Il Papa contro l’ergastolo: “È una pena di morte nascosta” Il Dubbio, 5 ottobre 2020 Nell’enciclica “Fratelli Tutti” Papa Bergoglio difende anche i diritti dei detenuti. Poi l’attacco alle tecnocrazie e alla finanza che provocano odio e marginalità. “Si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie”: citando quasi alla pari il Grande Imam al Tayyeb, ricordando San Francesco ed il suo viaggio dal Sultano, Papa Francesco riconosce la spinta dei “fratelli non cattolici” Martin Luther King, Gandhi e Tutu (ma soprattutto al beato Charles de Foucauld) nel denunciare “il deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità”. È la malattia che rischia di distruggere li mondo contemporaneo. Bisogna rispondere con un nuovo senso di fratellanza, con il dialogo che unisca e valorizzi le singole culture, con un ripensamento dell’economia. La tecnocrazia genera inumanità, la finanza dominio e strage. Un indebolimento dovuto all’imposizione di un pensiero unico che calpesta la memoria, perverte il significato delle parole democrazia e libertà, crea ingiustizia sociale e impone la liquidazione del debole in quanto scarto sociale. È questo il cuore di “Fratelli Tutti”, l’enciclica che ha firmato ieri sulla tomba del Santo di cui ha scelto di portare il nome e alla quale affida la critica del mondo contemporaneo, dimentico della fratellanza umana nel nome della grettezza sovranista dell’ego. Un capitolo a parte è dedicato alla pena di morte e alla giustizia: “Oggi - scrive Bergoglio nella enciclica - affermiamo con chiarezza che “la pena di morte è inammissibile” è la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo”. “L’omicida non perde la sua dignità personale - scrive il Papa - Dio ne è garante”. Da qui due esortazioni: non vedere la pena come una vendetta, bensì come parte di un processo di guarigione e di reinserimento sociale, e migliorare le condizioni delle carceri, nel rispetto della dignità umana dei detenuti, pensando anche che l’ergastolo “è una pena di morte nascosta”. Francesco ribadisce la necessità di rispettare “la sacralità della vita” laddove oggi “certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili”, come i nascituri, i poveri, i disabili, gli anziani. Muri che si alzano, sogni di unificazione che scricchiolano, convivenza tra le nazioni sostituita da una guerra mondiale a pezzi. Il mondo come lo vede Francesco somiglia ad un incubo creato dalle mani dell’uomo: genera schiavitù, discrimina la donna, fa del corpo umano e dei suoi pezzi merce da vendere sul mercato. Uccide: i bambini, gli anziani lasciati morire come se la pandemia fosse una Grande Igienizzatrice. Il Covid ha reso evidente ciò che già esisteva, ne ha fatto un problema non più eludibile ma non lo ha inventato. È un processo che dura da anni. “Il mondo avanzava implacabilmente verso un’economia che, utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i “costi umani”, e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di mercato perché tutto si potesse considerare sicuro”, nota Bergoglio, “Ma il colpo duro e inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni”. Quanto è accaduto, e potrebbe accadere ancora, impone di “ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza”. Cambiare tutto: modo di pensare, di vivere, di considerare la persona umana, di creare ricchezza. Tutto. Perché “tutto è connesso” e tutto si tiene. Lo dimostra “questo disastro mondiale”. Si profila all’orizzonte il più pericoloso degli scenari: la tentazione di scrollare le spalle e far finta che non sia accaduto nulla: “la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica”. Se così sarà, “il si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia”. Non è un caso, sottolinea il Pontefice, che “tanto da alcuni regimi politici populisti quanto da posizioni economiche liberali, si sostiene che occorre evitare ad ogni costo l’arrivo di persone migranti”. In alcuni Paesi di arrivo, prosegue, “i fenomeni migratori suscitano allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a fini politici. Si diffonde così una mentalità xenofoba, di chiusura e di ripiegamento su sé stessi”. Trattati come esseri “meno umani”, insomma. “È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e questi atteggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze politiche piuttosto che profonde convinzioni della propria fede”, attacca a questo punto Francesco, “l’inalienabile dignità di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione, e la legge suprema dell’amore fraterno”. L’Europa rischia di finire in questa deriva, ma ha gli strumenti culturali per evitarlo e ribadire la centralità della persona umana. La Chiesa non è immune da colpe: “ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi”. L’odio scorre attraverso una connessione che vorrebbe essere libertà, invece è violazione: della dignità, della persona, del concetto stesso di solidarietà. “I movimenti digitali di odio e distruzione non costituiscono - come qualcuno vorrebbe far credere - un’ottima forma di mutuo aiuto, bensì mere associazioni contro un nemico”: distruggono e separano, dando vita al paradosso di monadi sempre più vicine e sempre più lontane. Questo, poi, “ha permesso che le ideologie abbandonassero ogni pudore”. “Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire di nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e rimanere impuniti” se non premiati. Inoltre “i fanatismi che inducono a distruggere gli altri hanno per protagonisti anche persone religiose, non esclusi i cristiani”, “persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia”. Esiste però una grande opportunità: “oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere Fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti”. Quindi “che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene”, “senza guardare alla propria cerchia di appartenenza”. Nei “dinamismi della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture, vediamo seminata la vocazione a formare una comunità composta da Fratelli che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri”, riconosce il Papa. E se Dio è carità, carità è amore per i Fratelli. Di fronte alle periferie, del mondo come delle città, concrete come esistenziali, l’obiettivo è non solo assistere il bisognoso, ma assicurarne “la partecipazione attiva alla comunità civile ed ecclesiale”. La fraternità è ciò di cui ha bisogno l’uomo ed è qualcosa che completa e perfeziona l’uguaglianza e la libertà. L’uguaglianza non la si ottiene “definendo in astratto che tutti gli esseri umani sono uguali, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità”. Essere Fratelli è più di essere soci, “la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere”. L’uguaglianza delle opportunità non basta. “Investire a favore delle persone fragili può non essere redditizio esige uno Stato presente e attivo, e istituzioni della società civile che vadano oltre la libertà dei meccanismi efficientisti di certi sistemi economici, politici o ideologici, perché veramente si orientano prima di tutto alle persone e al bene comune”, spiega Bergoglio. Bisogna farsi carico delle fragilità, “la solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere forme molto diverse nel modo di farsi carico degli altri”. È “una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici”. Le opportunità, insomma, devono essere “adeguate allo sviluppo integrale della persona”. Se il carcere è solo punitivo non serve. Numeri e storie, rieducare si può di Federica Olivo huffingtonpost.it, 5 ottobre 2020 Nel libro “Vendetta pubblica” (Laterza) il magistrato Marcello Bortolato e il giornalista Edoardo Vigna sfatano i luoghi comuni sulla detenzione. E lanciano un messaggio: far scontare la pena non basta, bisogna pensare al dopo. Salvatore è nella sua cella nel carcere di Rebibbia. Ha conosciuto il crimine da bambino: a 9 anni, a Napoli, rubava rossetti e li rivendeva alle prostitute. In un crescendo di reati, entra nel mondo dello spaccio diventa latitante a Madrid. Arrestato, viene riportato in Italia. Ed è lì, tra le mura del carcere della periferia romana, che la sua vita cambia. Ha dei fogli in mano, Salvatore, che immaginiamo in una cella piccola, pochi metri, poca luce, seduto sul letto. È un copione teatrale. Per lui è come un’epifania: “Ecco che già all’interno della mia cella ha incominciato a entrare qualche raggio di luce”. Ricorda così quel momento Salvatore Striano, prima detenuto, poi attore. Ha conosciuto Shakespeare in prigione e da lì la sua vita è cambiata: approdato al cinema con Gomorra, nel 2012 ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino con Cesare deve morire dei fratelli Taviani, poi ancora le fiction, altro cinema, i libri. “Io sono la prova vivente che si può cambiare”, sostiene. La sua storia, forse, avrebbe avuto una piega ben diverso se Salvatore non avesse conosciuto il teatro. Se nelle carceri italiane non fosse stata applicato - pur tra mille difficoltà, tante carenze e ancora molta strada da fare - quel principio scritto con chiarezza nell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un principio che i fautori del “buttare via la chiave” tendono, volutamente, a dimenticare e che, invece, racchiude il senso della giustizia penale. Condannare, laddove sia necessario, ma fare in modo che chi entra in carcere riesca a riconciliarsi con la società. A cominciare una vita nuova. E all’articolo 27 della Carta fanno costantemente riferimento Marcello Bortolato, magistrato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze ed Edoardo Vigna, giornalista del Corriere della Sera, in Vendetta pubblica - il carcere in Italia (editori Laterza). La storia di Salvatore Striano è solo uno dei tanti spunti di riflessione che il volume fornisce, in un momento in cui ancora si sentono gli echi della facile indignazione dell’opinione pubblica per le scarcerazioni - legittime - dei detenuti durante l’emergenza Covid. Decisioni prese da un magistrato sulla base, peraltro, di una norma addirittura precedente alla Costituzione, che hanno condotto alcuni reclusi - indipendentemente, come prevede la legge, dal reato commesso - a scontare una parte della pena a casa. Perché il pericolo del coronavirus per loro, con patologie pregresse, era più grave. L’onda di sdegno - rinfocolata dalle sortite di alcuni politici e, verrebbe da dire, dalla difficoltà di parte della società di interiorizzare l’idea che anche chi ha commesso il più feroce dei crimini abbia diritto alle cure - ha riportato in auge una serie di luoghi comuni sul carcere. Esternazioni mai sopite del tutto, che riemergono di tanto in tanto. In una cultura in cui ancora c’è chi fa fatica a immaginare la detenzione come un momento rieducativo, non punitivo. A pensare a una istituzione che non si limiti alla reclusione, ma guardi al “dopo”. A quando quella cella si aprirà e uscirà un uomo che il mondo deva accogliere, non respingere. Tanti parlano di carcere, pochi conoscono la quotidianità di chi vive in prigione: la sveglia con il suo del carrello. Quello delle terapie per chi prende farmaci, quello della colazione per tutti. E poi? Una lunga giornata da riempire. In alcuni penitenziari c’è la possibilità di lavorare, di studiare, di fare progetti rieducativi - il teatro ad esempio - in altri questo manca quasi del tutto. Restano i compagni di cella, a volte troppi per uno spazio ristretto - prima dell’emergenza Covid, lo ricordiamo, i detenuti nei penitenziari erano 61239, circa 11mila in più della capienza massima - le ore d’aria, divise tra mattina e pomeriggio, da trascorrere in uno spoglio cortile, e la televisione. La cena arriva alla stessa ora degli ospedali: alle 17.30, se si è fortunati alle 18. Poi altre ore da riempire, prima del sonno spezzato dal rumore degli agenti che passano a controllare. Se ci si sofferma un attimo, e si lasciano alle spalle le facili conclusioni di chi vorrebbe vedere i detenuti “marcire in carcere”, è facile capire che trascorrere settimane, mesi, anni, nell’inerzia non giova a nessuno. Né al detenuto, né alla società. E che, oltre che incostituzionale, è dannoso. I numeri lo mostrano chiaramente: se, nei limiti della legge, ai reclusi viene data la possibilità di lavorare fuori dal carcere, di svolgere attività culturali, di avere permessi premio, il reinserimento sarà più semplice. E non si condannerà chi ha già scontato una pena all’esclusione perpetua dalla società. Certo, i casi in cui queste misure falliscono - il detenuto che delinque durante un permesso premio o non rientra in carcere dopo il lavoro all’esterno - non mancano. E sono quelle che balzano più agli occhi. Ma basta leggere i dati, riportati nel volume di Bortolato e Vigna, per capire che si tratta di eccezioni: Ogni anno i provvedimenti di questo tipo (misure alternative al carcere e benefici, ndr) sono circa 55.00. Importante è osservare che 372 volte in tutto, quindi solo nello 0,63% dei casi, sono stati revocati perché una volta all’esterno della cella i detenuti hanno commesso reati. A questi possiamo aggiungere lo 0,45% (quindi 247 casi) di persone non rientrate in prigione quando dovevano rientrarvi. Risultato finale: nell?1,08% dei casi qualcosa è andato effettivamente male. Nel 98,92% è andato tutto bene. Il magistrato e il giornalista prendono uno ad uno i luoghi comuni sull’esecuzione della pena - “in carcere non ci va nessuno”, “ci vorrebbero i lavori forzati”, “dentro si vive meglio che fuori” - e li confutano. Li polverizzano. Con i numeri, le norme, le storie. Senza retorica, senza tacere i problemi e le complessità, senza santificare nessuno. Costringendo, però, a indirizzare lo sguardo verso una prospettiva troppe volte accantonata dalla superficialità di chi al trattamento umano preferisce la “vendetta pubblica”, alle misure alternative la costruzione di nuovi penitenziari. Soluzioni che sembrano facili, ma che non portano vantaggi a nessuno. Né al detenuto, né alla vittima o alla sua famiglia, né allo Stato. E che allontanano quello che deve essere lo scopo vero della detenzione: riportare l’uomo, laddove possibile, nella società. Indipendentemente dal reato per cui è stato condannato. Arrivare a questo risultato una scommessa difficile e non priva di rischi. Ma è necessario provarci. Lo dice la Costituzione, lo ripetono le leggi. Lo dimostrano le statistiche e le piccole storie di chi ce l’ha fatta. Un cammino di giustizia: tre giovani autori di reato lungo la Via Francigena La Repubblica, 5 ottobre 2020 Un’esperienza educativa che durerà una settimana e durante la quale i ragazzi in prova saranno accompagnati da due operatori con alta formazione, esperti di relazione di aiuto nel Setting di Cammino Camminare all’aria aperta per uscire fuori dalla criminalità. Un’esperienza educativa lungo la Via Francigena del Lazio (da Bolsena a Roma: 140 km in 7 giorni) riservata a tre giovani autori di reato in affidamento in prova dal Tribunale per i Minorenni di Roma, accompagnati da due operatori con alta formazione, esperti di relazione di aiuto nel Setting di Cammino. Prende il via oggi la seconda fase del progetto pilota ideato e realizzato dalle onlus Setting in Cammino, presieduta da Luca Ansini, in collaborazione con il CGM (Centro Giustizia Minorile per il Lazio, Abruzzo e Molise - Ministero di Giustizia), l’USSM di Roma (Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Roma) e con il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre. Il progetto, patrocinato dalla Regione Lazio, è finanziato dal Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità - Ministero di Giustizia, cofinanziato della Confraternita di San Jacopo del Compostella, e dalla Associazione Costruire Percorsi. “L’esperienza trasformativa del viaggio a piedi diviene una vera e propria esperienza educativa che coinvolge giovani impegnati in un progetto di riorientamento delle proprie scelte di vita. La presenza di accompagnatori con “alta formazione” e con specifica esperienza nei processi di aiuto lungo il cammino assieme all’utilizzazione dell’analisi transazionale come lente di osservazione della relazione, ci permette di concettualizzare il cammino come vero e proprio “Setting” immersivo, attraverso cui integrare gli aspetti cognitivi con quelli corporei, del sentire, del percepire”, spiega Luca Ansini. Su invito della Onlus Setting in Cammino, durante gli ultimi chilometri da Monte Mario (belvedere) sino a Roma Centro, si uniranno al gruppo in cammino gli assistenti sociali, i responsabili delle Comunità che accolgono i giovani, la Dirigente del CGM (Lazio, Abruzzo, Molise) Fiammetta Trisi e la Presidente del Tribunale per i Minorenni di Roma Alida Montaldi. La presenza delle istituzioni, al fianco dei giovani, avrà un forte valore simbolico e umano. La valutazione pedagogica del Cammino è affidata al Dipartimento di Scienze della Formazione (Università Roma Tre). La Onlus “Setting in Cammino” è un’organizzazione senza fini di lucro che promuove esperienze di aiuto al di fuori dei “contesti tradizionali”, lungo itinerari storici e culturali come la Via Francigena. Lo staff è formato da un gruppo multidisciplinare di professionisti. L’intervento educativo è finalizzato a promuovere il benessere, la salute e l’integrazione sociale. Il setting viene inoltre utilizzato anche per la formazione degli operatori. Più spazio ai riti alternativi per sveltire i processi penali di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2020 Permettono di chiudere il processo penale in tempi rapidi e con uno sconto di pena. Eppure i riti alternativi a quello ordinario sono stati finora poco utilizzati. Come il giudizio abbreviato, con cui nel 2019 si è chiuso appena l’11% dei procedimenti definiti, o il patteggiamento, scelto per circa l’8% delle cause. A incentivarli prova il disegno di legge delega per la riforma del processo penale, con misure che rischiano però di non essere sufficienti. Il testo, all’esame della commissione Giustizia alla Camera, interviene su più fronti - dalla telematica ai termini delle indagini preliminari, dalle notifiche alla procedibilità - con l’obiettivo di curare i “mali storici” della giustizia penale: tanti processi, tempi lunghi e incerti. Un intervento reso più urgente dopo la riforma, in vigore da gennaio, che ha fermato la prescrizione dopo il primo grado. In questo quadro, il ricorso più ampio ai procedimenti speciali - giudizio abbreviato e patteggiamento, che vanno chiesti dall’imputato, giudizio immediato e decreto penale di condanna - avrebbe un effetto deflattivo, riducendo le udienze e sveltendo i processi. Che il processo penale abbia bisogno di interventi lo si legge nei numeri. A partire da quelli sulla durata, rilevati nella relazione sull’amministrazione della giustizia nel 2019 del Presidente della Cassazione: 228 giorni di fronte al giudice di pace, 392 giorni in tribunale e 840 giorni in Corte d’appello (dove un quarto dei procedimenti si chiude per prescrizione). Durate troppo elevate, come ha ribadito anche la Commissione Ue nel rapporto sullo stato di diritto: ha promosso l’Italia per le misure anticorruzione, ma osservando che “l’efficacia delle misure è messa in pericolo dall’eccessiva lunghezza dei procedimenti penali”. Del resto, perché il modello accusatorio (adottato nel nostro sistema penale) funzioni, devono funzionare i riti alternativi al dibattimento. Lo ha ribadito il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz, la scorsa settimana durante l’audizione sul disegno di legge delega di riforma. Così il rito ordinario - più lungo, garantito e articolato - potrebbe essere riservato a una quota ridotta di procedimenti; ma la maggioranza dovrebbe chiudersi in via sommaria. Oggi, al contrario, i riti alternativi sono una scelta di nicchia: “Gli imputati li chiedono per i reati che sono puniti con pene detentive elevate - spiega il presidente del Tribunale di Cagliari, Mauro Grandesso Silvestri - come quelli in materia di stupefacenti o per i reati fallimentari. Sarebbe necessario incentivarne l’uso elevando gli sconti di pena. Altrimenti, quando i termini di prescrizione sono brevi, gli imputati scelgono l’ordinario”. I riti alternativi, incalza Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali (associazione degli avvocati penalisti), “non funzionano perché limitatissimi e non convenienti per l’imputato: si affievolisce il diritto di difesa senza avere un vantaggio consistente. Al ministro Bonafede avevamo suggerito di innalzare di molto i limiti di pena, oggi di 5 anni di reclusione, per il patteggiamento e di eliminare le preclusioni oggettive e soggettive; e di agevolare l’accesso all’abbreviato condizionato a un’integrazione probatoria, ora non utilizzato. Ma il testo in Parlamento non è abbastanza efficace”. La riforma ammette al patteggiamento gli imputati per cui viene concordata una pena fino a otto anni di reclusione, ma esclude alcuni reati gravi. Si interviene anche sui requisiti di accesso all’abbreviato condizionato a un’integrazione probatoria, ma con correzioni che - secondo l’ufficio studi della Camera - non innovano le norme attuali. L’ampliamento del raggio d’azione dei riti alternativi è un intervento “assolutamente corretto” secondo l’Anm. Ma si potrebbe fare di più: i magistrati avevano proposto anche di incentivare il patteggiamento nelle indagini preliminari. Il Csm recuperi la funzione di indirizzo politico di Sergio Lorusso* Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2020 Lo chiamano il Parlamentino dei giudici. E questo basterebbe a descrivere e a inquadrare la natura politica del Csm, organo che gestisce le carriere dei magistrati e le nomine dei vertici degli uffici giudiziari. E che proprio su questo terreno è scivolato con il caso Palamara, da cui è emerso un quadro impietoso delle dinamiche di conferimento degli incarichi apicali legate a doppio filo all’azione delle correnti. L’organo di autogoverno - che poi di autogoverno non è, stante la sua composizione mista tesa proprio a evitare che il Csm diventi una struttura corporativa e autoreferenziale - ha smarrito, strada facendo, la sua funzione di indirizzo politico (cioè di politica giudiziaria) tesa a garantire per Costituzione l’indipendenza della magistratura e la qualità dell’amministrazione della giustizia. Perché l’attuale condizione non riesce a garantirne l’attuazione? Perché la crisi conclamata del Csm è giunta ormai a livelli intollerabili? Si diceva del dilagare delle correnti. Nate per garantire un pluralismo di idee all’interno dell’Anm, hanno finito per diventare - come i partiti deideologizzati - strumenti di gestione degli incarichi direttivi. Quali chances di cambiare lo stato delle cose ha una riforma del Csm e quali dovrebbero essere i punti qualificanti su cui agire? Il progetto Bonafede intende intervenire - in maniera un po’ farraginosa - sulle modalità di elezione, introducendo collegi uninominali e doppio turno, e sul numero dei consiglieri, elevato a trenta, per garantire una maggiore rappresentatività privilegiando le qualità dei singoli rispetto ai gruppi di riferimento. Sarà così? La capacità di penetrazione delle correnti induce quantomeno a essere prudenti. Del resto, i politici lo sanno, non esiste un sistema elettorale perfetto e spesso una riforma in questo campo produce effetti antitetici a quelli attesi. Vi sono altre strade percorribili? È sul terreno dei rapporti numerici tra laici e togati che potrebbe individuarsi una soluzione dirompente (che richiederebbe una modifica costituzionale). L’attuale composizione non è l’unica possibile, come dimostra il confronto con gli omologhi organi di altri Paesi europei. E come emerge dai lavori dell’Assemblea Costituente, nella cui proposta originaria il rapporto era addirittura paritario. Difficile certo oggi dare piena fiducia alla politica. Si potrebbe allora attribuire al Presidente della Repubblica - che però del Csm è anche il Presidente - il potere di nominare una parte dei consiglieri. L’obiettivo primario, quale che sia la soluzione in concreto adottata, è quello di ricalibrare gli equilibri interni restituendo il Csm alle sue funzioni originarie. Si tratta di una missione (quasi) impossibile. Le norme camminano sulle gambe degli uomini e i loro effetti spesso vanno al di là delle buone intenzioni di chi le propone. Mai come in questo caso un mutamento di costume è indispensabile. La gravità della situazione, tuttavia, impone di provarci. *Ordinario di diritto processuale penale all’Università di Foggia Prova, il giudice di merito può trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2020 Il giudice di merito può trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali. Nella specie, sentenza Cassazione penale 23881/2020, si trattava di individuazione fotografica, utilizzabile in virtù dei principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice, atteso che la valenza dimostrativa della prova sta non nell’atto in sé, bensì nella testimonianza che dà conto dell’operazione ricognitiva. Assolutamente pacifico è il principio secondo cui il giudice di merito può trarre il proprio convincimento anche da ricognizioni non formali - quali l’individuazione fotografica - utilizzabili in virtù dei principi di non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento del giudice, atteso che la valenza dimostrativa della prova sta non nell’atto in sé, bensì nella testimonianza che dà conto dell’operazione ricognitiva (tra le tante, sezione II, 13 maggio 2009, Perrone). Al riguardo si è anche precisato che, in materia di riconoscimento fotografico, non rilevano le modalità di formazione dell’album, integrate dalla scelta delle immagini effettuata dalla polizia giudiziaria, su cui viene operato il riconoscimento e per le stesse non viene in considerazione una questione di legalità della prova, giacché la relativa forza probatoria non discende dalle modalità formali, bensì dal valore della dichiarazione confermativa e quindi dalla credibilità della deposizione, al pari di quella testimoniale (sezione VI, 7 marzo 2017, Sabatini; nonché, sezione V, 12 gennaio 2018, Proc. gen. App. Trento in proc. Pasquale). Richiesta di incidente probatorio per escussione di minori, il rigetto non è atto abnorme di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2020 Cassazione - Sezione VI penale - Sentenza 2 settembre 2020 n. 24996. Non è abnorme e, quindi, non è impugnabile, il provvedimento con cui il Gip rigetti la richiesta di incidente probatorio presentata dal pubblico ministero ex articolo 392, comma 1-bis, del Cpp,in quanto l’atto impugnato non è estraneo al sistema processuale, ne è tale da comportare una stasi delle attività processuali. Lo dice la Cassazione con la sentenza 2 settembre 2020 n. 24996. La Corte, nel motivare la decisione, ha ritenuto che il rigetto della richiesta di incidente probatorio costituisce un atto pienamente conforme al modello generale di decisione che il giudice può adottare ex articolo 398, comma 1, del Cpp (“il giudice pronuncia ordinanza con la quale accoglie, dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di incidente probatorio”) e, nel contempo, trattandosi di richiesta di incidente probatorio finalizzato alla escussione di una vittima del reato vulnerabile, ha escluso che il rigetto potesse porsi in contrasto con le fonti normative internazionali (segnatamente: l’articolo 35 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali, fatta a Lanzarote, in data 25 ottobre 2007, e ratificata dall’Italia con la legge 1° ottobre 2012 n. 172; l’art. 18 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata a Istanbul, in data 11 maggio 2011, ratificata dall’Italia con legge 23 giugno 2013, n. 77; gli articoli 18 e 20 della direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e sostituisce la precedente decisione-quadro 2001/220/GAI, recepita nel nostro ordinamento con il Dlgs 15 dicembre 2015 n. 212). Da tale complesso normativo, ha argomentato la Cassazione, emerge solo un interesse primario all’adozione di misure finalizzate alla limitazione delle audizioni della vittima (mediante la previsione di specifiche forme di cautela, quali la videoregistrazione e le precauzioni a salvaguardia dell’interessato vulnerabile), ma dallo stesso non può farsi discendere ex se la previsione di alcun automatismo probatorio legato all’introduzione di un vero e proprio obbligo, in capo al giudice, di disporre l’assunzione delle prove dichiarative della persona offesa vulnerabile a seguito della mera presentazione di una richiesta di incidente probatorio. Per l’effetto, si è osservato in parte motiva, nell’esercizio del suo potere discrezionale di bilanciamento dei contrastanti interessi legati, da un lato, alle esigenze di tutela della vittima e, dall’altro, alle garanzie processuali del diritto di difesa dell’imputato, il giudice, al quale è rimessa la decisione sull’istanza presentata, è tenuto a vagliare, in un primo momento, i requisiti di ammissibilità della richiesta e, solo successivamente, la fondatezza della stessa; valutazione, quest’ultima, che egli compie, nella prospettiva della rilevanza della prova ai fini della decisione dibattimentale, sulla base sia delle argomentazioni addotte dalla parte istante, sia delle eventuali deduzioni presentate dalla parte avversa, in ragione del contraddittorio cartolare sviluppatosi sull’istanza. Provvedimento, quello previsto in forma di ordinanza dall’articolo 398, comma 1, del Cpp, che l’ordinamento processuale classifica come inoppugnabile, sia per non sacrificare la speditezza del procedimento penale nella fase dell’indagine preliminare, sia per non appesantire oltre modo una “parentesi istruttoria” che la ratio del sistema vuole quanto più possibile snella, in considerazione della sua originaria eccezionalità nel flusso delle sequenze procedimentali. Va osservato che la Cassazione ha espressamente preso le distanze dal diverso orientamento (sezione III, 10 ottobre 2019, Proc. Rep. Trib. Tivoli in proc. X.), che, invece, ha ritenuto abnorme il provvedimento con cui il Gip rigetti la richiesta di incidente probatorio presentata dal pubblico ministero (nella specie, motivato con l’esigenza della necessità della previa escussione della persona offesa in sede di indagini). In tale occasione, la Cassazione aveva affermato l’obbligo per il giudice di disporre l’incidente probatorio, traendo spunto, a conforto, dal rilievo che, con la disposizione contenuta nell’articolo 392, comma 1- bis, del codice di procedura penale, il legislatore ha inteso evitare i fenomeni di vittimizzazione secondaria ritenendo detto interesse prevalente sul principio generale secondo cui la prova si forma in dibattimento, e dall’ulteriore rilievo che, proprio con tale disposizione, il legislatore ha inteso, in ossequio agli obblighi internazionali, non conculcare la tutela dei diritti delle vittime. Esperibilità del ricorso immediato per cassazione nei confronti dei provvedimenti cautelari reali Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2020 Misure cautelari - Reali - Impugnazioni - Ricorso per saltum - Esperibilità - Possibile solo contro il decreto che dispone il sequestro preventivo. Il ricorso per saltum è previsto quale alternativa del riesame anche per i provvedimenti cautelari reali. Trattasi però di strumento di controllo che, in seguito alla modifica apportata dall’art. 19, D.lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, non rappresenta più una regola generale attuabile nei confronti di entrambe le specie di provvedimenti cautelari reali. L’univoco riferimento da parte dell’articolo 325 c.p.p. al “decreto” di sequestro induce a ritenere esperibile il ricorso per saltum solo nei confronti del sequestro preventivo e ad escluderne l’applicabilità in ordine al decreto di rigetto della richiesta di sequestro preventivo. • Corte di cassazione, sezione III, ordinanza 23 settembre 2020 n. 26534. Misure cautelari - Reali - Impugnazioni - Cassazione - In genere - Rigetto dell’istanza di revoca di sequestro preventivo - Ricorso immediato per cassazione - Ammissibilità - Esclusione - Fattispecie. Avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di revoca del sequestro preventivo non può essere proposto ricorso immediato per cassazione, ma appello cautelareex art. 322 bis cod. proc. pen.(Fattispecie in cui la Corte ha qualificato il ricorso proposto come appello e trasmesso gli atti al tribunale del riesame). • Corte di cassazione, sezione II, sentenza 10 marzo 2017 n. 11869. Misure cautelari - Reali - Impugnazioni - Cassazione - In genere - Sequestro preventivo - Rigetto dell’istanza di sequestro - Ricorso immediato per cassazione - Ammissibilità - Esclusione - Qualificazione del ricorso come appello - Legittimità. Avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari di rigetto della richiesta di sequestro preventivo non può essere proposto, ex art. 321 cod. proc. pen., il ricorso “per saltum” in cassazione che, in materia cautelare reale, è proponibile ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen. solo contro il decreto che dispone il sequestro preventivo, con la conseguenza che, ove erroneamente esperita, detta impugnazione deve essere qualificata come appello, ai sensi degli artt. 322 bise 568, ultimo comma, cod. proc. pen. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 24 aprile 2015 n. 17132. Misure cautelari reali - Impugnazioni - Ricorso per cassazione - Sequestro preventivo. Avverso il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che rigetti l’istanza di revoca del provvedimento di sequestro preventivo non può essere proposto, ex art. 321 c.p.p., il ricorso per saltum in cassazione il quale, ai sensi dell’art. 569, primo comma, c.p.p., è proponibile esclusivamente avverso le sentenze di primo grado e, in materia cautelare, solo in relazione al decreto iniziale e genetico, ex art. 325 c.p.p., con la conseguenza che, ove erroneamente esperita, detta impugnazione deve essere qualificata appello, ex art. 322 bise 568, ultimo comma, c.p.p. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 10 dicembre 2002 n. 41179. Misure cautelari - Reali - Sequestro preventivo - Impugnazioni - Ricorso per saltum. Nessuna disposizione di legge consente il ricorso per cassazione avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di dissequestro: non certamente la norma di carattere generale, di cui al nuovo articolo 568 c.p.p., comma 2, perché questa sancisce la ricorribilità contro i provvedimenti relativi alla libertà personale e contro le sentenze, e nessuna norma di carattere particolare, perché nessuna di essa è rinvenibile in relazione ai provvedimenti in materia di sequestro preventivo. Per questi ultimi è, invece, esperibile l’appello di cui all’articolo 322 bis c.p.p. Di conseguenza, ove erroneamente esperito il ricorso per saltum, detta impugnazione deve essere qualificata appello,ex articoli 322 bise 568 c.p.p. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 25 luglio 1992 n. 1003. Teramo. Detenuto muore in cella, tra un anno sarebbe stato scarcerato di Diana Pompetti Il Centro, 5 ottobre 2020 Mariano Di Rocco, 56 anni, sulmonese, ritrovato senza vita a Castrogno. La procura dispone l’autopsia. Detenuto trovato morto nella sua cella nel carcere di Castrogno, a Teramo. Si tratta di Mariano Di Rocco, 56 anni, di Sulmona (L’Aquila). L’uomo, che stava scontando una pena per vari reati, sarebbe uscito il prossimo anno. Sul corpo non sono stati trovati segni di violenza e da un primo accertamento fatto dal medico legale si tratterebbe di morte naturale. Il sostituto procuratore di turno, Enrica Medori, ha disposto l’autopsia che, molto probabilmente, sarà eseguita nella giornata di martedì 6 ottobre. Teramo. Muore in carcere, i legali: “Era malato, due istanze di scarcerazione senza risposta” di Patrizio Iavarone Il Messaggero, 5 ottobre 2020 In carcere, secondo i scuoi avvocati, Stefano Michelangelo e Paolo Vecchioli, non doveva proprio esserci: per due volte, a luglio e a agosto, avevano per questo inoltrato richiesta di sospensione della pena ai tribunali di Sorveglianza di Pescara e L’Aquila, perché il suo quadro clinico era incompatibile con il regime carcerario al quale era stato sottoposto a giugno scorso dopo aver violato il “patto” dell’affidamento in prova. Per Mariano Di Rocco, “il tedesco” (era nato a Berlino), 56 anni di Sulmona, una risposta alla sua richiesta di tornare a casa non è mai arrivata e neanche il fine pena che lo avrebbe portato fuori dal carcere a febbraio e forse anche a dicembre considerando la buona condotta: ieri mattina, alle 6,30, gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Castrogno, Teramo, lo hanno trovato senza vita nella sua cella. Infarto è l’ipotesi più accreditata del decesso, anche se la procura della Repubblica del tribunale di Teramo ha comunque disposto l’autopsia per verificare eventuali concause a un quadro clinico che i suoi legali definiscono “grave e disperato”. Una condizione di salute che a lui, che doveva scontare una pena cumulativa di due anni e undici mesi, per furti, lesioni e piccolo spaccio, non è valsa da esimente. Il tribunale di Sorveglianza lo aveva spedito dietro le sbarre a giugno scorso dopo che non era rientrato nel suo domicilio come doveva: quella sera Di Rocco era stato all’Aquila e aveva perso il treno di ritorno, oltre al telefono per comunicare il suo problema. Un po’ su di giri, era stato ritrovato che camminava per strada tra Popoli e Bussi, arrestato e spedito dietro le sbarre. “Di Rocco aveva, tra i tanti problemi di salute, anche una demenza alcolica riconosciuta da un perito - spiega l’avvocato Michelangelo - che le sue condizioni di salute non fossero compatibili con il carcere era evidente”. “Soprattutto era diabetico a uno stadio avanzatissimo - aggiunge Vecchioli - gli avevano dato un sostegno, ma era palese che non potesse stare in carcere. Nessuno ha però neanche risposto alle istanze di scarcerazione che abbiamo presentato. Perché Di Rocco era un nessuno qualunque. La legge è uguale per tutti, forse, ma non tutti sono uguali davanti alla legge. Passato il dolore e il cordoglio valuteremo con la famiglia di verificare le eventuali responsabilità di questa morte”. Napoli. Polizia interviene per sventare una rapina: ucciso 17enne, aveva una pistola a salve La Repubblica, 5 ottobre 2020 Un rapinatore di 17 anni, Luigi Caiafa, è morto e un altro è stato arrestato dalla polizia nella notte a Napoli. Nella prima ricostruzione di quanto accaduto poco dopo le 4 del mattino, i due hanno affiancato tre automobilisti nella zona tra via Duomo e via Marina, probabilmente per portare via cellulari e denaro, armati con una pistola, che all’esame è risultata essere una pistola a salve. Un equipaggio dei Falchi è intervenuto e gli agenti hanno sparato. Il 17enne è morto e un 18enne è stato arrestato, si tratta di Ciro De Tommaso, figlio di Gennaro De Tommaso, conosciuto come Genny “la Carogna”, l’ex tifoso napoletano della curva A che la sera del 3 maggio 2014 fu fotografato a cavalcioni degli spalti, mentre “calmava” la curva azzurra, allo stadio Olimpico di Roma prima della finale di Coppa Italia segnata dagli scontri sfociati nell’omicidio di Ciro Esposito, morto 53 giorni dopo in ospedale. Genny “la carogna”, oltre ad essere in contatto con le frange estreme del tifo azzurro, è ritenuto vicino al clan camorristico Misso e, condannato per traffico di sostanze stupefacenti a 18 anni di carcere, ha scelto di collaborare con la giustizia. Le vittime della rapina sono adesso in questura a Napoli, ascoltate dagli inquirenti per ricostruire la dinamica dei fatti. L’arma giocattolo utilizzata per la rapina in via Duomo è stata sequestrata ed è risultata essere una replica di una pistola vera. Il poliziotto, al momento, non è indagato. Il Questore di Napoli, Alessandro Giuliano, in mattinata dirama una nota: “Il Capo della Polizia, con cui sono in costante contatto e che segue attentamente la vicenda, pur nel pieno rispetto degli esiti dei doverosi accertamenti della magistratura e dell’umana pietà per la morte di un ragazzo, mi ha raccomandato di rinnovare la sua vicinanza e il sostegno agli operatori della Polizia di Stato come delle consorelle forze di polizia che sono chiamati, rischiando la vita, ad affrontare un contesto criminale diffuso ed estremamente pericoloso”. Ora il padre di Luigi Caiafa, chiede “giustizia e chiarezza” e aggiunge: “Mio figlio voleva cambiare, voleva fare il pizzaiolo”. Napoli. Il padre di Luigi Caiafa: “Voglio chiarezza e giustizia per mio figlio” di Conchita Sannino La Repubblica, 5 ottobre 2020 “Era nel regime di messa in prova e lavorava, voleva fare il pizzaiolo”. Amici e parenti davanti alla casa della famiglia e fuori dalla questura. Due stanze con mobili laccati a piano terra, bambini e ragazzi ovunque vestiti di nero, il vicolo rudimentalmente chiuso al traffico per l’assembramento del popolo del lutto. E in quel basso dove un bambino mangia popcorn e dieci donne piangono o stanno in silenzio, un padre, agli arresti domiciliari, gli occhi gonfi di pianto, dice a Repubblica: “Voglio chiarezza e giustizia per mio figlio Luigi”. Accanto a lui, c’è il padre di Ugo Russo, l’altro minore ucciso durante un analogo assalto predatorio, in pieno centro. Padri con i rosari al collo, precedenti penali alle spalle, il dolore e l’impotenza che non riesce a cambiare la vita di altri figli. Ciro Caiafa è un quarantenne vestito giá a lutto, uno dei tanti pregiudicati che vivono nei bassi del rione Forcella, due passi dalla cattedrale, dai miracoli di San Gennaro e dalle sontuose chiese del centro antico. Luigi, solo diciassette anni, era il suo primogenito ed era già incappato nelle maglie della giustizia: prima di finire ucciso dall’intervento e da una pallottola sparata dalla polizia, la scorsa notte, durante una rapina, commessa insieme a Ciro De Tommaso, il figlio del pregiudicato più noto in ambito ultras, oltre che giudiziario, come Genny ‘a Carogna. Il minore Luigi era però destinatario della chance della “messa alla prova”, l’istituto con il quale si spera di reinserire nella società i minori segnalati per reati: stava lavorando da alcuni mesi, per un paio di ore al giorno, in una pizzeria vicino casa. E ora suo padre, ripensa alla vita che il suo ragazzo voleva cambiare e non a quella che non si è riusciti a fermare. “Me lo hanno ucciso alle tre di notte, la polizia non ci ha mai avvertito, so che lo hanno sollevato cadavere solo alle sei e mezza del mattino. Quando mia moglie è andata in questura, allertata stanotte dagli amici che avevano notato lo scooter insanguinato davanti all’ingresso di via Medina, le hanno detto che doveva andare in obitorio”. Ma perché era su uno scooter rubato: “Non lo so”. Perché era insieme a quel Ciro con una pistola giocattolo: “Ma non lo so”. Suo figlio era travolto da queste amicizie da questo ambiente? “Non lo so, non lo so. Ma comunque non si può morire a 17 anni così, non si può essere ucciso come animali”. Fuori, nel vicolo, parole meno umane e molto più violente rivolte alle forze dell’ordine e alla polizia. Le dicono i ragazzi, i coetanei, i ventenni: “Sono dei bastardi, sono delle m... se proprio devi, perché non si può sparare a un piede, a una gamba. Perché in pochi mesi prima Ugo, ai Quartieri, adesso Luigi”. Interviene una zia di Luigi: “Ma allora chiudeteli queste carceri minorili. Uccideteli, uccideteli tutti”. Scene già viste mille volte, nel cuore di quella Napoli dove, proprio a pochi passi, è ancora oggetto di culto la storia di un ragazzo boss come Emanuele Sibillo, ucciso a 19 anni dopo una carriera criminale cominciata a 15. E poco cambia, purtroppo, che Luigi non fosse un boss. Disperazione, rabbia, e impotenza. Generale. Quella di famiglie che riescono solo ad assistere alle vite dei figli che si bruciano, quella delle forze dell’ordine che intervengono su banditi minorenni. Padova. “Criminali fuori del carcere e aggressioni alla polizia” di Silvia Moranduzzo Il Gazzettino, 5 ottobre 2020 Il dibattito è aperto e sempre più ricco di dettagli. Si parte dalle affermazioni del questore Isabella Fusiello all’incontro con i residenti della Stanga che si è tenuto sabato mattina, durante il quale ha detto: “Noi arrestiamo lo spacciatore ma dopo 48 ore ve lo ritrovate libero sotto casa”. Si passa per l’auspicio del presidente della commissione Giustizia al Senato, Andrea Ostellari, per cui “aumentare le pene non basta, l’Italia ha bisogno di una riforma complessiva della giustizia” e si arriva a chi tutti i giorni vive questa situazione sul campo: i poliziotti stessi. “Siamo assolutamente in linea con il pensiero del questore Fusiello dice Maurizio Ferrara, segretario regionale vicario del sindacato di polizia Fsp. C’è frustrazione ma del resto queste sono le leggi, noi le applichiamo e basta. Purtroppo siamo rammaricati, molte volte non si capisce dove stia la responsabilità e per la situazione attuale la normativa vigente è inefficace. È come dare un’aspirina a un malato di cancro, non funziona”. È un circolo vizioso che vede il lavoro dei poliziotti (ma anche dei carabinieri) sfumare non appena il criminale arrestato viene condannato a una pena inferiore ai due anni e, a meno che il pm non pensi che possano esserci esigenze cautelari particolari. “Ci ritroviamo davanti sempre gli stessi conferma Mirco Pesavento, segretario provinciale del Sap . Da sempre denunciamo la necessità di nuove leggi perché attualmente non c’è certezza della pena. E senza questa i criminali si sentono imbattibili. Proprio per questo spesso capita che non si facciano problemi a mettere le mani addosso agli agenti o ai carabinieri”. Oltre la beffa, il danno. Da questa situazione nasce la manifestazione che si terrà a Roma il 14 ottobre durante la quale i poliziotti chiederanno più tutele per far diminuire il numero di aggressioni che subiscono sul lavoro. “Ci hanno tolto il taser, unico strumento che ci permetteva di non arrivare alla colluttazione, gli straordinari ci vengono pagati dopo due anni, così come le indennità di missione elenca Pesavento. Quando il questore Fusiello ha preso servizio ha deciso di implementare i controlli di quartiere e abbiamo portato a casa ottimi risultati dal punto di vista degli interventi. Poi però le persone che arrestiamo tornano libere, delinquono di nuovo e noi le arrestiamo un’altra volta”. Quando una persona viene arrestata è accompagnata in questura, dove gli agenti compilano diversi atti, dalla relazione di servizio che ricostruisce la dinamica alla raccolta delle impronte, dalla foto segnaletica all’eventuale sequestro di droga o oggetti rubati. Tutto l’incartamento viene inviato in Procura. Se il pm pensa sia necessario la persona va in carcere, altrimenti se il reato è evidente gli agenti la scortano in tribunale per il rito direttissimo. A seconda della pena stabilita, va dentro o resta fuori dal carcere. “Questo ha dei costi ingenti anche per la società tutta, non solo in termini di sicurezza, ma anche di denaro fa notare Ferrara. E visto che il sistema costa sarebbe bene funzionasse. Il legislatore dovrebbe rendersi conto che i tempi sono cambiati, anche il garantismo ha dei limiti”. Milano. “Keep the planet clean”: ripulire il mondo partendo dal carcere di Rossella Avella interris.it, 5 ottobre 2020 Un progetto che parte tra le mura del carcere di Bollate e che diventa da modello per gli altri istituti penitenziari. È la prima associazione che si occupa del recupero degli sprechi alimentari all’interno del carcere che vale la pena ricordare in occasione della giornata internazionale dell’Habitat. Il 5 ottobre è la Giornata mondiale dell’habitat. Quante volte se ne parla, eppure quanto ancora è strattonato il pianeta Terra? lo scopo di questa giornata è quello di promuovere una riflessione sullo stato delle città nel mondo e sul diritto fondamentale a un’abitazione sicura di ogni cittadino. Inoltre è fondamentale per ricordare il potere e la responsabilità di ogni abitante del mondo nel determinare il futuro della città in cui vive, partendo anche dal carcere. Da dove nasce la giornata dell’ambiente - La prima Giornata internazionale dell’habitat è stata istitutita nel 1985 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite attraverso la Risoluzione 40/202, ed è stata celebrata per la prima volta nel 1986. Ogni anno, la Giornata si focalizza su un nuovo tema scelto dalle Nazioni Unite, che è associato a UN-Habitat (United Nations Human Settlements Programme), il programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani. La selezione del tema si propone di richiamare l’attenzione della comunità internazionale sugli obiettivi e la missione di UN-Habitat nel promuovere le politiche di sviluppo sostenibile e assicurare il diritto di tutti a un’abitazione adeguata. Habitat e rifiuti in carcere - Interris.it ha voluto ricordare questa importante ricorrenza con un’intervista fatta a dei ragazzi carcere di Bollate che negli ultimi anni hanno creato un’associazione per la tutela dell’ambiente. Sono partiti proprio dallo spreco e dalla spazzatura per creare Keep the planet clean. L’idea nasce nel 2015 da Fernando Gomez e Matteo Gorelli dopo aver costatato quanti sprechi di cibo si hanno all’interno della struttura detentiva. Dopo mesi di rilevazione dei rifiuti pro capite andando cella per cella con una bilancina da cucina è stato riportato un report alla direzione del carcere. Ciò ha fatto partire la proposta di avvio alla raccolta differenziata. La direzione ha accettato subito e sono state coinvolte Amsa e Novamont. Finalmente, dopo un periodo di sperimentazione nel novembre 2017 la raccolta differenziata è stata estesa a tutto il penitenziario. Lo spreco di cibo in carcere - “La nostra attività nasce dalla costatazione dello spreco. Solo nel carcere 4000 chili di pane al mese vengono buttati. Se nello strato più basso della società, che nell’immaginario collettivo è il carcere, lo spreco è questo, come possiamo fare qualcosa per cambiarla? Ci siamo ingegnati, abbiamo pensato tanto ed è nato un progetto che può essere diffuso anche in altri centri penitenziari d’Italia e magari anche all’estero”. Keep the planet clean - “Siamo partiti insieme da un progetto, da un’idea e ora abbiamo una squadra di quasi 30 persone. Siamo riusciti anche ad avere una sede. Dicono che è di fronte alla meraviglia e all’inaspettato di certe cose che uno impara nella vita. Partiamo da un presupposto che nulla deve essere disperso nell’ambiente, tutto può essere recuperato - ha raccontato Matteo Gorelli, responsabile insieme a Fernando Gomez dell’Associazione. Se partiamo da ciò è perché c’è una storia di reati alle nostre spalle il che porta a volerci riscattare. Facendo un parallelismo tra noi e le persone che in qualche modo vengono considerate quasi dei rifiuti sociali noi vogliamo riscattarci in questi termini. Anche noi possiamo essere delle risorse per gli altri - continua - soprattutto perché stiamo facendo un lavoro importantissimo, il che porta ad incontrare gli altri in una maniera diversa e forse anche a coinvolgerci reciprocamente per vedere che siamo inseriti in un ambiente che deve essere salvaguardato”. Modena. “Passa la Parola” porta le storie dei detenuti negli spazi del Festival bologna2000.com, 5 ottobre 2020 “Passa la Parola”, Festival della Lettura giunto alla sua nona edizione, ha portato per due giorni a Modena, presso la Chiesa San Carlo, tante firme illustri della letteratura per ragazzi, a partire, tra gli altri, da Alessandro Sanna, primo Children’s Laureate italiano, ambasciatore chiamato a svolgere attività di promozione e diffusione della letteratura e dell’illustrazione di qualità nel nostro paese e nel mondo, e Luigi Garlando, firma di punta della “Gazzetta dello Sport” che ci ha portato un romanzo su Dante. Nella giornata di domenica 4 ottobre il Festival ha aperto con Francesco D’Adamo, altro grande autore della letteratura per ragazzi, sempre attento nella sua lunga carriera di scrittore ai temi sociali, che ha presentato il suo “Antigone sta nell’ultimo banco” (Giunti), un romanzo contro il razzismo, l’odio, l’indifferenza. Al Festival spazio anche per i giovani autori che scrivono per i giovani lettori con la voce intensa di Angela Tognolini che ha presentato il suo “Vicini Lontani” (Il Castoro) per capire che non siamo soli e che dobbiamo solo spostare il nostro sguardo sugli altri, e di Alessandro Q. Ferrari che, dopo il suo felice e premiato esordio con “Le ragazze non hanno paura” (De Agostini), ci conduce in un altro viaggio di formazione, di crescita dolorosa, con il suo ultimo libro “Devo essere brava” (De Agostini). Passa la Parola domenica 4 ottobre ha accolto anche un incontro di formazione per insegnanti, bibliotecari, formatori, genitori e appassionati, sempre presso la Chiesa San Carlo a Modena e in collaborazione con Memo: Alice Bigli, ideatrice e fondatrice del festival dei ragazzi “Mare di libri”, propone “La scintilla dell’utopia” (San Paolo). Nicola Cinquetti premio Andersen 2020 come miglior scrittore “per la capacità di modulare il proprio lavoro letterario…”. e Alessandro Riccioni hanno portato al Festival un divertente scontro-incontro per giocare con i vari registri e le forme dello scrivere; Guido Sgardoli, uno dei più famosi e premiati scrittori italiani per ragazzi, ha chiuso il programma di appuntamenti del Festival presso la Chiesa San Carlo insieme a Manlio Castagna con cui ha scritto “Le Belve” (Piemme), per far capire agli adolescenti quanto la paura possa essere importante per crescere e per affrontare il “Male” che è intorno a noi. Incontri con gli autori, letture e laboratori, incontri di formazione ma non solo: il programma di quest’anno del Festival ha dato spazio ad un evento molto importante, presso il Palazzo Dei Musei: nel pomeriggio di domenica 4 ottobre lettori, attori e danzatori delle scuole di danza affiliate CSI Modena hanno interpretato gli scritti dei detenuti e delle detenute della Casa Circondariale S. Anna di Modena raccolti nell’ambito del progetto di lettura e scrittura in carcere “A scuola in Carcere” a cura di CSI Modena e CSI Modena Volontariato. “Ovunque si legge - spiega Emanuela Maria Carta, ideatrice del percorso e presidente CSI Modena Volontariato” è un percorso itinerante dove arte, danza, musica e lettura si fondono insieme portando l’esperienza toccante dei detenuti della Casa Circondariale S.Anna di Modena e degli studenti delle scuole superiori, dei loro scritti e racconti raccolti in questi anni. Abbiamo immaginato di portare ovunque la lettura dei loro testi, offrendo un momento di restituzione pubblica di quanto fatto insieme in tanti mesi di impegno e collaborazione. Un momento di grande valenza sociale, di contrasto al pregiudizio e di dimostrazione di come la lettura e la scrittura possano essere fonte di unione e di crescita personale. Lo spazio ideale per questo momento è un luogo raccolto e suggestivo che non necessita di palchi e che prevede un percorso di profondo ascolto in un luogo fortemente rappresentativo del patrimonio culturale del nostro territorio”. Il percorso è stato realizzato con il patrocinio di Comune di Modena Assessorato alla Cultura, Circoscrizione 1, Gallerie Estensi, Musei Civici, Camera Penale Carl’Alberto Perroux di Modena, in collaborazione con le scuole di danza affiliate CSI: Ars Movendi Studio, Backstage, La Capriola, Libertas Fiorano, Officina Danza Studio, Tersicore e gli studenti del Liceo Musicale Carlo Sigonio di Modena. “Ringraziamo Comune e tutti i soggetti partner - conclude Emanuela Carta - per aver aperto le porte della città al carcere, per aver sostenuto l’evento e per aver creduto nel progetto. Grazie ai detenuti e alle detenute per aver aderito al progetto, per averci accolto con entusiasmo e stima, per aver letto e per aver scritto delle loro fragilità, paure, gioie e speranze. Grazie agli insegnanti e ai ballerini delle scuole di danza CSI per aver dato corpo e vita ai testi. Grazie agli studenti del Liceo Musicale Sigonio per l’accompagnamento musicale agli scritti oltre ad avere partecipato con coraggio al progetto. Grazie infine a tutti gli studenti e gli insegnanti incontrati in questi anni fuori e dentro il carcere delle scuole ITI Fermi, Istituto Cattaneo, Liceo Sigonio e IPSIA Corni per aver creduto a questo percorso culturale e di crescita personale oltre che di grande valore civico. Non posso dimenticare infine i numerosi volontari del CSI che in questo bellissimo progetto sono stati elemento di raccordo e di continuità per lo sviluppo dello stesso e per il sostegno silenzioso e quotidiano dentro e fuori dal carcere”. Il Festival Passa la Parola prosegue con alcuni eventi collaterali nel mese di ottobre. Dall’8 al 23 di ottobre presso la Libreria Castello di Carta in via Belloi 1/B a Vignola si terrà l’evento collaterale “Pillole Sonore 100 Storie/100 candeline”: in libreria si ascolteranno le pillole Emons Edizioni partecipando ad una divertente caccia al tesoro, per festeggiare i 100 anni di Gianni Rodari e i 15 anni della Libreria Castello di Carta. In collaborazione con Alir Associazione Librerie Indipendenti per Ragazzi (dal lunedì al sabato, orario d’apertura 10-12.30/16-19, giovedì pomeriggio chiuso). Gli eventi collaterali includono anche i corsi sulla lettura ad alta voce, a pagamento a cura di Sara Tarabusi, per genitori, insegnanti, formatori e bibliotecari. Il corso base “Gocce di Voce” per genitori, insegnanti, formatori e bibliotecari è in programma il 21 e 28 ottobre dalle 18.00 alle 19.30 presso la Sede CSI Modena in via Del Caravaggio 71; il corso avanzato “Leggiamo, interpretiamo e animiamo” si terrà il 4, 11 e 18 novembre dalle 18 alle 19.30 sempre presso la Sede CSI Modena. I corsi si terranno anche nella versione on line su piattaforma Zoom; quello base il 20 e 27 ottobre, quello avanzato il 3, 10 e 17 novembre. Info e prenotazione dei corsi: 059 769731, info@castellodicarta.it. Passa la Parola è un progetto di promozione alla lettura ideato da Milena Minelli e Sara Tarabusi, Libreria indipendente per ragazzi Castello di Carta e CSI Modena. Il Festival si svolge con il contributo dei comuni di Modena, Castelnuovo Rangone, Savignano sul Panaro, Castelfranco Emilia, Vignola, Spilamberto, Castelvetro di Modena, main sponsor Bper Banca e Medica Plus. Con la collaborazione delle biblioteche dei vari territori coinvolti e in particolare per questa conclusione degli eventi a Modena con la collaborazione di Biblioteca Civica Antonio Delfini e con il sostegno di Conad. Partner di Passa la Parola: Musei Civici, Gallerie Estensi. Si ringraziano: Fabian Negrin e Adriano Salani Editore per l’utilizzo dell’immagine; Memo, Multicentro Educativo Modena Sergio Neri (Memo come ente di formazione accreditato MIUR, rilascia gli attestati per la formazione del personale della scuola, su richiesta degli interessati (l’iscrizione, necessaria per richiedere l’attestato, si effettua on line sul sito di Memo nell’aria interattiva My Memo); Piemme, Emons Edizioni; Alir Associazione Librerie Indipendenti per Ragazzi; le bibliotecarie della Biblioteca dei Ragazzi della Biblioteca Civica Antonio Delfini di Modena; Fondazione Collegio San Carlo. Libreria del Festival a cura di Libreria per ragazzi Castello di Carta. Palermo. “Graffiti Art in Prison”: il progetto dell’università finanziato da Erasmus+ corrierenazionale.net, 5 ottobre 2020 Il progetto Gap “Graffiti Art in Prison” del Simua - Sistema Museale di Ateneo dell’Università degli Studi di Palermo, diretto da Paolo Inglese, ha ottenuto il finanziamento all’interno del programma europeo Erasmus+, Strategic Partnerships for Higher Education. Il progetto, ideato dal team composto da Laura Barreca, Gabriella Cianciolo Cosentino e Gemma La Sita, è realizzato in collaborazione con Giovanna Fiume e in partenariato con il Dems-Dipartimento di Scienze Politiche e delle Relazioni Internazionali, Università degli Studi di Palermo (Rita Foti), il Departamento de Historia del Arte, Universidad de Zaragoza (Ascensión Hernández Martínez), il Kunsthistorisches Institut in Florenz - Max-Planck-Institut (Gerhard Wolf) e Abadir, Accademia di Design e Comunicazione Visiva, Catania (Lucia Giuliano). Si tratta di un progetto scientifico che per la prima volta si pone come obiettivi la ricerca, la valorizzazione del patrimonio culturale e l’inclusione sociale attraverso lo studio di uno dei più importanti complessi artistici e monumentali al mondo, Palazzo Chiaramonte (Steri) a Palermo. I graffiti delle Carceri del Santo Uffizio spagnolo (sec. XVII-XVIII), conservati all’interno dello Steri, insieme ad alcuni esempi di graffiti presenti in altre carceri dell’Inquisizione, come quelle di Narni e Saragozza, saranno oggetto di interesse e studio. Luoghi sulle cui pareti i carcerati lasciavano tracce della loro permanenza e messaggi da decifrare: un “coro di voci” con diversi livelli di significato e un alto grado di complessità. Un patrimonio di immenso valore storico e culturale oggetto di un progetto multidisciplinare che coinvolge docenti internazionali, studenti delle Università partner e detenuti di istituti penitenziari siciliani. Ricerca scientifica, programmi artistici e impegno sociale sono alla base di un percorso formativo ed educativo che prevede la produzione di pubblicazioni scientifiche, documentari, corsi intensivi, conferenze, workshop e attività seminariali e divulgative che si svolgeranno tra Italia, Spagna, Germania dal 2020 al 2023. Il progetto si avvale di un database di immagini e fotografie delle Carceri del complesso Chiaramontano già realizzato dal Simua. Oltre alla ricerca scientifica, un ruolo fondamentale è rivestito dall’attività didattica all’interno di sei settimane di studio intensivo per i dottorandi provenienti dalle istituzioni del partenariato e da altre università europee e del Mediterraneo. I 20 dottorandi coinvolti entreranno nelle carceri sia intellettualmente che fisicamente, maturando in tre anni un’esperienza non solo scientifica e artistica, ma anche acquisendo gli strumenti necessari per colmare il “gap” esistente fra il mondo dell’università e la società. I dottorandi, affiancati da artisti, porteranno l’arte in carcere con l’uso di diversi linguaggi contemporanei, dal graffito all’affresco, al video, alla poesia visiva, al disegno. Inoltre, nel progetto vengono studiate e confrontate altre forme di graffiti carcerari e pitture murali, sia storiche che contemporanee, per una riflessione su vari luoghi di reclusione e sulle risposte artistiche a questi specifici ambienti nelle loro molteplici dimensioni: materiale, corporea, psicologica, spaziale e temporale. I risultati dei tre anni di progetto saranno contenuti in un libro e in un video documentario che testimonieranno le produzioni artistiche del passato e del presente nonché l’urgenza di entrare in contatto con il disagio delle persone recluse. Così si è espressa la commissione di valutazione di Erasmus+ sul progetto “Graffiti Art in Prison”: “Il progetto risponde pienamente alle priorità del bando, ovvero il valore sociale ed educativo del patrimonio culturale europeo, la costruzione di sistemi di istruzione superiore inclusivi e l’inclusione sociale. Il progetto mira a costruire un ponte tra il mondo accademico e la società, concentrandosi sulle persone in condizioni di detenzione”. Il progetto GAP - sottolinea l’ateneo siciliano - “rappresenta l’occasione per promuovere la conoscenza delle carceri non solo come patrimonio culturale oggetto di studio scientifico, ma anche come strumento per una maggiore inclusione sociale. I progetti espositivi e la digitalizzazione degli ambienti storici porteranno alla valorizzazione museale e alla accessibilità turistica del prezioso repertorio iconografico e scritturale dei graffiti delle Carceri del Complesso Monumentale dello Steri. “Solidarietà, coesione”. Cambia il linguaggio della politica di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 5 ottobre 2020 Ascoltando il discorso del premier Conte ieri ad Assisi e ripensando a quelli fatti da leader politici italiani e internazionali dopo la pandemia, è impossibile non notare il cambio di terminologia. “Rimettere l’uomo al centro”. “Coesione”. “Solidarietà”. “Relazioni”. “Comunità”. Ascoltando il discorso del premier Conte ieri ad Assisi e ripensando a quelli fatti da leader politici italiani e internazionali dopo la pandemia, è impossibile non notare il cambio di linguaggio. I termini rimandano molto a quelli che Antonio Genovesi aveva scelto nel Settecento per sostenere un modello economico completamente diverso, diventando così il padre dell’Economia Civile e di un mercato che si ispiri ai principi di fratellanza e di sviluppo condiviso. Mentre nostri economisti e intellettuali, da Stefano Zamagni a Enrico Giovannini ed Ermete Realacci per citarne alcuni, hanno continuato a lavorare e sviluppare il pensiero in questa direzione, i mondi dell’economia e della politica hanno per lo più proseguito su strade “tradizionali” noncuranti dei segnali d’allarme continuamente lanciati in tema di diseguaglianze e danni all’ambiente. Ma l’emergenza Covid ha mutato quadro, prospettive e, appunto, linguaggio. i sostenitori della necessità di un cambio di paradigma hanno prodotto documenti condivisi: pensiamo al Manifesto di Assisi “per un’economia a misura d’uomo” già sottoscritto da 2 mila personalità o alla Carta di Firenze di recente consegnata al Presidente Mattarella dove in otto punti si articola un modello economico diverso “capace di coniugare profitto ed impatto sociale, dignità e qualità del lavoro, sostenibilità ambientale”. Anche l’Europa di Next Generation sta chiedendo progetti e visioni più attente all’uomo e al pianeta. Quello che resta da capire è se documenti, discorsi, dichiarazioni d’intenti resteranno relegate nell’oasi di una splendida Utopia. O se, come auspicabile, troveranno applicazione pratica. Perché le parole contano: ma non bastano. La “terza via” del Papa tra liberismo e populismo di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 5 ottobre 2020 Il titolo dell’enciclica sociale, e il gesto di firmarla ad Assisi, mostrano chiaramente la radice evangelico-francescana tipica del pontificato di Bergoglio. Sabato scorso, papa Francesco è andato ad Assisi per firmare sulla tomba di San Francesco la sua seconda enciclica sociale, “Fratelli tutti”. Il titolo - tratto dagli scritti del santo - e il gesto mostrano la radice evangelico-francescana, tipica del pontificato di Bergoglio dall’inizio, fin dalla scelta del nome. Che vuol dire enciclica sociale? È un genere “nuovo” di magistero, nato nel 1891, con la Rerum novarum di Leone XIII, che pose al centro la questione sociale e spinse i cattolici a non essere passivi ma a impegnarsi in questo campo, anche in contrasto con il movimento socialista e quello liberale. Da tempo l’enciclica sociale è un testo rivolto non solo ai cattolici. Paolo VI, nel 1967, con la Populorum progressio, ha posto la questione sociale sull’orizzonte mondiale: i rapporti tra Nord ricco e Sud povero; papa Wojtyla, con la Centesimus annus del 1991, ha delineato una visione sociale non appiattita sul capitalismo, dopo al fine del comunismo. Infatti, fino allora, il pensiero sociale cattolico si era mosso come una terza via, tra liberismo e collettivismo. Con l’unificazione dei mercati e delle comunicazioni, lo scenario nuovo della globalizzazione ha contraddittoriamente presentato tante frammentazioni e conflittualità. La prima enciclica sociale di Bergoglio, Laudato sì, cinque anni fa, è stata innovativa, perché tutta dedicata all’ambiente, insistendo sul fatto che “tutto è connesso”. Oggi il papa lancia una proposta globale centrata sulla fraternità, vista come processo radicale con cui ricomporre la complessità delle relazioni internazionali, locali, interpersonali. Scrive: “Possiamo far rinascere tra tutti un’aspirazione alla fraternità”. È consapevole che le visioni e i progetti di respiro sono considerati oggi superati, anzi - osserva - “un delirio”. La Chiesa però non rinuncia a una visione globale della società. Certo ci si chiede se non sia semplicistico parlare di “fraternità” e “amicizia sociale” in un mondo di alta complessità come il nostro. Ma un anno fa, l’anziano sociologo, Edgar Morin, ha scritto sulla fraternità: “fragile come la coscienza, fragile come l’amore la cui forza è tuttavia inaudita”, eppure “mezzo per resistere alla crudeltà del mondo”. Il papa constata: “Malgrado si sia iperconnessi, si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile i problemi che ci toccano tutti”. La grande difficoltà, confermata dalla crisi del Covid-19, è “l’incapacità di agire insieme”. L’analisi del papa è preoccupata (Le ombre di un mondo chiuso- è il titolo del primo capitolo). C’è diffusa smemoratezza riguardo alla storia con i suoi dolori. S’incrinano le unioni tra Stati, mentre si sviluppa il nazionalismo. Ma Francesco insiste: “Nessuno si salva da solo”. Vale per i singoli e i gruppi umani, come per gli Stati: “Non è possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e cordiale apertura all’universale”. Pur riconoscendo il valore decisivo delle comunità locali e nazionali (spesso - nota - appiattite dai processi globali), Fratelli tutti lancia la globalizzazione della fraternità come via per ricreare legami, sanare conflitti, affermare la pace, affrontare insieme il futuro in contrasto con l’individualismo contemporaneo. In linea con la dottrina sociale cattolica, ma con un taglio innovativo, Francesco afferma: “Il mercato non può risolvere tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale”. Lo considera un pensiero povero e ripetitivo, inadeguato ai problemi e alle miserie di oggi. D’altra parte segna una forte distanza dal “populismo”, che elimina la vera democrazia. Affermazione interessante di un papa, sovente, accusato di un debito verso il populismo latinoamericano (oggi però un fenomeno diffuso ben oltre il Sud America). Nella sua visione, è centrale l’idea “popolare” che, in nome della fraternità, traccia una via tra individualismo liberale e populismo: un popolo, fatto di comunità intermedie, che abbia un progetto, un sogno di crescita. Se si sente in queste parole l’eco della teologia argentina del popolo, si deve constatare la continuità con la dottrina sociale, specie con la costante ricerca di un’”utopia sociale”. È l’espressione di una Chiesa che, di fronte a nuove realtà, non accetta passivamente il mondo qual è: sollecita cattolici e non cattolici, Stati e forze sociali a trasformarlo in una dimensione più umana. L’enciclica è ampia e tocca tanti temi: condanna la guerra (“ogni guerra lascia il mondo peggiore di come l’ha trovato”), la pena di morte, il disinteresse ai migranti e rifugiati, l’abbandono degli anziani e altro. Non manca il dialogo tra le religioni come terreno di fraternità. Ci troviamo di fronte a una summa del pensiero sociale del papa in tanti capitoli, che faranno discutere anche in un tempo, come il nostro, povero d’idee, che sono una risorsa per una Chiesa oggi piuttosto silente. La sua efficacia si giocherà sul dibattito che si aprirà. Al fondo, oltre i vari temi, risuona l’antico appello cristiano, ingenuo e sapiente: “Tutti fratelli”. Così Francesco libera la chiesa dalla dottrina delle frasi fatte di Alberto Melloni* Il Domani, 5 ottobre 2020 Alla fine “Fratelli tutti”, l’enciclica firmata ad Assisi sulla tomba di san Francesco, è stata resa nota e ha tre caratteristiche più rilevanti della cornice in cui è stata varata. La prima è che è una enciclica in cui, ancora una volta, il papa dichiara da dove ha preso le mosse e chi è, al fondo, l’interlocutore col quale dialoga. Per Laudato sì era stato il patriarca ecumenico Bartholomeos, successore dell’apostolo Andrea e fratello dell’apostolo Pietro, primo nell’onore fra i patriarchi dell’ortodossia, figura chiave del dialogo ecumenico e della pace fra le chiese. Per Fratelli tutti è il grande imam Ahmad Al-Tayyeb, guida dell’università di al-Azhar, difensore delle pene più severe contro i musulmani “apostati”, ma che aveva preso le distanze dal terrorismo suicida islamista. Con Al-Tayyeb il papa aveva firmato una dichiarazione sulla fraternità universale citata otto volte e di cui, in certo modo, l’enciclica costituisce una glossa. La seconda è che il papa ha spiegato il processo redazionale. Questa volta non ci sono ghostwriter, ma un redattore capo. Francesco ha infatti portato ad Assisi e ringraziato pubblicamente monsignor Paolo Braida, prete lodigiano, capo dell’ufficio della I sezione della Segreteria di Stato che curai discorsi pontifici dal 2013 (del quale YouTube conserva una breve meditazione mariana del 2 maggio in pieno lockdown). E quelthe l’ufficio di Braida ha fatto non è stato tanto quello di dare ordine agli autografi bergogliani e ai pareri ai quali ha dato credito, ma di ritagliare e ricucire una massa di citazioni che copre il 39,42 per cento del testo. Esse rivelano un ricorso martellante, per circa duecento volte, al “già detto” di papa Bergoglio e un ossequio formale al passato (una quarantina di citazioni di Montini, Wojtyla e Ratzinger; due citazioni di Pio XI e Pio XII e due del Concilio). Risaltano così le poche ma significative citazioni di altri: quelle più scontate di Francesco d’Assisi, di Ireneo e Crisostomo, di Agostino (per dargli torto), e dell’Aquinate (letto coi manuali degli anni Cinquanta del giovane Bergoglio). E quelle a effetto come Paul Ricoeur, il maestro di Emmanuel Macron; il filosofo Georg Simmel (che per l’edizione italiana guadagna la prima menzione di Cacciari in una enciclica), del Talmud (citato con la frase di Hillel cara ad Amos Luzzato, presidente delle comunità ebraiche recentemente scomparso), Vinícius de Moraes (sì quello della samba), Karl Rahner (autore sempre indigesto a qualche asinus germanicus), e a Charles de Foucauld fondatore dei piccoli fratelli di Gesù da cui prende la chiave di lettura di una fraternità fatta di piccolezza e non di farlocche geometrie sul “Dio unico”. La terza cosa è che ancora una volta l’enciclica ricorre e virgoletta il magistero delle conferenze episcopali come fonte dotata di autorità dottrinale, non per caso ma per una decina di volte (una misura quasi identica alle citazioni di Benedetto XVI). Delle congregazioni di curia invece, il papa, cita solo la correzione imposta alla dottrina della fede, che in età wojtyliana aveva pubblicato un catechismo che includeva la pena di morte e una fonte divulgativa, il Compendio di dottrina sociale. La valorizzazione delle conferenze episcopali, ortogonale rispetto alla minimizzazione che ne faceva l’ecclesiologia ratzingeriana, è decisiva ed è il nucleo della riforma della chiesa bergogliana. Mentre una schiera di adulatori e indotti disquisisce sul papa che cambia la “pastorale”, ma non cambia la “dottrina”, solo perché credono che la “dottrina” sia un prontuario di frasi fatte. Francesco mostra che il problema non è di formularità, o di arzigogoli pseudo-teologici, ma topografico: bisogna sapere il luogo in cui la vita di fede produce letture del vangelo del tempo, chiavi del cammino della chiesa nella storia, esperienze di liberazione per capire che “non è il vangelo che cambia, ma che siamo noi a comprenderlo meglio”. E torna a dire che questo luogo è la chiesa locale e la communio ecclesiarum. Soluzione alta, che libera la chiesa da costruzioni che fino a ieri erano dottrina (eccome!) - ad esempio l’esistenza della guerra giusta, la pena capitale, la subordinazione della donna, una concezione dolciastra del perdono. E apre un percorso che per la chiesa di oggi, scossa da prassi spicciative davanti a meschinità disarmanti, sembra più difficile ma che oggi è più urgente intraprendere. *Storico Burocrazia, adesso o mai più di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 5 ottobre 2020 Il Decreto Semplificazioni scalfisce solo i margini di quella montagna di regole e procedure con cui la pubblica amministrazione irrigidisce e rallenta quotidianamente il funzionamento dell’Italia. Nel periodo più difficile dei negoziati sul Recovery fund, a maggio, Angela Merkel si trovò più volte a difendere l’Italia: i Paesi frugali non si fidavano di come avremmo speso i “loro” soldi. In una intervista la Cancelliera menzionò espressamente l’impegno di Giuseppe Conte a “rivoluzionare” la burocrazia, creando le condizioni per facilitare gli investimenti. In effetti, ai primi di luglio il governo di Roma ha varato in pompa magna il Decreto Semplificazioni. Un piccolo progresso, senza dubbio. Che però scalfisce solo i margini di quella montagna di regole e procedure con cui la pubblica amministrazione irrigidisce e rallenta quotidianamente il funzionamento dell’Italia. Nelle sue linee guida sul Next Generation Eu (il piano straordinario da 750 miliardi), la Commissione ha invitato i governi a spiegare bene da chi e come verranno gestiti i vari progetti. Ribadendo peraltro che, dopo un primo anticipo nel 2021, l’erogazione dei fondi sarà subordinata al rispetto scrupoloso di scadenze e realizzazioni. Come faremo? Gli orientamenti sul Piano di ripresa e resilienza che il ministro Gualtieri ha da poco presentato al Parlamento comprendono l’ammodernamento dell’apparato statale. Ma a parte la nuova enfasi sulla digitalizzazione, gli obiettivi sono gli stessi delle dieci “riforme della pubblica amministrazione” introdotte fra il 1990 e il 2014, che hanno portato a ben pochi risultati. La situazione è particolarmente allarmante proprio sul fronte delle infrastrutture. Le Relazioni periodiche della Commissione sulle politiche di coesione segnalano con dovizia di dati i ritardi e le manchevolezze italiane. Prendiamo l’indice più sintetico sulla “qualità delle istituzioni e l’efficienza del governo” (capacità e responsabilità esecutiva, corruzione, reclutamento meritocratico, professionalità e così via): il nostro Paese è agli ultimi posti in graduatoria, dietro di noi ci sono solo Grecia, Bulgaria e Romania. Per giunta, questi ultimi due Paesi hanno significativamente migliorato la loro posizione in confronto a dieci anni fa, mentre noi l’abbiamo peggiorata. Il tempo stringe, è chiaro che non si può fare in pochi mesi ciò che non si è riusciti a fare in trent’anni. Ma non possiamo più nasconderci dietro alle belle parole. Gli esperti hanno da tempo elaborato accurate diagnosi dei problemi e proposte di soluzione, è urgente fornire subito qualche segnale concreto di cambiamento. Provo a suggerirne due. Il nostro Parlamento vara provvedimenti legislativi troppo complessi e soprattutto incompiuti, in quanto necessitano di numerosi atti ulteriori per diventare esecutivi. Ciò vale anche, paradossalmente, per il Decreto Semplificazioni. La legge di conversione (approvata ai primi di settembre) prevede una sessantina di provvedimenti attuativi, 1,5 per articolo. Ecco allora un primo possibile segnale: il governo s’impegni a varare tutti questi provvedimenti entro la fine dell’anno, di modo che le semplificazioni siano pienamente operative prima che arrivi l’anticipo di Bruxelles. Il secondo passo deve essere più ambizioso e aggredire l’intera cornice di gestione delle infrastrutture, in particolare quelle co-finanziate dalla Ue. Nel sistema attuale ci sono troppi attori e troppi passaggi, con scadenze indefinite e scarsa attenzione per la sostanza, il monitoraggio, la valutazione dei risultati. In alcune regioni del sud un’iniziativa banale come il restauro di un edificio scolastico a valere su fondi Ue può richiedere fino a cinque anni. Insomma, troppa legge, poco management. E, nonostante il castello di regole, il sistema tende a generare comunque frodi, molta corruzione e poca imparzialità. Il Piano di ripresa e resilienza dovrebbe contenere un progetto dettagliato di razionalizzazione e sfrondamento regolativo, al netto delle modifiche previste dalla Legge semplificazioni. Il segnale concreto potrebbe essere l’avvio di un programma straordinario di formazione manageriale per i dirigenti pubblici, nonché l’assunzione di un consistente numero di giovani con competenze ed esperienze di analisi e gestione delle politiche europee. I posti ci sono, molti dei funzionari che si occupavano di fondi Ue sono andati in pensione con Quota 100. La Commissione ha un programma dedicato che fornisce supporto tecnico e risorse per simili iniziative. Fruire di questa opzione avrebbe un duplice vantaggio: di sostanza (ricevere assistenza concreta) e di forma (confermare l’impegno ad allinearsi agli standard “di qualità” europei). E, dal punto di vista simbolico, sarebbe perfettamente in linea con la logica del Next Generation Eu: quella di coinvolgere i giovani nel costruire l’Italia e l’Europa del (loro) futuro. Via i decreti sicurezza ma solo in parte. Pressing 5 Stelle sul Pd: non cancellate tutto di Alessandro Farruggia Il Giorno, 5 ottobre 2020 Sul tavolo dei ministri la modifica delle misure sugli sbarchi volute da Salvini. I grillini puntano a rivedere il testo, “ma non faremo barricate”. L’ultima trincea del Movimento 5 Stelle è il tentativo di bloccare la reintroduzione della protezione speciale (ex protezione umanitaria) per i migranti. Il pressing pentastellato per cambiare il testo del ministro Lamorgese (che fu condiviso a fine luglio dai capidelegazione di maggioranza), è in atto da giorni, lo stesso capo politico Vito Crimi ne ha parlato sabato col premier Conte. Ma fonti di palazzo Chigi dicono che, quando stasera il consiglio dei ministri affronterà la discussione del Dl che supererà i decreti Salvini, i grillini esprimeranno le loro riserve “con un approccio dialettico ma collaborativo”, rimandando alla discussione parlamentare un eventuale aggiustamento. In altre parole, niente barricate. “Il problema - assicura il responsabile sicurezza del Pd, Carmelo Miceli - è superato. Le modifiche raccolgono le osservazioni del presidente Mattarella e della Corte Costituzionale e vanno oltre, garantendo diritti, integrazione e sicurezza”. La bozza del decreto, composto da 9 articoli, stabilisce che il divieto di transito nel mare territoriale alle navi delle Ong tornerà in capo al ministro dei Trasporti (che deciderà d’intesa con Interno e Difesa) e, per le Ong che violano il divieto di navigazione, le multe non saranno più elevate dai prefetti ma eventualmente solo dopo un processo vero e proprio per violazione dell’articolo 1102 del codice della navigazione nel quale potrà scattare anche il reato penale, con pene fino a due anni. In ogni caso le multe non saranno più monstre - i decreti Salvini prevedevano fino a un milione di euro e il sequestro della nave - ma potranno oscillare solo “dai 10mila a 50mila euro” e saranno limitate a quelle ong che operano senza coordinamento. Il divieto di transito nelle acque territoriali, infatti, non può essere applicato “nell’ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle autorità competenti”. Punto qualificante del nuovo decreto è il nuovo “sistema di accoglienza e integrazione” che darà nuova vita alla rete Sprar-Siproimi e sarà strutturato su due livelli: uno per la prima accoglienza e un secondo diffuso sul territorio in piccoli centri gestiti dai Comuni ed allargati ai richiedenti asilo. Il decreto allunga anche i termini obbligatori per il riconoscimento della cittadinanza italiana, che passano da 48 a 36 mesi. Vengono inoltre dimezzati i tempi di trattenimento nei Cpr (da 180 a 90 giorni) e, per gli aventi diritto, ridotti da 48 a 36 mesi i tempi massimi per ottenere la cittadinanza. Il nuovo decreto dà poi la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all’anagrafe. Su quest’ultimo punto si è pronunciata la Corte Costituzionale. Per i richiedenti asilo ci sarà anche la possibilità di svolgere lavori di pubblica utilità. Contro questa “controriforma” Lega e Fd’I promettono lotta dura in Parlamento. Yemen. L’inferno dei migranti etiopi nelle prigioni saudite di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 5 ottobre 2020 Si potrebbe chiamare “effetto collaterale” del conflitto che va avanti da oltre cinque anni tra gli huthi, il gruppo armato yemenita, e la coalizione militare saudita-emiratina. Ma quell’espressione, anche in questo caso, non rende l’idea dell’inferno che hanno trascorso e stanno trascorrendo migliaia di famiglie di migranti etiopi, espulse dagli huthi a partire da marzo con lo scoppio della pandemia da Covid-19 e finite, non appena varcato il confine, nelle carceri saudite. Le testimonianze raccolte da Amnesty International, attraverso 12 interviste condotte tramite una app di messaggistica tra il 24 giugno e il 31 luglio di quest’anno, sono raccapriccianti: donne incinte (spesso a seguito di violenza sessuale subita in Yemen), neo-mamme e loro piccoli tutti ammassati in celle squallide e sovraffollate, detenuti incatenati l’uno all’altro e costretti a fare i loro bisogni sul pavimento, assenza di cure mediche per quelli che sono stati feriti dal fuoco incrociato lungo il confine. Ci sono detenuti che indossano gli stessi vestiti che avevano al momento dell’espulsione dallo Yemen. “Qui è un inferno, è peggio della pandemia. Non ho mai visto niente del genere in vita mia. Non ci sono gabinetti, dobbiamo urinare in un angolo della cella, a poca distanza da dove dormiamo”, ha raccontato Zenebe (non è il suo vero nome), detenuto nella prigione di Al Dayer. Sono tre i morti accertati da Amnesty International, che non ha potuto verificare il decesso di altri quattro detenuti. Si parla anche di bambini morti di malattie e di numerosi tentativi di suicidio. Chi protesta chiedendo medicine, abiti puliti o acqua potabile viene picchiato dai secondini o torturato con le scariche elettriche. Amnesty International ha sollecitato le autorità saudite a rilasciare immediatamente tutti i migranti detenuti e ha chiesto al governo dell’Etiopia, i cui funzionari hanno visitato le carceri dove si trovano i loro connazionali e dunque un’idea se la sono fatta, di organizzare urgentemente i rimpatri. Nonostante le restrizioni dovute alla pandemia, tra aprile e settembre almeno 34.000 migranti etiopi sono rientrati nel loro paese, 3998 dei quali dalla stessa Arabia Saudita. Pur riconoscendo che il governo di Addis Abeba dice il vero quando cita le difficoltà di allestire centri dove isolare in quarantena i nuovi arrivati, il rimpatrio di persone disperate e a rischio di morire da un momento all’altro nelle carceri saudite può e deve essere organizzato. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa 2.000 migranti etiopi si trovano ancora sul lato yemenita del confine, senza che nessuno si prenda cura di loro. *Portavoce di Amnesty International Italia “Nuova Algeria”, vecchi poteri di Giuliana Sgrena Il Manifesto, 5 ottobre 2020 Il presidente Tebboune approfitta della pandemia, che ha costretto il movimento rivoluzionario a sospendere le manifestazioni, per far passare la revisione della costituzione e imprigionare i protagonisti dell’hirak. Il Covid ha costretto l’hirak, il movimento rivoluzionario algerino, a sospendere le proprie manifestazioni, dopo oltre un anno di mobilitazioni settimanali, mentre il regime di Tebboune ha approfittato della pandemia per promuovere il progetto di “Nuova Algeria”, definizione scippata alla rivolta. Il tentativo di smantellare il ventennale regime di Bouteflika attraverso una revisione della costituzione, dopo quella del 2008 con la quale l’ex presidente aveva cancellato il limite dei due mandati presidenziali, sarà sottoposta a referendum il 1 novembre. Il nuovo testo è stato definito senza dibattito, come senza dibattito sarà la campagna per il referendum dalla quale sono escluse le opposizioni. La riduzione dei mandati presidenziali e parlamentari a due sembra l’unica concessione evidente a un movimento che era nato proprio contro il quarto mandato per Bouteflika. Il presidente Tebboune che - subito dopo la sua contestata elezione nel dicembre del 2019 - aveva definito “benedetto” l’hirak non è però andato incontro alle rivendicazioni della piazza che voleva e vuole un cambiamento di sistema e l’avvio di un processo costituente per costruire uno stato di diritto e non militare. Tra l’altro gli episodi di corruzione tra i militari non fanno che aumentare la diffidenza tra gli algerini che per decenni avevano coltivato il mito dell’Esercito nazionale di liberazione. Altri tempi. Paradossalmente mentre la carta stabilisce una “costituzionalizzazione del movimento popolare del 22 febbraio 2019” il regime continua la sua implacabile repressione nei confronti dei sostenitori dell’hirak - una sessantina sono in carcere -, alcuni arrestati solo perché portavano la bandiera berbera. L’indipendenza della giustizia è uno dei temi all’ordine del giorno visto che finora ha operato in ottemperanza a regolamenti di conti con i fedeli a Bouteflika, includendo anche personaggi come il moujahid - combattente nella guerra di liberazione - Lakhdar Bouregaa o la leader del Partito dei lavoratori Louisa Hannoune, mentre resta in carcere preventivo - dal novembre scorso - Khalida Toumi, che fu ministra della cultura di Bouteflika. Lo scontro tra avvocati e magistrati è scoppiato nei giorni scorsi con due giorni di sciopero - il 30 settembre e 1 ottobre - delle toghe nere che hanno paralizzato la giustizia. È stata soprattutto la condanna del giornalista Khaled Drareni a due anni di carcere a provocare una reazione che finalmente ha raggiunto l’occidente, finora insensibile a una rivolta popolare e pacifica come non si è mai vista, non solo in Algeria. Ancora una volta è la libertà di stampa la vittima della rappresaglia di un regime che vuole confiscare il diritto di un popolo a decidere del proprio futuro. Ma i giornalisti algerini, che si riuniscono ogni settimana alla casa della stampa, affermano che “non abbasseranno le braccia”. Il futuro dell’Algeria è estremamente incerto. I mesi della pandemia hanno fortemente condizionato la situazione economica - già fortemente penalizzata dalla caduta dei prezzi degli idrocarburi - e sociale per la diminuzione del potere di acquisto della popolazione. Il relativo controllo del Covid è stato ottenuto con misure drastiche di confinamento: a fine settembre le frontiere algerine sono ancora chiuse, i trasporti aerei, marittimi e di collegamento tra wilaya restano sospesi, il sistema educativo non sarà ripreso prima dell’inizio di novembre. Il confinamento in casa dalle 23 alle 6 è stato prorogato fino a fine novembre nelle zone più colpite dal virus, comprese Algeri e Orano. I settori più colpiti dal confinamento sono: costruzioni, lavori pubblici, trasporti, commercio. Le misure adottate dal governo per far fronte all’impatto del Covid sull’economia hanno portato a un deficit record del bilancio dello stato che supera il 15 per cento del Pil. Sarebbe questa, secondo economisti algerini, la causa della mancanza di liquidità. Le lunghe code davanti agli uffici postali proprio per mancanza di liquidità si sono sommate ad altri problemi come la mancanza di acqua e l’interruzione della fornitura di energia elettrica. Problemi, questi ultimi, attribuibili, secondo le ipotesi del governo, a “sabotaggi” e sui quali è stata aperta un’inchiesta. La difficoltà ai collegamenti internet ha contribuito a rendere più difficile l’isolamento. In questa situazione la fuga in avanti del presidente Tebboune che vorrebbe accreditare l’immagine di una “Nuova Algeria” con il referendum sulla revisione della costituzione che prevede un rafforzamento dei suoi poteri, organizzato nonostante le restrizioni del Covid, non convince. La costituzione “non risolverà la crisi politica, senza il rispetto della sovranità popolare, proseguendo con la sua politica antipopolare che ha portato il paese al fallimento”, sostiene un documento delle forze del Patto per l’alternativa democratica (Pad). L’opposizione alla nuova costituzione non riguarda tanto i contenuti ma la violazione degli stessi che il regime continua a perpetrare, come il rispetto della libertà di stampa e di opinione. Anche la scelta della data è oggetto di contestazione: il 1 novembre, data dell’inizio della guerra di indipendenza, è patrimonio storico di tutti gli algerini e non può essere usurpata dal regime, sostiene l’opposizione. A rendere ancora più ambiguo l’intento del presidente sono gli altri appuntamenti del 1 novembre: Tabboune parteciperà all’inaugurazione della grande moschea di Algeri voluta da Bouteflika. Non solo viene strumentalizzata sia la religione che la rivoluzione algerina, ma si vuole celebrare un’opera che è il simbolo della corruzione, della dilapidazione di denaro pubblico (da 1 a 3 miliardi di euro, a seconda delle fonti) dei tempi di Bouteflika. È questa la “nuova Algeria”?