Celle senza spazi, puntare su misure alternative di Riccardo Polidoro Il Riformista, 3 ottobre 2020 La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ribadito che, in materia di sovraffollamento carcerario, si ha violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo - divieto di tortura e di trattamento inumano e degradante - quando vi è insufficienza di spazio personale a disposizione dei detenuti e, in particolare, se non vi è fruibilità di almeno tre metri quadrati di superficie pro capite. Ma quanti sono grandi tre metri quadrati? Poco, certamente poco! È uno spazio la cui larghezza, moltiplicata per la lunghezza, deve dare come risultato tre. Per esempio, una stanza di tre metri quadrati, sarà larga due metri e lunga uno e mezzo. Se poi inseriamo in questo spazio un letto (dimensioni standard 190 x 80 centimetri) e un armadietto (70 x 50 centimetri), l’area disponibile per il movimento si riduce ulteriormente. Includendo anche una sedia e un tavolino, la libertà di movimento è quasi pari a zero. Eppure su questo minimo sindacale dei tre metri quadrati concesso al detenuto, sia magistrati europei, che nazionali, con fiumi d’inchiostro, hanno scritto di tutto sul metodo da adottare per calcolare i tre metri quadrati. Se si fosse tenuto presente il principio, non derogabile, del rispetto della dignità del detenuto, nulla si sarebbe dovuto dire se non che è mortificante, per un Paese civile, tale modalità di detenzione. Nei tre metri quadrati rientrano i servizi sanitari? Va incluso lo spazio occupato dai mobili? Dai letti? E se il letto è a castello? E vanno prese in considerazione le altre condizioni degradanti di detenzione, quali la mancanza di possibilità di accedere ad aree esterne ovvero alla luce naturale, la cattiva aerazione, la temperatura troppo calda o troppo fredda, l’assenza di riservatezza nell’uso del wc, le cattive condizioni sanitarie e igieniche? Un contrasto giurisprudenziale odioso, quanto ozioso. Alcuni giorni fa abbiamo appreso dall’informazione provvisoria, proveniente dalla Cassazione, che le Sezioni Unite - chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale sulle modalità di calcolo dei tre metri quadrati e, in particolare, se nella valutazione dello spazio minimo disponibile per ogni detenuto vanno detratti gli arredi fissi al suolo - all’udienza del 24 settembre scorso hanno adottato la seguente soluzione: “Nella valutazione dello spazio minimo disponibile di tre metri quadri per ogni detenuto si deve aver riguardo alla superficie che assicura il normale movimento e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello”. L’informazione provvisoria rappresenta un buon segnale, ma occorrerà attendere il deposito della sentenza per comprendere che cosa s’intende con il “tendenzialmente fissi al suolo”. Oltre ai letti a castello, vi rientrano anche gli armadietti, i letti normali? Probabilmente no, perché possono essere spostati. Ci auguriamo che le motivazioni facciano chiarezza e soprattutto ci spieghino, come viene preservata la dignità del detenuto, se nello spazio disponibile di tre metri quadrati vanno calcolati anche gli arredi mobili. La possibilità di spostarli certamente non evita, a nostro avviso, un trattamento inumano e degradante. Alcuni anni fa, la Onlus della Camera Penale di Napoli, Il Carcere possibile, organizzò l’iniziativa “Detenuto per un minuto”, istallando in Piazza dei Martiri - il “salotto” della città - una stanza del tutto simile a una cella, con spazio e arredo standard. Vi fu grande affluenza e tutti coloro che furono rinchiusi, attendevano, con ansia, che la sabbia della clessidra, che segnava il tempo, finisse di scendere. Una volta usciti manifestarono il loro disagio per quello che avevano vissuto, pur per un solo minuto. Quel minuto rappresentava la goccia nel mare dello smisurato tempo che i detenuti trascorrono nelle loro celle, che - ci piace ricordare - dovrebbero essere, per legge, solo stanze di pernottamento mentre, nella maggior parte dei casi, rappresentano il (non)luogo dove trascorrono 20/22 ore al giorno. Il contrasto giurisprudenziale sulle modalità di calcolo dei tre metri quadrati non ci entusiasma, anzi ci sconforta, perché altri dovrebbero essere gli argomenti da affrontare in un Paese civile che vuole difendere i valori della sua Costituzione. Innanzitutto tenere presente che al detenuto, come per gli altri cittadini, va riconosciuta pari dignità sociale e vanno rimossi gli ostacoli che impediscono la sua crescita personale, sussistendo tra l’altro un obbligo di favorire il reinserimento sociale e la tutela della salute, vanno inoltre garantiti i diritti fondamentali. Chi non fosse d’accordo con tali principi, sostiene un pensiero contra legem, basato su un’idea populista che potrebbe sembrare egoista ma al contrario è esclusivamente miope, perché un’esecuzione penale del tutto scollegata con le norme che la regolano non garantisce affatto una vita sociale migliore. Anzi, incattivisce e genera illegalità. Si è persa una grande occasione, non approvando la riforma dell’ordinamento penitenziario che avrebbe consentito un maggiore ricorso alle misure alternative e quindi un minore sovraffollamento, garantendo al tempo stesso sicurezza. È necessario riprendere quei lavori e investire maggiori risorse, ma non per costruire nuove carceri - che avrebbero comunque tempi lunghissimi di realizzazione - ma per migliorare gli spazi esistenti. Il Covid nelle carceri e il ruolo degli infermieri dire.it, 3 ottobre 2020 Il punto sulla situazione nelle carceri a sei mesi dallo scoppio della pandemia nel XXI congresso Simspe - Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari. La pandemia di Covid-19 ha colpito anche le carceri, provocando diversi effetti. Fortunatamente i casi di Covid-19 sono stati sporadici e non particolarmente critici. “Dopo le proteste iniziali e gli inevitabili timori che le carceri divenissero una polveriera, le norme previste dal Dpcm dell’8 marzo per gli istituti penitenziari hanno consentito di limitare i contagi: i casi sintomatici dei nuovi ingressi sono stati posti in isolamento; i colloqui si sono tenuti in modalità telematica; sono stati limitati i permessi e la libertà vigilata” evidenzia il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico Simspe - Società Italiana di Medicina e Sanità nei Penitenziari - Tuttavia, con questa seconda ondata il virus si è diffuso in diversi ambiti, ben oltre ospedali e rsa che erano stati i principali incubatori del virus in primavera: di conseguenza, adesso qualsiasi nuovo detenuto va in un’area di quarantena e viene sottoposto a tutti i consueti protocolli, secondo un filtro analogo ai triage degli ospedali”. “Tra le conseguenze della pandemia emergono anche dati positivi - aggiunge il Prof. Babudieri - Il tema cronico del sovraffollamento, che costituiva una minaccia proprio per una potenziale diffusione del Covid, è invece andato incontro a un notevole miglioramento: si è passati dal 20,3% al 6,6%, poiché non vi è stato il normale turn over dovuto all’assenza di arresti nel periodo del lockdown. Più precisamente, al 31 gennaio 2020 nei 190 istituti penitenziari italiani vi era una capienza di 50692 (dati ufficiali del Ministero della Giustizia) e 60971 detenuti presenti, con un surplus quindi di 10279, pari al 20,3%. Adesso a fronte di una capienza di 50574 posti letto, i detenuti effettivi sono 53921, con un sovraffollamento sceso a 3347, ossia il 6,6%, mostrando dunque un calo radicale. Questo però deve imporci controlli sempre più accurati, perché la popolazione ristretta è praticamente tutta suscettibile al Coronavirus ed in più in questo ambito sappiamo come sia cronicamente elevata la circolazione di altri virus, in particolare epatici come Hcv. Ne consegue che in questa nuova fase dell’epidemia Covid divenga mandatoria l’esecuzione dei test combinati Hcv/Covid nei 190 Istituti Penitenziari Italiani”. Il Covid-19 ha evidenziato, accanto alla pandemia, un’altra emergenza sanitaria: quella della salute mentale. Depressione, ansia e disturbi del sonno, durante e dopo il lockdown, hanno accompagnato e stanno riguardando più del 41% degli italiani. Le persone rinchiuse nelle carceri costituiscono soggetti particolarmente vulnerabili: secondo dati noti, circa il 50% dei detenuti era già affetto da questo tipo di disagi prima della diffusione del virus. Erano frequenti dipendenza da sostanze psicoattive, disturbi nevrotici e reazioni di adattamento, disturbi alcol correlati, disturbi affettivi psicotici, disturbi della personalità e del comportamento, disturbi depressivi non psicotici, disturbi mentali organici senili e presenili, disturbi da spettro schizofrenico. “Il problema psichiatrico o quantomeno quello del disagio mentale è diventato una delle questioni più gravi del sistema penitenziario italiano - sottolinea il Presidente Simspe Luciano Lucanìa - In sede congressuale abbiamo avuto un confronto su questo tema delicato con i contributi di accademici, direttori di penitenziari, medici specialisti che lavorano alla psichiatria territoriale e operatori attivi nel sistema penitenziario stesso. È evidente come la pandemia di Covid e soprattutto i primi mesi abbiano reso queste problematiche ancora più evidenti. Nelle ultime settimane la situazione è diventata ancora più complessa. Non esistono soluzioni pronte e preconfezionate, ma noi di Simspe crediamo che sia necessario per gli operatori, per la comunità carceraria, per i decisori politici, far presente limiti, problemi, prospettive e chiedere soluzioni. Da una parte si devono integrare i servizi del territorio e i servizi del carcere; dall’altra serve un sistema carcerario che sia in grado di affrontare autonomamente questo tipo di problemi”. Il ruolo dell’infermiere nell’ambito penitenziario è centrale, sebbene spesso non venga messo a fuoco a sufficienza. In virtù del Decreto 739 del 1994, l’infermiere è colui che si occupare dei servizi assistenziali. Tuttavia, rappresenta una figura chiave perché è insignito di una responsabilità che va oltre quella sanitaria, poiché coinvolge la sicurezza personale di tutti coloro che lavorano in carcere. Da una parte, infatti, lavora in equipe con i medici; dall’altra, ha rapporti anche con altre figure, come gli educatori, toccando così anche gli aspetti sociali oltre a quelle sanitari. “Come gruppo infermieristico di Simspe stiamo sviluppando diverse ricerche che permettano di valorizzare la figura dell’infermiere e di ottimizzarne il contributo - evidenzia Luca Amedeo Meani, Vice Presidente Simspe - Uno studio riguarda l’azione del Covid sull’operatività dell’infermiere: il Moral Distress (Disagio Morale) degli infermieri era preoccupante e si è aggravato in questi mesi. I dati emersi mostrano un livello molto elevato rispetto ai parametri mediani di valutazione e spesso coinvolgono ragazzi che avevano solo tre o quattro anni di esperienza in servizio. Da qualche settimana stiamo integrando lo studio con item che riguardano il Covid. In secondo luogo, stiamo portando avanti anche un’analisi che riguarda la gestione Rischio Clinico, che permette di determinare in modo scientifico quali potrebbero essere le misure correttive per abbassare i rischi da un livello potenzialmente elevato a uno standard accettabile. Questo lavoro del Gruppo infermieristico Simspe è iniziato prima della pandemia e ha aiutato molto nella prevenzione del Covid: l’assenza di casi gravi e il mancato diffondersi della pandemia in questi ambienti è stato anche grazie a questo sistema di prevenzione e di analisi del rischio”. Riflettori su Santa Maria Capua Vetere, silenzio sugli abusi a Foggia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2020 Dopo sei mesi i parlamentari si accorgono dei fatti accaduti nel carcere casertano. Ora fioccano le interrogazioni parlamentari sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, ma solo a distanza di sei mesi dai fatti già denunciati dalle pagine de Il Dubbio (il 12 e 14 aprile scorso) tramite ricostruzioni dei familiari e interviste a chi è stato percosso. Il ministro della giustizia tace, ma anche il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Così come tacciono anche su altri presunti pestaggi avvenuti in diverse carceri, dove - come risposta alle rivolte -, se confermato, si sarebbe verificata una grave violazione dei diritti umani. Nell’ombra, ad esempio, è rimasta la vicenda di Foggia che solo Il Dubbio ha reso pubblica. Ad occuparsi del caso è stata “La rete emergenza carcere” composta dalle associazioni Yairaiha Onlus, Bianca Guidetti Serra, Legal Team, Osservatorio Repressione e Lasciate-CIEntrare. Si tratta di testimonianze dei familiari di alcuni detenuti presso la Casa circondariale di Foggia prima del trasferimento in seguito alla rivolta. Sono ben sette le drammatiche testimonianze, compreso la violenza che si sarebbe perpetuata nei confronti di un detenuto in carrozzina, ma finora silenzio tombale. Riportiamo nuovamente alcune testimonianze citate nell’esposto: “In data 8/ 03/ 2020 mio figlio, detenuto fino al 12/ 03 presso la Casa circondariale di Foggia durante la chiamata, mi ha riferito quanto segue: a seguito delle manifestazioni di protesta messe in atto da parte di numerosi detenuti impauriti a causa dell’allarme Coronavirus, il giorno della rivolta sono entrati in 5 o 6, incappucciati e con manganelli. I detenuti sono stati massacrati di botte, trasferiti solo con ciabatte e pigiama e tenuti in isolamento per i successivi 6/ 7 giorni. Solo dopo una settimana i detenuti hanno ricevuto i loro oggetti personali”, riferisce la madre del detenuto, trasferito al carcere di Viterbo. Testimonianza della sorella di un altro detenuto: “In data 9 marzo mio fratello, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: in piena notte è stato picchiato a manganellate e portato via in pigiama e ciabatte per essere trasferito in un’altra struttura, dopo la rivolta fatta alcuni giorni prima”. Nell’esposto in Procura si aggiunge anche la testimonianza di un’altra madre di un detenuto, poi trasferito nel carcere di Catanzaro: “In data 9 marzo mio figlio, durante la telefonata, mi ha riferito quanto segue: di essere stato picchiato a manganellate su tutto il corpo, specialmente sulle gambe e portato al carcere di Catanzaro senza avere la possibilità di prendere il vestiario o il minimo indispensabile”. C’è poi un’altra testimonianza, questa volta della moglie di un detenuto invalido. “Il 20/03/2020 durante la telefonata con mio marito - testimonia la donna - ho avvertito la sua sofferenza, accusava dolori alle costole e mi ha riferito di aver sbattuto da qualche parte. Lui è invalido al 100% e non potrebbe mai muoversi con violenza dal momento che è in carrozzina. Sono certa che lui non può parlare liberamente. Infatti, successivamente mi ha riferito che la prima lettera che avrebbe voluto inviarmi dopo il massacro successo a Foggia gli è stata strappata. Gli ho detto di farsi portare al pronto soccorso ma non lo fanno perché altrimenti andrebbe in quarantena. Io voglio vederci chiaro!”. Sono tutte testimonianze drammatiche. Sono passati però mesi e tutto tace. Come detto, non solo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma si sarebbe verificata una sistematica ritorsione avvenuta in diversi penitenziari come risposta alle rivolte di marzo scorso. Carceri cilene, procure turche… e Bonafede dorme di Piero Sansonetti Il Riformista, 3 ottobre 2020 Cosa c’entra il processo a Salvini, che si apre oggi a Catania, in una città blindata e invasa dai giornalisti di tutto il mondo, con i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dei quali da diversi giorni si occupa un gruppo ristrettissimo di giornali, tra i quali il nostro, e qualche raro programma Tv? C’entra molto. A Catania si celebra lo strapotere dei magistrati - in particolare del partito dei Pm - che vogliono dimostrare come loro abbiano la possibilità di mandare a processo chi vogliono, anche un ministro, anche se non c’è reato, e lanciano questo avvertimento: siamo invincibili. Vi ricordate quel film straordinario di Elio Petri, con Gian Maria Volontè, dei primi anni Settanta (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto)? Beh, qualcosa del genere: la sfida all’evidenza e il gusto di dichiarare un proprio potere incontrollabile. A scapito dello stato liberale, a scapito del diritto. Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è successo qualcosa di molto simile, anche se più orrendo e sanguinoso: un plotone di trecento guardie carcerarie è entrato nelle celle e ha picchiato a sangue, e punito, e umiliato centinaia di detenuti. Compiendo un gesto di somma illegalità, sicure dell’impunità e anzi dell’elogio del potere. Anche loro vogliono dichiararsi invincibili e incontrollabili. Probabilmente anche contando sulla copertura di un governo dominato dai giustizialisti e dai 5 Stelle. Il problema è che nessuno vuole vedere questo legame. Quelli che difendono Salvini incitano poi le guardie a picchiare i prigionieri. Quelli che difendono i prigionieri incitano i magistrati a processare Salvini. Tutti amano usare l’illegalità come una clava da usare contro il nemico politico. Così muore la democrazia, si estingue lo Stato liberale. E sono pochissimi quelli che si oppongono a questa deriva. Proviamo ad accostare quattro avvenimenti in apparenza lontanissimi tra loro: il processo a Salvini, le richieste di condanna ad otto anni di prigione per l’on. Nunzia De Girolamo, il rinvio a giudizio di Piero Fassino e i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Riassumo brevemente le quattro notizie e poi provo a fare qualche riflessione. Processo a Salvini - Inizia oggi con l’udienza preliminare davanti al Gup Nunzio Sanpietro. Il Gup, con un’intervista a Repubblica, ha giurato che sarà obiettivo e sereno (ve lo immaginate un giudice che alla vigilia di un processo dichiara che sarà nervoso e fazioso?). Repubblica è uno dei giornali che ha sempre sostenuto la necessità di processare Salvini. Non sono sicuro che sia giusto che un Gup, alla vigilia di un processo, rilasci interviste ai giornali. Catania, la città dove si svolgerà il processo, è sotto assedio: 500 agenti perché si temono disordini. I sostenitori di Salvini in piazza per difendere il proprio leader. I nemici di Salvini in piazza per chiedere che sia messo al rogo. Centinaia di giornalisti e di telecamere che arrivano da tutto il mondo. Uno spettacolo? Sì, esattamente questo, un indecoroso spettacolo nel quale il nostro paese fa una figura barbina. L’accusa al leader della Lega è sequestro di persona. La condanna potrebbe arrivare fino a 15 anni. L’ipotesi di reato si riferisce al blocco della nave Gregoretti, nel luglio del 2019, quando il ministro dell’Interno vietò per sei giorni lo sbarco di 131 migranti. Fu una sua scelta politica, in linea con la politica sempre dichiarata dal suo partito, e sicuramente avallata dai suoi elettori e probabilmente anche da gran parte degli elettori del partito alleato, e cioè i 5 Stelle. La scelta di Salvini non fu osteggiata ma sostenuta dal governo, cioè il Conte-1, e dalla maggioranza, cioè Lega e grillini. Non è facile spiegare perché Salvini sia alla sbarra e perché sia alla sbarra da solo. Se un reato davvero ci fosse, allora Di Maio, Conte e tutti gli altri dovrebbero essere imputati con lui. E forse dovrebbero essere imputati anche i magistrati che nei giorni del blocco, sapendo che era in corso un sequestro, non sono intervenuti per interrompere il reato, come era loro dovere... O forse, invece, è facile spiegare: è un processo politico, voluto dal settore oltranzista della magistratura. Cioè dal partito dei Pm che non si arrende mai e vuole fare tabula rasa della politica e della democrazia politica. Spalleggiata dai 5 Stelle. Questo vuol dire condividere la scelta di Salvini? No. Personalmente la considero una scelta sciagurata. Come fu sciagurata la scelta del governo precedente che trattò coi libici e li aiutò a organizzare la flotta e i campi di concentramento. Una sciagurata scelta politica, che è una cosa molto diversa da un reato. De Girolamo - Ex parlamentare, ex ministra. Si è ritirata dalla politica quando la magistratura l’ha presa di punta sostenendo che aveva fatto pressioni su una Asl di Benevento. Ieri la Procura ha chiesto che sia condannata a otto anni e mezzo di prigione. Più di un terzo degli anni che un tribunale norvegese ha rifilato a un giovane che aveva ucciso un po’ più di ottanta ragazzi socialisti nell’isola di Utoya. Fassino - È stato rinviato a giudizio. Ex colonnello di Berlinguer, ex segretario dei Ds, ex ministro, ex sindaco di Torino, carriera politica lunghissima e mai sfiorata da sospetti. Ora di cosa lo accusano? Di aver preso dei soldi per sé? Di avere comprato dei voti? Di avere favorito grandi gruppi industriali? Di avere finanziato il suo partito o la sua campagna elettorale in modo illegittimo? Di avere corrotto qualcuno o di essersi fatto corrompere? No. È accusato di essere stato il sindaco di una giunta che ha gestito il salone del Libro in modo eccellente ma non gradito ad alcuni Pm. Santa Maria Capua Vetere (carcere) - Oggi pubblichiamo (l’audio lo trovate sul sito del Riformista) la registrazione di una telefonata di un detenuto alla sorella. Lui racconta cosa è avvenuto il 6 aprile in quel carcere. L’inferno, la mattanza. Come succedeva nelle carceri dell’America latina durante le dittature degli anni 70. I detenuti picchiati a sangue, indiscriminatamente, fatti spogliare, rasati di barba e capelli per umiliarli, riempiti di lividi, le videochiamate bloccate nei giorni seguenti per impedire che si vedessero le ferite e le contusioni. Poi c’è altro. C’è un detenuto invalido massacrato di botte in carrozzella. E c’è un giovane ricoverato in infermeria e morto dopo un po’ più di un mese. Era stato picchiato anche lui? C’è una relazione tra la sua morte e il pestaggio? Non lo sappiamo, nessuno ci risponde su questo. Che relazione c’è tra il processo a Salvini e le botte a Santa Maria Capua Vetere? C’è una parola che unisce questi fatti: autoritarismo. Potete metterla come volete, ma le cose stanno esattamente così: l’Italia, tra i paesi europei avanzati, è quello dove la magistratura ha il potere più incontrollato e quello dove le carceri sono più che altrove un luogo di sofferenza, di illegalità e di tortura. Il legame che c’è tra il processo a Salvini e il pestaggio a Santa Maria Capua Vetere è la chiave di volta che ci spiega la condizione nella quale si trova il paese. Potere arrogante, illegale, e insindacabile. Purtroppo nessuno vuole usare questa chiave di volta. Quelli che si indignano per i pestaggi in carcere, in grandissima maggioranza applaudono per il processo a Salvini. E Salvini stesso, da parte sua, ha applaudito le guardie che avevano picchiato i prigionieri nel carcere di S.M. Capua Vetere. Così succede che la magistratura e gli agenti della repressione vincono sempre. Trovano sempre un alleato, trovano complicità, finiscono per sottomettere e umiliare la politica con l’aiuto della politica. E guadagnano un pauroso potere di controllo e di punizione su tutti noi. È questa la ragione per la quale la nostra civiltà sta degradando, la nostra democrazia appassendo, lo stato liberale si sta ripiegando su sé stesso. È questa la ragione per la quale tornano alla mente i ricordi incubo del Cile, e la paura attualissima del regime turco. Nessun dietrofront sulla prescrizione, i giochi della riforma penale sono già fatti di Errico Novi Il Dubbio, 3 ottobre 2020 Ripartito alla Camera l’iter del ddl, per Pd e renziani “ormai è difficile far saltare il lodo conte bis”. Bonafede non ridiscuterà neppure le sanzioni ai pm lenti bocciate dall’Anm. Adesso si entra nel vivo. Anche se la riforma della giustizia è un po’ come la giustizia spettacolo: fuochi d’artificio per le indagini, bassa intensità per il dibattimento in aula. E così adesso, dopo le scintille sulla prescrizione che prima del lockdown hanno fatto vacillare il governo, il ddl penale non è più una mina vagante. Il motivo non è solo nelle priorità imposte dall’emergenza covid, come spiega un parlamentare di maggioranza: “Ora abbiamo di fronte una materia gigantesca: non solo la riforma del processo penale ma anche quella del Csm. È chiaro che un accordo va trovato in termini complessivi. A cominciare dall’argine al correntismo, che deve essere efficace, e che oggi è lo snodo decisivo anche rispetto alla tutela di chi è imputato in un processo”. Il discorso è chiaro: il ddl penale ha cominciato a muovere da poco i primi passi in commissione Giustizia. Mercoledì è stata audita l’Anm, che ha detto no alle sanzioni per i pm lenti e sì alla prescrizione. Martedì prossimo sarà la volta di Cnf, Ocf e Unione Camere penali. In parallelo, da poche ore è stato incardinato sempre a Montecitorio il ddl sul Csm. Altrettanto corposo: 41 articoli con dentro anche lo stop alle porte girevoli tra toghe e politica. Andrà sempre in commissione Giustizia. E visto che Bonafede tiene ad arrivare all’approvazione in tempi rapidi, in modo che la riforma entri in vigore ben prima dell’elezione per il futuro Csm, Italia viva e Pd non escludono l’accorpamento tra i due ddl: Consiglio superiore e riforma penale in un unico maxi- testo. Anche per risparmiare il tempo necessario alle audizioni, almeno al Senato. Dato il quadro, è ormai chiaro che neppure alle componenti della maggioranza più ostili al lodo Conte bis, i renziani innanzitutto, sembrerà utile mettersi in trincea solo sulla prescrizione. Dal loro punto di vista, a Renzi e al suo partito converrà discutere in modo che, per esempio, le regole su Palazzo dei Marescialli siano più severe. A cominciare dai limiti al correntismo: impossibilità delle nomine a pacchetto e modifiche ancora più severe al sistema per eleggere i togati. Ma sarà appunto difficile tornare indietro sul compromesso trovato sulla prescrizione (bloccata solo dopo la condanna in primo grado, con recupero del tempo sospeso in caso di successiva assoluzione in appello). “Non possiamo considerarci pienamente soddisfatti da quel lodo”, spiega un’autorevole fonte dem, “ma sappiamo anche che rimetterlo in discussione equivarrebbe ad annientare l’intero cammino parlamentare delle riforme in materia di giustizia. Con un dettaglio: il blocca- prescrizione resterebbe tranquillamente in vigore, grazie al via libera arrivato due anni fa con il voto della Lega”. Il primo a non avere alcun interesse a un dietrofront sulla prescrizione è ovviamente Bonafede. E si può dare per certo che il guardasigilli sarà attento a mantenere anche tutte quelle altre parti del doppio ddl in grado, sempre nella sua ottica, di bilanciare lo stop all’estinzione dei reati. Incluse le sanzioni previste in capo a giudici e pm tardivi, sgradite all’Anm. Tra l’altro, ricorda un consigliere del Csm attualmente in carica, “la linea del guardasigilli è emersa con una certa chiarezza in un incontro fra lo stesso Bonafede e il vicepresidente Ermini: non è plausibile, secondo il ministro, una rinuncia alla norma sulle conseguenze disciplinari legate al mancato rispetto dei tempi predeterminati perché proprio il Consiglio superiore avrà facoltà di escludere dai provvedimenti i magistrati in servizio nei Tribunali più in difficoltà e con i carichi più gravosi”. In pratica, Bonafede ritiene di aver già attenuato la norma contestata, grazie alla “esimente”, inserita nello stesso ddl penale. E se Italia viva chiederà rigore assoluto sull’argine alle correnti nell’elezione dei togati, il Pd potrà accettare il lodo Conte bis a condizione che nel processo penale “venga ancor più incentivato il ricorso ai riti alternativi: patteggiamento e abbreviato”, spiega la fonte, “devono diventare ancora più appetibili, in modo da ridurre i dibattimenti e, contemporaneamente, il rischio di tempi insostenibili in appello, dove non ci sarà più la prescrizione”. La meccanica degli equilibri è chiara. A esserne insoddisfatti rischiano di essere, per ragioni diverse, avvocati e magistrati. E sulla prescrizione (per i primi) come sulle sanzioni (per i secondi) sarà difficile che trovino sponde nella maggioranza. La decisione del Csm: “I Trojan sono utilizzabili”. Ma Palamara non risponde di Giulia Merlo Il Domani, 3 ottobre 2020 Il collegio disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha deciso: le intercettazioni ottenute con il Trojan sono “pienamente utilizzabili” nel procedimento disciplinare a carico del magistrato Luca Palamara. Si è conclusa così la fase di discussione e 1’8 ottobre si terrà l’udienza in cui la procura generale e la difesa di Palamara esporranno le loro conclusioni. Ieri Palamara ha fatto sapere che interverrà per rendere dichiarazioni spontanee. L’udienza di ieri, che pure è durata solo un paio di minuti - il tempo di leggere il dispositivo che dichiarava utilizzabili le captazioni- ha avuto un piccolo colpo di scena. Nella scorsa udienza, infatti, Palamara aveva rifiutato di rispondere alle domande dell’avvocato generale Piero Gaeta sul dopocena del 9 maggio all’hotel Champagne di Roma in cui si sarebbe deciso come pilotare la nomina del nuovo procuratore capo della Capitale, nella parte in cui riguardavano quanto registrato dai Trojan. Aveva però assicurato che non avrebbe “avuto difficoltà a rispondere quando verrà sciolto il nodo dell’utilizzabilità delle captazioni”. Un nodo che, per il collegio disciplinare, ieri sarebbe stato sciolto in favore dell’utilizzabilità. La procura ha chiesto di ascoltare nuovamente Palamara sulle questioni alle quali si era rifiutato di rispondere, ma il magistrato romano non ha voluto dire nulla di fronte alle domande di Gaeta. La difesa ha intenzione di insistere sull’inutilizzabilità delle captazioni del Trojan e ha annunciato l’impugnazione dell’ordinanza. La ragione si intreccia in modo stretto con la posizione di Cosimo Ferri, il deputato di Italia viva e magistrato, a sua volta sotto procedimento disciplinare davanti al Csm. Ferri era tra gli invitati al dopocena all’Hotel Champagne insieme a Palamara, Luca Lotti e cinque ex togati del Csm e anche il suo procedimento si fonda sulle intercettazioni ottenute con la microspia inserita nel cellulare di Palamara. Poiché Ferri è un deputato in carica, la captazione delle sue intercettazioni è sottoposta a un regime particolare. Nel dettaglio: un parlamentare non può essere intenzionalmente intercettato senza l’assenso della sua camera di appartenenza. “Riteniamo che sul carattere casuale o meno della captazione dovesse pronunciarsi, per tutti, preliminarmente la Camera e infatti la procura, per la posizione di Ferri, l’ha interpellata. Se, in ipotesi, la Camera negasse l’autorizzazione ad utilizzare, per Ferri, tali intercettazioni, ritenendole non casuali, il Csm o la procura generale dovrebbero proporre conflitto di attribuzione innanzi alla Corte costituzionale”, spiega il difensore di Palamara, Stefano Giaime Guizzi. Nel caso in cui la Corte affermasse che le intercettazioni non sono casuali e quindi neppure utilizzabili, Palamara - che nel frattempo potrebbe essere stato condannato - potrebbe proporre istanza per la revisione del giudizio di condanna. Quindi, secondo la difesa, la questione dell’inutilizzabilità non sarebbe ancora del tutto chiusa. Per questo ha mantenuto la strategia iniziale: non far parlare Palamara sui fatti dell’hotel Champagne. Nonostante questo, la fase dell’acquisizione delle prove si è di fatto conclusa. Ora tocca ad accusa e difesa ricostruire i fatti, nei loro interventi conclusivi. L’accusa sosterrà che Palamara abbia abusato della propria posizione per condizionare l’attività del Csm: contestazioni che si basano totalmente sulle intercettazioni. Per questo la difesa ha puntato tutto sullo scardinamento della prova regina. Quanto male fanno quei Pm alla giustizia! di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 3 ottobre 2020 La vicenda dell’ex sottosegretario Cosentino è il paradigma della malagiustizia italiana: processi infiniti che triturano vita e carriera delle persone oltre ogni limite costituzionale. Ma nessuno ne risponde. Ormai siamo assuefatti a vicende giudiziarie come quelle che hanno interessato l’onorevole Nicola Cosentino, detenuto in custodia cautelare per circa tre anni, espulso dalla politica e dalla vita pubblica, condannato in primo grado ad una pena molto severa, ed ora assolto, dieci anni dopo, “per non aver commesso il fatto”. Tra l’altro, leggo che si tratta della seconda assoluzione. Il ripetersi sempre più allarmante di vicende come questa dimostra che quella distorsione della vita democratica è da troppo tempo inoculata come un virus nelle radici del nostro sistema istituzionale. Lo capiremo, prima o poi? Ormai siamo assuefatti a vicende giudiziarie come quelle che hanno interessato l’on. Nicola Cosentino, già sottosegretario in un Governo della Repubblica, parlamentare di lungo corso, arrestato con accuse gravissime, detenuto in custodia cautelare per circa tre anni, espulso dalla politica e dalla vita pubblica, condannato in primo grado ad una pena molto severa, ed ora assolto, dieci anni dopo, “per non aver commesso il fatto”. Tra l’altro, leggo che si tratta della seconda assoluzione. Ovviamente, i tifosi della forca permanente e i tenutari della contabilità delle disgrazie giudiziarie altrui ci tireranno fuori quel terzo o quarto processo in cui pende una condanna, o una richiesta di condanna, o una impugnazione del P.M., ma ragionare con costoro è del tutto inutile. Solo dei fanatici irresponsabili possono non comprendere che qui in gioco, oltre naturalmente alla vita ed alla dignità delle persone, è la stessa credibilità della giurisdizione nel nostro Paese. Non bastano a riscattarla, purtroppo, giudici indipendenti e coraggiosi che sanno assumersi la grande responsabilità di assolvere a dieci anni di distanza, senza farsi condizionare da nessuna altra valutazione che quella dei fatti sottoposti al proprio giudizio. Non è per niente facile. Onore a loro e ai tanti loro colleghi che sanno garantirci questo, ma una giurisdizione che debba fare affidamento su virtù eccezionali - e in certi contesti quasi eroiche- del giudice, è una giurisdizione che ha già rinnegato sé stessa. Le questioni che queste ormai ordinarie vicende di malagiustizia squadernano davanti ai nostri occhi sono evidentissime. Per prima, ovviamente, la durata irragionevole dei processi. Converrete che se un imputato impiega dieci anni per vedere riconosciuta la propria innocenza, a tutti potrete imputare responsabilità nel trascorrere impietoso del tempo fuorché alla sua attività difensiva. D’altronde, il principio costituzionale della ragionevole durata del processo è dettato a garanzia dell’imputato, non a contenimento o compressione delle sue garanzie difensive. Quel comando costituzionale interroga dunque, ed innanzitutto, la durata delle indagini. Dal momento in cui l’Ufficio di Procura si assume la responsabilità di iscrivere qualcuno nel registro degli indagati, occorre individuare un termine di prescrizione dell’azione penale, ovviamente proporzionato alla gravità del reato ed alla complessità delle indagini. Le indagini devono avere una deadline temporale oltre la quale non deve essere possibile trascinarle. Ed al contempo, una volta esercitata tempestivamente l’azione penale, occorre reintrodurre quell’elementare principio di civiltà, annientato dalla riforma Bonafede, che pone un termine di prescrizione del reato contestato. Se lo Stato non riesce a pronunciare entro un termine ragionevole una sentenza definitiva sulla colpevolezza o l’innocenza del cittadino che ha accusato, ha il dovere, il sacrosanto dovere, di rinunziare ad esercitare la propria potestà punitiva. Ciò che non può accadere è che sia la persona imputata a pagare, oltre ogni ragionevolezza, la inefficienza dello Stato. La indecente ubriacatura mediatica che ha accompagnato la riforma populista della prescrizione ha diffuso nella pubblica opinione la storiella grottesca degli “avvocatoni” che fanno prescrivere i reati. È almeno dal 2006 che ciò è tecnicamente impossibile. Ripeto: tecnicamente impossibile. Qualunque istanza, anche la più ragionevole e motivata (impedimento professionale del difensore, malattia o altro impedimento dell’imputato, sciopero, rinvio della udienza comunque richiesto ed ottenuto dalla difesa) determina la sospensione del corso della prescrizione. Inoltre, nel corso di questi ultimi 15 anni i termini prescrizionali dei reati, soprattutto quelli di maggiore allarme sociale, sono stati innalzati fino ad oscillare tra i 15 ed i 45 anni. Di fronte a questa semplice constatazione, i fanatici cantori della riforma populista della prescrizione farebbero bene a vergognarsi. La seconda questione è altrettanto chiara ed impellente, e riguarda la constatazione che nessuno sia mai chiamato a rispondere di simili fallimenti giudiziari. Ci troviamo di fronte ad un potere tanto micidiale quanto del tutto irresponsabile. Lasciamo perdere, per un momento, la responsabilità civile e perfino quella disciplinare: ma è davvero mai possibile che chi ha imbastito e poi legittimato simili vicende giudiziarie non sia chiamato a risponderne nemmeno in termini di valutazione di professionalità, e dunque di carriera? Molto spesso sono indagini che, oltre a maciullare la vita delle persone ingiustamente imputate, sono costate milioni e milioni di euro in intercettazioni, consulenze, impegno di personale e mezzi di polizia giudiziaria. Ebbene, è francamente incredibile che nessuno possa chiedere conto, in nessuna sede, nemmeno del denaro che è stato speso per avviare e svolgere quelle indagini poi dimostratesi infondate. Se dovessimo individuare la distorsione più grave ed insidiosa per gli equilibri democratici di una società, non potremmo avere dubbi: un potere -amministrativo, legislativo, giudiziario- esercitato senza alcuna forma di responsabilità, nemmeno la più attenuata o indiretta. Il ripetersi sempre più allarmante di vicende come quella da ultimo occorsa all’on. Nicola Cosentino dimostra per fatti concludenti che quella distorsione della vita democratica è da troppo tempo inoculata come un virus nelle radici del nostro sistema istituzionale. Lo capiremo, prima o poi? *Presidente Unione Camere Penali Italiane Cesare Battisti annuncia sciopero della fame: “In questo carcere condizioni vergognose” tgcom24.mediaset.it, 3 ottobre 2020 L?ex terrorista dei Pac chiede al Dap “una sistemazione degna di un Paese civile” denunciando il trattamento a Corigliano Rossano (Cosenza), che lui ribattezza “Guantánamo Calabro”. “Oltre ad essere spiccatamente punitivo sotto tutti gli aspetti, il mio trasferimento a Guantánamo Calabro equivale ad una condanna all’isolamento ininterrotto, dato anche l’impossibile contatto con i membri dell’Isis o supposti tali”. Lo scrive il terrorista dei Pac, Cesare Battisti, in una lettera scritta a mano, nella quale non esclude di riprendere per protesta lo sciopero della fame. “Condizioni insostenibili” - Battisti ha fatto pervenire il suo documento al Dap, tramite l’avvocato Gianfranco Sollai, scrivendo dal carcere di Corigliano Rossano (Cosenza), dove è detenuto nel reparto di Alta sicurezza. “Voglio sperare che il Dap - scrive ancora nella sua lettera - trovi per me una sistemazione degna di un Paese civile, senza costringermi a riprendere lo sciopero della fame. Già che è preferibile finirla in un mese, con la gioia dell’ipocrisia nazionale, piuttosto che agonizzare un anno in condizioni vergognose e insostenibili”. “Restrizioni peggiori di Oristano” - “Dopo l’isolamento forzato di Oristano - si legge nel documento - sono qui sottoposto a un regime di gran lunga più restrittivo. Il mio spazio vitale è stato ridotto ai minimi termini di sopravvivenza. In un clima di estrema tensione e ordinaria intimidazione, sorvegliato a vista e costretto all’ozio forzato in una cella di un terzo inferiore allo spazio della precedente, sprovvista di suppellettili indispensabili. Mi è stato confiscato il computer impedendomi di fatto di svolgere la mia attività di scrittore e concludere il mio ultimo lavoro rimasto in memoria”. “Mi hanno portato via il computer” - E ancora: “A una mia richiesta, è stato provocatoriamente risposto che non risulta alle autorità una mia professione che implichi la disponibilità del computer o di altro materiale didattico. Come se non bastasse, mi è stata applicata una feroce censura. Questa non già per la supposta ‘fitta attività epistolare eversiva’ (sic), come pretende il vergognoso provvedimento, al quale nessuno può seriamente credere, bensì con il chiaro obiettivo di impedirmi di interagire con le istanze esterne, culturali e mediatiche, grazie alle quali starei guadagnando consensi democratici e garantisti, di fronte alla vendetta dello Stato”. Lazio. Il Garante: “Scuola e università in carcere, lezioni in forse” dire.it, 3 ottobre 2020 Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, interviene sui ritardi dell’amministrazione penitenziaria per assicurare una rete dati adeguata alla didattica a distanza. “Mentre in alcuni istituti penitenziari la programmazione dell’offerta scolastica è ancora largamente al di sotto delle necessità, la didattica a distanza sta incontrando grandi difficoltà. L’amministrazione penitenziaria se ne sta occupando con grave ritardo, nonostante le sollecitazioni giunte da alcuni istituti penitenziari che hanno riscontrato problemi per la creazione di una rete dati di collegamento delle aule o per potenziare la rete esistente”. È quanto ha dichiarato il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Lazio, Stefano Anastasìa, a margine del seminario “Polo universitario in Carcere: Diritto allo studio per costruire il futuro” che si è appena nell’istituto penitenziario di Secondigliano di Napoli. “L’amministrazione penitenziaria ha avviato solo a fine luglio il monitoraggio sulle esigenze di cablaggio e di dotazioni informatiche”, ha aggiunto Anastasìa, il quale ha partecipato al seminario nella sua veste di portavoce della conferenza nazionale dei garanti territoriali. Nel Lazio i detenuti iscritti alle università attualmente sono 133 (73 a Roma Tre, 19 alla Sapienza, 35 a Tor Vergata, cinque a Cassino, un iscritto all’università della Tuscia). Anastasìa ha ricordato che nel Lazio sono stati sottoscritti protocolli d’intesa tra l’ufficio del Garante dei detenuti, il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria e le università di Tor Vergata, Roma Tre e Cassino, in base ai quali i detenuti sono esentati dal pagamento delle tasse universitarie e, tramite Disco, l’ente regionale per il diritto allo studio della Regione Lazio, gli studenti detenuti possono ottenere i testi universitari in comodato d’uso gratuito. Inoltre, con i fondi della legge regionale per i diritti dei detenuti, la Regione sostiene finanziariamente il tutorato didattico degli studenti detenuti attivato dalle singole università convenzionate. Santa Maria Capua Vetere (Ce): “Ci hanno picchiati in 300, ci sono dei ragazzi in coma” di Angela Stella Il Riformista, 3 ottobre 2020 “Ci hanno picchiato verso le quattro e mezzo, cinque del pomeriggio del lunedì”, “sono venuti in trecento di loro. Hanno sfondato le celle e hanno preso 3 o quattro di loro. Intanto hanno detto “dobbiamo morire tutti”. Ci sono ora due o tre ragazzi in coma, stanno cercando i loro familiari ma non li trovano. C’è gente a cui hanno fatto saltare i denti, gente con la testa rotta, le mani rotte, con fratture ovunque”, “Ci hanno tolto tutti i diritti”. È rotta dal pianto la voce del detenuto che, nella registrazione della telefonata che il Riformista ha ricevuto e pubblicato anche sul sito, racconta a una familiare il pestaggio che si sarebbe consumato lo scorso 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sulla vicenda è aperta una indagine da parte della procura locale, oltre cinquanta agenti di polizia penitenziaria sono sotto inchiesta per il reato di tortura e abuso di potere. Nella telefonata il detenuto denuncia la sospensione delle videochiamate con i familiari: “Quelli aspettano cinque, dieci giorni che si tolgono i lividi?”, dice. E prosegue: “Hanno dato manganellate a tutti quanti e fino a due minuti fa. Sono scesi ed io ero seduto su uno sgabello in cella e mi hanno picchiato di nuovo; è passata là una guardia, mi ha visto sullo sgabello e mi ha detto “Ah sei seduto, non ti alzi davanti a noi?”. C’è gente che non si sa che fine abbia fatto; alcuni sono in ospedale per le botte che hanno preso, li piantonano in ospedale e non li fanno vedere a nessuno. È lì che devono andare a cercare”. Che cosa sia accaduto in quel giorno di aprile nel padiglione Nilo del carcere campano lo stabilirà la magistratura. A noi resta il compito di non spegnere l’attenzione su quello che potrebbe delinearsi, come ha detto il Presidente dell’Associazione A Buon Diritto, Luigi Manconi, ieri a Omnibus, come una “azione di rappresaglia militare” di alcuni agenti di polizia penitenziaria nei confronti di diversi detenuti che chiedevano solo rassicurazioni nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Il condizionale è d’obbligo, soprattutto quando si tratta di fatti accaduti al di là di quel muro che divide i presunti buoni dai presunti cattivi, dove spesso vittime e carnefici si scambiano i ruoli, e dove è difficile trovare testimoni. Per fortuna che esistono le telecamere di sorveglianza, i cui video ora sono al vaglio della magistratura: potrebbero confermare quanto già testimoniato da numerosi detenuti che hanno raccontato di brutali pestaggi da parte degli uomini della Polizia Penitenziaria entrati nelle celle a volto coperto e muniti di manganello. La presunzione di innocenza vale per tutti. Ma ciò, crediamo, non impedisca al Ministro Alfonso Bonafede, responsabile politico dell’amministrazione penitenziaria, di pronunciarsi in base a quanto emerso fino ad oggi. La stessa cosa vale per il capo del Dap Bernardo Petralia. Della riservatezza mediatica di Petralia non ci stupiamo: da quando è al vertice del Dap non ha ancora rilasciato interviste o dichiarazioni di rilievo, se non andiamo errati. Per quanto riguarda il Ministro Bonafede siamo un po’ stupiti, o forse no, da questo suo silenzio. Anche Pd, Leu e +Europa, con diverse interrogazioni parlamentari, hanno chiesto chiarimenti, ma al momento nessuna risposta. Eppure il Ministro già in passato ha rilasciato dichiarazioni, sempre con la dovuta premessa “Sono casi che verranno vagliati dalla magistratura e non entro nel merito”, relativi a fatti di cronaca. Tuttavia in questo caso c’è un assordante silenzio. Certo, l’indagine preliminare non è conclusa e si potrebbe obiettare che non sarebbe opportuno pronunciarsi in una fase così embrionale, ma c’è un problema politico più generale dietro la vicenda: cosa è accaduto nelle carceri nel periodo del lockdown, quando anche quattordici detenuti hanno perso la vita? Esiste o no un problema strutturale all’interno degli istituti di pena? E poi va ricordato che in circa 22 mesi sono emerse, “attraverso documentazioni e indagini, altre nove vicende simili relative ad altrettanti istituti penitenziari”, come ha ricordato sempre Luigi Manconi. Ieri abbiamo contattato gli uffici di Bonafede e Petralia per chiedere una dichiarazione ma nulla ci è stato risposto, se non informalmente che entrambi “non intendono esporsi essendoci accertamenti della magistratura in corso e che da parte del ministero c’è la massima attenzione nei confronti della vicenda”. “Ci hanno tolto tutti i diritti”, diceva il detenuto nella drammatica telefonata pubblicata sul sito del Riformista. “Se io voglio scrivere a casa non posso. È come se non esistessimo più: non siamo più detenuti ma prigionieri. Io li porto in tribunale, non ho mai fatto una denuncia, ma questa volta hanno esagerato”. Quanto ancora bisogna aspettare perché le istituzioni battano un colpo e dicano - non a noi giornalisti in cerca di una dichiarazione - ma alla popolazione, ai cittadini che il carcere non è una cantina sociale di cui nessuno si occupa ma un problema della collettività? Viterbo. Sui presunti pestaggi in carcere si tace da un mese di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 ottobre 2020 Denunciate ai carabinieri, e raccontate al Dubbio, i pestaggi subiti nel carcere di Viterbo da Valerio Mazzarella costretto a sopportare ancora provocazioni. Silenzio tombale sull’ennesimo presunto pestaggio rivelato da Il Dubbio che sarebbe avvenuto al carcere Mammagialla di Viterbo. Un silenzio da parte delle autorità che espone il detenuto - ancora recluso lì - ad eventuali ripercussioni. La compagna, Alessia, raggiunta ieri da Il Dubbio, è preoccupata. Nonostante l’esposto, il detenuto ancora non è stato sentito dalla procura. Lui stesso denuncia di ricevere minacce verbali e ha paura di rifinire nella cella d’isolamento. Vale la pena ricordare cosa è accaduto. Parliamo di Valerio Mazzarella, 41 anni, che è stato trasferito a Mammagialla da Rebibbia lo scorso 2 marzo. “I primi episodi mi vengono comunicati a partire dal 25 marzo - si legge nell’esposto che Alessia ha presentato ai carabinieri- quel giorno, poco prima del cambio di guardia, quattro agenti prelevavano Mazzarella Valerio dalla propria cella per portarlo in una stanza dove iniziavano a picchiarlo”. Il racconto durante le videochiamate - Il tutto, sarebbe avvenuto - secondo quanto ha riferito alla compagna tramite videochiamata e lettere - senza alcun reale motivo se non le legittime richieste riguardanti la vita penitenziaria che il detenuto avrebbe rivolto agli agenti. “Richieste - continua il racconto di Alessia nell’esposto- peraltro, puntualmente disattese. In quella occasione, due agenti lo tenevano e due lo picchiavano lasciando segni evidenti sulla testa, in particolare, un taglio profondo ad oggi tramutatosi in evidente cicatrice. Pur essendo stato medicato è da verificare se sia stato refertato e se ciò risulti nella cartella clinica”. Alessia sarebbe venuta a conoscenza dei fatti denunciati sia tramite la corrispondenza intrattenuta col compagno, sia tramite le conversazioni Skype autorizzate durante le quali ha potuto vedere i postumi del pestaggio. Non sarebbe stato l’unico. “Il 12 agosto 2020 - si legge sempre nell’esposto - lo hanno messo in isolamento in una cella vicina all’infermeria, una stanza piccola e sporca, maleodorante con escrementi sulle mura”. Lì gli avrebbero consentito di fare solo mezz’ora d’aria al giorno. Il 13 agosto il detenuto avrebbe ricevuto l’ennesima irruzione notturna, da parte dei soliti 3-4 agenti. “Lo hanno colpito alla testa per cui, ad oggi, sono quattro le cicatrici evidenti”, si legge sempre nell’esposto. “Lui chiede - continua il racconto verbalizzato dai carabinieri - di poter parlare con gli psicologi e di essere sottoposto a visita medica, ma gli viene negato. Mi fa sapere di sentirsi sepolto vivo e che ogni giorno gli fanno rapporti disciplinari per fatti non accaduti per provocare la sua reazione”. La compagna Alessia ha chiesto aiuto - Alessia riferisce al Dubbio che il suo compagno avrebbe cercato di denunciare tutto ciò ma non sarebbe stato preso in considerazione. Anzi, i pestaggi si sarebbero infittiti. “Violenze sempre più raccapriccianti come quando gli hanno ustionato le mani con piccoli pezzi di plastica incandescente. Il giorno dopo sono comparse sulle sue mani vesciche - racconta la donna - che io ho potuto vedere personalmente il 22 agosto tramite colloquio visivo via Skype”. Il detenuto ha chiesto ad Alessia, nelle loro rapide chiamate telefoniche, di denunciare questi fatti e di esporre che “oltre alla violenza fisica c’è anche quella psicologica perché gli agenti lo istigano per indurlo a reagire magari compiendo gesti irreparabili come già accaduto con un altro detenuto il quale si è tolto la vita”. Da ricordare che, quando ha saputo dal compagno che sarebbe stato pestato dagli agenti a più riprese, Alessia si è messa subito in moto e tramite una ricerca su internet ha contattato l’attivista dei diritti umani Pietro Ioia, ex detenuto e ora garante dei detenuti del comune di Napoli. Si è attivato subito e le ha consigliato di mettersi in contatto con l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, la quale già nel passato si è mossa per un caso analogo accaduto proprio nell’oramai famigerato penitenziario di Viterbo, conosciuto non a caso per essere un “carcere punitivo”. Un istituto penitenziario finito al centro della cronaca per casi di strani sucidi e diversi presunti pestaggi di recente attenzionati dall’autorità giudiziaria. Però, nonostante la denuncia, il detenuto ancora non è stato sentito dall’autorità. Nessuna interrogazione parlamentare. Ma soprattutto nessuna risposta da parte del Dap che dovrebbe attivarsi, anche con una indagine interna e magari tutelare il detenuto che è ancora lì, in una condizione di oggettiva vulnerabilità. Verona. Don Sergio Pighi, il prete dei “senzadio” di Angiola Petronio Corriere di Verona, 3 ottobre 2020 Si è spento il fondatore della Comunità dei Giovani che fu anche cappellano del carcere. È morto a 87 anni don Sergio Pighi. Fu cappellano del carcere e fondatore della Comunità dei Giovani. “Don Sergio era un prete vero. Un pastore. Che ha sempre seguito le regole del gregge. Perché a noi le regole le danno i poveri”, lo ricorda don Antonio Mazzi che di don Sergio era cugino e col quale era cresciuto. “Per me era un fratello. Lui era più obbediente di me, ma le regole canoniche le abbiamo sempre declinate agli ultimi”. “Don Sergio era un prete vero. Un pastore. Che ha sempre seguito le regole del gregge. Perché a noi le regole le danno i poveri”. È stata una vita intessuta di quelle regole, “che noi, al contrario degli altri, riceviamo dal basso e non dall’alto”, quella di don Sergio Pighi. Se n’è andato l’altro giorno a 87 anni, quel salesiano che aveva scelto Verona come terra di missione in cui seminare quel pensiero, alquanto “rivoluzionario” degli “ultimi che per me sono i primi”. In quel Vangelo personale che ha condiviso con quel cugino che è stato per lui un fratello. E anche un confratello. Hanno scelto lo stesso sentiero, don Antonio Pighi e don Antonio Mazzi. “E abbiamo condiviso la vita. Avevo 15 mesi quando mio padre morì - racconta don Mazzi - e il papà di Sergio mi venne a prendere in treno a Verona, tenendomi sempre in braccio. Siamo cresciuti insieme, più fratelli che cugini”. La famiglia di sangue e quella di fede, la famiglia dei Salesiani, per don Sergio e don Antonio, sono state le stesse. E identica è stata la parabola che ha tracciato la loro vita. Quella del Samaritano. Degli “eretici”, dei “senzadio”. Di quegli “ultimi” che per don Sergio erano l’incardi un Dio che non giudica, ma accoglie. Ha deciso di lasciare Verona, don Antonio. E con Exodus quella parabola l’ha portata in giro per l’Italia. Don Sergio, invece, ha deciso di predicarla e di metterla in pratica nella sua città. Non prima di aver provato anche lui la vita degli “ultimi”, facendo il clocard in alcune città. “Chi, come noi vive il disagio, non può fare una vita normale. Lui era più obbediente di me, ma le regole canoniche le abbiamo sempre declinate agli ultimi”, continua don Mazzi. Aveva scelto i carcerati, don Sergio. Diventando cappellano di quel Campone che negli anni Settanta brulicava di chi s’invischiava nella “Verona Bangkok d’Italia”. “Fu il primo ad aprire una struttura per gli ex detenuti in via XX Settembre. E non fu per niente facile. Ma lui aveva capito che quelle persone non avrebbero avuto un futuro se non si fosse stato qualcuno ad accoglierle”. È stato in quella struttura che don Pighi e monsignor Carlo Vinco si sono incontrati. “Ha sempre affrontato problemi difficili con passione, per tutta la vita. È stato una figura bella per la storia di questa città”. Quella “passione” per un’umanità imperfetta ha portato don Sergio a fondare nel 1972 la Comunità dei Giovani che con il Ceis e San Patrignano che nascevano negli stessi anni - divenne riferimento per chi dallo scannatoio della droga provava a uscire. È diventata una realtà nazionale, quella Comunità. “Adesso spiega il presidente Paolo Fraizzoli - a Verona diamo lavoro a 50 persone, gestiamo il dormitorio del Camploy e una struttura per donne in Borgo Milano, facciamo progetti di comunità di strada, seguiamo 24 appartamenti dove vivono persone in difficoltà”. Fino a 8 anni fa don Pighi era lì, nella sua Comunità. “Entrava in ogni stanza, faceva il giro dei dormitori. Salutava e diceva “vo in galera”. In quel carcere di Montorio dove lo avevano soprannominato “don euro” perché aveva sempre una monetina per l’elemosina o il caffè. Ma non ha mai dimenticato il suo essere “prete”, don Sergio. E con altri salesiani ha fondato quella parrocchia di Santa Croce. La più grande della città. unica chiesa di Verona a non portare il nome di un santo. “Con don Sergio ha ricordato un altro salesiano, Francesco Cremon, “prete di strada” in Ciad - non mi veniva chiesto né di filosofia, né di alta teologia, ma di vivere alla giornata, di abitare la strada, di condividere case diroccate con giovani usciti di carcere, senza una famiglia, ingolfati di droghe, Di riscoprire insieme le piccole cose, i gesti di solidarietà condivisi, il perdono accordato e ricevuto, il mettere l’altro con la sua sofferenza al primo posto”. “La sua eredità - conclude Paolo Fraizzoli - è quella di stare insieme portandosi dietro gli ultimi. E la cosa più difficile, ma anche la più stimolante: non perdere mai l’umanità”. I funerali di don Sergio Pighi “di anni 87 di età, 71 di professione religiosa e 61 di ordinazione sacerdotale”, come recita l’epigrafe, si terranno martedì alle 14,30 nella “sua” parrocchia, a Santa Croce. Sulmona (Aq). Detenuti impegnati per azioni di volontariato abruzzoweb.it, 3 ottobre 2020 Fuori dalle celle per azioni di volontariato. “Mi riscatto per Sulmona” è il nome del progetto che vedrà impegnati detenuti del carcere di Sulmona in attività di lavoro volontario e gratuito a fini di utilità e solidarietà sociale. Un progetto che concretizza il dettato costituzionale, in base al quale alla pena che giustamente deve essere scontata per chi si macchia di reati aggiunge il precetto della rieducazione del detenuto, che, scontata la pena deve essere reinserito nella società, a pieno titolo. “Finalmente, grazie all’adesione del sindaco di Sulmona Annamaria Casini e degli assessori Manuela Cozzi, Luigi Di Cesare e Salvatore Zavarella prende forma e a giorni sarà reso pratico il progetto” afferma Mauro Nardella, segretario della Uil Penitenziari. “Sarà una vera simbiosi tra chi è deputato all’amministrazione del bene pubblico e chi, dopo aver sbagliato nella vita, vuole riscattarsi degli errori commessi - sottolinea l’esponente Uil - dietro l’impegno del Comune di assicurare la copertura assicurativa Inail ed Rc nonché la formazione necessaria prevista dal testo unico sulla sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro, la dotazione dei dispositivi di protezione e sicurezza e a consentire la consumazione di un pasto al sacco o presso esercizi commerciali convenzionati ai detenuti che presteranno l’attività lavorativa, ci sarà assicurato un contributo in ambiti quali l’assistenza alle persone in difficoltà (anziani, invalidi, diversamente abili); manutenzione ordinaria e la pulizia delle strade e delle piazze pubbliche; manutenzione e pulizia di siti di attrazione turistica e di luoghi o edifici appartenenti al patrimonio artistico e culturale della città; manutenzione e pulizia di parchi pubblici, del letto dei torrenti e dei fiumi e all’attività di protezione civile correlate alla gestione di emergenze per calamità o eventi di emergenza”. Napoli. “Il diritto allo studio per costruire il futuro” di Amedeo Junod Il Riformista, 3 ottobre 2020 Il ministro Manfredi al Polo Universitario del Carcere di Secondigliano. “I poli universitari in carcere coniugano positivamente il diritto allo studio al diritto a ricominciare e ripartire. La certezza di ricominciare fa vivere il tempo della pena in maniera diversa”. È quanto ha sostenuto Samuele Ciambriello, Garante per la Regione Campania delle persone private della libertà, intervenendo ad un incontro seminariale sul tema del “Diritto allo studio per costruire il futuro”, presso l’Istituto “Pasquale Mandato” di Secondigliano. All’evento hanno preso parte, tra gli altri, la Direttrice dell’istituto Giulia Russo e il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Campania Antonio Fullone. Il Garante Ciambriello ha ricordato che “questo sarà il terzo anno di attività del Polo Penitenziario Universitario di Secondigliano, che conta ad oggi circa 70 studenti, e rappresenta ormai un fiore all’occhiello del Mezzogiorno”. La Direttrice Giulia Russo sottolinea come il progetto sia “nato come una sfida per diventare una realtà che si sta consolidando giorno per giorno. L’impegno crescente dei detenuti è la dimostrazione di una risposta sentita: dare uno strumento che possa poi essere spendibile all’esterno è una realtà che stiamo toccando con mano”. A chiudere gli interventi sono stati il Sottosegretario di Stato per la Giustizia Andrea Giorgis e il Ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi, il quale ha elogiato i risultati dell’Istituto: “Sono numeri importanti, un’esperienza coinvolgente per i detenuti, fortemente impegnati in questo processo formativo. Un’esperienza che va ulteriormente consolidata perché la formazione universitaria può essere una grandissima opportunità di riscatto, e rientra in una politica del Ministero che va nella direzione di maggiore inclusione e azione nella società da parte dell’università”. Ascoli Piceno. Progetto di formazione per i detenuti: corsi sulla sicurezza erogati da Ancors occhioallasicurezza.it, 3 ottobre 2020 La Fondazione Carisap (fondazione della Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno) ha promosso un corso di formazione rivolto a chi è detenuto presso la Casa Circondariale di Ascoli Piceno. Il carcere di Ascoli Piceno, nel comune di Marino del Tronto, è stato in passato “supercarcere”: tra gli altri vi sono stati detenuti Alì Agca, Totò Riina, Pippo Calò, Renato Vallanzasca. Ora è destinatario del progetto promosso dalla Caritas Diocesana di Ascoli Piceno che, in collaborazione con la Cooperativa Ama Aquilone, si pone l’obiettivo di formare i detenuti con un corso di cucina studiato appositamente per loro. Il corso si compone di una parte teorica in aula e una parte pratica in cucina. Nella prima parte del corso si impartiscono nozioni di igiene e sicurezza negli ambienti di lavoro con un taglio specifico per i rischi nelle cucine, sia mediante slide teoriche, sia attraverso dei video proiettati in aula con situazioni specifiche di pericolo e loro risoluzione. La seconda parte si compone di 60 ore di pratica con la presenza di una chef e un aiuto-chef. Al termine del corso di formazione verrà rilasciato un attestato di partecipazione al corso e attestati inerenti l’igiene e la sicurezza negli ambienti di lavoro. A.N.CO.R.S. sede Marche - San Benedetto del Tronto è stata scelta dalla Cooperativa Ama Aquilone per erogare la formazione in aula in quanto ritenuta seria e affidabile sotto i profili professionale e morale. Il corso è iniziato il 21 settembre e terminerà il 30 ottobre. Milano. Dal carcere dedica lettera d’amore alla figlia e vince concorso di scrittura primonumero.it, 3 ottobre 2020 Detenuto nel carcere di Milano-Opera, è lui il vincitore della quarta edizione del concorso nazionale di scrittura “Scrittodicuore” che ha coinvolto gli istituti penitenziari di tutt’Italia. Si chiama Alessandro ed è detenuto nel carcere di Milano-Opera: è lui il vincitore della quarta edizione del concorso nazionale di scrittura “Scrittodicuore” che ha coinvolto gli istituti penitenziari di tutt’Italia. La lettera per la figlia ha commosso ed emozionato la giuria tecnica che ha valutato i componimenti e decretato il primo premio per Alessandro con questa motivazione: “Commovente, profonda, vera, scritta con il coraggio di dare voce a un sentimento muto, che abbatte l’allergia alla parola che gira nella verità. L’immagine del salice piangente e delle foglie che piangono, piangono per chi non sa farlo, piangono per chi non riesce a farlo o piangono solo negli angoli della solitudine. Amare è anche lasciar andare e liberare l’urgenza del salice”. ‘Scrittodicuorè è il concorso nazionale di scrittura destinato agli istituti carcerari italiani, nell’ambito della rassegna Scritti di cuore - l’amore e le parole per raccontarlo, promossa e organizzata dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli e con il partenariato della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso nell’ambito di Ti racconto un libro 2020. A selezionare le lettere, arrivate in centinaia da ogni parte d’Italia, ci ha pensato la giuria tecnica composta dagli scrittori Franco Arminio, Camilla Baresani e Pino Roveredo. La Giuria Giovani, composta da Salvatore Dudiez, Roberta Tanno, Elena Sulmona, Angelica Calabrese e Alessandro Tavano, tutti di età compresa tra i 18 e 32 anni, ha confermato la scelta del vincitore. Sul secondo gradino del podio Edoardo, ospite nella Casa circondariale di Padova, per la sua lettera di consolazione dell’umanità, una vera e propria poetica del bene come mezzo per raggiungere l’immortalità sulla terra. Segnalata dalla giuria tecnica anche la lettera di Assia, ospite nella Casa di Reclusione “Giudecca” di Venezia, che parla dell’amore trovato proprio durante la reclusione, una testimonianza che fa sperare che in carcere sia possibile non solo ripensare la propria vita ma anche provare a immaginarne una completamente nuova. “La premiazione del concorso - riferiscono gli organizzatori - ha rappresentato l’occasione per ritornare “dentro il Carcere” e riaprire un dialogo interrotto a causa della pandemia. Un modo per rinsaldare un legame tra il mondo esterno e chi un giorno dovrà farvi ritorno”. Dopo la lettura di alcuni brani d’amore tratti anche dal repertorio musicale italiano da parte dell’attrice Palma Spina, nel teatro della casa circondariale di Campobasso si sono alternati gli interventi del Direttore del carcere Rosa La Ginestra, di Brunella Santoli Direttore Artistico dell’Unione Lettori Italiani e responsabile del concorso “Scrittodicuore”, di Angelica Calabrese in rappresentanza della Giuria Giovani, del vicesindaco e assessore alla Cultura del Comune di Campobasso Paola Felice, e dell’assessore alle Politiche per il Sociale del Comune di Campobasso Luca Praitano. Tra i presenti anche una rappresentanza degli ospiti della Casa circondariale, che hanno letto alcune lettere selezionate dalla Giuria. Giacinto Siciliano: “Ho il coraggio di credere che un omicida possa cambiare” di Roberta Spadotto Gente, 3 ottobre 2020 “C’è del buono pure in chi ha commesso i reati più efferati”, dice Giacinto Siciliano. Ha trascorso 26 anni dietro le sbarre. Li ripercorre in un libro. Per chi sta fuori il carcere è solo un luogo di sofferenza. Se si passa davanti a San Vittore, che si trova nel pieno centro di Milano, si tende a distogliere lo sguardo, spinti dall’idea che oltre quelle spesse mura non circoli la minima speranza. Non è così. Giacinto Siciliano, direttore della casa circondariale dal 2017, ha un’idea della carcerazione che si sposa perfettamente con l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Siciliano si definisce “un servitore dello Stato” e ha il senso della legalità e del rispetto delle regole inciso nel Dna: prima di lui suo padre diresse San Vittore negli “anni di piombo” e suo nonno fu comandante degli agenti di custodia in diversi istituti di pena. Ma lui, se possibile, è andato oltre. “Io credo che esista del buono in ogni persona, anche in chi ha commesso reati molto gravi”, dice a Gente seduto alla scrivania del suo ufficio dentro il carcere, dove passa interamente le sue giornate e le sue notti (vive con la moglie e i tre figli in un alloggio interno). “Il mio dovere è quello di dare una possibilità: nessuno nega che chi sta qui abbia commesso reati anche efferati. Ma tutti noi siamo in divenire, io compreso, e chi ha sbagliato può imparare dai propri errori”. Per fare un bilancio della propria vita e della propria carriera professionale (26 anni passati da direttore di carcere, da Trani a Sulmona, passando dal carcere di massima sicurezza di Opera dove è stato 10 intensi anni) Giacinto Siciliano ha scritto il libro “Di cuore e di coraggio” (Rizzoli, 18 euro). “Ci vogliono cuore e coraggio”, ci spiega, “per poter anche solo immaginare di trovare qualcosa di salvabile in un detenuto che si è macchiato di un crimine orrendo. Il mio compito è quello di sospendere il giudizio”. Siciliano lo ha fatto con tutti: ladri, assassini, mafiosi. “Ci sono volte che va bene, altre no”. Uno dei suoi “fiori all’occhiello” è Francesco Squillaci, ergastolano dalla storia feroce, diventato poi pentito di mafia anche grazie al lavoro di recupero avviato durante la lunga detenzione a Opera sotto la direzione di Siciliano: un percorso fatto di “alti e bassi”, corroborato da attività artistiche come i musical. Nel 2011 Siciliano autorizzò (per la prima volta nella storia penitenziaria italiana) 14 condannati a pene pesanti, tra i quali Squillaci, a uscire dal carcere per recitare nello spettacolo La luna sulla capitale in scena al teatro degli Arcimboldi. “Avrebbero potuto evadere”, dice Siciliano. “In tutti però prevalse il senso di squadra e del valore di quello che avevamo realizzato insieme. Quella volta vincemmo tutti”. Certo, con alcuni detenuti è più difficile. “Totò Riina”, spiega Siciliano che, a causa anche delle minacce ricevute dal boss mafioso scomparso nel 2017, vive sotto scorta, “non avrebbe mai abbassato le barriere”. Di Olindo Romano, condannato con la moglie Rosa Bazzi per la strage di Erba del 2006, il direttore si lascia fuggire: “È diverso da come lo si immagina”. Ora, a San Vittore, tutto si svolge in modo diverso. “Qui la permanenza media dietro le sbarre è di 90 giorni”, dice Siciliano, “dunque non si può fare con i detenuti un percorso a lungo termine”. Il direttore conosce tutti i carcerati, o quasi. “Mi piace girare, parlo con loro, voglio conoscere”. Sul suo tavolo c’è il foglio delle entrate e uscite quotidiane, circa 15 al giorno. “A momento ci sono 872 uomini, 75 donne e due bambini. Riguardo all’annoso tema del sovraffollamento, si comincia a essere troppi quando la quota degli uomini è sopra le 850 unità”. Ma il direttore non è un uomo che si sottrae alle sfide. “Vorrei portare la bellezza in questo luogo”, dice. “Non parlo dell’estetica. Intendo più cura, più attenzione alle persone”. Questo aspetto si è concretizzato durante la pandemia. “San Vittore, come un piccolo paese autonomo, ha dovuto riorganizzarsi”, racconta. La Ue accusa: “l’Italia ignora le violenze in casa, il governo pensi a tutelare le vittime” di Cristiana Mangani Il Messaggero, 3 ottobre 2020 Troppi non luogo a procedere, troppi casi in cui l’Italia non punisce come dovrebbe le violenze domestiche che si risolvono spesso in fase di indagini preliminari. Il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa interviene sulla delicata questione e si dice “preoccupato” per l’elevato tasso di inchieste chiuse ancora prima di arrivare a processo. Le conclusioni emergono dalla decisione dell’organo esecutivo di Strasburgo che ha esaminato, nell’ambito della cosiddetta procedura d’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani, le informazioni fornite dal governo italiano per rimediare alle carenze che hanno condotto alla condanna del Paese nel 2017 sul caso Talpis, l’uomo - Andrei Talpis, ora in prigione per una condanna all’ergastolo - marito di Elisaveta, che ha ucciso il figlio diciannovenne Ion e ha tentato di uccidere anche la donna. I giudici di Strasburgo stabilirono all’epoca che, nonostante le ripetute denunce presentate da Elisaveta, le autorità non avevano preso le misure necessarie a proteggerla dalla violenza del marito e che questo aveva favorito un aumento dell’aggressività. Nella decisione resa nota ieri, il comitato dei ministri, pur esprimendo “soddisfazione per gli sforzi continui delle autorità, che dimostrano la volontà di prevenire e combattere la violenza domestica e la discriminazione di genere”, hanno chiesto al governo di attuare una serie di misure e fornire entro marzo informazioni su quanto fatto ma anche dati statistici. In particolare Strasburgo ha sollecitato all’Italia la creazione rapida di “un sistema completo di raccolta dati sugli ordini di protezione, e fornisca anche dati statistici sul numero di domande ricevute, i tempi medi di risposta delle autorità, il numero di ordini effettivamente attuati”. Inoltre il governo dovrà fornire informazioni sulle misure prese, o che intende prendere, per garantire che le autorità competenti attuino una valutazione e una gestione adeguata ed effettiva dei rischi legati al ripetersi e all’aggravarsi degli atti di violenza domestica, e quindi dei bisogni di protezione delle vittime. Già nel 2017 lo stesso caso era costato all’Italia una condanna della Corte europea dei diritti umani. Le motivazioni erano state quelle di non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere la donna e suo figlio dagli atti di violenza del marito. La sentenza era stata la prima da parte della Cedu impartita all’Italia per un reato relativo al fenomeno della violenza domestica. Quanto concluso dal Consiglio d’Europa non sembra però lontano dalla realtà. Perché - come spiega la professoressa Flaminia Saccà, ordinario di Sociologia politica dell’università della Tuscia, capofila di un progetto che si chiama Step, Stereotipo e pregiudizio - “non esiste un dato totale, non è dato sapere quanti siano i casi di violenza in Italia, né quanti arrivino a condanna o a processo”. Lo studio che sta svolgendo in collaborazione con Differenza donna, su un bando del Dipartimento per le pari opportunità della presidenza del Consiglio, verrà presentato nei prossimi giorni. Ma quello che è emerso con grande evidenza è “che non esiste un database delle sentenze”. “Ci sono archivi parziali - sottolinea - dove si trovano solo alcune sentenze di primo e secondo grado. È digitalizzata unicamente la Cassazione, ma i casi che arrivano fino al terzo grado sono pochissimi, perché le donne, molto spesso, rinunciano a fare opposizione. Subiscono una forte pressione sociale, economica, spesso connotata dalle minacce. Chi non è assistita dai centri antiviolenza è molto sola. Dopo un lavoro di ricerca - conclude Saccà - abbiamo reperito 180 sentenze che sono pochissime, perché il fenomeno è decisamente più ampio. Ci deve essere una falla in questa raccolta di dati. Nel 2017 gli omicidi, la violenza sessuale, lo stalking, i maltrattamenti in casa e la riduzione in schiavitù risultano essere stati un po’ meno di 15 mila. L’ultimo rapporto dell’Istat è addirittura del 2014, ma il dato rilevato parlava del 31,5 per cento di donne che aveva subito violenza per mano maschile. Numeri molto alti che non trovano riscontri nelle condanne. Va detto: è come se l’Italia ignorasse il fenomeno della violenza di genere”. Caso dj Fabo, Il pm fa appello contro Welby e Cappato per aiuto al suicidio di Giulia Merlo Il Domani, 3 ottobre 2020 Dopo l’assoluzione di primo grado. La procura di Massa ha fatto ricorso in appello contro la sentenza di assoluzione a Marco Cappato e Mina Welby. Il tesoriere e la co-presidente dell’associazione Luca Coscioni erano finiti sotto processo per aver aiutato Davide Trentini, malato di sclerosi multipla, accompagnandolo in Svizzera, per fare ricorso al suicidio assistito nell’aprile del 2017. Lo scorso 28 luglio, la corte d’Assise li aveva assolti “perché il fatto non sussiste” per l’ipotesi di istigazione al suicidio e “perché il fatto non costituisce reato” per l’ipotesi di aiuto al suicidio. Il pm, invece, aveva chiesto la condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione. Cappato e Welby hanno preso atto “con rispetto” della decisione della procura e hanno puntato il dito contro il parlamento: “La grave responsabilità di quanto sta accadendo è tutta del parlamento italiano che non ha ancora fornito risposta ai due richiami della Corte costituzionale”. La colpa del parlamento Nella sua sentenza interpretativa del 2019 sul caso del suicidio assistito di dj Fabo, la Consulta aveva infatti parlato di “indispensabile intervento del legislatore” per una revisione dell’articolo 580 del codice penale, che prevede cinque anni di reclusione per chi “determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”. I giudici costituzionali hanno ritenuto “non punibile” chi agevola l’esecuzione del suicidio, nel caso in cui il proposito si sia “formato autonomamente e liberamente” in un paziente “tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Pur sollecitando un intervento delle camere, dunque, la Corte ha fissato le condizioni soggettive del paziente che rendono non punibile l’aiuto al suicidio. Questa sentenza è stata alla base dell’assoluzione in primo grado anche per il caso Trentini, perché la corte d’Assise ha ritenuto che le quattro condizioni indicate dalla Consulta per la non punibilità del reato si fossero verificate anche in questo caso. “C’è stata istigazione” Di diverso avviso la procura, che ha basato l’appello su due elementi: per quanto riguarda l’istigazione, ha ritenuto che l’aiuto prestato a Trentini sia stato di agevolazione fisica concreta; Cappato e Welby inoltre avrebbero rafforzato l’idea di suicidarsi nel malato. Il pm, infatti, ha scelto un’interpretazione restrittiva della sentenza costituzionale e sollevato dubbi sul fatto che Trentini fosse tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. La procura ritiene che il “trattamento vitale” sia tale solo se il paziente è completamente dipendente da una macchina per sopravvivere, e così non era nel caso di Trentini. “La sentenza della Corte costituzionale ha delineato i criteri per i quali, in futuro, l’assistenza al suicidio non è più reato. Per i casi pregressi, come quello di dj Fabo e Trentini, ha stabilito che spetta al giudice di merito valutare se sussistono situazioni “sostanzialmente equivalenti” alle condizioni indicate”, spiega Francesco Di Paola, avvocato difensore di Cappato e Welby. Nel caso di Trentini, la difesa ha sostenuto che Davide si trovasse in una situazione sostanzialmente equivalente a quella di essere tenuto in vita da una macchina, anche se non sarebbe morto istantaneamente se il suo respiratore fosse stato spento. A questa tesi ha dato ragione la sentenza di primo grado. Davide Trentini era capace di intendere e di volere, era malato di sclerosi multipla, quindi una malattia irreversibile, che gli provocava insopportabili dolori. “Noi abbiamo dimostrato che, in linea con la sentenza costituzionale, il trattamento di sostegno vitale non può essere inteso restrittivamente. Anche perché, da un punto di vista medico, nemmeno dj Fabo sarebbe morto immediatamente se spente le macchine, ma avrebbe potuto sopravvivere anche alcune settimane”, ha detto Di Paola. “Rifaremmo tutto e siamo pronti a rifarlo, anche se il prezzo da pagare dovesse un giorno essere quello di finire in carcere”, è stato il commento di Cappato e Welby. Intanto, però, il parlamento è ancora immobile sul tema del fine vita. L’iter della legge sull’eutanasia è iniziato a gennaio 2019, ma è ancora fermo nelle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera, perché non c’è accordo sul testo base tra le forze politiche di maggioranza. Con le Camere ferme al palo, la sentenza della Consulta diventa l’unico appiglio giuridico che offra una bussola costituzionalmente orientata per valutare i casi di suicidio assistito. In attesa del prossimo malato incurabile che sceglierà di chiedere aiuto all’associazione Luca Coscioni e del prossimo processo. Migranti, ecco come il nuovo Decreto Immigrazione modifica i dl Salvini di Eleonora Camilli redattoresociale.it, 3 ottobre 2020 Dalla protezione “speciale” ai tempi per la cittadinanza, fino alle multe alle ong che salvano persone in mare. Ecco le modifiche ai Decreti Sicurezza che approderanno al prossimo Consiglio dei ministri. Conte: “Garantire protezione e sicurezza a tutti”. Scompare la parola “sicurezza”, si parla di “immigrazione e protezione internazionale”. Torna l’umanitaria, che si chiamerà “protezione speciale”, si ripensa l’accoglienza in chiave più inclusiva, si passa da quattro a tre anni per le pratiche di cittadinanza e non ci sono più le maximulte per le ong, che avranno un importo più basso e necessiteranno dell’intervento di un giudice per l’applicazione. Arrivano lunedì in Consiglio dei ministri le modifiche ai decreti sicurezza (convertiti nella legge 132) voluti dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il testo, pronto già da luglio, era stato congelato in vista delle elezioni regionali e del referendum di Settembre. Ma ora, con un risultato elettorale favorevole, il Governo ha deciso di ritirare fuori dal cassetto la bozza di modifica e portarla in discussione al prossimo Consiglio dei ministri di lunedì 5 ottobre. Il nuovo decreto si chiamerà “Disposizioni in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, nonché in materia di diritto penale”. “Volevamo farlo nel weekend ma c’è il silenzio elettorale, ci sono dei ballottaggi e quindi è stato opportuno rinviare. La revisione era uno dei punti programmatici di questo Governo, anche alla luce delle osservazioni del presidente della Repubblica”, ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. “Dobbiamo garantire protezione e sicurezza a tutti”. Al momento della firma dei decreti sicurezza, nell’agosto del 2019, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella aveva infatti fatto dei rilevamenti, in particolare sulle multe, fino a un milione di euro per chi salva vite in mare e sulla parte del decreto che si riferiva alle manifestazioni. Non solo, ma contro i cosiddetti dl Salvini si è espressa anche la Consulta che ha dichiarato incostituzionale vietare l’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo. Secondo il pronunciamento, nella misura si rileva una “irrazionalità intrinseca” poiché la misura rende più difficile “il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza”. Inoltre, la Consulta ha rilevato disparità di trattamento: “rende ingiustamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi ad essi garantiti”. La “protezione speciale” che sostituisce l’umanitaria - Da tempo la società civile, e in particolare le organizzazioni che si occupano di tutela dei diritti di migranti e rifugiati, hanno chiesto l’abrogazione dei decreti sicurezza. Ma il Governo ha sempre parlato di modifiche. Il Movimento 5 stelle, in particolare, che quei decreti li ha scritti insieme alla Lega, non vuole fare troppi passi indietro. E, nonostante le modifiche siano ormai concordate, sta provando ancora a negoziare sul reintegro della protezione umanitaria, che si chiamerà “speciale” e che contemplerà una serie di casi. Nello specifico, il nuovo decreto Immigrazione prevede 8 articoli. La protezione speciale (che sostituisce l’umanitaria) verrà rilasciata previo parere della commissione territoriale. “Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani e degradanti - si legge nel testo -. Nella valutazione si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani”. Non sono ammessi inoltre i respingimenti in “violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, a meno che esso non sia necessario per regioni di sicurezza nazionale ovvero di ordine e sicurezza pubblico”. Si torna all’accoglienza inclusiva - Per la parte che riguarda l’accoglienza l’aspettativa da parte delle organizzazioni è in gran parte soddisfatta perché c’è, nei fatti, un ritorno alla centralità del sistema pubblico dei comuni anche per i richiedenti asilo. Il decreto sicurezza aveva, infatti, precluso la possibilità di essere accolti negli Sprar ai richiedenti protezione. Il nuovo sistema, detto Siproimi era destinato solo a chi aveva già ottenuto lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, e ai minori non accompagnati. Nella bozza di modifica si specifica invece che “gli enti locali che prestano servizi di accoglienza per i titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati, che beneficiano del sostegno finanziario di cui al comma 2, possono accogliere nell’ambito dei medesimi servizi, nei limiti dei posti disponibili, anche i richiedenti protezione internazionale e i titolari dei permessi di soggiorno”. Vengono reinseriti anche i servizi di assistenza sanitaria, i corsi di lingua e di orientamento legale e formativo. Dall’amministrativo al penale: il nodo delle maximulte alle ong - Il nodo più controverso riguarda le multe alle ong che operano per il salvataggio in mare e che con il decreto sicurezza bis potevano arrivare a un milione di euro. Nella proposta di modifica non si incorre in divieti se si opera il soccorso e lo si comunica immediatamente al centro di coordinamento competente e allo Stato di bandiera. Nei casi di inottemperanza e di ingresso forzoso in acque territoriali l’illecito da amministrativo diventa penale, e per la sanzione si fa riferimento al Codice della navigazione (multe di 516 euro e due anni di carcere). Anche se la sanzione pecuniaria potrebbe essere aumentata da 10mila a 50mila euro. Una modifica che, se in parte, assicura la garanzia di un giudice nella verifica dell’illecito, per le ong rimane una forma di criminalizzazione del soccorso in mare. “Si paga solo se si è colpevoli, e dunque se la magistratura avrà un approccio garantista non dovremmo temere nulla. Ma per noi non ha alcun senso puntare alla magistratura per una legge che non dovrebbe esistere. Il decreto sicurezza bis dovrebbe essere abrogato, perché è stato utilizzato per introdurre modifiche pericolose al codice di procedura penale volte solo a giustificare la possibilità di criminalizzare le ong e ledere i diritti delle persone” sottolinea Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch. Anche per Riccardo Gatti, portavoce di Open Arms nei fatti la “criminalizzazione delle ong continua, anche se in maniera meno violenta”. “Il fulcro non è la quantità della multa in sé, che sia un milione o 50mila euro, ma il preconcetto di base, l’atteggiamento criminogeno che rimane - sottolinea. Si parte da presupposti non reali e dimostrati come infondati per continuare ad attaccare le ong”. La questione della cittadinanza - Il testo di modifica prevede che il tempo di permanenza all’interno dei Cpr diminuisca da 180 a 90 giorni e “prorogabile di altri 30 giorni quando lo straniero sia cittadino di un Paese con cui l’Italia non ha sottoscritto gli accordi in materia di rimpatri”. Ed elimina la parte relativa alla revoca della cittadinanza in caso di condanne per terrorismo. Per quanto riguarda i tempi, il decreto Salvini aveva allungato da due a quattro anni il periodo della richiesta di cittadinanza per naturalizzazione e matrimonio. Nel nuovo decreto i tempi si accorciano di un anno, a trentasei mesi dalla data di presentazione della domanda. Migranti. A sette anni dalla strage di Lampedusa nel Mediterraneo si continua a morire di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 ottobre 2020 Oggi la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione” per ricordare i 368 morti davanti alle coste dell’isola siciliana. Iniziative e protese in molte città. Ci sono anniversari che invece di ricordare il passato riflettono il presente in uno specchio. Il 3 ottobre 2013, a poche miglia da Lampedusa, un barcone carico di migranti si ribaltò. Si salvarono in 151. Altri 368 persero la vita. Venti i dispersi. Le persone avevano già indossato i vestiti buoni custoditi durante il viaggio per il momento dell’arrivo in Europa. 360, giovani e giovanissimi, erano eritrei in fuga dal regime di Iasaias Afewerki. Il naufragio causò una grande commozione. Dieci giorni dopo partì l’operazione Mare Nostrum: marina e aeronautica militare salvarono 100.250 persone in 382 giorni. Tra il 14 e il 25 settembre 2020 davanti alla Libia sono annegate almeno 190 persone. Lo ha documentato in un rapporto Alarm Phone, ma di loro sappiamo pochissimo. Le nuove stragi fanno meno notizia e destano minore commozione. Sta soprattutto in questo l’importanza delle mobilitazioni odierne, in quella che dal 2016 è la “Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione”. La piazza centrale è a Lampedusa, promossa dal Comitato 3 ottobre nella campagna “Siamo tutti sulla stessa barca”. Dalle 8 studenti, abitanti e rappresentanti istituzionali marceranno verso la Porta d’Europa, monumento alla memoria dei migranti morti in mare. Nel luogo del naufragio sarà poi deposta una corona di fiori. Ci sarà anche il sindaco Totò Martello che ieri ha incontrato a Montecitorio il presidente della Camera Roberto Fico. Iniziative sono previste in molte città: Roma (piazza Santi Apostoli, ore 15.30); Milano (piazza dei mercanti, ore 16); Palermo, Padova e Brescia (mattina); Catania, Pescara, Modena, Cesena e Trento (pomeriggio). “Il governo italiano interrompa il blocco delle navi umanitarie”, con questo slogan manifesteranno le Ong attive in mare ma al momento bloccate a terra: Mediterranea, Sea-Watch, Medici Senza Frontiere e Open Arms. Con un documento congiunto chiedono all’esecutivo Pd-5S: riconoscimento del soccorso in mare; fine del blocco di navi e aerei della società civile; assegnazione di un porto sicuro entro 24h a chiunque compia un salvataggio; riattivazione di un meccanismo europeo di soccorso. “In Europa c’è una linea “laburista” che non è alternativa ai sovranisti, ma usa parole suggestive per coprire la terribile strategia degli accordi con i libici e della criminalizzazione delle Ong”, dice Luca Casarini di Mediterranea. Alla giornata prenderanno parte anche i sindacati. “Manca un progetto per salvare vite umane e continuano a esistere norme che scoraggiano le organizzazioni umanitarie”, dicono dalla Cgil. Per la rete #IoAccolgo il governo italiano deve intervenire nella discussione sul Patto europeo migrazioni e asilo per ribaltare la logica di chiusura ed esternalizzazione, introdurre vie legali d’accesso, riformare Dublino secondo le indicazioni dell’Europarlamento e promuovere un programma europeo di salvataggi. Ieri anche l’Onu ha alzato la voce per chiedere un’azione urgente contro il dramma del Mediterraneo. L’alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet ha parlato di un “fallimento del sistema di governance della migrazione, che non mette al centro i diritti di migranti e rifugiati”. Migranti. Processo a Salvini, il giudice chiederà gli atti di altri sbarchi di Alessandra Ziniti La Repubblica, 3 ottobre 2020 L’udienza a porte chiuse in un tribunale blindato. Annullato per motivi di sicurezza il caffè delle 8.30 a Piazza Duomo tra i leader del centrodestra. La Procura torna a chiedere il non luogo a procedere dalla nostra inviata. In questo strano processo senza accusa, al presidente Nunzio Sarpietro toccherà tornare a vestire i panni del vecchio giudice istruttore. Perché è così, con la richiesta di acquisizione di nuovo consistente materiale probatorio su diversi altri sbarchi in cui i migranti sono stati trattenuti e sulle eventuali responsabilità di governo e, se riterrà, (solo dopo lo studio delle carte) con nuove testimonianze che, con tutta probabilità, si concluderà oggi l’udienza preliminare che vede l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini accusato di sequestro di persona aggravato per aver trattenuto per cinque giorni a bordo della nave della Guardia Costiera Gregoretti 131 migranti soccorsi nel Mediterraneo a luglio 2019. “Viviamo un momento di sospensione della democrazia. Il mio processo è una violenza alla Costituzione. Non avrei mai pensato di finire in tribunale, ma non mi vergogno. Dormo tranquillo con la mia compagna e vado con il rosario in tasca. Ho piena fiducia nella magistratura e penso che il processo non ci sarà proprio”. Così Salvini ieri sera ha scaldato alla vigilia la piazza dei suoi fan in una Catania blindata dove il prefetto Claudio Sammartino ha dovuto far annullare l’improvvisato caffè delle 8.30 tra il leader della Lega, Meloni e Tajani a Piazza Duomo per evitare il contatto tra i manifestanti delle fazioni pro e contro Salvini che oggi daranno vita a ben quattro cortei.Il caffè è stato spostato, senza fans, al solo beneficio di fotografi e tv al Baia Verde. Ma non finisce qui, oggi, con un non luogo a procedere come spera Salvini e come torna a chiedere la Procura che questo processo non l’ha mai voluto. E non si arriverà neanche a un rinvio a giudizio tout court come indicato dal tribunale dei ministri che ha chiesto e ottenuto l’autorizzazione a procedere. Che differenza c’è fra il caso Gregoretti e la Diciotti prima e la Open Arms dopo? E persino con la Ocean Viking sulla quale, quando al Viminale era già Luciana Lamorgese, altri migranti furono ugualmente trattenuti nell’attesa dell’impegno alla redistribuzione europea? Che ruolo hanno avuto il governo, il premier Conte, i ministri Di Maio e Toninelli nella scelta ora contestata al solo Salvini di bloccare lo sbarco della Gregoretti? E ancora: se era ravvisabile un sequestro di persona, perché la Procura non è intervenuta subito? E qual è il reale status giuridico di un migrante? Libero come un qualsiasi cittadino o in trattenimento amministrativo in attesa di verifica della sua posizione? Sono solo alcuni degli interrogativi (sottolineati anche dalla memoria dell’avvocato Giulia Bongiorno) ai quali il giudice Sarpietro intende trovare risposta prima di decidere la sorte di Salvini. L’udienza (nella quale solo all’ultimo Salvini potrebbe decidere di fare dichiarazioni spontanee) si svolge a porte chiuse in un palazzo di giustizia blindato. In aula l’unica famiglia di migranti arrivata con la Gregoretti e rimasta in Sicilia (i nigeriani Jafra e Aishat Saha e i loro tre figli) si costituisce parte civile con l’avvocato Massimo Ferrante. Ci proveranno anche molte associazioni. A rappresentare l’accusa il sostituto Andrea Bonomo e non il procuratore Carmelo Zuccaro che, sulle scelte della Procura, dice a Repubblica: “Ogni valutazione è riservata al momento conclusivo dell’udienza preliminare, dopo che sarà espletata l’attività istruttoria “. Se il giudice Sarpietro deciderà l’acquisizione dei documenti relativi ad altri casi in cui i migranti sono rimasti per giorni a bordo delle navi, si profila un rinvio a dicembre. Solo dopo, eventualmente, il giudice potrebbe decidere di sentire altri protagonisti del caso, dal premier ai ministri (vecchi e nuovi) e la difesa sceglierà tra il rito abbreviato e l’ordinario. Un’educatrice colombiana vince il Premio Nansen per i Rifugiati dell’Unhcr La Repubblica, 3 ottobre 2020 Mayerlín Vergara Pérez, nota come Maye, ha dedicato la vita a difendere i bambini. Ha lavorato per oltre due decenni per debellare ogni forma di sfruttamento e abuso sessuale. Quest’anno, il vincitore del Premio Nansen per i Rifugiati - un riconoscimento per i servizi prestati in ambito umanitario assegnato annualmente dall’Unhcr, Agenzia Onu per i Rifugiati - è un’educatrice che ha trascorso oltre 20 anni della propria vita a mettere in salvo minori sfruttati sessualmente e vittime di tratta, molti dei quali rifugiati. Mayerlín Vergara Pérez, nota come Maye, ha dedicato la propria vita a difendere i bambini. In qualità di Coordinatrice regionale per i Caraibi della Renacer Foundation ha lavorato con dedizione per oltre due decenni aiutando l’organizzazione non-profit colombiana a conseguire l’obiettivo di debellare ogni forma di sfruttamento e abuso sessuale perpetrati ai danni di bambini e adolescenti. Fondata 32 anni fa, l’organizzazione ha assicurato assistenza a più di 22.000 bambini e adolescenti sopravvissuti a sfruttamento sessuale a scopo commerciale e a sopravvissuti ad altre forme di violenza sessuale e di genere. “Lei rappresenta la parte migliore di noi”. “Le persone come Maye rappresentano la parte migliore di noi. Il suo coraggio e il suo imperterrito altruismo volti a salvare e proteggere alcuni tra i bambini più vulnerabili al mondo sono semplicemente eroici”, ha detto Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. “Maye incarna l’essenza di questo premio. La sua totale dedizione ha salvato le vite di centinaia di minori rifugiati e restituito loro la speranza di un futuro migliore”, ha aggiunto. Il Premio Nansen per i Rifugiati dell’Unhcr rappresenta un riconoscimento agli straordinari servizi prestati a favore delle persone costrette alla fuga. Negli anni, più di 82 persone, gruppi od organizzazioni hanno ricevuto il premio per la loro assoluta dedizione alla causa dei rifugiati e per il lavoro straordinario a favore delle persone costrette alla fuga o apolidi. Per anni è andata oltre i suoi limiti. Per oltre 20 anni, Maye è andata straordinariamente oltre i propri limiti, spesso mettendo a repentaglio la propria incolumità per soccorrere bambine e bambini vittime di sfruttamento sessuale e di tratta. A piedi, passa al setaccio le strade delle remote comunità della Colombia nordorientale in cui operano le reti della tratta e del traffico di esseri umani. Alla Renacer Foundation, Maye dirige una squadra di professionisti impegnati, in stretto coordinamento con l’Istituto colombiano per il benessere della famiglia (Instituto Colombiano de Bienestar Familiar/Icbf), un ente governativo incaricato di proteggere i minori nel Paese sudamericano. Condannando pubblicamente gli abusi di cui è stata testimone, ha esortato la società civile, le autorità colombiane e il settore del turismo, che nel Paese costituisce terreno fertile per le attività di sfruttamento sessuale e tratta, ad assicurare che bambini e adolescenti siano protetti. Ispiratrice di una legge rivoluzionaria. “Lo sfruttamento sessuale provoca un impatto devastante sui minori, dal punto di vista emotivo, psicologico, fisico e sociale”, ha dichiarato Maye. “Vediamo bambine che non sentono più il proprio corpo appartenere loro. È stato così maltrattato, così abusato, così sfruttato, che sono arrivate a sentirsi alienate da esso, come se non appartenesse loro. Nel 2009, l’attività di sostegno e l’attivismo portati avanti instancabilmente da Maye hanno contribuito a far nascere due atti normativi di rilevanza epocale. La legge 1329 ha stabilito la necessità di infliggere una pena minima obbligatoria di almeno 14 anni di carcere ai danni delle persone condannate per favoreggiamento e concorso nello sfruttamento sessuale di bambini e adolescenti. Mentre la legge 1336 è tesa a perseguire i proprietari di aziende ed esercizi commerciali che, all’interno dei locali, consentono pratiche di sfruttamento sessuale dei minori. L’amplificazione imposta dalle guerre. Stime calcolate su scala globale indicano che milioni di persone continuano a essere vittime di tratta ogni anno. Il numero di vittime rilevate più alto è costituito da donne e bambine. Rifugiati, migranti, richiedenti asilo e sfollati interni sono esposti a rischi più elevati, dal momento che la condizione di precarietà da essi vissuta ne aggrava le vulnerabilità. I conflitti agiscono da amplificatori di pratiche che sono preesistenti rispetto alla tratta, quali l’obbligo di contrarre matrimoni precoci con membri di gruppi armati, e creano nuove richieste, come quelle di reclutamento forzato, facendo aumentare l’offerta di potenziali vittime. La tragedia dei venezuelani. Dal 2015, il deteriorarsi della situazione in Venezuela ha costretto milioni di persone alla fuga. Si stima che siano 1,7 milioni le persone che hanno cercato riparo nella vicina Colombia. Alla disperata ricerca di sicurezza e di una vita migliore, i venezuelani hanno fatto ricorso a tutti i mezzi possibili per fuggire dal Paese, molti cadendo vittime delle reti della tratta. Donne e bambine, spesso, sono costrette a subire forme di sfruttamento sessuale da parte dei trafficanti per pagare il passaggio. Aumentato del 23 per cento il numero delle vittime. Secondo i dati forniti dalle autorità colombiane, tra il 2015 e il 2019 il numero di vittime di tratta di esseri umani nel Paese è aumentato del 23 per cento. L’incremento è in parte legato all’afflusso di rifugiati e migranti venezuelani. I dati diramati dal Governo colombiano mostrano che nei soli primi quattro mesi del 2020 le autorità avevano già individuato un aumento del 20 per cento in attività di tratta che vedono coinvolti stranieri cittadini di Paesi terzi, rispetto all’anno precedente. In oltre la metà dei casi, lo sfruttamento sessuale ha rappresentato il fine ultimo delle attività di tratta. La pandemia di Covid-19 ha comportato serie conseguenze per le persone costrette alla fuga. L’impatto economico dell’epidemia ha ridotto molti venezuelani alla disoccupazione, lasciandoli senza dimora e in uno stato di povertà ancora più profondo, uno dei principali fattori alla base di sfruttamento sessuale e tratta. Tale condizione, combinata con l’interruzione dei corsi scolastici, ha portato i minori a restare esposti a sfruttamenti e abusi. Per poter sostenere le proprie famiglie, molti bambini sono vittime di lavoro minorile o matrimoni precoci. Tutti i trucchi per varcare i confini. Le severe restrizioni imposte alle frontiere per contenere la diffusione del virus, inoltre, hanno costretto numerose persone disperate a ricorrere a modalità irregolari pur di varcare i confini in cerca di sicurezza. L’Unhcr sta lavorando in stretto coordinamento con le istituzioni governative locali e nazionali per rafforzare l’assistenza rivolta a rifugiati e migranti venezuelani e per promuovere l’integrazione di questi ultimi sul territorio. Inoltre, sta assicurando aiuti salvavita lungo le aree di frontiera ai nuovi arrivati, supportandone l’accesso a beni e servizi di base, promuovendo una coesistenza pacifica con le comunità di accoglienza, nonché l’accesso all’esercizio di diritti fondamentali quali la titolarità di documenti regolari, l’istruzione e il lavoro. Un obbligo morale di tutto il mondo. “Sradicare il fenomeno della tratta e proteggere i minori dallo sfruttamento sessuale non costituisce solamente un obbligo legale - rappresenta anche un obbligo morale e richiede uno sforzo congiunto a livello mondiale”, ha dichiarato Filippo Grandi. “Quest’anno ricorre il ventesimo anniversario del Protocollo di Palermo, il primo accordo internazionale - che risale al 2000 - in materia di tratta di esseri umani e il primo vero passo compiuto dalla comunità internazionale per contrastarla. Per tutti noi rappresenta un’opportunità per rinnovare l’impegno a debellare questo crimine efferato”. Cos’è il “Protocollo di Palermo”. Si tratta, in realtà, di tre protocolli distinti concepiti e sottoscritti a Palermo nel 2000. Il primo riguarda la prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolare delle donne e dei bambini; gli altri sono il Protocollo contro il traffico di migranti via terra, mare e aria e il Protocollo sulla lotta contro la fabbricazione e il traffico illeciti di armi da fuoco, loro componenti e munizioni. tutti e tre sono stati adottati dall’Organizzazione delle Nazioni Unite a Palermo, già 20 anni fa. Le inumane condizioni dei migranti nei campi di detenzione in Arabia Saudita, Yemen e Libia greenreport.it, 3 ottobre 2020 Situazioni terribili anche negli altri Paesi del Golfo. I migranti capro espiatorio del coronavirus. Il Committee on the protection of the rights of all migrant workers and members of their families dell’Onu, che monitora il rispetto dell’International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of Their Familie da parte di tutti i Paesi del mondo, ha lanciato un drammatico appello ai governi ad “agire immediatamente per affrontare le condizioni disumane dei lavoratori migranti bloccati nei campi di detenzione e garantire che possano avere un ritorno ordinato, sicuro e dignitoso alle loro case nei loro Paesi”. Gli esperti indipendenti del Comitato Onu sottolineano che “I migranti, per lo più dai Paesi dell’Africa e dell’Asia meridionale, vengono regolarmente considerati i capri espiatori per la diffusione del coronavirus. Ogni singolo giorno, ci sono segnalazioni di maltrattamenti e persino torture nei campi di detenzione, con accuse che i detenuti non ricevano cure mediche. Alcuni sono addirittura lasciati morire”. Il Comitato si è detto profondamente preoccupato per la situazione dei lavoratori migranti, in particolare quelli detenuti nei paesi del Golfo, tra i quali Arabia Saudita e Yemen, e in Paesi del Nord Africa come la Libia. All’inizio di settembre, sono cominciate a circolare le notizie e le immagini di migliaia di lavoratori migranti africani rinchiusi in campi angusti e antigienici in Arabia Saudita. Video che mostrano i lavoratori migranti detenuti che dormono e mangiano in strutture con fogne all’aria aperta che scorrono sul pavimento e che “sono la prova di condizioni scioccanti che richiedono un’azione immediata da parte della comunità internazionale”. Il Comitato ricorda che “La pandemia di Covid-19 sta attualmente scatenando il caos in tutto il mondo. In molti Paesi, il bilancio delle vittime è in aumento, i sistemi sanitari sono messi a dura prova e i tassi di disoccupazione sono elevati, senza precedenti. Mentre i governi fanno del loro meglio per controllare il disastro sanitario più significativo dal 1918, devono essere consapevoli del fatto che questa pandemia rende i lavoratori migranti, che non hanno accesso ad acqua pulita, sanità mentale e assistenza sanitaria, molto più vulnerabili dei residenti locali. Mentre la pandemia di Covid-19 continua, è più importante che mai che le violazioni dei diritti umani perpetrate contro i migranti cessino immediatamente”. Il Comitato ricorda la Joint Guidance Note on the Impacts of the Covid-19 Pandemic on the Human Rights of Migrants. e conclude: “Esortiamo i governi dei Paesi ospitanti e di transito a proteggere rigorosamente i diritti umani di tutti i migranti e a cooperare senza indugio con i Paesi di origine per garantire un ritorno ordinato, sicuro e dignitoso dei migranti imprigionati”. Caso Khashoggi, due anni senza verità e giustizia ansa.it, 3 ottobre 2020 Critiche ai processi da molti osservatori internazionali. Per Barbara Trionfi, direttrice esecutiva dell’International Press Institute, “i recenti verdetti nel processo saudita sono una parodia di giustizia che la comunità internazionale non dovrebbe accettare”. Diversi gli eventi in ricordo del giornalista del Washington Post ucciso nel consolato di Riad a Istanbul il 2 ottobre 2018. Si commemora venerdì 2 ottobre 2020 il secondo anniversario dell’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi nel consolato di Riad a Istanbul, ad opera di una squadra di killer inviata dall’Arabia Saudita. Diversi sono gli eventi organizzati per ricordarlo, tra cui un sit-in di Reporters sans Frontières e Amnesty International davanti alla nuova sede del consolato del Regno. Secondo gli investigatori turchi, il corpo del 59enne editorialista del Washington Post venne fatto a pezzi. I suoi resti non sono mai stati ritrovati. Il reporter, un tempo vicino ai vertici di Riad, era diventato uno dei più autorevoli critici del principe ereditario del Regno, Mohammed bin Salman, noto come Mbs. Khashoggi si era recato nella sede diplomatica per ottenere i documenti necessari alle nozze con la ricercatrice turca Hatice Cengiz. Il mese scorso si è concluso in Arabia Saudita il processo d’appello contro 8 persone, condannate a pene da 7 a 20 anni, dopo che i familiari del cronista avevano perdonato i killer, aprendo la strada alla commutazione delle 5 condanne a morte inflitte in primo grado. In Turchia è invece iniziato a luglio un processo contro 20 presunti membri dello “squadrone della morte”, tra cui due fedelissimi di Mbs, l’ex consigliere per i media Saud al-Qahtani e l’ex numero 2 dell’intelligence Ahmed al-Assiri. A questi potrebbero aggiungersi altri 6 sospetti, incriminati nei giorni scorsi. Tutti sono però imputati in contumacia, dopo che Riad ne ha negato le estradizioni. “I recenti verdetti nel processo saudita sono una parodia di giustizia che la comunità internazionale non dovrebbe accettare”, ha denunciato Barbara Trionfi, direttrice esecutiva dell’International Press Institute. Dure critiche ai processi sono giunte da molti osservatori internazionali e dalla relatrice speciale dell’Onu sul caso, Agnes Callamard.