentale ecc.), aveva bisogno di una ricostruzione credibile per discolparsi del crimine nei confronti di un cittadino italiano ed europeo. Per questo organizzò un’incredibile montatura, piazzando i documenti di Giulio Regeni nell’appartamento di una famiglia del Cairo, considerata una banda di criminali senza scrupoli e organizzando un falso scontro a fuoco: un’autentica carneficina, 5 morti, tra cui un giovane tassista, anch’egli completamente estraneo ai fatti. Era il 26 marzo del 2016. Pochi giorni dopo fu proprio lei l’autrice dello scoop e a raccontare la tragica messinscena, ridando almeno dignità a 5 innocenti, familiari compresi, e mettendo le autorità egiziane con le spalle al muro. Da quell’episodio le indagini, seppur con tutti i limiti dimostrati nel tempo, partirono davvero indirizzandosi sui servizi segreti egiziani. Con quello scoop per Basma Mostafa iniziò anche un lungo e travagliato rapporto con le autorità. Arrestata con l’accusa, tanto per cambiare, di aver diffuso false notizie, si leggeva nel capo d’imputazione, a proposito dell’intervista ai familiari delle vittime innocenti. Negli anni successivi, una volta rimessa in libertà, i problemi sono continuati. All’inizio dell’emergenza pandemica coronavirus, Mostafa è stata prelevata in strada dalla polizia a Downtown Cairo, nel cuore della capitale, mentre stava intervistando delle persone che protestavano davanti al ministero della Sanità. Interrogata per alcune ore nel commissariato di zona, la giornalista è stata rilasciata in serata. In Italia i giornalisti con la schiena dritta rischiano la vita per smascherare il malaffare e subiscono le minacce della criminalità organizzata, in Egitto lo Stato non solo evita qualsiasi tutela, ma anzi punisce cronisti, blogger e tanti altri cittadini solo perché raccontano la realtà di un Paese iniquo. Le carceri egiziane sono state e sono piene di giornalisti arrestati, per la quasi totalità dei casi, con la sola colpa di svolgere il proprio dovere. Stando al Committee to protect journalists (Cpj), un’organizzazione con sede negli Stati Uniti, i rappresentanti dei media egiziani antiregime rinchiusi nelle prigioni del Paese nordafricano sono attualmente 26. Tra i casi più eclatanti quello di Khaled Dawoud, arrestato alla fine di settembre 2019 nell’ondata repressiva messa in atto dal governo egiziano dopo le proteste di piazza esplose in tutto il Paese e fomentate dall’imprenditore/attore Mohamed Alì. Dawoud, noto giornalista ed ex leader del Partito al-Dustour, è ancora recluso nel carcere di Tora. Il 20 maggio scorso, ad Alessandria d’Egitto, è toccato alla giovane reporter ed attivista dei diritti umani Shaymaa Sami, arrestata per aver diffuso e pubblicato false notizie, anche attraverso i social, ma soprattutto per aver preso parte ad un gruppo terroristico. Con lei nello stesso periodo sono finiti in manette altri colleghi, Sameh Hanin, Haitam Mahgoub, il fotografo Moatez Abdel Wahab, Mostafa al-Aasar. Ci sono poi altri professionisti molto conosciuti in Egitto come Esraa Abdel Fattah, Solafa Magdy e Mohamed Salah anch’essi in prigione. Poche settimane fa è toccato ad un altro giovane cronista, Islam Kahly, finire in prigione mentre stava lavorando. Kahly stava raccogliendo notizie sulla morte sospetta di un giovane commerciante nel Governatorato di Giza fermato dalla polizia, portato in caserma e poi ritrovato cadavere in strada. Infine il caso Mada Masr, il sito di notizie antiregime per eccellenza, oscurato dal governo, ma in grado di dribblare la censura. La sua tenace direttrice, Lina Attalah, pochi giorni fa è stata inserita nella lista dei 100 Personaggi più influenti al mondo dalla rivista americana Time. Il 23 novembre scorso un suo giornalista, Shady Zalat, è stato prelevato in casa e di lui si sono perse le tracce per oltre 24 ore. La mattina successiva la Sicurezza Nazionale, dopo un raid nella redazione di Doqqi (lo stesso quartiere dove viveva Giulio Regeni), ha portato al commissariato di Giza la stessa Attalah e altri due colleghi, Rana Mahmoud e Mohamed Hamama. In serata il rilascio dei tre e, in contemporanea, il ritorno a casa di Zalat, scaricato lungo la ring road del Cairo. Un chiaro avvertimento da parte della Sicurezza Nazionale, successivo alla pubblicazione su Mada Masr, il giovedì precedente, della notizia secondo cui il primogenito del presidente al-Sisi, Mahmoud, era stato demansionato: da vertice del Gis, il servizio di controspionaggio interno, a funzionario diplomatico presso l’ambasciata egiziana a Mosca. Myanmar. Detenzione di massa dei musulmani Rohingya nei campi della persecuzione La Repubblica, 6 ottobre 2020 “Il governo del Myanmar dovrebbe porre fine urgentemente alla detenzione arbitraria e indefinita di circa 130.000 musulmani Rohingya in campi squallidi e violenti nello Stato di Rakhine”. La denuncia un documento diffuso oggi da Human Rights Watch. Le recenti misure per “chiudere” apparentemente i campi sembrano progettate per rendere permanente la segregazione e il confinamento dei Rohingya e di diverse migliaia di musulmani Kaman, che le autorità hanno internato in campi di detenzione all’aperto sin dal loro spostamento in una campagna di pulizia etnica del 2012. “Una prigione aperta senza fine”. Il rapporto di 169 pagine, “Una prigione aperta senza fine”: la detenzione di massa dei Rohingya in Myanmar nello Stato di Rakhine”, documenta le condizioni disumane nei 24 campi e le strutture simili a campi nello Stato centrale di Rakhine. Gravi limiti ai mezzi di sussistenza, movimento, istruzione, assistenza sanitaria e cibo e riparo adeguati sono stati aggravati dall’ampliamento dei vincoli agli aiuti umanitari, da cui dipendono i Rohingya per la sopravvivenza. Queste condizioni hanno minacciato sempre più il diritto alla vita dei Rohingya e altri diritti fondamentali. I detenuti del campo devono affrontare tassi più elevati di malnutrizione, malattie trasmesse dall’acqua e mortalità infantile e materna rispetto ai loro vicini di etnia Rakhine. I conti di decessi prevenibili erano comuni. “Il campo non è un posto vivibile per noi”, ha detto a Human Rights Watch un uomo Rohingya. La pulizia etnica. “Il governo del Myanmar ha internato 130.000 Rohingya in condizioni disumane per 8 anni, tagliati fuori dalle loro case, terra e mezzi di sussistenza, con poche speranze che le cose migliorino”, ha detto Shayna Bauchner, ricercatrice asiatica di Human Rights Watch e autrice del rapporto. “Le affermazioni del governo che non sta commettendo i crimini internazionali più gravi suoneranno vuote fino a quando non taglierà il filo spinato e consentirà ai Rohingya di tornare alle loro case, con piena protezione legale”. Gli abusi contro i Rohingya ammontano ai crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione, ha detto Human Rights Watch. La pulizia etnica e l’internamento dal 2012 hanno gettato le basi per le atrocità di massa dei militari nel 2016 e nel 2017 nello stato del Rakhine settentrionale, che equivalgono anche a crimini contro l’umanità e forse a genocidio. Il rapporto si basa su oltre 60 interviste. Sono state realizzate con Rohingya, musulmani Kaman e operatori umanitari dalla fine del 2018. Human Rights Watch ha anche analizzato oltre 100 documenti e rapporti interni e pubblici del governo, delle Nazioni Unite e non governativi che mostrano il rifiuto calcolato da parte del governo nazionale e del Rakhine. Governi statali per migliorare la libertà di movimento o le condizioni di vita nei campi, inclusa la negazione di spazi adeguati o terreni adatti per la costruzione e la manutenzione dei campi. È come vivere agli arresti domiciliari ogni giorno. A loro viene negata la libertà di movimento a causa di restrizioni sovrapposte: politiche formali e ordini locali, pratiche informali e ad hoc, posti di blocco e recinzioni di filo spinato e estorsioni diffuse. Quelli trovati fuori dal campo sono soggetti a tortura e altri abusi da parte delle forze di sicurezza. “Mettili all’angolo, recintali, confina il nemico”. Le autorità hanno usato la violenza del 2012 contro le comunità Rohingya come pretesto per segregare e confinare una popolazione che aveva cercato a lungo di rimuovere dal paese, ha detto Human Rights Watch. Un ufficiale delle Nazioni Unite che all’epoca lavorava nello Stato di Rakhine descrisse l’approccio del governo nel 2012: “Mettili all’angolo, recintali, confina il ‘nemico’“. Le poche migliaia di buddisti Rakhine sfollati nel 2012 sono tornati alle loro case o si sono reinsediati. Le promesse non mantenute del governo del Myanmar. Il governo ha annunciato nell’aprile 2017 che avrebbe iniziato a chiudere i campi. Nel novembre 2019, ha adottato la “Strategia nazionale per il reinsediamento degli sfollati interni (IDP) e la chiusura dei campi per sfollati interni”, che ha affermato fornirebbe soluzioni sostenibili. Tuttavia, il processo ha comportato la costruzione di strutture permanenti vicino alle attuali posizioni dei campi, rafforzando ulteriormente la segregazione e negando ai Rohingya il diritto di tornare alla loro terra, ricostruire le loro case, recuperare il lavoro e reintegrarsi nella società del Myanmar. “Il governo e l’esercito di Aung San Suu Kyi hanno deliberatamente creato e mantenuto condizioni oppressive nei campi per rendere la vita invivibile per i Rohingya”, ha detto Bauchner. “I governi stranieri e le Nazioni Unite devono rivalutare il loro approccio e fare pressioni sul Myanmar per fornire sicurezza e libertà ai Rohingya, mentre ritengono responsabili i funzionari responsabili di questo regime di apartheid”. La pandemia strumento contro il dissenso: Amnesty via dall’India di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 6 ottobre 2020 È dal 2014 che l’amministrazione Modi ostacola le attività delle organizzazioni filantropiche e umanitarie che ricevono finanziamenti dall’estero. Non è un momento facile per le organizzazioni che si occupano di diritti umani nel mondo. La pandemia da coronavirus ha monopolizzato l’attenzione generale e non pochi Paesi ne stanno approfittando per reprimere il dissenso. Il caso più clamoroso è quello dell’India dove il 29 settembre Amnesty International ha annunciato la sospensione di tutte le attività dopo che il governo aveva ordinato il congelamento dei suoi conti bancari. Non era mai successo prima che l’Ong chiudesse i battenti in uno Stato di questa grandezza e, per giunta, una democrazia. “È un giorno vergognoso per l’India: una potenza emergente, uno Stato membro del Consiglio Onu dei diritti umani, la cui Costituzione contiene impegni per i diritti umani, cerca di ridurre al silenzio chi chiede giustizia” aveva commentato Julie Verhaar, la segretaria generale ad interim di AI. Nel 2018 il ministero dell’Interno aveva cancellato le licenze di 20 mila Ong. Il 25 ottobre dello stesso anno un gruppo di funzionari dell’Agenzia delle Entrate aveva fatto irruzione nella sede centrale di AI alla ricerca di documentazione contabile già resa pubblica. Nel giugno 2019 all’organizzazione umanitaria era stato impedito di tenere una conferenza stampa sulle violazioni dei diritti umani in Jammu e Kashmir. Il 15 novembre dello stesso anno c’era stato un nuovo raid negli uffici dell’associazione e nell’abitazione del direttore generale. Poi il congelamento dei conti e l’inevitabile chiusura. Il risultato non sembra aver appagato il premier Modi che ha anche inasprito il Foreign Contribution Regulation Act (Fcra) varato nel 2010 per limitare le attività dei gruppi critici. Nel mirino anche le associazioni cristiane, accusate di antinazionalismo. Nigeria. Rinchiusi in un pollaio o legati con le catene. L’inferno dei più vulnerabili in La Repubblica, 6 ottobre 2020 Sono bambini e adulti con disagi mentali. Il reportage della Bbc fa luce sui maltrattamenti riservati ai più deboli nel Paese africano, dove chi ha un disagio mentale invece di essere curato da uno psichiatra (che non c’è) viene legato, maltrattato e allontanato. Picchiati, bruciati, lasciati a morire di fame. È il trattamento riservato ai bambini e a chi ha disturbi mentali in Nigeria. Ne racconta la drammaticità e la vasta diffusione, la Bbc, con un focus sul Nord del Paese. L’ondata di casi, documentata, ha lasciato i nigeriani sotto shock. Alcuni adulti sono stati trovati legati con catene di ferro intorno alle caviglie, e obbligati a nutrirsi, dormire e defecare nello stesso posto. Un uomo di 32 anni è rimasto in queste condizioni per 7 anni. I suoi genitori lo hanno incatenato nel garage nello Stato di Kano a Nord-Ovest. Quando è stato liberato, a stento camminava. Un altro uomo di 55 anni è stato trovato con una gamba legata a un tronco di legno con un gancio. È stato rinchiuso in quel luogo per 30 anni. Chi lo ha messo in salvo lo ha portato al Rogo Hospital dove gli è stata diagnosticata “una psicosi e comportamento irrazionale”. Lo stigma della malattia mentale, l’ignoranza, l’attaccamento alle tradizioni, impediscono alle famiglie di aiutare queste persone fragili. Il disagio è considerato un tabù. In Nigeria la presenza psichiatrica ogni 100 mila abitanti è pari allo 0,5%, per un totale in tutto il Paese di 300 professionisti. La popolazione nigeriana arriva a 200 milioni e si stima che le persone con problemi mentali siano 30 milioni. Lo scorso 24 agosto è stato annunciato un provvedimento che dà segnali incoraggianti. Sadiya Umar Farouq, ministra degli affari umanitari, della gestione dei disastri e dello sviluppo sociale, ha annunciato l’approvazione di una Commissione nazionale sulla disabilità, con cui la ministra si augura di “occuparsi dignitosamente di quei 30 milioni di fratelli e sorelle con problemi mentali”. Un altro capitolo riguarda i bambini. A metà agosto è stata resa pubblica una brutta storia di maltrattamenti, ai limiti del sadismo. Un bambino di 11 anni è stato rinchiuso in un pollaio nello Stato di Kebbi, a Nord-Ovest. I responsabili sono il padre e la matrigna, che hanno continuato la loro vita in una casa normale, e che adesso stanno in carcere. “Dopo il caso di Kebbi, abbiamo iniziato a ricevere segnalazioni. Quello che abbiamo notato è che i bambini che hanno subito abusi non vivevano con le loro madri”, ha detto Haruna Ayagi alla Bbc, capo di Human Rights Network (Hrn), un’organizzazione non governativa coinvolta nel salvataggio di 12 persone, sette delle quali bambini, solo in agosto, nello stato di Kano. Due bambini sono stati messi in salvo ad Abuja, la capitale. Erano chiusi in un bagno. E lì dovevano rimanere, legati, fino a che la matrigna non tornava dal lavoro. Le matrigne sono una realtà sociale molto diffusa al Nord, dove si pratica la poligamia e dove gli uomini possono decidere di divorziare semplicemente dicendo “Voglio il divorzio”. I bambini vengono tolti alle loro madri biologiche. Una legge federale del 2003 protegge i diritti dei bambini e riconosce allo Stato il diritto di sottrarlo alla famiglia se questa lo maltratta. Purtroppo, dei 36 Stati, 11, soprattutto al Nord, incluso Kano, non hanno ancora approvato la legge. La definizione di bambino fino al raggiungimento dei 18 anni, impedirebbe il matrimonio. In molti credono che raggiunta la pubertà i bambini sono pronti per il matrimonio. Violenza domestica in Cina (e l’appello di Xi Jinping) di Sabrina Ardizzoni Il Manifesto, 6 ottobre 2020 La violenza domestica in Cina non è regolamentata dalla legge e le donne vittime di attacchi da parte dei coniugi non vengono tutelate: se un marito maltratta o ammazza la moglie, viene trattata come “questione famigliare,” una cosa privata, e non come reato a tutti gli effetti. Il 1 ottobre, giorno di Festa Nazionale in Cina, anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, il Presidente cinese Xi Jinping ha celebrato il venticinquesimo anniversario delle Nazioni Unite. In particolare, ha voluto presenziare, via video, alla cerimonia di UN Women. Trattandosi anche del venticinquesimo anniversario dalla Quarta Conferenza Mondiale delle Donne che si è tenuta a Pechino dal 4 al 15 settembre 1995, il Presidente Xi ha voluto confermare il suo contributo di 10 milioni di dollari alla causa femminile, rimarcando che “La parità tra uomo e donna è alla base della politica nazionale cinese”. Proprio in questi giorni, però, un caso di violenza domestica sta scuotendo l’opinione pubblica: Lamu, una contadina di una etnia di minoranza tibetana Aba, residente in un villaggio nella provincia Sud-occidentale del Sichuan, al confine con il Tibet, è morta dopo essere stata data alle fiamme dal marito. Su Douyin, il Tik Tok cinese, Lamu era seguita da migliaia di followers. “Lamu non era una star, era una donna lavoratrice”, dice uno dei commentatori online. Era una giovane di campagna che viveva, pur con i suoi problemi, serenamente nel suo villaggio. Aveva aperto un account su Douyin, ma non per denaro- non aveva più di 1000 RMB, circa 100 euro -, bensì per cercare solidarietà e uscire dall’isolamento del villaggio. Dopo il matrimonio, a 19 anni, il marito, un coetaneo conosciuto fin dall’infanzia, era diventato violento e lei era riuscita a divorziare da lui, dopo la nascita di due figli. Di fronte alle minacce di lui di portare via i bambini, Lamu ha ceduto, e l’ha risposato. Anche la morte della madre, unica difesa nei confronti del marito, l’ha costretta a ridiventare moglie di questo uomo violento. Lamu ha continuato a postare video di se, gioiosa e sorridente, su Tik Tik, mentre in tuta da ginnastica raccoglieva le verdure e le erbe delle montagne, o preparava da mangiare sul fuoco a legna, dentro la tenda dove beveva lo tsampa, la bevanda salata di orzo e burro di yak, tipica dei pastori tibetani, o danzando in abiti tradizionali per i suoi followers. I suoi raccolti, le sue ricette, le sue danze, venivano registrate senza trucco e senza filtri, e questo, in un mondo - quello dei social - in cui nessuno vuole mostrare come è, attirava le simpatie di molti. Quando il 14 settembre, durante una diretta, quel marito che lei aveva allontanato e poi ripreso, l’ha assalita, cosparsa di benzina e bruciata, migliaia di fans la stavano seguendo. Lo schermo si è oscurato e si sono sentite solo le urla e i rumori di una tragedia in divenire. Attraverso un crowdfunding la famiglia ha raccolto migliaia di euro per pagare le cure ospedaliere. Ma ogni trattamento si è rivelato inutile. La sua morte è diventato un caso che ha suscitato una riflessione molto partecipata e ha toccato il tema delicato della violenza famigliare. I suoi fans si chiedono: come si comporterà la legge nei confronti di questo marito? Il marito verrà condannato a morte? Nell’ultimo anno nella società cinese molte voci si sono alzate contro la violenza famigliare. Vogliono che la violenza domestica sia considerata un reato perseguibile, alla stregua della violenza fuori dalle mura di casa. “No alla violenza famigliare! La violenza in casa è violenza e basta”, si legge molte volte tra i commenti. La violenza domestica in Cina non è regolamentata dalla legge e le donne vittime di attacchi da parte dei coniugi non vengono tutelate: se un marito maltratta o ammazza la moglie, viene trattata come “questione famigliare,” una cosa privata, e non come reato a tutti gli effetti. Molte volte le donne vittime di violenza non denunciano, spesso vengono indotte dagli stessi famigliari a desistere, ma anche quando denunciano, troppo spesso i persecutori non vengono puniti. Un commentatore su Weibo scrive: “se qualcuno del villaggio l’avesse protetta, se avesse trovato una legge, uno stato, pronto a difenderla da questa violenza, Lamu sarebbe ancora qui. La sua unica speranza sarebbe stata quella di lasciare il villaggio, andarsene coi suoi figli”. Già, perché per molte donne di campagna, vittime di violenza, l’unica speranza è quella di lasciare tutto e diventare anonime comparse in una città qualsiasi della Cina, dove lavori come una schiava per pochi soldi e dove il vento delle colline del Sichuan con l’odore delle sue erbe non rimane che un offuscato ricordo. Mentre in rete si levano commenti come “I punti oscuri della società sono i problemi della legge; dobbiamo parlare con forza della violenza domestica”, Xi Jinping, che ha dichiarato di voler “prendersi cura delle donne che vivono in condizioni di povertà, delle donne anziane, disabili e di gruppi con fragilità” e anche di “eliminare la discriminazione, il pregiudizio e la violenza nei confronti delle donne, in modo tale che la parità di genere possa diventare veramente un codice di condotta e uno standard di valori comuni per tutta la società,” ha ora una vera occasione di dimostrare la sincerità del suo impegno. Centro America. Nuova carovana migrante, Messico e Guatemala fanno muro di Andrea Cegna Il Manifesto, 6 ottobre 2020 Ripartono i viaggi collettivi dei migranti dall’Honduras verso gli Stati uniti. Centinaia gli espulsi dal governo guatemalteco. Il presidente messicano Amlo manda l’esercito al confine. Una nuova carovana migrante sta attraversando il centro America con l’obiettivo di entrare in Messico per poi forzare i confini con gli Stati uniti d’America. Il gruppo, di diverse migliaia di persone, si è diviso in più tronconi, almeno due: uno è diretto verso il Rio Suchiate e il confine con il Chiapas, mentre un secondo ha puntato verso il nord del paese, per cercare di entrare il Messico dal Tabasco, stato d’origine del presidente Andres Manuel Lopez Obrador. Questa frammentazione della carovana alimenta confusione e comunicazioni distorte da parte dei media, portando osservatori dei fenomeni migratori a sostenere che a oggi ci sia “un flusso consistente di migranti che si sta muovendo verso nord contemporaneamente, organizzato in gruppi ma non in carovana”. Il fenomeno delle carovane migranti è nato nel 2018 per cercare di trovare forme di attraversamento “sicuro” del Messico e non ha portato a un incremento del numero di migranti che annualmente provano il “grande viaggio”, ha solo concentrato e reso visibile la questione. Sono infatti migliaia i migranti di cui si sono perse le tracce una volta entrati in Messico, mentre il numero degli scomparsi durante le carovane si conta in poche unità. La risposta orchestrata dagli Usa di Trump è stata quella di concedere finanziamenti economici e non imporre dazi a Guatemala e Messico, che in cambio devono esercitare di un ferreo controllo delle frontiere e trasformarsi in “terzi paesi sicuri”. Così si spiega la violenza, mediatica e fisica, con cui le carovane sono state affrontate in questo 2020. I dati ufficiali forniti dal governo del Guatemala dicono che in 4.000 tra honduregni e honduregne sono entrati nel paese con la carovana partita il primo ottobre da San Pedro Sula. In 10 hanno fatto richiesta di asilo mentre, dopo il massiccio intervento dell’esercito e della polizia 738 migranti sono stati espulsi dal paese; altri 2.355 hanno deciso, su forti pressioni, di tornare verso l’Honduras. I rimpatriati vengono trasferiti nei luoghi di origine dalle autorità competenti e secondo il Segretariato per la sicurezza dell’Honduras i migranti che hanno deciso di tornare sono circa 1.250 e dice di non sapere da dove le autorità guatemalteche abbiano ottenuto il numero di 3.093 honduregni rimpatriati. Numeri a parte la carovana è stata smembrata e chi è rimasto in Guatemala si muove in ordine sparso verso nord. Il Messico dopo aver rafforzato la presenza della Guardia nazionale sui confini di Chiapas e Tabasco e aver minacciato la carcerazione fino a dieci anni per i migranti illegali, dopo aver osservato come le forze di sicurezza del Guatemala abbiano sgretolato la carovana, continua a presidiare il confine per evitare ingressi di massa nel paese. Ma Messico e Guatemala sanno bene che per quanto inaspriscano le loro politiche i flussi migratori non si possono fermare, al massimo nascondere.