Università in carcere, la promessa di Manfredi: “Ora più investimenti” di Viviana Lanza Il Riformista, 4 ottobre 2020 Quello che si apre sarà l’anno accademico dei primi laureati detenuti in Campania e delle iscrizioni cresciute, in tre anni, da 77 a 106. Un risultato che premia l’impegno della Federico II, dell’amministrazione penitenziaria regionale e del garante campano dei detenuti. Un risultato che è il frutto di un progetto avviato dal ministro dell’Università Gaetano Manfredi quando era rettore dell’università federiciana e che sarà sostenuto per il futuro. Il ministro Manfredi lo assicura durante il suo intervento, ieri pomeriggio, nel carcere di Secondigliano dove ha sede il polo universitario penitenziario e dove il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, ha organizzato un incontro sul ruolo dell’istruzione per una società inclusiva e consapevole e come strumento di riabilitazione e riscatto culturale nelle carceri. Il ministro sottolinea l’importanza di una “università di strada”, “un’università pronta ad andare incontro ai reali bisogni della società”. Come? “Uscendo dalle sue mura e da una dimensione autoreferenziale senza però perdere il suo valore di luogo del sapere”. È una visione moderna, quella del ministro che già durante il rettorato alla Federico II ha dimostrato di avere idee illuminate. “L’università - aggiunge - è un agente di trasformazione della società”. E in questa ottica la sua missione primaria, che è quella didattica, è realizzata anche attraverso il polo universitario penitenziario. L’esperienza del polo avviata tre anni fa nel carcere di Secondigliano, guidato dalla direttrice Giulia Russo, si è dimostrata positiva. “Ora ci avviamo verso una stagione complessa, di rinascita dopo la fase critica causata dalla pandemia che ha messo in discussione i modelli di sviluppo e ha fatto pagare a tutti un prezzo. Ci attende - dice il ministro - una sfida straordinaria”. E una sfida sarà anche quella di sostenere il diritto allo studio in carcere con interventi che rendano il progetto “sistemico” e supportato da mirati investimenti. Il ministro mostra così di voler raccogliere l’invito di alcuni detenuti del carcere di Secondigliano i quali, raccontando la propria esperienza di studenti detenuti, chiedono di avere a disposizione più strumenti per la didattica a distanza e più attrezzature a disposizione. Il ministro assicura che valuterà, inoltre, anche le richieste e le esigenze avanzate dalla polizia penitenziaria nell’ambito di questi progetti. I numeri, dicevamo, premiano la scelta di creare un polo universitario penitenziario campano sostenuta dal provveditore regionale Antonio Fullone che ha seguito il progetto sin dalla nascita quando era direttore del carcere di Poggioreale. “È importante valorizzare il carcere come luogo di studio e non solo di detenzione” spiega, sottolineando lo sforzo dell’amministrazione per aumentare le sedi penitenziarie universitarie e includere sempre più detenuti nei percorsi di studio. Attualmente si contano 54 istanze di immatricolazione (di cui 9 sospese perché provengono da detenuti non trasferibili), 24 istanze di iscrizione al secondo anno e 28 al terzo. Questi numeri mettono la Federico II al secondo posto per detenuti iscritti dopo Bologna. I detenuti universitari provengono da reparti di Alta Sicurezza del carcere di Secondigliano (e sono quelli con i voti più alti) e dalle carceri di Benevento, Poggioreale, e Pozzuoli. “La pena è chiudere in uno spazio ma questo spazio va impostato correttamente e va qualificato” aggiunge la professoressa Marella Santangelo, delegata della Federico II del polo universitario penitenziario, nel suo intervento all’incontro in cui la centralità dello studio in carcere è ribadita anche dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia, dal magistrato Margherita Di Giglio, dal presidente della Conferenza dei poli universitari Franco Prina. A Napoli il polo universitario ha comportato in questi anni non solo la trasformazione di alcuni spazi detentivi ma anche della docenza che dal volontariato è passata a far parte del normale monte ore. Per il futuro ci si augura un ulteriore cambio di passo, questa volta sul piano culturale e da parte di tutta la società civile. “Garantire lo studio in carcere vuol dire dare senso al tempo e consentire ai detenuti di rappresentarsi come persone altre rispetto a come la maggioranza le considera - afferma il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis - L’opinione pubblica deve capire che un carcere che rieduca non è, per i cittadini, un investimento a perdere, ma aumenta la sicurezza di tutti”. Le conseguenze del Coronavirus nelle carceri tuttosanita.com, 4 ottobre 2020 La pandemia di Covid-19 ha colpito anche le carceri, provocando diversi effetti. Fortunatamente i casi di Covid-19 sono stati sporadici e non particolarmente critici. “Dopo le proteste iniziali e gli inevitabili timori che le carceri divenissero una polveriera, le norme previste dal Dpcm dell’8 marzo per gli istituti penitenziari hanno consentito di limitare i contagi: i casi sintomatici dei nuovi ingressi sono stati posti in isolamento; i colloqui si sono tenuti in modalità telematica; sono stati limitati i permessi e la libertà vigilata - evidenzia il professor Sergio Babudieri, direttore Scientifico Simspe - Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari - tuttavia, con questa seconda ondata il virus si è diffuso in diversi ambiti, ben oltre ospedali e RSA che erano stati i principali incubatori del virus in primavera: di conseguenza, adesso qualsiasi nuovo detenuto va in un’area di quarantena e viene sottoposto a tutti i consueti protocolli, secondo un filtro analogo ai triage degli ospedali”. “Tra le conseguenze della pandemia emergono anche dati positivi - aggiunge Babudieri - il tema cronico del sovraffollamento, che costituiva una minaccia proprio per una potenziale diffusione del Covid, è invece andato incontro a un notevole miglioramento: si è passati dal 20,3% al 6,6%, poiché non vi è stato il normale turn over dovuto all’assenza di arresti nel periodo del lockdown. Più precisamente, al 31 gennaio 2020 nei 190 istituti penitenziari italiani vi era una capienza di 50692 (dati ufficiali del Ministero della Giustizia) e 60971 detenuti presenti, con un surplus quindi di 10279, pari al 20,3%. Adesso a fronte di una capienza di 50574 posti letto, i detenuti effettivi sono 53921, con un sovraffollamento sceso a 3347, ossia il 6,6%, mostrando dunque un calo radicale. Questo però deve imporci controlli sempre più accurati, perché la popolazione ristretta è praticamente tutta suscettibile al Coronavirus ed in più in questo ambito sappiamo come sia cronicamente elevata la circolazione di altri virus, in particolare epatitici come HCV. Ne consegue che in questa nuova fase dell’epidemia Covid divenga mandatoria l’esecuzione dei test combinati Hcv/Covid nei 190 Istituti Penitenziari Italiani”. Il Covid-19 ha evidenziato, accanto alla pandemia, un’altra emergenza sanitaria: quella della salute mentale. Depressione, ansia e disturbi del sonno, durante e dopo il lockdown, hanno accompagnato e stanno riguardando più del 41% degli italiani. Le persone rinchiuse nelle carceri costituiscono soggetti particolarmente vulnerabili: secondo dati noti, circa il 50% dei detenuti era già affetto da questo tipo di disagi prima della diffusione del virus. Erano frequenti dipendenza da sostanze psicoattive, disturbi nevrotici e reazioni di adattamento, disturbi alcol correlati, disturbi affettivi psicotici, disturbi della personalità e del comportamento, disturbi depressivi non psicotici, disturbi mentali organici senili e presenili, disturbi da spettro schizofrenico. “Il problema psichiatrico o quantomeno quello del disagio mentale è diventato una delle questioni più gravi del sistema penitenziario italiano - sottolinea il presidente Simspe Luciano Lucanìa - in sede congressuale abbiamo avuto un confronto su questo tema delicato con i contributi di accademici, direttori di penitenziari, medici specialisti che lavorano alla psichiatria territoriale e operatori attivi nel sistema penitenziario stesso. È evidente come la pandemia di Covid e soprattutto i primi mesi abbiano reso queste problematiche ancora più evidenti. Nelle ultime settimane la situazione è diventata ancora più complessa. Non esistono soluzioni pronte e preconfezionate, ma noi di Simspe crediamo che sia necessario per gli operatori, per la comunità carceraria, per i decisori politici, far presente limiti, problemi, prospettive e chiedere soluzioni. Da una parte si devono integrare i servizi del territorio e i servizi del carcere; dall’altra serve un sistema carcerario che sia in grado di affrontare autonomamente questo tipo di problemi”. Il ruolo dell’infermiere nell’ambito penitenziario è centrale, sebbene spesso non venga messo a fuoco a sufficienza. In virtù del Decreto 739 del ‘94, l’infermiere è colui che si occupare dei servizi assistenziali. Tuttavia, rappresenta una figura chiave perché è insignito di una responsabilità che va oltre quella sanitaria, poiché coinvolge la sicurezza personale di tutti coloro che lavorano in carcere. Da una parte, infatti, lavora in equipe con i medici; dall’altra, ha rapporti anche con altre figure, come gli educatori, toccando così anche gli aspetti sociali oltre a quelle sanitari. “Come gruppo infermieristico di Simspe stiamo sviluppando diverse ricerche che permettano di valorizzare la figura dell’infermiere e di ottimizzarne il contributo - evidenzia Luca Amedeo Meani, vicepresidente Simspe - uno studio riguarda l’azione del Covid sull’operatività dell’infermiere: il Moral Distress (Disagio Morale) degli infermieri era preoccupante e si è aggravato in questi mesi. I dati emersi mostrano un livello molto elevato rispetto ai parametri mediani di valutazione e spesso coinvolgono ragazzi che avevano solo tre o quattro anni di esperienza in servizio. Da qualche settimana stiamo integrando lo studio con item che riguardano il Covid. In secondo luogo, stiamo portando avanti anche un’analisi che riguarda la gestione Rischio Clinico, che permette di determinare in modo scientifico quali potrebbero essere le misure correttive per abbassare i rischi da un livello potenzialmente elevato a uno standard accettabile. Questo lavoro del Gruppo infermieristico Simspe è iniziato prima della pandemia e ha aiutato molto nella prevenzione del Covid: l’assenza di casi gravi e il mancato diffondersi della pandemia in questi ambienti è stato anche grazie a questo sistema di prevenzione e di analisi del rischio”. Processo Salvini. Il pm chiede il proscioglimento di Giovanni Bianconi e Goffredo Buccini Corriere della Sera, 4 ottobre 2020 Prima udienza del processo a Salvini. Il pm chiede il proscioglimento, ma saranno sentiti Conte e alcuni ministri. Era pronto a fare lunghe “dichiarazioni spontanee” a sua difesa, l’imputato Matteo Salvini. Ma dopo che il giudice Nunzio Sarpietro è entrato in camera di consiglio e ne è uscito ordinando di fatto un’anticipazione dell’eventuale processo per sequestro di persona, con la convocazione di sei testimoni e l’acquisizione di una gran mole di documenti, l’avvocata Giulia Bongiorno ha deciso di rinviare il discorso. Così il capo leghista è rimasto in silenzio, a guardare e ascoltare per qualche ora, apparendo docile e perfino un po’ intimorito dalle altre persone presenti nell’aula al piano terra del Palazzo di giustizia catanese, abituate a vederlo in ben altri atteggiamenti. Non sa ancora se sarà rinviato a giudizio, come sollecitato dal tribunale dei ministri, oppure prosciolto, come ha chiesto la difesa ma anche la Procura. Prima di decidere il giudice vuole ascoltare altri componenti del governo, passato e presente. In primo luogo Giuseppe Conte, presidente del Consiglio all’epoca del presunto sequestro di 131 migranti lasciati per cinque giorni a bordo della nave Gregoretti, a fine luglio 2019, ma anche di altri ritardati sbarchi, dalla Diciotti (precedente) fino all’Ocean Viking (successivo); e Luigi Di Maio, vicepremier nel governo Conte 1 e ministro degli Esteri oggi; gli ex ministri delle Infrastrutture Danilo Toninelli e della Difesa Elisabetta Trenta; la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, che ha sostituto l’imputato al Viminale (citata anche su richiesta dell’avvocata Bongiorno) e l’ambasciatore Maurizio Massari, rappresentante dell’Italia all’Unione europea. “Ovviamente sono a disposizione, riferirò in piena trasparenza come sempre”, assicura Conte. I testimoni saranno ascoltati il prossimo 20 novembre e il 4 dicembre, ma nel frattempo il giudice ha ordinato alla Polizia giudiziaria di “accertare quanti e quali episodi simili a quello della nave Gregoretti si siano verificati nel periodo in cui l’inquisito rivestiva la carica di ministro dell’Interno, estendendo l’accertamento anche agli sbarchi avvenuti successivamente, quando è cambiata la compagine di governo”. Il motivo di questa mossa inconsueta sta nell’anomalia di un procedimento senza rappresentanti dell’accusa. “La vicenda processuale appare del tutto singolare - scrive il giudice Sarpietro nella sua ordinanza - giacché ci si trova di fronte a un manifesto contrasto tra la Procura e il Tribunale-Sezione reati ministeriali”. E davanti a “un fascicolo che fornisce elementi anche di carattere contradditorio ai fini della prospettazione accusatoria”, ha avviato una “integrazione probatoria” alla ricerca di “prove che appaiono essenziali per la decisione”, svolgendo di fatto anche la parte del pubblico ministero. Il nodo che il giudice vuole provare a sciogliere è se la scelta di trattenere i migranti sulla Gregoretti in attesa che gli altri Paesi europei accettassero di farsi carico della loro accoglienza fu un “atto politico” avallato dall’intero governo, come sostiene Salvini, o un “atto amministrativo” dettato da “finalità politiche” dell’ex titolare del Viminale che “ha determinato plurime violazioni di norme internazionali e nazionali”, come ritenuto dal tribunale dei ministri. Ecco allora la convocazione dei testimoni per “una adeguata verifica della politica adottata a livello governativo e in relazione ai rapporti con l’Unione europea, anche con riferimento al cosiddetto Patto di governo” sottoscritto da Lega e Cinque Stelle alla nascita del governo Conte 1. “Non è stato un fatto estemporaneo, per cui una mattina Salvini s’è svegliato e ha deciso di mandare a morire i migranti raccolti dalla Gregoretti”, ha protestato durante la discussione l’avvocata Bongiorno. Le ha risposto l’avvocato Massimo Ferrante, parte civile per conto di una famiglia nigeriana, unico rappresentate dell’accusa in aula assieme ai colleghi Daniela Ciancimino e Daniela Frenguelli per le associazioni Arci, Legambiente e Accogliete: “Il giorno in cui la Procura chiese l’archiviazione, l’ex ministro proclamò in un video “o si fa il riallocamento in Europa o dalle navi non scende nessuno”; in uno Stato di diritto non si può tentare di ottenere qualcosa dall’Unione europea sulla pelle di un pugno di migranti”. Se ne riparlerà con il premier, ministri ed ex ministri, ai quali l’avvocata Bongiorno intende aggiungere Enzo Moavero, il titolare della Farnesina nel governo Conte 1. Se otto anni di processo vi sembran pochi... di Antonio Polito Corriere del Mezzogiorno, 4 ottobre 2020 Per l’ex ministro Nunzia De Girolamo, che si dimise alla notizia dell’indagine, chiesta una condanna a 8 anni e 3 mesi. A volte ritornano. Come degli zombie, da un passato più o meno remoto, riaffiorano brandelli di processi dimenticati, o che credevi finiti, abbandonati, prescritti. Siamo ormai così assuefatti ai processi mediatici, ai giudizi emessi nella fase delle indagini, sulla base di mere ipotesi accusatorie, come se ordinanze di custodia cautelare o provvedimenti del tribunale della libertà fossero già sentenze, che poi quando arrivano al dibattimento sono già morti per l’opinione pubblica, e non fanno più notizia. Leggendo i quotidiani in questi giorni ho così appreso, con mio colpevole stupore, che il processo a Nunzia De Girolamo per reati che avrebbe commesso nella Asl di Benevento, è giunto alla requisitoria della pm, e che questi ha chiesto una condanna a 8 anni e tre mesi di carcere, roba da criminali incalliti. Il mio stupore dipende dal fatto che mi ero fermato al 2017, quando i giornali pubblicarono la notizia della archiviazione da parte del gip di Benevento. Solo che si trattava solo di una “tranche” (i processi si fanno spesso a tranche, un pezzo alla volta, anche se riguardano la stessa inchiesta), mentre un’altra tranche andava avanti, nonostante che l’ufficio dell’accusa avesse chiesto l’archiviazione; ed è infine arrivata, con un nuovo pm, alla richiesta di otto anni e tre mesi. Ci sono anche altre ragioni del mio colpevole stupore. Per esempio che i fatti relativi a questa inchiesta risalgano a otto anni fa (una persona indagata portò un registratore con sé a una riunione in casa De Girolamo e ne registrò alcune frasi sconvenienti, e il processo si basa su quelle, nemmeno su un’intercettazione). L’indagine cominciò sei anni fa, e alla notizia la De Girolamo si dimise da ministro. Nel frattempo ha cambiato partito, allora era nel Nuovo Centrodestra, poi era tornata in Forza Italia; inoltre ha cambiato vita, perché non fa più la politica ma il personaggio televisivo. E mi chiedo se sia giusto che a otto anni dai fatti, quando la sanzione politica è già arrivata (le dimissioni), siamo ancora a questo punto, e chissà quando finirà, perché per ora si tratta ancora e solo del primo grado. Non accade solo ai personaggi pubblici, ovviamente. Questa lentezza della giustizia tiene prigionieri tanti cittadini, innocenti o colpevoli non importa poi tanto, perché è in ogni caso una violazione del dettato costituzionale che dispone la “ragionevole durata del processo”. Ma nel caso di un personaggio pubblico, la cui credibilità e il cui lavoro si fondano esclusivamente sulla onorabilità, tanto che il semplice sospetto condusse giustamente l’imputata alle dimissioni dalla carica politica, il danno di una irragionevole durata delle imputazioni colpisce un requisito morale e professionale fondamentale della persona (anche di Piero Fassino è uscita ieri la notizia del rinvio a giudizio per vicende relative al periodo 2010-2015, quando era sindaco di Torino, e il processo comincerà nel maggio del 2021). Ora noi davvero non sappiamo se la De Girolamo è colpevole, e di che, e se la sua colpevolezza sia stata provata oltre ogni ragionevole dubbio nel processo. E siamo ovviamente convinti che la giustizia non si possa fermare e debba arrivare fino in fondo, e dunque i termini di prescrizione devono essere tali da non impedire l’accertamento della verità. Ma ci sono cose che il cittadino comune non capisce. Per esempio: all’udienza preliminare in corso a Catania per il processo contro Salvini, la Procura, cioè chi dovrebbe sostenere l’accusa, chiede di archiviare il processo perché il reato di sequestro di persona nel caso della nave Gregoretti non fu commesso. Però intanto quel processo è già avvenuto davanti al tribunale dell’opinione pubblica, il Senato si è espresso con un voto, e ognuno ha potuto emettere sentenze di condanna o di assoluzione pregiudiziali, emesse in base alle preferenze politiche. Ecco perché sveltire e semplificare il sistema giudiziario italiano è una urgente necessità. Nel nostro Paese abbiamo bisogno di ripristinare il circuito della fiducia, e questo non può che basarsi sulla certezza del diritto. Anche ai fini della rinascita economica. Come si può presumere, per esempio, che un amministratore o un funzionario pubblico si prenda la responsabilità di una decisione o di una firma quando sa che potrebbe restare impigliato per otto-dieci anni in un processo? Come ha detto di recente a Cernobbio l’ex ministro della giustizia Paola Severino, il rito accusatorio, di cui celebriamo ormai il trentennale, doveva basarsi su un meccanismo deflattivo che consentisse alla udienza preliminare di ridurre il numero dei casi che vanno a processo, dichiarando il non luogo a procedere quando le prove si rivelano insufficienti. Invece è prevalso un orientamento giurisprudenziale che spinge ad andare al dibattimento anche nel dubbio. Il che ingolfa il sistema, moltiplica i processi e di conseguenza allunga la loro durata, e tiene sospesi per troppo tempo gli imputati nel limbo del sospetto. Attenzione: se lo Stato non è in grado di investire massicciamente nella giustizia, e di riformare le norme esistenti, al fine di deflazionarla, l’esito non sarà un più efficace accertamento della verità, ma la perdita di ogni credibilità del sistema. La politica sequestrata dai giustizialisti di Alessandro Sallusti Il Giornale, 4 ottobre 2020 Opinionisti e presunti esperti di diritto lo avevano già condannato senza appello: Matteo Salvini va processato e condannato per il blocco dei porti del 2019. Invece non solo non la pensano così i pm che hanno in mano il suo fascicolo e che per ben due volte hanno chiesto il suo proscioglimento, ora anche il Gup il giudice che deve decidere sul rinvio a giudizio ha seri dubbi sulla fondatezza dell’ipotesi di reato (sequestro di persona). Al punto che ieri, invece che dare il via libera al processo, il Gup ha deciso per un approfondimento chiamando come testimoni il premier Conte, Di Maio, gli allora ministri Toninelli e Trenta oltre all’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Il prototipo del colpevolista militante si chiama Gianrico Carofiglio, ex magistrato, ex senatore del Pd, oggi scrittore famoso per il suo ego smisurato che esibisce con arroganza in numerosi salotti televisivi. L’altra sera, ospiti io e lui da Lilli Gruber a Otto e mezzo, con un tono accecato dall’odio ha contestato la mia tesi innocentista sul leader leghista: lei non sa nulla di giustizia mi ha apostrofato io invece ne so, conosco i codici e dico con certezza che il reato c’è stato. E giù con una complicata e noiosa lezioncina di diritto penale. Carofiglio, in linea con la migliore tradizione della sinistra, spaccia per verità assoluta ciò che non lo è, come dimostra l’udienza di ieri nella quale più di un magistrato in servizio ha avuto seri dubbi o addirittura escluso la colpevolezza di Salvini. In quanto a seminare odio, a manipolare la realtà e abusare del potere (mediatico, politico o giudiziario che sia) i democratici Carofiglio d’Italia non sono secondi a nessuno, al loro confronto Matteo Salvini è una educanda. Resto convinto che bloccare i porti in quel modo sia stata una mossa politicamente efficace, per quanto inutile (o comunque con effetti marginali) nella pratica. Ma sono altrettanto convinto che alla democrazia e all’immagine del Paese, rispetto a quelle forzature, abbia fatto assai più male questa inchiesta farsa, indipendentemente da come andrà a finire. Se in questa storia c’è un sequestrato non è certo il povero immigrato. Qui hanno provato a sequestrare la libertà fisica di Matteo Salvini e, cosa più grave, la libertà d’azione della politica. Cassazione: “I periti dell’accusa devono avere priorità” di Massimo Malpica Il Giornale, 4 ottobre 2020 La sentenza sancisce una “disuguaglianza” fra i pm e la difesa. Ed esplode la polemica. Accusa e difesa sono pari davanti al giudice, ma a dirla tutta l’accusa è un po’ più pari. La conclusione paradossale, e uno schiaffo in più al principio della parità delle parti processuali, arriva con la sentenza 16458 della terza sezione della Corte di Cassazione penale che ha respinto il ricorso di una signora barese condannata per aver demolito un rudere in zona con vincolo paesaggistico ricostruendo poi un nuovo fabbricato. Solo che la donna, nel ricorso, lamentava come la corte d’Appello che l’ha condannata avesse ignorato la sua consulenza di parte (che definiva l’intervento come ristrutturazione) aderendo invece in pieno alla perizia disposta dal pm. Ed eccoci al punto. Perché la Cassazione, nella sentenza, rimarca proprio come non sia censurabile la sentenza di condanna oggetto del ricorso per essersi allineata alle conclusioni del perito del pubblico ministero, e mette nero su bianco che “pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa”. Chiaro? Il consulente tecnico incaricato dal pm gode dunque di una maggiore attendibilità, stando alla pronuncia della Cassazione che ha dichiarato inammissibile il ricorso. E ha affermato un precedente inquietante che fa a cazzotti, appunto, con il principio della parità delle parti. La sentenza, peraltro, insiste sul punto, definendo più avanti gli accertamenti del consulente del pm portatori di “una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio”. Il tutto proprio perché il pm, argomenta la Terza sezione della Cassazione, sarebbe super partes, avendo “per proprio obiettivo quello della ricerca della verità”, un obiettivo discutibile, nella pratica che secondo la Suprema corte è “concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità”, e al quale prosegue la sentenza, dovrebbe allinearsi anche il lavoro del consulente nominato dal pm, “dovendosi necessariamente ritenere che si operi in sintonia con tali indicazioni”. Insomma, i giudici salentini che hanno condannato la donna, per la Cassazione, bene hanno fatto a fidarsi della perizia del consulente del pm senza verificare gli abusi denunciati con un ulteriore accertamento peritale, “del tutto inutile per l’accertamento dei fatti e per la speditezza del processo”. Peccato che il pm “super partes” dovrebbe in realtà rimanere una parte del processo, e che l’obbligo di acquisire elementi anche a favore dell’indagato da parte del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari è, nella pratica, piuttosto trascurata. Tanto che questa pronuncia apre una pericolosa breccia nel già fragile principio che vorrebbe il contraddittorio tra le parti nel processo svolgersi in condizioni di parità. Mentre si parla tanto di riforme nel campo della giustizia, sarebbe cosa buona che i giudici della Suprema corte non certificassero come dato assodato - oltre che condivisibile, a leggere la sentenza - lo squilibrio nel processo tra accusa e difesa. Campania. “Tutti i detenuti devono avere la possibilità di laurearsi”, la proposta di Ciambriello di Francesca Sabella Il Riformista, 4 ottobre 2020 “Una cabina di regia con il compito di uniformare sull’intero territorio regionale le metodiche e le procedure per garantire a tutti i detenuti il diritto allo studio, che vuol dire poter costruire il futuro da dentro per il fuori. Sapendo che il diritto allo studio si coniuga con il diritto a ricominciare, anche per i diversamente liberi”. Questa la proposta di Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti, intervenuto durante l’incontro nella casa circondariale Pasquale Mandato di Secondigliano, sull’importanza del polo universitario in carcere e il diritto allo studio per i reclusi. Proposta lanciata alla presenza del ministro dell’Università ed ex rettore della Federico II Gaetano Manfredi. In Campania ci sono molti diplomati che vivono dietro le sbarre: sono 514, che se adeguatamente supportati potrebbero continuare gli studi e conseguire una laurea. Oggi la nostra regione ospita 6.428 detenuti, 69 dei quali sono laureati, 40 risultano essere privi di titolo di studio e 282 sono analfabeti. Due anni fa nel carcere Pasquale Mandato è stato inaugurato il Polo universitario penitenziario regionale per i detenuti della Campania e le richieste di iscrizione ai vari corsi di studio non sono tardate ad arrivare: sono circa 50 i detenuti che si sono immatricolati per l’anno 2018-2019 e studiano per conseguire la laurea in Sociologia, Giurisprudenza, Scienze politiche e c’è stata una maggiore richiesta per la facoltà di Economia, Lettere moderne e Scienze gastronomiche. Per l’anno in corso, invece, sono state 54 le richieste di immatricolazione che, sommate a quelle dell’anno scorso, fanno salire a 111 il numero di reclusi impegnati nello studio. Nel resto del Paese, invece, a fronte di una popolazione carceraria di circa 61mila persone, sono 796 i detenuti studenti, iscritti in 30 università e nel 25 per cento dei casi dediti a discipline politico-sociologiche. Samuele Ciambriello durante l’incontro ha sottolineato anche le criticità da risolvere al più presto: pochi fondi per l’acquisto di attrezzature tecnologiche e libri di testo, mancano spazi e volontari dediti all’insegnamento, c’è una scarsa attenzione da parte dei magistrati di sorveglianza sia sulla possibilità di includere la promozione dell’istruzione nel “piano trattamentale” sia sui benefici degli studenti che frequentano l’università. Infine, ci sono tempi troppo lunghi per gli spostamenti del detenuto al Polo universitario e occorre rivedere l’esclusione delle donne dagli studi. Tutto questo incide sul diritto allo studio dei reclusi. Come agire? “Serve una stretta collaborazione tra Regione e università. Bisogna garantire più ore ai tutor, valorizzando i cultori della materia, il cuore dei poli universitari dovrà essere rappresentato dalle biblioteche - ha spiegato il garante regionale dei detenuti - e occorre organizzarsi per continuare la formazione anche in tempo di pandemia”. Tutto questo per consentire a chi vive in cella di potersi istruire. Perché studiare vuol dire conoscere e conoscere permette anche di decifrare la realtà che si ha attorno, di avere strumenti nuovi per viverla e di riflettere sugli errori commessi in vista del reinserimento nella società. Lo scopo della detenzione, d’altra parte, dovrebbe essere proprio questo. Napoli. “In carcere salvato dal Vangelo. Temo più certa antimafia che la mafia” di Emanuele Imperiali Corriere del Mezzogiorno, 4 ottobre 2020 Un passato da spacciatore, adesso gestisce una fattoria didattica a Scampia “Alcune associazioni che operano alle Vele vogliono soltanto fare business”. “Sono un analfabetizzato di ritorno”. Così ama definirsi Davide Cerullo, in un dialetto napoletano dolcissimo e appassionante. Lo incontro a Bologna, al Festival del lavoro organizzato da Osvaldo Danzi e Stefania Zolotti di “Senza Filtro-Nobilita”, dove tante persone, tra i 30 e i 50 anni, affollano l’auditorium di Fico. Cosa ha da dire un ex detenuto, un ex malavitoso delle Vele di Scampia dove spacciava droga e l’hanno arrestato, a tanti esperti di lavoro? “Vedi - replica sornione - il lavoro nobilita l’uomo, il non averlo lo rende come le bestie. La criminalità organizzata prospera proprio dove c’è fame di occupazione. Gomorra ha fatto un gran male a noi di quel territorio, perché i suoi personaggi diventano miti distorti per i giovani. Perciò sono venuto, per testimoniare il dramma di tanti ragazzi delle periferie di Napoli che vivono un grado di disperazione che fa paura”. Come un delinquente cambia pelle e decide di redimersi, attraverso il drammatico percorso del carcere? “Quando ero nella malavita la morte e la galera non mi spaventavano, la disperazione, invece, sì”. Perché sei diventato uno spacciatore? “Avevo 14 fratelli tutti malavitosi, a cominciare da mia madre che conservava droga e armi per i clan. Non mi potevo permettere, mi umiliava avere le scarpe rotte, una camicia di taglia troppo grande o troppo piccola, gli altri coetanei mi prendevano in giro. Appena diventato spacciatore, a 14 anni, guadagnavo un milione di lire al giorno”. Cerullo dal palco bolognese parla di dignità di vivere, non di sopravvivere. Davide, cosa comporta entrare nella camorra? “È l’unica mafia nella quale puoi aderire subito, nella ‘ndrangheta sei costretto a un lungo tirocinio. In quartieri come Scampia è facile trovare chi si serve di te, pagandoti, ma il prezzo è la propria libertà, quando non la vita”. Poi Cerullo ci tiene a chiarire una cosa: “C’è la malavita e c’è la mala gente, come chi ti offre un lavoro dandoti 70 euro a settimana, perché tanto guadagna un ragazzo in un negozietto delle periferie”. Il carcere e il rispetto da boss Davide, raccontaci l’esperienza del carcere: “Ho incontrato gente dei padiglioni Napoli e Palermo a Poggioreale che soffre molto, tossicodipendenti che non sono assistiti. Capisci di non essere più una persona. Un ragazzo una volta mi ha detto di sentirsi addosso la puzza di chiuso, aggiungendo che sapeva di aver sbagliato, e che era giusto pagarne il prezzo, ma era inaccettabile che oltre a privarlo della libertà gli togliessero anche la dignità di esistere”. Davide è stato in carcere un anno, nel ‘92, aveva 18 anni e un giorno, ma si faceva già rispettare, perfino dai boss. “Sarei dovuto andare nel padiglione “Genova” di Poggioreale, invece mi hanno recluso in quello Avellino, alla stanza numero 31, dove eravamo in 25 in una cella, 25 criminali con un unico bagnetto e un cucinino. Alla 30 c’era l’intero clan camorristico dei Sarno di Ponticelli. La mattina alle 5 ci buttavano giù dalle brande per il controllo e buttavano tutto all’aria. La notte spesso non riuscivamo a chiudere occhio per le urla e le grida”. Capisci perché chi entra in quella “scuola di vita” ne esce più criminale di prima. Una volta Cerullo ha litigato con un Sarno, volevano regolare i conti a coltellate, “un mio compagno mi impedì di uscire per l’ora d’aria, altrimenti mi avrebbero ammazzato”. Poi, la svolta, quel Vangelo trovato un giorno sulla branda, rientrato dall’ora d’aria: “Lo sai che nel Vangelo del carcere ci sono due pagine strappate perché le presi io e le conservai, ma mi vergognavo a leggerle davanti agli altri”. Perché Davide, ti consideravi San Paolo convertito sulla via di Damasco? “Le presi perché in quelle pagine ricorreva tante volte il nome Davide, e capii che un carcerato, ancor più che di giustizia, ha bisogno di misericordia”. Quando esce da Poggioreale Cerullo si sente cambiato dentro, incontra le persone giuste, decide di rinascere ai propri occhi oltre che a quelli del suo mondo di sempre. Oggi Davide è un altro uomo, ha capito che la vera scommessa è l’istruzione, che la scuola deve essere maestra di vita, come diceva don Milani, secondo il quale l’abbandono scolastico è la vera piaga sociale. Il ritorno a Scampia - Dopo essere stato sei anni a Modena, è tornato a Scampia, ha pubblicato un libro di fotografie con una casa editrice francese, ha creato nel quartiere una fattoria didattica con l’asinello Ciro, il cane Coco, le caprette; si chiama “L’albero della Storia”, e accoglie i bambini della zona. Su un punto non transige: “Sappi che ho più timore dell’antimafia che della mafia, perché tra le 80 associazioni che operano alle Vele e dintorni la volontà è spesso quella di sostituirsi allo Stato, per fare business”. Il messaggio è chiaro: spetta alle Istituzioni il compito di risanare le periferie degradate. Cagliari. Carcere di Uta ancora in sofferenza: 572 detenuti per 561 posti cagliarilivemagazine.it, 4 ottobre 2020 “Il mese di settembre si è chiuso con un altro dato negativo per la Casa Circondariale di Cagliari, ubicata nel territorio del Comune di Uta, a 23 chilometri da Cagliari. I dati del Ministero rivelano infatti che a fronte di 561 posti disponibili sono recluse 572 persone (lo scorso 31 agosto erano 563). Un numero che, superando abbondantemente il limite regolamentare, fa riflettere sulla situazione dell’Istituto più grande della Sardegna, dove spesso si registrano numeri in crescita. Ma a destare preoccupazione è la presenza nell’Istituto di Sassari-Bancali di una donna straniera con una creatura al seguito. Ancora una volta un neonato (o neonata) è costretto a vivere in cattività senza colpe. L’auspicio è che si tratti di una condizione temporanea e che si provveda al più presto a trovare una alternativa al carcere per garantire al piccolo un ambiente adeguato alle sue esigenze”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris di Socialismo Diritti Riforme commentando i dati del Ministero della Giustizia che fotografano la realtà isolana dietro le sbarre al 30 settembre. “Complessivamente - sottolinea - il numero dei detenuti in Sardegna è quasi stabile, anzi si riscontra una lieve flessione. Attualmente infatti sono ristretti nei 10 istituti 2.047 detenuti (39 donne) erano 2051 (37 donne) lo scorso 31 agosto. Si conferma senza flessioni significative anche la presenza di stranieri passati da 550 a 540 (26,3%) con il “picco” dell’82% a “Is Arenas”, dove su 73 detenuti gli stranieri sono 60, e del 79,5% a “Mamone”, dove invece su 132 presenti gli stranieri sono 105. Invariato anche il numero dei detenuti nelle Colonie Penali dove a fronte di 613 posti ci sono 271 detenuti che possono lavorare in campagna o svolgere diverse attività legate alle produzioni agro-pastorali”. “Destano perplessità e sorpresa la scarsa attenzione che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia riservano in particolare alle Colonie Penali, oltre al sistema penitenziario sardo nel complesso. Le carenze d’organico di Agenti, Funzionari giuridico-pedagogici, amministrativi, vice direttori e Direttori sembrano rendere davvero difficile - conclude Caligaris - quel percorso riabilitativo e d’integrazione sociale delle persone recluse, indispensabile per rispettare pienamente l’art. 27 della Costituzione”. Rossano (Cs). Coronavirus: detenuto positivo, è in isolamento di Anna Russo Gazzetta del Sud, 4 ottobre 2020 Caso di Covid accertato nel carcere di Rossano: si tratta di un detenuto. A quanto si è appreso siamo in presenza di un “caso di ritorno”, ossia di un detenuto che era tornato per un periodo nel paese di origine usufruendo di un permesso premio e poi rientrato alla data stabilita in carcere. In base alle disposizioni vigenti, i detenuti che fanno rientro in carcere vengono posti in una stanza di isolamento e sottoposti a tampone prima di poter rientrare nella propria cella e venire in contatto con gli altri detenuti. Procedura che è stata osservata anche per il detenuto in questione e che ha permesso di accertare la positività al Covid. Ciò per fortuna ha permesso di scongiurare un contatto di diretto con il soggetto risultato positivo e gli altri detenuti evitando di dar vita a un possibile focolaio. Scattate quindi tutte le attività previste di isolamento del paziente, mentre si sta procedendo in queste ore a scopo meramente precauzionale a sottoporre a tampone il personale impegnato nella struttura, che comunque da tempo ha attuato tutti i protocolli anti contagio. Con il caso accertato di venerdì scorso del carcere salgono a 89 complessivamente i casi di soggetti positivi a Corigliano Rossano dall’inizio della pandemia. Dopo una primavera del tutto tranquilla anche il comune unico ha risentito della seconda ondata del virus che ha iniziato a circolare nella popolazione soprattutto per casi di ritorno. Ora si spera che seguendo scrupolosamente le indicazioni anticovid si ritorni al più presto ad una situazione di relativa tranquillità mantenendo comunque alta l’attenzione. Alba (Cn). Bando per la nomina del Garante comunale dei detenuti targatocn.it, 4 ottobre 2020 Il sindaco di Alba Carlo Bo deve nominare il “Garante comunale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale” istituito con deliberazione del Consiglio Comunale n. 56 del 26/06/2015. Il garante resta in carica cinque anni e può essere confermato una sola volta. Requisiti: esperienza nel campo delle scienze giuridiche; dei diritti umani; delle attività sociali presso istituti di prevenzione e pena e/o all’Ufficio per l’esecuzione penale esterna; nel campo delle attività sociali. Il ruolo è incompatibile con altre cariche istituzionali, anche elettive, ovvero incarichi di responsabilità in partiti politici. Non può essere un dipendente del Comune di Alba e dell’Amministrazione della Giustizia. Non possono essere candidati coloro che hanno riportato le condanne definitive, o condanne per delitti contro l’Amministrazione della Giustizia. Il garante non ha diritto ad indennità od emolumenti per l’attività prestata, solo diritto al rimborso delle spese sostenute, autorizzate e documentate. Le candidature dovranno arrivare entro e non oltre le ore 12.00 di martedì 20 ottobre 2020 alla Segreteria Generale del Comune di Alba (Ufficio Contratti) - Piazza Risorgimento n. 1 - 12051 - Alba, attraverso l’indirizzo pec comune.alba@cert.legalmail.it, a mano all’Ufficio stesso o tramite e-mail: segreteriagenerale@comune.alba.cn.it con oggetto: “Candidatura per il Garante dei Detenuti”. La domanda deve essere completa di nome e cognome, luogo e data di nascita, residenza, domicilio, codice fiscale, recapito telefonico, e-mail ed eventuale indirizzo Pec e corredata della seguente documentazione: curriculum vitae dettagliato, sottoscritto in calce e dichiarato veritiero sotto la propria responsabilità, dal quale si evinca il possesso dei richiesti requisiti; titolo di studio; attività lavorativa svolta. Ulteriori dettagli sul bando pubblicato integralmente sul sito web comune.alba.cn.it e all’Albo Pretorio on line dal 03/10/2020. Per eventuali informazioni: 0173.292271. Sulmona (Aq). Entro fine anno sarà aperto il nuovo padiglione del carcere di Barbara Delle Monache espressione24.it, 4 ottobre 2020 Sarà aperto entro fine anno il nuovo padiglione detentivo del carcere di Sulmona. A deciderlo la Commissione 2ª (Giustizia) - seduta n. 194, dello scorso mercoledì 30 settembre 2020, il Ministro Alfonso Bonafede ed il Capo Dap Bernardo Petralia hanno partecipato una serie di iniziative politiche sulle nuove assunzioni e sull’edilizia penitenziaria. Alla stregua della notizia annunciata a livello nazionale la Fp Cgil chiede l’adeguamento degli organici di Polizia Penitenziaria. “Il carcere di Sulmona ha bisogno di più personale - scrive Giuseppe Merola -. Questo abbiamo scritto nella lettera inviata alle rappresentanze istituzionali in modo da poter fronteggiare una prossima ed articolata gestione del lavoro, vista anche gli affanni che già si stanno verificando”. In chiosa al documento il sindacalista scrive: “Non accetteremo mai di assistere a nozze con i fichi secchi. Tuteleremo, in ogni sede, i nostri lavoratori e le nostre lavoratrici”. Saluzzo (Cn). La lettera dei detenuti del carcere Morandi alla cittadinanza targatocn.it, 4 ottobre 2020 “Il dramma del Covid-19 ci ha risparmiato. Abbiamo compreso l’importanza delle attività culturali nel momento in cui ne siamo stati privati”. L’8 settembre la data in cui si festeggia l’Armistizio e la nascita della Resistenza è simbolicamente stata scelta per inviare ogni anno una lettera ai cittadini. Quest’anno arriva un po’ in ritardo per via dell’emergenza sanitaria. Anche quest’anno, dopo quella prima volta dell’8 settembre 2018, non vogliamo venire meno all’impegno che avevamo preso. È vero, siamo in ritardo di un mese rispetto all’8 settembre, data in cui si festeggia l’Armistizio e la nascita della Resistenza che simbolicamente avevamo scelto per inviare una nostra lettera alla cittadinanza. Chiediamo scusa per il ritardo, ma il 2020 è stato l’anno del Coronavirus. In questi mesi di chiusura totale ci è venuta a mancare la nostra figura principale, la nostra guida, il nostro docente Pietro Tartamella dell’associazione di promozione sociale Cascina Macondo, colui che ci ha introdotto e accompagnato in questi anni nel mondo magico della scrittura e della poesia e che, come tutti gli altri professori e volontari, è rimasto bloccato all’esterno delle mura. È stata per noi una grande perdita. L’unico modo di comunicare o di interagire con lui in questi mesi è stato solamente tramite lettera. Di solito, diverse settimane prima della data prevista, cominciavamo a discutere tra di noi, cercando di individuare i contenuti che avremmo scritto: appunti, bozze, rifacimenti venivano letti e corretti in continuazione ogni giorno, per trovare le parole giuste da inserire in quella che poi sarebbe diventata la lettera definitiva. Quest’anno non ci è stato possibile dedicare così tanto lavoro alle revisioni e alle riletture, e non ci è stato possibile essere puntuali. Per noi, mantenere questo impegno, non è così semplice, come di primo acchito può sembrare, e un anno, anche se lungo, passa velocemente, così velocemente che siamo arrivati agli sgoccioli della scadenza senza nemmeno rendercene conto. Il dramma del Covid-19 non ha certo risparmiato il carcere. Tutte le attività trattamentali e scolastiche sono state bruscamente e completamente interrotte, anche a causa di alcuni contagi provenienti da detenuti incautamente trasferiti a Saluzzo da altre zone infette d’Italia. Non aver avuto più alcun contatto con il mondo libero ha molto aumentato il nostro isolamento oggettivo e la sua percezione. Abbiamo anche dovuto fare a meno delle visite dei famigliari, particolarmente preziose per i reclusi. Di contro sono aumentate le nostre telefonate ai famigliari, comprese le videochiamate, completamente innovative rispetto al consueto. Come sempre avviene, abbiamo compreso l’importanza delle attività culturali nel momento in cui ne siamo stati privati ed è dura sentirsi tagliati fuori dal contesto sociale. Per questo motivo, nonostante si comprenda la necessità della tutela sanitaria e i limiti che questa impone, non vediamo l’ora che l’emergenza termini, in modo da poter nuovamente fruire di tutte le opportunità culturali che il contatto con gli operatori esterni ci consentiva. Voi del mondo libero, tra ogni sorta di paure e chiusure di ogni genere e, per ultimo, privati anche di molte libertà, siete andati avanti giorno dopo giorno per contrastare questo male nuovo che è il Coronavirus. Anche qui, in carcere, i giorni sono volati, impegnati nel seguire con attenzione e dispiacere le notizie che i Tg ci davano su quello che succedeva fuori da queste mura. Per fortuna durante l’anno nessuno di noi del gruppo è morto, qualcuno è stato trasferito, uno è andato in semilibertà, altri si sono aggiunti, quindi a conti fatti è già un gran successo visto dal nostro punto di vista. L’impegno che ci siamo presi vuole portare una parola dal mondo carcerario al mondo esterno, cercando di far convivere questi due mondi, il vostro e il nostro. Forse qualcuno penserà che queste nostre parole siano dette così, tanto per dire. Ma forse ci sarà qualcuno, magari anche solo una persona che, leggendo queste righe, sentirà la nostra vicinanza ai tristi giorni passati e a quelli che verranno, e ci auguriamo che possa essere d’aiuto e conforto per tutti. Crotone. Concluso il giro di incontri istituzionali del Garante dei detenuti ildispaccio.it, 4 ottobre 2020 Nei giorni scorsi il Garante comunale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale Federico Ferraro, ha concluso una serie di visite istituzionali con i vertici delle Forze dell’Ordine di recente insediamento ai nei Comandi provinciali, per realizzare quella sinergia prevista dalla normativa tra il ruolo stesso di garante e le istituzioni locali. Il Garante ha incontrato nel corso della settimana il nuovo Comandante Provinciale dei Carabinieri di Crotone, Tenente Colonnello Gabriele Mambor, ed il nuovo Comandante della Capitaneria di Porto, Capitano di Vascello Vittorio Aloi. Il Garante ha riscontrato una rilevante attenzione e sensibilità istituzionale verso le tematiche e le problematiche della detenzione carceraria e dei soggetti sottoposti a restrizione della libertà personale come anche degli ex detenuti; il garante esprime soddisfazione per la disponibilità riscontrata da parte delle istituzioni a valutare l’opportunità di attuare una risposta istituzionale verso i problemi delle persone recluse. Per i detenuti ciò che costituisce aspetto primario è sicuramente l’iter formativo nel lavoro, finalizzato ad un ritorno in società attivo: occorre dunque acquisire durante la detenzione quelle competenze e abilità lavorative da spendere successivamente. È mia intenzione far partire, nonostante l’emergenza Covid delle iniziative progettuali in tal senso. La questione della formazione è aspetto a tutto tondo perché coinvolge la società nel suo complesso. Gli incontri sono stati molto cordiali ed il garante comunale ha avuto modo di evidenziare la sussistenza, fin dal 2018, di un Protocollo d’intesa tra il Comando generale dei Carabinieri ed il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, finalizzato alla promozione di progetti formativi comuni, all’implementazione della cultura dei diritti umani fondamentali, nonché ad organizzare seminari e tavole rotonde per la condivisione delle esperienze e il miglioramento delle rispettive capacità d’intervento dei garanti e delle Forze dell’Ordine. Si sta valutando anche l’opportunità di avviare incontri informativi e progettualità che guardino agli sbocchi lavorativi anche nell’ambito marittimo: parole chiave saranno formazione qualificata, quindi titoli spendibili e reinserimento nella nostra realtà. Occorre valorizzare il potenziale sviluppo della nostra città nell’ambito turistico, come portatore di sviluppo sociale, culturale ed economico. “Sunless Shadows - Ombre senza Sole”, di Mehrdad Oskouei di Susanna Paparatti osservatoreromano.va, 4 ottobre 2020 Il documentario girato in un centro di detenzione minorile iraniano. Le inquadrature si alternano fra momenti di ordinaria condivisione di giornate e spazi: l’apparecchiatura della tavola, una festa di compleanno, piccole intimità con i loro bimbi, giochi e persino risate e, se non fosse per i momenti di spiegazioni e lacrime, non si avrebbe la percezione di essere nel vortice di uno spaccato reale e drammatico che loro, le giovani detenute, vivono apparentemente senza prendere coscienza trovando, all’omicidio commesso che le ha portate in carcere, motivazione e giusta reazione verso una società aggressiva. Omicidi compiuti talvolta assieme alle madri delle quali sono state complici e che sono detenute in un’altra ala dell’istituto. Così la cinepresa del regista Mehrdad Oskouei, nato a Teheran nel 1969, è stata testimone della quotidianità di un gruppo di ragazze rinchiuse in un centro di detenzione minorile per aver ucciso il padre, il marito o un altro componente maschile della famiglia. Il documentario intitolato “Sunless Shadows - Ombre senza Sole” - aprirà la sezione dedicata al cinema dell’XI edizione di Middle East Now 2020 festival di cinema arte e cultura medio orientale in calendario a Firenze dal 6 all’11 ottobre. Ideato e organizzato dall’associazione culturale Map of Creation, si svolgerà in diversi luoghi fra i quali il Cinema La Compagnia, MAD Murate Art District. La manifestazione è sempre stata sensibile alle tematiche sociali attuali, al racconto di esse, all’essere interprete di culture del Medio Oriente che gli organizzatori ritengono dover essere meglio conosciute e approfondite in ogni ambito: cinema, documentari, mostre, musica, cibo, incontri ed eventi speciali. Una rassegna che rispetterà ovviamente le precauzioni sanitarie in vigore, con proiezioni fisiche, ovvero tornando in sala, e proiezioni online sulla speciale sala virtuale Più Compagnia in collaborazione con My Movies che garantirà ad una più vasta platea di spettatori la visione dei film in anteprima. Visual Voices è il tema di questa edizione del festival e mai come oggi immagini e narrazioni si possono rivelare strumento efficace per rendere tangibili messaggi di cambiamento, culturale e sociale. “Faccio riprese nei Centri di correzione e riabilitazione da dodici anni - ha spiegato il regista Oskouei - ho visto tante carceri e prigionieri che mi hanno sempre affascinato. Il mio film si concentra sull’atto dell’omicidio. Non tanto il “come” ma più sul “perché”. Le donne che uccidono i loro mariti mostrano pochissimo rimorso, anche dopo anni di prigione ma perché una madre dovrebbe uccidere con l’aiuto di sua figlia? Cosa è successo nella sua vita per portarla a un tale atto? Volevo esaminare il loro gesto da varie prospettive, capire le loro “ragioni” e capire come portano il fardello delle loro azioni per anni e anni”. Fotografo e ricercatore, laureato in regia cinematografica all’Università delle Arti ha all’attivo numerosi film apprezzati dalla critica durante festival in patria e all’estero. Nel 2010 ha ricevuto l’olandese Prince Claus Award, è membro fondatore dell’Istituto di antropologia e cultura nonché ambasciatore culturale per il Comitato umanitario delle Nazioni Unite Ucha. L’elenco delle pellicole è dunque corposo, con trentasette titoli in programma - già premiati nei migliori festival internazionali - fra i quali tredici cortometraggi, ventuno anteprime italiane, 10 internazionali e due mondiali. Un viaggio in Paesi molto diversi dal nostro che proprio per questo necessitano essere conosciuti anche oltre i pregiudizi e le convinzioni, oltre la politica che non sempre rispecchia la volontà della gente, anche nelle piaghe culturali e sociali delle quali sono vittime e carnefici le adolescenti di Sunless Shadow. Uno spaccato illustrato viaggiando in Iran, Iraq, Israele, Palestina, Egitto, Emirati Arabi, Kuwait, Afghanistan, Siria, Algeria, Marocco, Tunisia. Particolare attenzione sarà dedicata al Libano e a Beirut. In calendario fra i progetti speciali “7x7. Seven by Seven. Transcultural Narratives from The Middle East and North Africa” che riunisce gli scatti di sette giovani fotografi mediorientali chiamati a illustrare le loro città - Baghdad, Beirut, Marrakesh, Teheran, Dubai, Istanbul e Algeri - ognuno in un giorno preciso della settimana. E ancora tra le iniziative speciali “Medio Oriente a fumetti”: storie a colori e in bianco e nero che si prefiggono di narrare in chiave alternativa la vita e la cronaca delle città, accompagnate da una serie di talk con gli autori. Da Lampedusa il grido dei migranti: “Basta stragi in mare” di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 ottobre 2020 Sull’isola il ricordo della strage del 3 ottobre 2013. Da quel giorno altre 20mila persone hanno perso la vita nello stesso mare. Nessuna autorità politica nazionale presente alle celebrazioni. “Le autorità italiane e internazionali dissero “mai più”, invece da quel giorno sono morte nello stesso mare 20mila persone”, dice Tareke Brhane, attivista del Comitato 3 ottobre. In quella data, sette anni fa, trecento sessantotto vite umane furono inghiottite dalle acque che bagnano Lampedusa. Le coste dell’isola erano ormai a vista. Ieri come ogni anno sulla più grande delle Pelagie si sono dati appuntamento sopravvissuti (in tutto furono 151), famiglie delle vittime e una rappresentanza di circa 50 studenti di diverse scuole italiane (da Puglia, Lazio, Trentino e altre regioni). A causa delle misure anti-pandemia le partecipazioni sono state in numero ridotto. La tradizionale marcia da piazza Castello alla Porta d’Europa, il monumento in memoria di chi ha perso la vita in mare, è stata percorsa solo da poche persone per evitare assembramenti. Le altre hanno atteso sullo scoglio incorniciato dall’opera dell’artista Mimmo Paladino. “Molti studenti si sono commossi ascoltando le storie dei sopravvissuti e le testimonianze di quel terribile giorno”, racconta Don Mussie Zerai, prete cattolico nato ad Asmara e candidato nel 2015 al Premio Nobel per la pace in virtù del grande impegno a favore dei rifugiati. Dopo gli interventi e le preghiere, i familiari delle vittime hanno regalato a ragazze e ragazzi un fiore da lanciare in mare mentre insieme ai sopravvissuti si dirigevano a bordo dei pescherecci per depositare delle corone floreali nel luogo del naufragio. Alle 18 si è tenuta la preghiera ecumenica officiata dal cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento. Alle iniziative non ha partecipato nessuna autorità politica nazionale. Si è visto solo il sindaco di Lampedusa Totò Martello. Di queste assenze non ha colpa il Covid-19. L’attenzione dei politici si è andata riducendo negli anni e già nel 2019 i rappresentati delle istituzioni erano stati assenti ingiustificati. Quel che è peggio, racconta chi ha partecipato alle diverse cerimonie, è che anche tra la popolazione dell’isola c’è stato un cambio di sensibilità forse riflesso nella ridotta partecipazione dei pescatori: i primi anni erano tanti, ieri solo due o tre. Segno che i discorsi d’odio e la disumanizzazione delle persone migranti rischiano di attecchire perfino nei luoghi che del mare hanno la cultura più profonda. Quella dell’incontro tra diversi, del soccorso come imperativo morale, della contaminazione. “Oggi si ricordano i 368 morti del 3 ottobre a Lampedusa, ma si impedisce il soccorso in mare. Proprio la memoria dell’orrore che ho visto quel giorno di 7 anni fa rende penosa la celebrazione di morti che continuano a morire. La Memoria pretende l’azione per fermare le stragi”, ha twittato l’ex sindaca dell’isola Giusy Nicolini. Due le richieste principali della mobilitazione. “Primo, i sopravvissuti vogliono che sia fatta piena luce su ciò che è accaduto, continuano a ripetere che due imbarcazioni li hanno avvicinati senza soccorrerli - afferma Don Zerai - Secondo, nessun altro essere umano deve essere costretto a rischiare la vita attraversando il mare: servono canali legali di ingresso e un lavoro sui paesi di partenza”. C’è un aspetto della strage del 3 ottobre che non va dimenticato. Lo sottolineò molte volte Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore scomparso prematuramente, nel suo splendido libro La frontiera. 360 dei 368 morti erano eritrei. Non è un dettaglio secondario. “Sono arrivato in Italia nel 2015 e non ho mai ascoltato una presa di posizione di un governo di qualsiasi colore politico su ciò che accade in Eritrea. Questa è la cosa che mi stupisce di più. Quando arrivano 500 tunisini i politici italiani vanno subito a Tunisi, ma a nessuno sembra interessare perché migliaia di giovani fuggono dal nostro paese”, dice Brhane. Oltre a quella di Lampedusa ci sono state piazze in diverse città d’Italia: da Palermo a Brescia, da Milano a Pescara. Alle mobilitazioni hanno partecipato anche le Ong attive nei salvataggi in mare. A Roma i manifestanti hanno chiesto: riforma della cittadinanza, abolizione dei decreti sicurezza e cancellazione degli accordi con la Libia. La legge sulla cittadinanza va riformata, non servono gli sconti di Lucia Ghebreghiorges L’Espresso, 4 ottobre 2020 Dal caso Suarez alla realtà degli italiani senza cittadinanza. Se un calciatore straniero può diventare cittadino in due settimane, perché degli italiani di fatto devono aspettare quattro anni? Il 3 ottobre in piazza a Roma per chiedere un cambio di passo al governo, che finora ha solo peggiorato le norme. Passato il brivido delle regionali che minacciavano la tenuta della maggioranza, il centrosinistra torna a chiedere con più convinzione le modifiche dei decreti sicurezza lasciate in panchina durante l’estate in attesa di venti migliori. Il testo sembra infatti finalmente essere prossimo all’esame del Consiglio dei Ministri, come recentemente annunciato dalla stessa ministra Luciana Lamorgese. A fronte di una notevole apertura alle modifiche relative al capitolo accoglienza e protezione umanitaria, per quel che riguarda la cittadinanza al momento si interviene solo con una riduzione da 48 a 36 mesi dei tempi di attesa per la valutazione delle richieste. Un anno di sconto, a fronte dei 2 anni previsti prima del decreto Salvini e con le altre misure sostanzialmente rimaste ancora in piedi, quali ad esempio l’aumento del contributo a 250 euro per la domanda e la possibilità di revoca della cittadinanza. Proprio sulla riduzione dei tempi di valutazione della domanda è di questi giorni la lettera- appello del movimento Italiani senza cittadinanza indirizzata alla ministra dell’Interno, con chiaro riferimento al caso del calciatore Suarez: “Se un calciatore straniero può o ‘devè diventare cittadino in due settimane, perché degli italiani di fatto devono aspettare quattro anni?”. Nella missiva anche la richiesta di un ripristino ai 2 anni di attesa, giudicati più che sufficienti per l’esame della domanda. Contestualmente si torna a parlare di riforma della legge sulla cittadinanza in seguito all’apertura del premier Giuseppe Conte a valutazioni sul caso. Inoltre, diverse realtà di figli dell’immigrazione lanciano un’iniziativa sul tema nella speranza di una stagione dei diritti più favorevole. L’appuntamento è per il 3 ottobre con una manifestazione a Roma a piazza Santi Apostoli, promossa da diverse realtà: Nibi - Neri Italiani Black italians, Conngi - Coordinamento Nazionale Nuove Generazioni italiane, Black Lives Matter Roma, Eritrea democratica e 6000 Sardine, a cui hanno aderito tante altre organizzazioni e personalità del mondo politico e della cultura. Una manifestazione, come dichiarano gli organizzatori, che ha l’obiettivo di chiedere una riforma della legge sulla cittadinanza ma anche l’abolizione dei decreti sicurezza e di contestare il Memorandum sulla Libia da poco rinnovato, in ricordo del tragico naufragio avvenuto il 3 Ottobre 2013 a Lampedusa. Sono anni che si attende una riforma della Legge 91 e le modiche al decreto sicurezza in materia saranno un primo test sulla reale volontà di cambio di passo da parte del Governo. Iniqui sconti sulle tempistiche e trattative al ribasso non basteranno a chi attende un segnale molto diverso. Modifiche che sembrano dettagli corrispondono a limiti concreti e quotidiani per milioni di persone e non vi è più spazio per nuovi slogan quali ius soli o ius culturae se con l’altra mano si lascia che una legge venga pian piano peggiorata lontano dai riflettori. Un esempio su tutti: un ragazzo di 18 anni nato in Italia che chiede di acquistare la cittadinanza allo stato attuale deve pagare 250 euro. Prima del decreto Salvini ne pagava 200, e ancor prima del decreto Maroni non doveva pagare. Perché deve pagare se nato qui e come se non bastasse anche sempre di più a colpi di decreto? Sulla revoca della cittadinanza: perché un italiano di origine straniera che ha commesso un grave reato non deve essere considerato semplicemente un criminale come gli altri e può invece vedersi togliere la cittadinanza acquisita? Con l’unica insufficiente modifica rispetto al tema, contenuta nella bozza del decreto immigrazione, bisogna aspettare 3 anni per esaminare una richiesta dopo altri 10 anni previsti per legge per poterla avanzare. È molto tempo, ancora troppo. La legge sulla cittadinanza ha subìto un accanimento, silenzioso, che si nasconde nei dettagli, mentre a gran voce vengono avanzate proposte di riforma che restano immobili. Chi lo vive non sa più come denunciarlo e resta imbrigliato nelle maglie della burocrazia, nella quale si nascondo precise scelte politiche. Ci sono stati soltanto peggioramenti negli ultimi anni, chi poteva ha modificato indisturbato questa legge. Solo non lasciando che ciò avvenga più si possono gettare le basi per un reale percorso di riforma della cittadinanza, tutto il resto è noia. Arabia Saudita. Caso Khashoggi, due anni dopo Mbs resta intoccabile di Michele Giorgio Il Manifesto, 4 ottobre 2020 Ben pochi dubitano del ruolo di mandante avuto dall’erede al trono nell’assassinio del giornalista avvenuto nel consolato saudita a Istanbul il 2 ottobre 2018. Lo ha accertato anche la Cia. A proteggerlo è Donald Trump nel nome degli interessi strategici ed economici degli Usa. Si parla ancora del brutale assassinio di Jamal Khashoggi, non è stato dimenticato. Ma a due anni di distanza da quel 2 ottobre 2018 in cui il giornalista e editorialista del Washington Post fu assassinato nel consolato saudita a Istanbul da una squadra di killer giunta da Riyadh, regna la frustrazione tra i difensori dei diritti umani. Lo scorrere del tempo affievolisce la possibilità di vedere sul banco degli imputati l’uomo che è universalmente considerato il mandante dell’eliminazione di Khashoggi, il potente e spregiudicato erede al trono saudita Mohammed bin Salman (Mbs). Il mese scorso è terminato in Arabia saudita il processo d’appello-farsa contro otto persone, condannate a pene da 7 a 20 anni dopo il “perdono” della famiglia del giornalista contraria alla pena di morte. A luglio in Turchia è iniziato il processo contro i venti killer, tra cui due fedelissimi di Mbs. A questi potrebbero aggiungersi altri sei sospetti, incriminati nei giorni scorsi. Tutti sono però imputati in contumacia: Riyadh nega le estradizioni. Mohammed bin Salman può stare tranquillo, nessuno toccherà il futuro re. Jamal Khashoggi dagli Stati uniti si era recato a Istanbul per richiedere al consolato saudita i documenti necessari per sposare la ricercatrice turca Hatice Cengiz. Veniva da due anni molto intensi. Da influente sostenitore della famiglia reale era diventato una minaccia alla sicurezza del paese per le critiche puntuali che rivolgeva alla politica e alle scelte di Mohammed bin Salman. Sapeva di essere nel mirino dell’intelligence saudita ma si riteneva al sicuro in Turchia. Invece, allertati dai rappresentanti diplomatici sauditi, il 2 ottobre i killer lo attendevano proprio nel consolato dal quale non sarebbe uscito vivo. Secondo l’inchiesta svolta dalle autorità turche, con l’ausilio di registrazioni video e audio, gli assassini dopo aver strangolato il giornalista lo fecero a pezzi. Quindi lasciarono la Turchia con largo anticipo sull’allarme lanciato da Hatice Cengiz. I resti di Khashoggi non sono mai stati trovati. La Cia raccolse subito elementi sufficienti per confermare la responsabilità dell’erede al trono saudita nell’omicidio ma Trump mise a tacere l’indagine. Mbs, fece capire, non si tocca perché è un alleato strategico degli Usa. “Gli ho salvato il culo…Sono stato in grado di convincere il Congresso a lasciarlo in pace”, dichiara il presidente Usa in un’intervista sull’omicidio di Khashoggi inclusa in Rage, l’ultimo libro del giornalista premio Pulitzer, Bob Woodward, uscito qualche settimana fa. “Credi che sia stato lui (Mbs)?” chiede Woodward. “Dice di non averlo fatto”, risponde Trump che poi aggiunge “Bob… (i sauditi) hanno speso 400 miliardi di dollari (per armi e prodotti Usa, ndr) in un periodo di tempo abbastanza breve… Non durerebbero una settimana se non ci fossimo noi e lo sanno”. Il candidato democratico alle presidenziali Usa Joe Biden assicura che se andrà alla Casa Bianca avrà un approccio ben diverso con i sauditi. Le promesse non mantenute sono un pilastro delle campagne elettorali. Così la Bielorussia resiste alla brutalità del regime di Lukashenko di Filippo Rossi L’Espresso, 4 ottobre 2020 Violenze, arresti e torture sono all’ordine del giorno. Ma le manifestazioni non si fermano. E dopo anni di silenzio i cittadini, con le donne in prima linea, chiedono libertà. Quando Dima sale in macchina accende subito l’autoradio: “Questa è la nostra canzone. È il simbolo della nostra rivoluzione. Si chiama Khochu Peremen”. La canzone, scritta nel 1987 dal cantautore russo Viktor Tsoi significa “Aspettiamo i cambiamenti”. Un messaggio forte allora, in un momento di grande subbuglio nell’impero sovietico quanto lo è oggi, nel mezzo delle manifestazioni della popolazione bielorussa che ha deciso di sfidare il governo del presidente Alexander Lukashenko, al potere dal 1996, chiedendo le sue dimissioni. La macchina di Dima sfreccia per le strade di Minsk, la capitale. In città, tutto scorre normalmente. I ristoranti sono aperti, la gente passeggia. La sera i locali sono pieni e il traffico settimanale sembra normale. Ma è una calma apparente. L’applicazione criptata Telegram, usata da vari media e gruppi dell’opposizione per comunicare e organizzare le manifestazioni, mostra ciò che non sempre si vede. Video e foto sono postati quasi ogni minuto, immortalando le squadre speciali della polizia, gli Amon, che picchiano e catturano con la forza manifestanti per le strade. Filmare è sospetto e pericoloso. Solo telefonino. Bisogna fare estrema attenzione. Gli occhi del potere sono ovunque. La gente diffida molto di chiunque. Da quando le rivolte sono cominciate lo scorso 9 agosto, il giorno delle elezioni presidenziali - alle quali Lukashenko ha ottenuto più dell’80% dei voti, secondo i dati del governo - i leader dell’opposizione sono fuggiti all’estero o sono stati incarcerati. Ogni giorno decine di persone sono state arrestate e picchiate. Spesso solo per essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. “Un mio amico era tutto blu sul corpo. Le sue gambe erano nere a causa delle botte che aveva ricevuto. Stava solo camminando per strada”, commenta Karina, trent’anni, ex-modella professionista. Dalle passerelle di Milano alle rivolte di Minsk, ci vuole coraggio e motivazione. Le influencer e top model, come lei, stanno avendo un ruolo decisivo su Instagram, incoraggiando i propri follower a seguire le manifestazioni. “Il governo ha minacciato mia madre, una maestra, di perdere il lavoro, solo perché io combatto. Minaccia di togliere l’autorità parentale ai genitori che vanno alle manifestazioni con i bambini. Vogliamo la libertà”. Karina ha le lacrime agli occhi. Ma non dispera. Nel suo tempo libero fa la volontaria, raccogliendo informazioni sulle persone che sono sparite. Sa benissimo il rischio che corre. “Ricevo molti messaggi di gente che dice che suo padre, madre o figlia sono scomparsi. Non posso restare indifferente vedendo i miei amici e i miei connazionali torturati e picchiati”. La violenza sembra essere la tattica governativa per fiaccare il morale dei manifestanti. “Dicono che sono morte solo quattro persone. Ma sono molte di più. È come una guerra”, continua la top model. Non vede l’ora del weekend per protestare. In città non si parla d’altro. Nei ristoranti, nei bar, nelle strade. Molti bielorussi non hanno mai vissuto emozioni così forti. “La risposta superficiale di Lukashenko al coronavirus e gli ennesimi brogli elettorali hanno contribuito a tutto questo”, racconta Denis, 38 anni. “Ma è stata la violenza delle autorità a far esplodere la rabbia generale. Non pensavo che questo potesse accadere nel mio Paese. Per anni quasi nessuno ha avuto il coraggio di reagire. Questo però ci ha uniti come non mai”. Denis si fa intervistare seduto sul sedile posteriore di una macchina. È notte. Mentre racconta, si avvicina un’auto della polizia. Bisogna scappare prima che sia troppo tardi. Potrebbe costare il carcere a tutti. “La popolazione ha condiviso, in silenzio e per anni il motto “meglio non peggiorare le cose”. Ma ora le persone si sentono più libere di esprimere la loro opinione”, commenta invece, sempre in macchina, il suo collega Tom, che di anni ne ha 36. Entrambi hanno testimoniato i primi giorni di proteste, dove la violenza della polizia ha raggiunto livelli altissimi, soprattutto nelle carceri: “La cosa peggiore era sentire le urla e il rumore dei manganelli e dei pugni abbattersi su altri prigionieri”, ricorda Pavel, 35 anni, fotografo. A inizio agosto è stato portato nella prigione di Akrestina. Il trentottenne Maxim, collaboratore della tv indipendente Bel Sat, è stato vittima di tutto questo. Parla all’esterno di un bar nella via piena di locali notturni Oktoberskaya. “Stavo filmando quando mi hanno arrestato, picchiandomi e portandomi in prigione ad Akrestina. Mi hanno legato le mani insieme ai piedi dietro la schiena, schiacciandomi. Più urlavo dal dolore più si innervosivano. Ho ancora degli spasmi alle gambe. Mi hanno messo per cinque giorni in una cella da 12 persone, dove però ne erano stipate 35”. Altri prigionieri raccontano di sangue, gente con ematomi neri su tutto il corpo, costole rotte. Gente seviziata con manganelli. La paura però non ha preso il sopravvento. La prova si vede nelle strade. Alle finestre e nei quartieri, sventola la bandiera a strisce bianca e rossa, la bandiera nazionale precedente a quella verde e rossa che Lukashenko ha introdotto nel 1995. I sostenitori del governo dicono che era usata dai collaborazionisti durante la guerra. C’è chi la cuce, chi invece affianca su uno stendino una maglietta di ogni colore. È il simbolo della resistenza, come la “v” fatta con il medio e l’indice, il segno di vittoria e di pace. Le donne marciano con delle rose in mano. Tutti hanno a cuore che questi moti restino pacifici. Nei quartieri, ogni giorno, la gente si raduna nei cortili degli edifici o nei parchi. Famiglie, giovani e anziani cantano, mangiano e discutono. Tutti portano qualcosa, alcuni allestiscono bancarelle. È un momento di conforto. Dall’esterno, la polizia controlla. Grida con il megafono che gli assembramenti sono illegali. Ma la gente non sembra farci caso. “Combattiamo per il diritto legittimo di eleggere il nostro presidente”, afferma Aleksej, presente a un concerto nel nuovo quartiere di Nowaja Barawaja, alla periferia della capitale, uno dei luoghi più sovversivi. “Meno male che i bielorussi si sono svegliati. Tutto questo ci ha uniti molto. E continuano a manifestare pacificamente”. Durante le manifestazioni però, il clima è differente. Il terrore di essere arrestati o picchiati è palpabile. Di fronte al Comune di Minsk, nel centro storico, migliaia di donne si radunano un sabato per chiedere le dimissioni del presidente. Come di consueto, tutto è organizzato su Telegram. Gridano, con un boato che mette i brividi già da lontano. Si mettono a braccetto per darsi forza. “Noi donne abbiamo deciso di scendere in strada per difendere i nostri uomini, che sono trattati con violenza brutale. Speriamo che a noi facciano meno male”, afferma risoluta Irina, 32 anni. Passano solo 5 minuti, prima che la piazza sia accerchiata. Da alcuni minibus blu e altri van verdi, senza targa, scende di corsa uno squadrone di Amon con passamontagna neri, affiancati dai temuti Tihushniki, poliziotti in civile anche loro con volto coperto. Vederli all’opera è agghiacciante. La gente indietreggia. Sulle terrazze dei ristoranti i clienti fanno video per testimoniare. Gli Amon si fiondano sulle donne, le quali (anche anziane) cercano di togliere loro il passamontagna per identificarli. Un atto valoroso, perché chi lo fa è immediatamente arrestato e portato via con la forza. Insieme gridano, serrano i ranghi. Ma gli Amon sono più forti e hanno la meglio. Alcuni se la danno a gambe. Dall’altro lato si avvicinano gli Avtozag, i blindati militari per il trasporto dei prigionieri. “Fascisti!”, urlano da lontano tutti. Dal traffico, una marea di auto suonano il clacson, mostrando la v con le dita. Decine di donne vengono caricate sui camion: destinazione Akrestina. La situazione si calma, ma poco dopo, a poche centinaia di metri, si rianima un altro corteo. Ancora le donne. Quelle che non sono state arrestate. Questa volta cominciano a marciare. Cantano “Lunga vita alla Bielorussia”, uno slogan che fa impazzire l’élite del governo. Gli Amon, insieme ai Tihushniki, aspettano come ghepardi. Appena un piccolo gruppo di manifestanti si dirada, lo attaccano. “Sono mercenari, avanzi di galera che ricevono un lavaggio del cervello totale”, commenta Olga, 34anni, casting director a Minsk. Numerosi video testimoniano le brutalità. Togliere il passamontagna agli Amon è diventata una delle strategie principali della resistenza. Alcuni si sacrificano. Svelando la loro identità, un gruppo apposito su Telegram mostra i loro indirizzi di casa, il loro numero di telefono e la data di nascita. “Vogliamo sapere dove vivono le loro mogli, dove vanno a scuola i figli. Hanno paura di essere smascherati perché sono vulnerabili”, commenta Nelly, una cittadina di 71 anni che partecipa ogni weekend alle manifestazioni. “A quanto pare ricevono almeno 8 mila dollari di stipendio. Conosco una signora che riceve un quarto del salario del suo ex-marito, uno di loro. Sono quasi 2 mila dollari”, commenta invece Helen, sulla sessantina. È domenica. Il giorno della grande manifestazione che ha luogo ogni settimana. Helen e Nelly si sfogano. La prima guida in direzione del monumento dedicato alla vittoria nella guerra - conosciuto come Stella - e difeso dall’esercito. “Io non voglio che i miei figli se ne vadano dalla Bielorussia perché non c’è libertà. Amiamo il nostro paese ma devono cambiare le cose - racconta Nelly, emozionatissima per quello che sta vivendo - Ne abbiamo abbastanza di Lukashenko, la violenza è troppa”. Alla manifestazione si radunano centinaia di migliaia di persone. L’appuntamento è alle 2 a Stella. Telegram serve da coordinatore, che sin dalla mattina riporta le notizie di numerosi arresti. Il governo lo sa e taglia la connessione a internet. La gente affluisce comunque. All’inizio, la polizia interviene. Decine di persone sono arrestate. Anche Max, il marito di Katerina. “I Tihushniki sono scesi dalla macchina e ci hanno caricati. Hanno preso mio marito picchiandolo”. Katerina è in lacrime. 44 anni, è una delle attiviste più conosciute. Sempre in prima linea: “Sanno che stanno perdendo e diventano più violenti. Pensano che se ci picchiano non andremo più in strada ma questo non fa altro che rafforzarci”. Dopo che suo marito è stato arrestato, si disperde tra la folla. Impossibile contattarsi. La marcia vuole arrivare fino al quartiere di Drodzy, dove vive l’élite del paese. Si cammina per chilometri a ritmo di tamburi e slogan. Una piccola marcia su Versailles. La gente si traveste e sfoggia cartelloni provocatori: “Game over Sasha” (Lukashenko). Tutti gridano: “Vattene a fare in c**o e muori” oppure “Lukashenko Avtozag”. Improvvisamente la polizia irrompe in mezzo alla folla. Bisogna fuggire. Tutti cercano di dileguarsi. Poi si radunano nuovamente, lanciando un boato per caricarsi. Un’onda indistruttibile. Alle porte di Drozdy, un battaglione di poliziotti con scudi elettrici e corazza, oltre che decine di Amon e Avtozag sono pronti ad attaccare. Il corteo retrocede pacificamente. Quando le persone cominciano a dileguarsi, bisogna fuggire ancora. È il momento più pericoloso. “Alle manifestazioni ci vado un po’ in ritardo e me ne vado prima della fine, perché è in quel momento che gli Amon sono più attivi”, racconta Olga, mentre cammina fra la folla. Non tutti i bielorussi stanno manifestando contro il governo. Ci sono persone che sputano dai balconi sui manifestanti, appoggiano a spada tratta l’autorità. Sono soprattutto nostalgici dell’ex Unione sovietica. Secondo fonti, l’appoggio al presidente è ancora fra il 10% e il 20% della popolazione. Peremen, il cambiamento, è nell’aria. “Il paradosso, è che dopo queste violenze la gente si sente più libera. È cambiato tutto rispetto a prima delle elezioni. Volevo andarmene ma ora resterò qui a far rinascere una nuova Bielorussia”, conclude Pavel. È una sensazione speciale. “Vogliamo la libertà. Voglio vivere in un paese dove la gente sia felice. La violenza è l’arma dei deboli”, tuona Katerina. Algeria. Appello per la liberazione dei detenuti politici Il Manifesto, 4 ottobre 2020 Decine di intellettuali europei, maghrebini e africani, dal filosofo Etienne Balibar al magistrato Domenico Gallo allo storico Achille Mbembe, al fianco del movimento di protesta algerino. L’insurrezione pacifica del popolo algerino per la conquista delle libertà democratiche, iniziata nel febbraio 2019, ha mostrato un grande senso di responsabilità, optando in marzo 2020 per la sospensione delle manifestazioni per evitare la propagazione dell’epidemia di Covid-19. Perseguendo lo scopo di costruire un migliore avvenire per il paese, il movimento detto Hirak ha agito coerentemente con i suoi obiettivi di libertà, le sue aspirazioni per la difesa dei diritti umani, e la sua strategia pacifica, nell’interesse superiore della nazione. Gli attori della protesta sanno però che per raggiungere i loro obiettivi bisogna continua a mobilizzare pacificamente la maggioranza delle Algerine e degli Algerini per sconfiggere un sistema politico che nasconde, dietro una facciata civile et delle elezioni manipolate, la tenaglia del comando militare sulla vita politica, economica e sociale. Invece di seguire la via della saggezza e il senso elevato di responsabilità della popolazione insorta, invece di rispondere alle sue legittime aspirazioni, i dirigenti algerini, preoccupati unicamente dalle lotte intestine per il potere, assemblano delle tabelle di marcia illusorie che non hanno altro obiettivo che salvaguardare un sistema politico rifiutato dalla maggioranza della popolazione. Per rispondere alle aspirazioni espresse dal popolo insorto nel febbraio 2019, è necessario liberare le scene politiche e mediatiche dalla sorveglianza dei servizi di sicurezza. È necessario intraprendere, nel dialogo con tutte le forze vive del movimento pacifico detto Hirak, une transizione democratica reale, in grado di assicurare uno Stato di diritto, garante delle libertà individuali e collettive. La negoziazione col movimento sociale impone la liberazione immediata di tutti i detenuti politici e/o d’opinione gettati in prigione da dei giudici sottomessi, con dei capi di imputazione che nulla hanno a che fare con la loro lotta per i diritti umani e le libertà democratiche. La condanna iniqua dei giornalisti Khaled Drareni e Abdelkrim Zeghilèche a due anni di prigione è l’ennesima prova dell’esistenza di una giustizia asservita. La pena ricevuta da Khaled Drareni, punito per avere esercitato con onestà, responsabilità e impegno il suo lavoro di informazione è una delle più pesanti pronunciate contro un giornalista dall’indipendenza nazionale nel 1962. La lotta del popolo algerino per la conquista dei suoi diritti legittimi merita la solidarietà attiva di tutte le donne e di tutti gli uomini che credono con fermezza nella giustizia e nella libertà. Nel manifestare la nostra solidarietà a questa lotta, noi: - denunciamo la politica repressiva condotta dal regime algerino contro il movimento pacifico e responsabile detto Hirak, speranza di liberazione e emancipazione civiche; - esigiamo la liberazione immediata e senza condizioni di Khaled Drareni e di tutti i detenuti politici e/o d’opinione; - incoraggiamo le diverse istanze europee e internazionali a esigere dallo Stato algerino il rispetto di tutti i trattati e le convezioni di difesa dei diritti umani da lui ratificati; - chiediamo solennemente al capo dello Stato algerino di far rispettare, realmente, i diritti e le libertà delle cittadine e dei cittadini, come stabilito dalle convenzioni internazionali ratificate dall’Algeria. Per adesioni: acda.dz@gmail.com. Siria. Storia di Riad: 20 anni in carcere solo perché turco di Francesco Petronella Il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2020 “Torture continue, mesi passati al buio in un buco”. Riad Avlar ha 41 anni, è turco e fa l’attore, ma metà della sua vita l’ha passata nell’inferno delle carceri della Siria di Assad. Catturato quando era solo uno studente di 19 anni con una fumosa accusa di spionaggio, ha trascorso buona parte degli anni di detenzione a Saydnaya, una prigione siriana che Amnesty International ha definito una “macelleria umana”. Era lì nel 2008, quando una rivolta dei detenuti fu soffocata nel sangue. Oggi la sua storia e altre simili prendono forma nella pièce teatrale Y-Saydnaya, per la regia di Ramzi Choukair. Riad, che porta sul corpo i segni delle torture subite, ci ha raccontato la sua storia. Chi era Riad prima della prigione e chi è diventato dopo? Quando sono stato catturato ero un ragazzino che muoveva i primi passi nella vita. Quando son finito lì dentro ho imparato cos’è davvero, la vita. Quando sono uscito ho capito la differenza tra la bellezza della libertà e l’oppressione della prigionia. Cosa ricordi della rivolta del 2008? Un gruppo di detenuti ha preso il controllo di un braccio della prigione. La polizia carceraria e poi l’esercito ci hanno assediati. Abbiamo passato cinque mesi senza elettricità e senza servizi igienici. Facevamo i bisogni dappertutto. C’è stato un momento di speranza durante la tua vita in carcere? La visita di mio fratello è stato il primo momento in cui mi sono sentito meglio dopo 15 anni di prigionia. Era la prima volta che vedevo un mio familiare. Ero traumatizzato, come chiunque finisca in prigione in quel modo. Ricordavo un bambino che lanciavamo in aria per farlo ridere, mi ritrovai davanti un uomo coi baffi. Fino ad allora non sapevo nulla. Anche l’accusa nei miei confronti, il motivo per cui ero lì dentro, non mi erano chiari. Non sapevo niente del mondo esterno, di quello che succedeva a mia madre. Non sapevi di cosa eri accusato? Per i primi 17 anni di prigionia non ho saputo perché mi trovavo lì. Pensavo fosse solo perché avevo relazioni con la Turchia. Quando nel 2011 scoppiò la rivoluzione in Siria, nella prigione di Saydnaya fu stabilita una corte marziale e il mio dossier fu spostato da un tribunale all’altro. Solo in quel momento seppi di cosa ero accusato ufficialmente. Come avvenne il tuo arresto? Tredici persone furono prese e sbattute in prigione solo perché turche. Era il periodo in cui a Damasco aveva trovato asilo Abdullah Öcalan (leader curdo del Pkk, considerato un gruppo terroristico da Ankara, ndr). Bastava essere turchi per essere sospettati di spionaggio. Sei stato detenuto solo a Saydnaya? Sono stato prima nella prigione dei servizi di intelligence per dieci anni. Poi fui trasferito a Saydnaya e dopo diversi anni alla prigione centrale di Adra, a Damasco. Un complesso che ospitava 15 mila persone. Dopo lo scoppio della rivoluzione, periodo 2011-2012, c’erano celle con 110 persone in uno spazio destinato a 10. Avevamo due coperte e 75 centimetri di spazio a testa. Dal modo in cui torturavano i nuovi arrivati si capiva benissimo che là fuori stava succedendo qualcosa. Com’era la “giornata tipo” in prigione? Qualche volta ci permettevano di leggere libri, ma la maggior parte del tempo si passava nel nulla tra un interrogatorio e l’altro. I primi mesi di prigionia li ho passati al buio, in un buco. Ho imparato a distinguere tonalità di nero che prima non credevo neanche esistessero. Non avevo idea di che aspetto avesse la mia faccia. Contavo i giorni con i ritmi dei miei aguzzini: dopo che mi interrogavano e torturavano mi riportavano in cella e mi davano da mangiare. Solo così capivo che era ora di pranzo. Dopo un po’ smisi di tenere il conto e di voler sapere se era giorno o notte. All’inizio uccidevo formiche e scarafaggi che mi camminavano addosso, ma alla fine siamo diventati amici. Come si svolgevano gli interrogatori? Questi (indica tre cicatrici sull’avambraccio sinistro, ndr) sono i segni delle torture che subivo ogni volta. Mi colpivano con oggetti duri, pungoli, mi picchiavano per farmi confessare quello che volevano sentirsi dire. La tortura peggiore era quando non mi lasciavano dormire e mi portavano in uno stanzino legandomi mani e piedi passandomi una corda intorno al collo. Era terribile. Una voce risuona dal palcoscenico: chiama Riad. “Khamsa Da’ai”, risponde lui: cinque minuti. È il momento di andare in scena, lo spettacolo deve cominciare. “Y-Saydnaya” è un florilegio di storie di tanti altri Riad. Parla di Rami, finito in carcere per aver raccontato una barzelletta sull’accento del presidente Assad mentre prestava il servizio militare e che oggi lotta con una sindrome schizofrenica dovuta al trauma della prigionia. Ma l’opera racconta anche la storia di Renè-Shevan:,omosessuale figlio di un cristiano e di un’ebrea, finito nelle spire del sistema detentivo siriano dove viene violato, percosso e umiliato. E anche di Hend, comunista finita in carcere negli anni ottanta solo per aver distribuito dei volantini. Messico. In Chiapas un’italiana entra in prigione: con Zoom fa scuola ai giovani detenuti di Nicola Nicoletti Avvenire “Spiego ai giovani detenuti, ragazzini provenienti dalle periferie del Chiapas, da famiglie immerse nell’illegalità che, completati gli studi, avranno le porte dell’Università aperte per iniziare una vita diversa”. Dal 2005 l’italiana Gonna Giacomello, docente dell’Università Autonoma del Chiapas (Unach) e collaboratrice dell’associazione Equis Justicia para las Mujeresgrazie, grazie alla legge del Sistema Integrale di Giustizia Penale per adolescenze i giovani nelle carceri messicane. Una missione che sta continuando nonostante la pandemia. Attraverso la piattaforma Zoom assieme a una collega argentina, Corina si collega in videochiamata ogni venerdì per seguire l’istruzione media e superiore dei giovani reclusi. “Sono ragazzi soli, senza una guida o una persona amica che possa ascoltarli”, spiega mentre prepara le relazioni dei suoi incontri. Giacomello dopo la maturità, si è laureata in Inghilterra in Relazioni internazionali, poi è volata in Messico per studiare all’Unam, la più grande università del Paese e infine ha raggiunto il Chiapas come osservatrice internazionale sulla condizione di vita femminile. In Messico ha iniziato ad accompagnare le donne incarcerate, cercando di ascoltare la loro voce: ora, con la pandemia, lo fa grazie al Web, realizzando con i giovanissimi che vivono nel Centro di internamento Villa Crisol e Tapachula, relazioni insostituibili. “Qui, in celle spesso sporche e sovraffollate, vivono adolescenti dai 16 ai 20 anni. Poveri, lontani spesso da beni indispensabili come l’acqua e un cibo decente e il nostro aiuto è l’unica sponda per loro”, conclude.