Il virus si diffonde ma i più vulnerabili restano dentro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 ottobre 2020 “Durante la videochiamata l’ho visto che tremava per la febbre, aveva la pelle sotto gli occhi violacea e infatti poi è risultato positivo al Covid”. Parla Maria, una delle mogli dei circa 20 detenuti risultati contagiati nella sezione di Alta sicurezza del carcere di Larino, in provincia di Campobasso. Si dice preoccupata, perché a detta sua, per quanto riguarda suo marito, non starebbero dando alcun medicinale. La sezione è composta da circa 55 detenuti e per ora, almeno la metà risulta positiva al Covid 19. Un focolaio che desta preoccupazione. Leontina Lanciano, la Garante dei diritti della persona, contattata da Il Dubbio respinge ciò che ha detto la moglie del detenuto che presenta sintomi da Covid 19. “Sono in contatto con la Asl locale e le persone che presentano sintomi, in tutto 3 detenuti, sono ovviamente messe in celle singole e curate. La situazione è sotto controllo e la direttrice del carcere ha disposto subito i tamponi per tutti, compresi gli agenti penitenziari”. Non solo. Proprio per evitare il panico e le inevitabili preoccupazioni, la direttrice ha incrementato le videochiamate, così i detenuti possono poter parlare con i propri familiari con più frequenza. Disposizione importanti, perché la chiusura totale con l’esterno può creare disagi enormi, già nella prima ondata tante, troppe voci, si erano rincorse e ingigantite. A Terni i positivi sono diventati 68 su 514 reclusi - Ma la preoccupazione è alta. Basti vedere il carcere di Terni, in Umbria, che presenta un focolaio vasto sempre in una sezione dell’alta sicurezza. Da 62 detenuti positivi, che non presentano sintomi, di mercoledì si è passati in 24 ore a 68, su 514 reclusi, con tre ricoveri. Intanto all’interno del carcere, è stata già allestita una sezione Covid che potrebbe essere raddoppiata qualora i casi dovessero aumentare. Era stata ventilata l’idea di uno spostamento di detenuti risultati negativi al tampone, ma ancora non sembra esserci nulla all’orizzonte. Tra coloro che lavorano all’interno della casa circondariale e soprattutto tra il personale di polizia penitenziaria c’è preoccupazione per il focolaio che non si arresta. Fortunatamente, nella giornata di ieri, sono arrivati i risultati dei tamponi relativi ai 130 detenuti: tutti negativi, mentre si attendono quelli dei 187 agenti della polizia penitenziaria. Uno screening necessario per avere in mano il polso della situazione. A Livorno il primo detenuto morto per Covid: aveva 81 anni - Ma il carcere è un ambiente ad alto rischio, chiuso e sovraffollato. Molte persone arrivano dalla marginalità estrema, non si sono mai curate prima o hanno patologie pregresse. Ma ci sono anche ultrasettantenni con patologie importanti. Nella prima ondata la situazione non ha creato una bomba sanitaria, ma il rischio è sempre alle porte. Come Il Dubbio ha riportato ieri, c’è stato il primo detenuto morto dove la concausa potrebbe essere stato il Covid. Sì, perché aveva 81 anni, ergastolano recluso al carcere di Livorno, con problemi cardiopatici rilevanti e cisti epatiche. Aveva contratto il Covid 19, scoperto tramite tampone perché si sentiva male con tanto di febbre. Il cuore non ha retto. Era seguito dagli avvocati Luisa Renzo e Valerio Vianello Accorretti, che durante la prima ondata avevano presentato una istanza per chiedere la detenzione domiciliare per motivi di salute. Dopo una ulteriore sollecitazione, è stata rigettata ad aprile scorso. La motivazione del rigetto è la sua pericolosità sociale. Infatti il tribunale di sorveglianza ha ripercorso la sua storia criminale. Arrestato nel 2004 in relazione al reato di omicidio plurimo aggravato commesso a Bagheria il 25 dicembre del 1981, la cosiddetta “Strage di Natale”, maturato nell’ambito della guerra di mafia finalizzata ad attuare la progressiva campagna di espansione del gruppo dei “corleonesi” e la eliminazione dei componenti della frazione avversa. Una storia criminale che ha sempre rinnegato, ma poi dal 2018 ha avuto un mutamento di rotta, dissociandosi da Cosa Nostra, ma - secondo il magistrato di sorveglianza - senza fornire in concreto alcun elemento di valutazione sulla sua possibile presa di distanza. Quindi per il tribunale di sorveglianza non ha meritato la concessione dei benefici nonostante l’accertamento della collaborazione impossibile/inesigibile, compresa l’applicazione della detenzione domiciliare provvisoria per motivi di salute. Ma l’altra volta l’ha scampata, ora no. Eppure tale misura è applicabile anche nei confronti di chi si è macchiato di gravi crimini. Non è una “scarcerazione”, ma una misura provvisoria per salvaguardare la vita di una persona. Non è l’unico. È accaduto anche - come riportato da Il Dubbio - che un ergastolano vecchio e malato è stato riportato subito in carcere dopo le indignazioni create dai talk show televisivi. Tempo qualche giorno è morto. Ma tanti sono malati e solo una minima - seppur importante - di essi riguardano coloro che si sono macchiati di reati mafiosi. Così come tanti sono i detenuti per reati non gravissimi che potrebbero usufruire delle misure alternative e quindi alleggerire la popolazione carceraria. Il decreto Ristori e l’enigma dei braccialetti elettronici - Ma il provvedimento inserito nel decreto Ristori davvero farebbero uscire di botto 5000 persone come ventilato? Contattata da Il Dubbio, è l’avvocata Simona Giannetti del direttivo dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino a spiegare il suo scetticismo. “Sono scettica - spiega l’avvocata Giannetti - perché considero la previsione una toppa peggio del buco. Si tratta di aggiungere restrizioni allo spazio di manovra che il magistrato di sorveglianza aveva già con la cosiddetta svuota carceri, cioè la 199/2010”. La componente di Nessuno Tocchi Caino non fa giri di parole: “A me sembra che abbiano stretto le maglie al potere della magistrato, che, nel decidere su una detenzione domiciliare per un detenuto a cui restino meno di 18 mesi da eseguire, “fatta salva l’applicazione della legge 199/ 2010 per quanto compatibile” come recita il decreto, dovrà fare i conti con il braccialetto elettronico, che non era previsto dalla legge 199, e con una clausola che prevede oggi la possibilità di diniego in caso di “gravi motivi ostativi alla concessione della misura”. Ed è proprio sui gravi motivi ostativi che per l’avvocata Giannetti si apre un mondo, perché “è come dire che si può rigettare tutto”. Sempre la componente di Nessuno Tocchi Caino spiega che “sui braccialetti, non è dato nemmeno sapere se ce ne siano abbastanza, così come ancora non è chiaro che fine abbia fatto il bando come avete denunciato voi de Il Dubbio e tramite anche l’interrogazione parlamentare del compagno radicale Roberto Giachetti”. L’avvocata sottolinea il fatto che è previsto - tranne i minorenni - l’uso incondizionato del braccialetto per tutti i detenuti con pena tra i 6 e i 18 mesi. “Quest’ultimi - spiega Giannetti - sono proprio i più numerosi perché è più facile che sotto i 6 mesi chi non ha reati gravi sia fuori dal carcere, sempre se non sia un senza fissa dimora visto che anche su questi casi hanno messo in guardia il magistrato, che dovrà essere attento sull’adeguatezza del domicilio. Forse i braccialetti potevano prevederli per i soli casi a discrezione del magistrato con pericolo di fuga e non per tutti, così risolvendo il tema della disponibilità e parimenti l’esigenza dello sfollamento”. La componente del direttivo di Nessuno Tocchi Caino conclude: “In soldoni, visto che qualcuno diceva che a pensar male non si fa peccato, mi sembra che l’esecutivo abbia voluto legare un po’ le mani alla magistratura, anche se mi auguro che poi in concreto chi deve occuparsi della materia come potere dello Stato lo faccia in modo indipendente”. In ogni istituto serve la sezione Covid, ma manca lo spazio di Giulia Merlo Il Domani, 31 ottobre 2020 Per fronteggiare il continuo aumento dei detenuti e degli agenti positivi al Covid (i reclusi contagiati sono 215 e 232 gli agenti, con i maggiori focolai a San Vittore, Bollate e Terni) il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha chiesto a tutti gli istituti di creare delle cosiddette “sezioni Covid”. Questa particolare area delle carceri è divisa in due: una dove i detenuti appena arrivati e quelli che rientrano dai permessi vengono tenuti per i 14 giorni di isolamento preventivo o in attesa degli esiti del tampone; una dove rimangono i positivi anche asintomatici, se non mostrano sintomi così gravi da dover essere ricoverati. Proprio questa indicazione del Dap ha creato le prime tensioni con i sindacati di Polizia penitenziaria. A Frosinone, dove la sezione è stata appena aperta senza prima comunicarlo al tavolo sindacale, è stato proclamato lo stato di agitazione. Ora non si registrano detenuti positivi ma solo in isolamento tuttavia, a regime, il carcere dovrà ospitare i malati provenienti da Lazio, Abruzzo e Molise. “Questi reparti “parafulmine” sono necessari ma servono organizzazione e protocolli sanitari: significano nuovi posti di servizio, in una struttura già carente dal punto di vista del personale. Il rischio è che si abbassi la sicurezza”, dice Maurizio Somma, segretario regionale del Lazio del Sappe. “È evidente che, per intervenire sull’emergenza, serve concordare una nuova organizzazione del lavoro, con dispositivi di protezione e organico potenziato: nel Lazio mancano circa 1.000 agenti di polizia penitenziaria”. Il ministero della Giustizia ha fatto sapere che, oltre alle sezioni per l’isolamento in ogni carcere italiano, nell’istituto milanese di San Vittore è stato creato un hub sanitario interregionale insieme a Medici senza frontiere, dove i detenuti positivi vengono curati senza necessità di ricoveri ospedalieri. Qui vengono portati i malati con sintomi gravi da tutte le carceri limitrofe e anche così si spiega l’alta concentrazione di positivi. In tutte le altre carceri, invece, è presente il presidio medico ordinario gestito dalla Asl, che decide se il paziente può essere seguito dal carcere o va portato in ospedale. La creazione delle sezioni, però, non è facile perché vanno trovati e liberati spazi adatti, mentre ora molte strutture sono di nuovo sovraffollate, nonostante decreto cura Italia abbia permesso l’uscita dei detenuti semiliberi e con permessi di lavoro esterno. La regola è che l’isolamento preventivo va sempre trascorso in celle singole, mentre è possibile mettere in celle multiple solo i detenuti che sono stati arrestati nella commissione dello stesso reato. Ma in alcuni istituti è invalsa la prassi del cosiddetto isolamento “in coorte”, in cui vengono messi in celle multiple i detenuti arrivati in carcere insieme ma in modo casuale. Per sopperire a questo, i detenuti viaggiano anche in penitenziari lontani dove ci sono posti liberi. Ogni mattina ogni carcere informa il provveditorato di riferimento di quanti posti liberi ci sono nella sezione Covid e l’amministrazione decide se assegnarvi detenuti provenienti dalle altre regioni di competenza. Esattamente come succederà a Frosinone e come già accade a Vasto, Velletri e Torino, dove sono stati liberati più posti. “È semplice: un carcere sovraffollato non consente l’isolamento”, dice Daniela de Robert, membro dell’Autorità garante per i detenuti. “Le misure dell’ultimo decreto sono importanti, ma più sul piano simbolico che dal punto di vista pratico, per questo chiediamo al ministero un impegno ancora maggiore”. Anche perché il carcere è un universo a sé, fatto di equilibri delicati e precari: “Quando il virus entra si diffonde in modo molto più pericoloso che altrove, come dimostrano i dati sulla diffusione delle malattie infettive”, dice Alessio Scandurra, responsabile dell’osservatorio sulle carceri di Antigone, “bisogna ridurre le presenze e gli ingressi, perché l’emergenza è già iniziata”. Il virus riporta in carcere anche chi dovrebbe essere fuori di Luigi Mastrodonato Il Domani, 31 ottobre 2020 Il Covid-19 è entrato nelle carceri italiane, di nuovo. A fine ottobre si contano 215 casi di positività tra i detenuti e 232 tra il personale penitenziario, ma i numeri crescono esponenzialmente di giorno in giorno. Una situazione che riporta alla scorsa primavera, quando i casi di contagio rilevati erano stati 287, un dato sottostimato a causa delle difficoltà a effettuare tamponi. il virus causò quattro decessi tra i detenuti, due tra la polizia penitenziaria e due tra i medici degli istituti. Oggi la situazione è nuovamente critica. In alcuni istituti penitenziari si sono sviluppati focolai: San Vittore conta 71 contagi, Terni 68, ma in generale sono 41 le carceri italiane che fanno registrare casi di positività. La testimonianza - “Nel mio reparto ci sono diversi positivi, sono stati allontanati e messi in isolamento. È stato scelto di tenere chiuso in reparto anche chi non è positivo, in attesa di nuovi tamponi, con la sola concessione di dieci minuti al giorno di chiamata dal telefono di istituto”, racconta un detenuto che preferisce restare anonimo. La situazione è la medesima sia per i detenuti comuni che per quelli, come lui, in regime di articolo 21, che hanno già iniziato un percorso di reinserimento sociale e territoriale lavorando, studiando e riprendendo contatti diretti con le famiglie. “Questa situazione rischia di trasformarsi in un dramma per tutti noi, da un punto di vista sanitario, affettivo e lavorativo”, continua. “Nel mio reparto siamo tutte persone semi-libere, normalmente trascorriamo gran parte del nostro tempo fuori dal carcere. Ora però ci costringono a stare dentro nonostante la situazione critica”. In molti hanno un indirizzo di domicilio riconosciuto e controllato dall’istituto, dove potrebbero mettersi in quarantena e continuare a mantenere quei contatti con l’esterno necessari per il loro percorso di reinserimento sociale, che è ora messo in discussione. Nei giorni scorsi un suo compagno ha ricevuto l’esito del tampone mentre si trovava in permesso lavorativo fuori dal carcere. Debolmente positivo, eppure non gli è stato concesso di proseguire gli accertamenti all’esterno ed è dovuto rientrare a fare l’isolamento nell’istituto, che ha di fatto autorizzato l’ingresso a una persona potenzialmente contagiosa. La quarantena in un penitenziario è molto diversa da quella del mondo di fuori, senza film, videochiamate e balconi. Ma anche senza wi-fi, computer e cellulari con cui fare smart working e studiare online, per i detenuti normalmente impegnati in queste attività. Intanto in molti istituti hanno eliminato l’ora d’aria per ostacolare la trasmissione del virus, mentre sempre più persone rinunciano ai permessi esterni perché l’isolamento obbligatorio al rientro non permetterebbe loro di svolgere le poche attività rimaste. Da qualche settimana si è tornati a vivere in uno stato di apatia forzata nelle carceri italiane. Per Francesca, la compagna del detenuto, si stanno ripresentando gli spettri della primavera, quando la sospensione dei permessi esterni e l’annullamento dei colloqui con i parenti avevano creato un muro nella loro comunicazione. “Dal nulla la persona sparisce. Restano giusto i dieci minuti quotidiani di telefonata, in cui però non hai modo di confrontarti sulle cose della vita”, spiega. “Il mio timore è che questa situazione non durerà solo per il tempo dell’isolamento del suo reparto, ma proseguirà fino a gennaio. Mi sto preparando al peggio”. Nonostante la situazione complessiva sia delicata, le carceri italiane oggi sono comunque più preparate di fronte all’emergenza sanitaria. Si fanno più tamponi, gli istituti si stanno dotando di aree apposite dove trasferire i detenuti positivi, mentre anche sulla disponibilità di dispositivi di protezione e sulle modalità di comunicazione coni parenti via digitale si sono fatti progressi. Sovraffollamento Le problematiche comunque rimangono e sono connesse al tema del sovraffollamento. I detenuti in Italia sono quasi 55mila, a fronte di circa 50mila posti ufficiali, che si riducono considerando le sezioni penitenziarie in stato di manutenzione. In alcune carceri, come a Latina, le presenze arrivano a quasi il 200 per cento della capienza. in queste condizioni, garantire il distanziamento sociale e bloccare la propagazione del virus diventa impossibile. In primavera il decreto Cura Italia aveva concesso a circa 3mila detenuti a fine pena il trasferimento ai domiciliari La popolazione carceraria era diminuita, ma negli ultimi mesi è tornata a crescere. “Oggi serve invertire questa tendenza, concedendo a tutte quelle persone che normalmente escono con regolarità, come chi lavora all’esterno, licenze straordinarie che consentano loro di scontare la pena in detenzione domiciliare. Per queste persone non si pongono particolari problemi di sicurezza pubblica e tenerli fuori consente di ridurre i rischi di contagio”, sottolinea Claudio Paterniti, ricercatore di Antigone. “Bisogna liberare spazi per contenere eventuali focolai come quelli che stanno facendo la loro comparsa in questi giorni. Anche la pena a domicilio è pena”. In Italia 6.833 persone detenute devono scontare un residuo pena inferiore a un anno, ad altre 6.850, persone rimangono tra uno e due anni. I semiliberi sono invece circa un migliaio, mentre su 2.381 persone in articolo 21, il 28,6 per cento lavora fuori dal carcere e il 33,9 per cento è in semilibertà. Sono insomma migliaia i soggetti che, per quella che è la loro situazione, potrebbero lasciare le carceri e alleggerire la pressione su di essi in un momento di emergenza sanitaria. Nel Dl Ristoro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha inserito disposizioni che replicano quelle primaverili, con diverse restrizioni. Un passo avanti che rischia però di essere insufficiente a livello numerico e che richiederà un po’ di tempo per la messa in pratica. Tra i detenuti italiani, così, monta la preoccupazione. “In carcere il disagio psichico è la norma, il carcere è di per sé patogeno. Ci sono istituiti in cui 1’80-90 per cento della popolazione detenuta fa uso di psicofarmaci. Non si dispone di sé stessi e questo in una situazione come quella attuale amplifica esponenzialmente il malessere”, conclude Paterniti. “Oggi la situazione è più sotto controllo rispetto alla prima ondata. Ci sono sezioni per l’isolamento sanitario per i nuovi giunti e si conosce meglio la malattia. Ma resta il fatto che il carcere è un luogo in cui una malattia infettiva galoppa. Qualcosa si sta facendo, ma è sicuramente troppo poco. Serve fare di più, anche per non stressare ulteriormente strutture sanitarie già sotto sforzo”. Nuova ondata pandemica, per le carceri gli stessi inutili provvedimenti di Gianpaolo Catanzariti* Il Riformista, 31 ottobre 2020 Il ministro Bonafede ripropone le stesse misure del Cura Italia. Non c’è nessuna attenzione per i detenuti in attesa di giudizio e tantomeno nessun beneficio “salva-Covid” per i condannati in via definitiva. La consapevolezza che ben poco sia stato fatto per prevenire e arginare una prevedibile seconda ondata del virus appare oramai diffusa. I segnali e i campanelli d’allarme quotidiani assomigliano sempre più a impietosi capi d’accusa alla colpevole inerzia. Si sforna, alla disperata, un Dpcm dopo l’altro, senza nemmeno verificare la bontà delle prime misure imposte. Ribolle nelle piazze di tutto il Paese la protesta, a tratti violenta. Il governo corre ai ripari con il D.L. 137 del 28.10.2020. Dopo il “Cura Italia” e il Decreto “Rilancio”, ecco il D.L. “Ristori”. Non pecca certo di fantasia. Il Ministro della Giustizia, stavolta, ha deciso di intervenire sul carcere, senza attendere appelli, agitazioni, dentro e fuori i penitenziari. I numeri dei contagi che provengono da alcuni istituti di pena, decisamente allarmanti se li rapportiamo al numero complessivo della popolazione detenuta, ci riportano ad una amara realtà. Poco o nulla si è fatto per ridurre il carico umanitario delle carceri e quel poco non è stato certo determinato dalle misure adottate dall’esecutivo. Con il D.L. “Cura Italia”, in effetti, al mese di giugno erano stati ammessi alla detenzione domiciliare poco più di 1000 detenuti, oramai prossimi all’uscita per espiazione completa. Al netto delle comparsate televisive di Giletti & Co., il governo Conte ha affidato alla buona sorte i detenuti e il personale penitenziario. Sinora è andata bene. Ma oggi, con più di 54.000 detenuti presenti, abbiamo annullato il bonus deflattivo di aprile-maggio scorso, riavvicinandoci ai numeri drammatici di marzo. Eppure il Ministro Bonafede ci ripropone le stesse misure, praticamente inutili, del “Cura Italia”. Nessuna attenzione per i detenuti (un numero rilevantissimo) in attesa di giudizio. Per i condannati in via definitiva, invece, ne riduce ulteriormente l’ambito di operatività, di per sé asfittico, piegandosi alle “grida” della “Arena” televisiva. Si prevede, infatti, espressamente il divieto di accesso al beneficio “salva-Covid” per i condannati per mafia o terrorismo, quand’anche abbiano finito di espiare la parte di pena c.d. ostativa e si trovino in carcere ancora per un reato c.d. “comune”, seppure connesso. Già in sede di discussione al Csm sul parere al “Cura Italia”, il dott. Nino Di Matteo aveva denunciato l’allora mancata previsione del divieto di scioglimento del cumulo tra reato ostativo e non. Dinanzi a certi richiami - lo abbiamo visto con il D.L. ad personam “anti-Zagaria” - il Ministro, si sa, ha il cuore debole. Poco importa se la Corte Costituzionale (1994) abbia affermato come la presunzione di pericolosità insita nell’espiazione del reato ostativo finisca proprio qualora si esaurisca l’espiazione di quel segmento di pena o che la Corte di Cassazione (2014) abbia rimarcato come anche una misura tesa alla riduzione del sovraffollamento, come fu la liberazione speciale anticipata, sia strettamente collegata alla finalità rieducativa scolpita nell’art. 27 della Costituzione. Nel periodo marzo-aprile scorso abbiamo verificato, purtroppo, come l’invisibile virus non abbia fatto distinzioni, nella sua fatale morsa, tra detenuti in attesa di giudizio e detenuti in espiazione pena, men che meno tra reati “comuni” e reati ostativi. Confidiamo, adesso, che, nella avvenuta mutazione da più parti segnalata, il “Covid-19” abbia conseguito almeno un Master sull’esecuzione penale, districandosi, così, tra le insensate distinzioni contenute nel DL “Ristori”. Per l’informazione di regime, lo slogan è sempre lo stesso “5.000 detenuti a casa con i braccialetti elettronici”. Quale sia la base di riferimento di questi numeri, però, nessuno lo sa. Nemmeno al Ministero. Al punto da dover attendere, ancora una volta, la pubblicazione, tra dieci giorni, di un provvedimento congiunto del capo del Dap e del capo della Polizia di Stato che dica, finalmente, il numero esatto dei braccialetti disponibili. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi Coi contagi in aumento nelle carceri rischiamo la bomba sanitaria. Ecco cosa va fatto subito di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2020 I numeri dei contagi in carcere hanno cominciato a crescere con rapidità. Nella mattina di mercoledì si parlava di circa 150 tra i detenuti e 200 tra i membri del personale. In entrambi i casi ci sarebbe stata una crescita di circa cento unità nell’ultima settimana. Ma questi numeri sono già vecchi. Nel solo carcere di Terni, infatti, si parlava poche ora fa di una ventina di contagi, mentre adesso pare si siano raggiunti i 55. Il fatto che nella prima ondata di Covid-19 le carceri italiane non si siano trasformate in una bomba sanitaria non significa purtroppo che ciò non possa accadere in futuro. È infatti accaduto in altri luoghi. Negli Stati Uniti d’America le politiche di incarcerazione di massa hanno portato alla morte di 1.122 persone detenute e di 42 membri del personale penitenziario. Ben 90 sui 100 più grandi cluster di Covid-19 negli Usa si sono verificati in strutture di detenzione. Nonostante molti esperti di salute pubblica avessero usato tutto il loro fiato per avvisare che il solo modo per bloccare la diffusione del virus era quello di trovare collocazioni alternative al carcere per più detenuti possibile, la paura di poter essere infedeli all’ideologia della pena severa a ogni costo ha fatto sì che un numero irrisorio di persone potesse alleggerire il peso delle prigioni federali e locali. Se da noi il virus continuerà a diffondersi in carcere con la rapidità degli ultimi giorni, si rischierà una tragedia dalle proporzioni enormi. Per le persone detenute, ma anche per la popolazione libera, che si troverà a fare i conti con un Servizio Sanitario Nazionale rapidamente gravato da un gran numero ulteriore di persone. La prima misura da prendere per affrontare la situazione è inevitabilmente quella della riduzione delle presenze. Nei due mesi peggiori della prima ondata, marzo e aprile, i detenuti calarono di circa 8.000 unità. Ciò accadde per una somma di motivi: la riduzione degli ingressi, dovuta a un calo degli arresti conseguente alla situazione di lockdown; la consapevolezza della possibile tragedia imminente da parte della magistratura di sorveglianza, che la portò a evadere pratiche di detenzione domiciliare per chi risultava idoneo con maggiore solerzia rispetto ad altri periodi storici; le timide misure introdotte nel decreto Cura Italia, che portarono anch’esse a velocizzare la concessione di alcune detenzioni domiciliari. L’affollamento penitenziario restava comunque parecchio superiore alla capienza. A fine aprile avevamo 53.904 detenuti per 50.438 posti ufficiali (che diminuiscono se consideriamo le sezioni non utilizzate per manutenzione). Il numero dei detenuti è ora ripreso a crescere e alla fine di settembre aveva raggiunto le 54.277 unità. Servono spazi. E servono in ogni singolo istituto penitenziario. Ovunque, da un momento all’altro, può drammaticamente dover servire una sezione di isolamento, una sezione Covid, una sezione per la quarantena. I nuovi giunti vanno isolati dai detenuti già presenti. Il distanziamento sociale va rispettato ancor più in luogo per definizione chiuso. Sappiamo che è in arrivo un pacchetto di misure che riguarderà in qualche modo anche il carcere. Per il bene di tutti, bisogna avere coraggio. Bisogna portare avanti la consapevolezza che la detenzione domiciliare non è affatto sinonimo di libertà e di incertezza della pena. La politica deve saperlo, e deve saperlo spiegare all’opinione pubblica. Non c’è necessità di contrapporre la salute alla sicurezza. È necessaria quella ragionevolezza che all’inizio di aprile ebbe il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, che emanò un documento nel quale invitava i pubblici ministeri a valutare tutte le opzioni che la legge mette a disposizione per ridurre la popolazione carceraria, prima tra tutte il maggiore riscorso agli arresti domiciliari piuttosto che alla custodia cautelare in carcere per chi è in attesa di processo. La paura sta crescendo. Aumenta di giorno in giorno il numero di parenti di persone detenute che si rivolgono ad Antigone per chiedere aiuto, conforto, informazioni per i loro cari. È importante che si diano spiegazioni a chi vive in carcere rispetto alla situazione del virus e alle misure adottate per contrastarla. È importante che si prosegua in maniera massiccia sulla strada già intrapresa a marzo delle videochiamate e della facilitazione di ogni contatto sicuro con le famiglie. La seconda ondata di Covid-19 non ci coglie alla sprovvista. Oggi il carcere non ha bisogno di improvvisare. Oggi la tecnologia e le precauzioni sanitarie che ha imparato a usare possono venire utilizzati non solo per sopravvivere ma anche per vivere. La scuola, la formazione professionale, le attività culturali possono proseguire con modalità a distanza, come accade al di fuori delle mura di cinta. Se vogliamo evitare la tragedia, dobbiamo agire in fretta e con il coraggio di parlare alla testa delle persone e non alla pancia. Se poi vogliamo anche perseguire il fine di una pena costituzionale, potremmo scoprire che questa drammatica esperienza ha lasciato qualche insegnamento da portare avanti. *Coordinatrice associazione Antigone I veri numeri sui contagi in carcere. Il Ministero: “Il Covid non ha sfondato” di Liana Milella La Repubblica, 31 ottobre 2020 Le cifre confermate dal Garante: 152 positivi su 55mila detenuti. Ma riparte lo scontro tra governo e Lega sulle misure per ridurre il sovraffollamento. Il piano per trasformare l’ex supercarcere di Pianosa in una struttura modello per il reinserimento. Ci risiamo. Giusto mentre muore a Livorno per sospetto Covid un detenuto cardiopatico di 81 anni, sulle carceri riparte lo scontro tra chi - il Guardasigilli Alfonso Bonafede, i sottosegretari Dem Andrea Giorgis e 5S Vittorio Ferraresi, il Garante dei detenuti Mauro Palma - sottoscrive e ritiene necessarie le nuove misure per alleggerire le prigioni e la Lega capitanata sulla giustizia dalla responsabile Giulia Bongiorno. Da via Arenula considerano del tutto approssimativi i dati sulle possibili scarcerazioni di 5mila persone - “Sono cifre che non è possibile calcolare a priori perché ogni provvedimento è deciso dai magistrati di sorveglianza” - e al contempo lanciano parole d’ordine come “camere di isolamento per i nuovi giunti e per chi avverte e denuncia i primi sintomi di malattia Covid”, “sala situazioni per gestire l’emergenza”, “tracciamento immediato dei contatti del soggetto positivo”, “eventuale temporanea sospensione delle occasioni di incontro tra la popolazione detenuta e le persone provenienti dall’esterno”, ma solo come misura estrema qualora la situazione dovesse aggravarsi. Ma all’opposto c’è chi - Giulia Bongiorno appunto, e con lei tutta la Lega - bolla come un nuovo “svuota carceri” i provvedimenti contenuti nel decreto Ristori, che autorizzano i magistrati di sorveglianza a mettere fuori dalle celle chi ha un residuo di pena fino a 18 mesi, con il braccialetto elettronico, ma solo a patto che non abbia commesso reati gravissimi e gravi. “Bonafede non ha fatto nulla, non esiste un progetto o una idea. Solo un lungo, ingiustificato letargo” twitta Bongiorno, in pieno accordo con Salvini. Ma da via Arenula replicano con i dati. Confermati anche dal Garante dei detenuti Mauro Palma. Che fotografano una situazione numericamente sotto controllo per il Covid sia tra i detenuti che tra gli agenti della polizia penitenziaria. Che però subito fa dire a chi contesta Bonafede, “e allora, se gli ammalati Covid sono pochi, che bisogno c’è di mettere fuori i detenuti?”. Un atteggiamento contraddittorio, perché da una parte la Lega lamenta l’assenza di iniziative, dall’altra contesta quelle che vengono prese, anche perché nel 2010 la stessa Lega ha votato un provvedimento analogo, senza nemmeno prevedere l’obbligo dei braccialetti. Due mondi si fronteggiano, quello di chi considera il carcere luogo di pena sì, ma non di tortura; e chi invece vorrebbe buttare via la chiave. Magari arrestando anche il Covid. Ecco i numeri - Partiamo dalle cifre. Aggiornate da via Arenula al 28 ottobre. In carcere c’erano 54.815 detenuti, rispetto a una capienza massima di 50.552 posti, di cui però 3.447 di fatto non risultano disponibili. Con una percentuale di affollamento pari al 116,37%. E vediamo l’andamento della malattia. Sempre al 28 ottobre i detenuti positivi al Covid erano 152, di cui 145 gestiti nelle strutture sanitarie delle stesse carceri e 7 invece ricoverati in strutture sanitarie esterne. Casi di Covid anche tra gli operatori penitenziari: in totale 215, di cui 189 tra gli agenti. In 206 sono in quarantena presso il proprio domicilio, sei sono ricoverati in ospedale e 3 si trovano in isolamento nelle caserme. Ecco il confronto con i dati della scorsa primavera: tra febbraio e agosto ci sono state 568 persone contagiate, di cui 4 decedute (2 agenti e 2 detenuti), che porta fonti di via Arenula - un articolo di Marco Belli sul sito Gnews, il giornale online del ministero della Giustizia - a parlare di un virus che “non ha sfondato, ma è stato contenuto”. Le prossime misure - Ma proprio questi dati spingono la Lega a contestare le misure di Bonafede. A partire dalla cifra del tutto ipotetica che si possa giungere a 5mila scarcerazioni, anche se l’uso della parola “scarcerazioni” è sbagliato in quanto sia le norme del decreto Cura Italia di marzo, sia l’articolo 30 del decreto Ristori parlano solo di detenuti cui vengono concessi i domiciliari, che quindi non vengono “scarcerati”: vengono monitorati attraverso il braccialetto elettronico, non possono allontanarsi dal domicilio, continuano quindi a scontare la pena. Ma Jacopo Morrone, salviniano ed ex sottosegretario alla Giustizia, definisce il provvedimento “incomprensibile visto che il rischio contagio è maggiore all’esterno che all’interno” delle prigioni. Isolamento per i nuovi detenuti - All’interno del carcere, invece, Bonafede, con il capo delle carceri Dino Petralia e il suo vice Roberto Tartaglia, punta innanzitutto a bloccare i possibili contagi. Da qui la decisione di attuare particolari precauzioni per i cosiddetti “nuovi giunti”, cioè per chi entra in cella in questi giorni di Covid per la prima volta. Via Arenula prevede un periodo di isolamento preventivo e cautelare in attesa che arrivi l’esito negativo del tampone. Tracciamento e camere d’isolamento - La scoperta di un detenuto positivo porterà le carceri a seguire un protocollo obbligatorio e già attuato in primavera. Verranno tracciati i suoi possibili contatti all’interno del carcere proprio come avviene all’esterno. Inoltre sarà messo a disposizione un congruo numero di vaccini antinfluenzali da utilizzare sia per il personale dipendente che per l’intera popolazione detenuta, in modo tale da rendere selettiva l’eventuale comparsa di sintomatologie similari. In alcuni istituti inoltre è già in atto la creazione di speciali “camere di isolamento” proprio per far fronte a un eventuale emergenza crescente. Stop ai contatti con l’esterno - Per ora è solo un’ipotesi, ma proprio com’è avvenuto a febbraio c’è il rischio di un possibile stop a visite e colloqui, che subirebbero sospensioni temporanee, qualora la corsa del virus dovesse diventare dirompente. Una misura che non è contenuta nel decreto Ristori, mentre era stata prevista a febbraio quando poi provocò le rivolte nelle carceri. Il singolo caso positivo porterebbe comunque a ricostruire la sua storia per individuare la filiera dei contatti e per evitare un ulteriore diffusione del contagio. Le preoccupazioni del Garante - Nell’ufficio di Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti, la guardia sul Covid non è mai stata abbassata perché, come scrive la newsletter del Garante, “il carcere è uno dei luoghi rispetto al quale l’ansia esterna si tramuta spesso in annunci, voci, a volte gridati, che finiscono per essere moltiplicatori dell’ansia stessa. E certamente i numeri non sono da sottovalutare”. Palma sottolinea come “il tema torna a essere quello della riduzione del numero di presenze attraverso provvedimenti che, pur tenendo fermo il criterio della complessiva sicurezza, siano in grado di far emergere la centralità della tutela della salute di ogni persona”. Ma sono proprio quei provvedimenti che la Lega contesta. E cioè la possibilità di ottenere i domiciliari per chi ha un residuo pena sotto i 18 mesi, e comunque con il braccialetto. Misura da cui sono rigidamente esclusi i condannati per reati gravi. Inoltre gli attuali semi liberi (carcere di notte e lavoro di giorno) resteranno fuori proprio per evitare la circolazione di possibili infezioni. Come dice il Garante nazionale “non ha senso far rientrare in carcere persone che vi trascorrono soltanto la notte o mantenere la detenzione di persone condannate a pene brevi”. La sfida dell’ex supercarcere di Pianosa - È in questo clima che il sottosegretario Dem alla Giustizia Andrea Giorgis lancia la sfida dell’ex super carcere di Pianosa, famoso trent’anni fa per i boss e terroristi detenuti. È lì, e all’Asinara, che furono portati i mafiosi nel 1992 quando scattò il 41bis. Ma dal 1997 quelle celle tre metri per cinque con tre letti in ognuna sono state svuotate. Pianosa è tornata libera. Adesso un protocollo tra il ministero della Giustizia, con la Regione Toscana e il Comune di Campo dell’Elba, la vuole trasformare in nuovo modello di lavoro nelle colonie agricole già gestite dai detenuti, con un investimento europeo da 7 milioni di euro. Dice Giorgis: “Un carcere che riesce ad offrire a chi ci vive un efficace percorso rieducativo ed emancipante è un carcere che tutela la sicurezza dell’intera collettività, perché quando c’è recupero e reinserimento i tassi di recidiva scendono in maniera significativa, a vantaggio quindi degli stessi detenuti e della sicurezza di tutti i cittadini”. Giorgis spiega ancora che “il progetto intende creare un sistema integrato ed innovativo di sviluppo che favorisca l’inclusione lavorativa e sociale dei detenuti che vivono a Pianosa, promuovendo al contempo lo sviluppo delle attività economiche di quei territori. I progetti prevedono il potenziamento e il rilancio delle produzioni agricole con l’avvio delle attività connesse alla trasformazione dei prodotti agro-alimentari e all’accoglienza turistica, con l’obiettivo di favorire altresì lo sviluppo economico e la promozione del patrimonio naturalistico dei territori coinvolti”. Il sottosegretario Giorgis: “Misure sul carcere, abbiamo tutelato salute e sicurezza” di Errico Novi Il Dubbio, 31 ottobre 2020 Andrea Giorgis è un costituzionalista, prima ancora che - insieme con Vittorio Ferraresi - il sottosegretario alla Giustizia dell’attuale esecutivo. Comprende dunque il rilievo che la professione forense assume nel nostro sistema democratico. Ben conosce la funzione irrinunciabile degli avvocati quali coprotagonisti della giurisdizione. Ebbene, il sottosegretario ed esponente del Pd, insieme col guardasigilli Alfonso Bonafede, ha seguito negli ultimi giorni con pazienza lo sviluppo del “pacchetto giustizia”, vale a dire di quelle misure del Dl Ristori riservate al processo e alle carceri, e ora non manca di esprimere apprezzamenti per il ruolo svolto dall’avvocatura: “Sono giorni difficili e anche gli effetti economici della pandemia si fanno sentire: molti cittadini, molti lavoratori e tra questi molti professionisti stanno sopportando sacrifici significativi. Il che però non ha fatto venire meno da parte dell’avvocatura un atteggiamento costruttivo e responsabile nell’interlocuzione con il governo”. Si riferisce ad alcune componenti in particolare? No: tutte le rappresentanze forensi hanno dato un contributo importante, pur esprimendo legittime riserve, anche nelle ultimissime ore, su specifici aspetti del decreto o sulla mancanza di misure ritenute da alcuni necessarie. Il Cnf, l’Ocf, l’Aiga, le rappresentanze associative e specialistiche, come quelle di penalisti e civilisti, hanno svolto un ruolo prezioso. E sono state, mi preme dirlo, disponibili a farsi carico della necessità di individuare delle soluzioni capaci di ridurre il più possibile i rischi di diffusione dei contagi, garantendo al contempo il funzionamento della giustizia e l’esercizio dei fondamentali diritti di azione e di difesa. E dal suo punto di vista quali sono le misure più rilevanti? Si sono discusse e alla fine definite importanti innovazioni processuali che consentono di svolgere da remoto alcune attività. Dall’interrogatorio di garanzia a seguito di emissione di misura cautelare, alla partecipazione alle udienze delle persone detenute, alle udienze penali che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi da pubblico ministero, parti private e rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, interpreti, consulenti o periti. Non possono invece essere tenute mediante collegamenti da remoto le udienze nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, nonché le udienze di discussione e, salvo che le parti vi acconsentano, le udienze preliminari e dibattimentali. È stato inoltre previsto che, in ambito penale, il deposito di memorie, documenti, richieste e istanze presso gli uffici delle Procure e presso i Tribunali avvenga esclusivamente mediante deposito dal portale del processo penale telematico. Il pacchetto giustizia contiene anche norme sulle carceri... Sì, insieme a importanti norme processuali, nel testo del decreto legge cosiddetto Ristori sono state inserite anche alcune misure relative ai detenuti che era necessario approvare al più presto per ridurre i rischi di una diffusione dei contagi negli istituti penitenziari. La posta in gioco, è bene ricordare, è la salute di tutti: della polizia penitenziaria, del personale amministrativo, dei detenuti e anche dei cittadini liberi. Perché una diffusione dei contagi, come è evidente, avrebbe ripercussioni sull’intero sistema sanitario e sull’intera collettività. È strano che si debba far fatica a veicolare un messaggio così semplice... Mi lasci dire che trovo irresponsabile la polemica sollevata in queste ore da Matteo Salvini e da diversi esponenti della Lega. Le licenze e i permessi straordinari per i detenuti in regime di semilibertà e per quelli ammessi al lavoro esterno non potranno essere concesse ai condannati per delitti di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975 numero 354 e per quelli richiamati agli articoli 572 e 612-bis del codice penale, vale a dire per i delitti di mafia, terrorismo e altri di grave allarme sociale, compresi reati di maltrattamento e gli atti persecutori. D’altra parte, si doveva scegliere tra una eventuale revoca di permessi già concessi e il previsto ulteriore beneficio del mancato rientro in cella dopo il lavoro esterno: certo i detenuti non potevano fare la spola fra dentro e fuori. E optare per la prima soluzione sarebbe stato incomprensibile... È così, come è vero che le esclusioni previste smentiscono gli scenari apocalittici paventati dalla Lega. Analogamente a quanto stabilito per i permessi, la detenzione domiciliare per i detenuti che devono scontare una pena residua non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, non potrà infatti essere applicata ai soggetti condannati per delitti di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975 numero 354 e agli articoli 572 e 612-bis del codice penale, vale a dire, di nuovo, quelli di mafia, terrorismo e altri gravi reati. E ancora, la detenzione domiciliare non potrà essere applicata ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai detenuti che nell’ultimo anno siano stati sanzionati o oggetto di rapporto disciplinare per disordini o sommosse, ai detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato. Né potrà applicarsi nei casi in cui il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura. Insomma, disposizioni ragionevoli che non credo mettano a rischio la sicurezza dei cittadini, e che mi auguro trovino una rapida applicazione, nei confronti di tutti i potenziali destinatari, e siano così in grado di contribuire, insieme alle direttive del Dap e dei Provveditorati contenenti significative misure di prevenzione, cura e di gestione dei positivi, a scongiurare una diffusione incontrollabile dei contagi negli istituti penitenziari. Gli avvocati hanno mostrato spirito collaborativo, ma con le altre professioni chiedono più attenzione anche nelle misure di sostegno alla loro attività... Ecco, proprio a tal proposito, mi lasci esprimere soddisfazione per il reperimento, grazie anche all’impegno del Mef, delle risorse necessarie al pagamento degli arretrati dei professionisti che hanno prestato gratuito patrocinio e dei consulenti tecnici, pari a circa 92 milioni di euro. Un segnale importante, credo, in un momento così difficile. Processi Moro digitalizzati, detenuti salvano la Storia di Paola Lo Mele ansa.it, 31 ottobre 2020 Lettere e interrogatori rubati alla carta. Al lavoro a Rebibbia. “Mi è stato detto con tutta chiarezza che sono considerato un prigioniero politico, sottoposto - come presidente della DC - ad un processo diretto ad accertare le mie trentennali responsabilità...”. La lettera di Aldo Moro recapitata il 29 marzo 1978 a Francesco Cossiga è solo un piccolo frammento delle 550mila pagine che raccontano il sequestro, l’assassinio dello statista, le Brigate Rosse e gli anni di piombo, ma anche tutto il dramma di uomo ridotto in prigionia. Faldoni che contengono reperti, dibattimenti, interrogatori, missive e fotografie dei cinque procedimenti (quattro processi) sull’omicidio del leader democristiano. A distanza di 42 anni e in piena era Covid, la digitalizzazione di questa enorme, importantissima documentazione si sta svolgendo in un carcere italiano: Rebibbia di Roma. Qui, sette detenuti, alle prese con carte giudiziarie e scanner, lavorano per rendere immateriali e più accessibili queste testimonianze. Lavorano per salvare anche dall’incuria del tempo un pezzo drammatico della Storia d’Italia. E proprio in questi giorni hanno concluso tutte le operazioni riguardanti il primo procedimento istruttorio del primo processo (il cosiddetto “Moro uno”). Dopo una sospensione di qualche mese a causa dell’epidemia, il progetto è rientrato nel vivo quest’estate. Ad oggi i reclusi, rigorosamente in mascherina, operano in un ambiente videosorvegliato nella casa circondariale e scansionano le carte che compongono i fascicoli nell’ordine preciso in cui le trovano, sotto la costante supervisione di tre archivisti-formatori. A guidare l’equipe formata da Maria Carmela De Marino, Paolo Musio ed Elvira Grantaliano è il professor Michele Di Sivo che nel 2017 ha avviato, insieme a loro, a Eleonora Lattanzi, Enzo Pio Pignatiello e alla restauratrice Alessandra Terrei, lo studio preparatorio della documentazione. Poi, il contenuto delle carte è stato inserito nella banca dati dell’Archivio di Stato di Roma e i faldoni sono stati trasportati dalla Corte di Assise di San Basilio a Rebibbia. In una fase iniziale i detenuti ‘scelti’ per questa attività, hanno dovuto seguire corsi di formazione ed oggi possono vedere e toccare con mano testimonianze cruciali della storia dell’Italia. “All’inizio ho posto un’unica condizione nella scelta dei partecipanti: che fossero detenuti non politici - racconta Di Sivo. Visto l’argomento mi sembrava necessario. Per loro si sta rivelando un’esperienza forte, sia per i più anziani che ricordano di aver vissuto quel periodo e addirittura cosa stavano facendo quando arrivò la notizia del ritrovamento del corpo, sia per i più giovani che all’inizio nemmeno sapevano chi fosse Aldo Moro. Molti ci hanno detto di essere rimasti colpiti dai volantini e comunicati delle Br. Tutti, alla fine, hanno compreso la portata politica enorme di questa vicenda, mostrando istintivamente solidarietà umana allo statista democristiano”. Del progetto, promosso dal Ministero della Giustizia e da quello dei Beni Culturali, è molto soddisfatta anche la direttrice del carcere Rosella Santoro: “È una bellissima iniziativa e i detenuti che vi partecipano sono molto bravi”. I tutor che prima venivano tre volte a settimana ora varcano i cancelli di Rebibbia quasi tutti i giorni: bisogna digitalizzare il “Moro bis”, poi il dibattimento e, quindi, proseguire con gli altri tre processi. Tempo stimato: almeno due anni ancora. De Marino, una libera professionista in questo lavoro ci sta mettendo cervello e cuore. “Per me è un’esperienza di alto spessore professionale e soprattutto umano”, commenta. Definisce i sette reclusi con cui opera “motivati, pieni di tatto e sensibilità. Si crea un confronto continuo e produttivo - continua -. Si dimostrano propositivi, ciascuno secondo le proprie competenze. Dimostrano profonda gratitudine per questa opportunità di riflettere, crescere e impiegare il loro tempo in modo produttivo. Insomma, si è creato un clima di fiducia. Soprattutto tra i più giovani pensano che bisognerebbe onorare il sacrificio di Aldo Moro. Non escludo, considerato l’interesse dimostrato, che un domani alcuni di loro possano intraprendere studi nel settore dei beni culturali e in particolare degli archivi”. Uno degli esiti di questo lavoro è stata anche la pubblicazione del “Memoriale di Aldo Moro, 1978. Edizione critica” diretto dallo stesso Di Sivo. I detenuti gli hanno chiesto di presentarlo in carcere. “Superata la crisi Covid - assicura lui - manterrò questa promessa”. Giovanni Maria Flick: “La mia unica certezza è l’incertezza del diritto” di Concetto Vecchio La Repubblica, 31 ottobre 2020 “Bonafede? Ha una visione tutta carcerocentrica che non mi piace”. Scandali e sentenze contraddittorie: normale che i cittadini non si fidino dei magistrati. L’ex ministro scrive un libro sulla giustizia. E qui ci racconta anche dei suoi 80 anni. Giovanni Maria Flick ci tiene a mostraci la portantina seicentesca che fa bella mostra nell’ingresso del suo studio, al quinto piano di un palazzo al centro di Roma: “Bella fatica portarla quassù, eh” ridacchia. Professore, il 7 novembre compie 80 anni. Da piccolo voleva fare l’avvocato? “No, il capostazione, i treni continuano a piacermi anche adesso”. Perché scelse il diritto? “Per una ricerca di sicurezza. Allora pensavo che la legge me l’avrebbe data. Pensi all’articolo 25 della Costituzione: “Nessuno può essere punito se non in forza della legge”. Invece, col passare degli anni ho capito che il diritto ti crea più dubbi che certezze e la vera saggezza consiste nel saper gestire questi dubbi”. Nel suo ultimo libro, Giustizia in crisi, lei cita Giolitti: “Per gli amici le leggi s’interpretano e per gli altri si applicano”. “È una massima molto italiana, purtroppo”. In che famiglia è cresciuto? “Cattolica, borghesia piemontese. Ero il quinto di sette figli. Una sorella suora, Elisabetta, madre generale dell’Ordine delle Ausiliatrici del Purgatorio, è morta a febbraio per Covid, a 78 anni. Dopo una vita passata a occuparsi di migranti su richiesta del Papa, l’avevano mandata a Torino a gestire una casa per religiose anziane. Se n’è andata in cinque giorni”. Il Covid la induce a pensare alla morte? “Parecchio. La pandemia ci sta dando una lezione formidabile sulle nostre fragilità”. A scuola era un primo della classe? “Solo al liceo. In terza media venni rimandato in latino, matematica e ginnastica. Dai gesuiti ho imparato la logica, dai salesiani la solidarietà”. Quando arriva alla Cattolica? “Nel 1958. Lì conobbi Romano Prodi, Tiziano Treu e Roberto Ruffilli, che poi venne ucciso dalle Brigate Rosse: grande figura, intelligentissimo”. Com’era il suo amico Prodi da ragazzo? “Com’è adesso. Un uomo che irrogava fortuna”. Nel senso che aveva culo? “Esatto”. (ride) Dal 1964 al 1975 è magistrato a Roma. Perché lascia? “Perché mi sono reso conto che si avanzava tutti allo stesso modo”. Per anzianità. “Sì, e non mi bastava. Facevo tre lavori contemporaneamente: il magistrato, insegnavo all’università di Messina e nel weekend scrivevo i miei libri. Bisognerebbe stabilire, per l’avanzamento delle carriere, un mix tra capacità, esperienza e voglia di lavorare”. Ha sempre lavorato tanto? “Dormo poco. Inizio alle sei del mattino. Spesso lavoro anche la domenica. Ormai faccio soprattutto pareri pro veritate. Mi divertono”. Qual è il principale problema della giustizia italiana? “La crisi della legge, che non proviene più da un’unica fonte. Non è più solo il Parlamento a legiferare, ma ci sono le norme delle Corti europee e i provvedimenti amministrativi come i Dpcm: questa incertezza ha aumentato le difficoltà interpretative dei giudici”. Cosa pensa dei Dpcm? “Sono troppi e rappresentano l’ennesima prova della svalutazione del Parlamento”. Un altro passo verso la democrazia diretta? “Quelli che la teorizzano recitano il primo articolo della Costituzione, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo”, ma dimenticano di aggiungere che il popolo “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Cosa pensa di Conte? “Mi sembra più avvocato che premier”. Non ha la stoffa del politico? “Non è la guida che io mi aspetto in un periodo di emergenza come questo.Tende sempre a mediare. Del resto è stato premier di due maggioranze di segno opposto”. Cosa rivela il caso Palamara? “La crisi profonda del giudice, che poi è un altro corno della crisi della giustizia. Se un giudice è costretto continuamente a un’opera di supplenza, è inevitabile che finisca per andare alla ricerca del potere”. È legittima la sfiducia degli italiani nella magistratura? “Direi di sì. Prenda il caso Mps: tre volte la Procura chiede l’assoluzione, o l’archiviazione, e poi il tribunale condanna gli imputati a sei anni di carcere in primo grado”. Bonafede le sembra un buon Guardasigilli? “Ha una visione tutta carcerocentrica che non mi piace. In due anni cosa ha fatto? Lo Spazza-corrotti. Non è una riforma, ma un semplice inasprimento delle pene. E poi la sua proposta del trojan, come mezzo di ricerca per la prova, di cui i pm fanno un uso disinvolto, che va contro l’articolo 15 della Costituzione secondo cui “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Cosa rivela il governare con “il salvo intese”? “È il riconoscere che non si decide”. Che ricordi ha dei suoi anni da ministro? “Tre bypass. E ho dovuto smettere di fumare la pipa e le sigarette, ne fumavo due pacchetti al giorno”. Pensa di avere lasciato il segno come ministro? “Qualcosa ho fatto: il giudice unico, le videoconferenze ai processi di mafia, le pagelle ai magistrati, però in buona parte sono rimasti al chiodo anche per l’opposizione delle toghe. Era un governo di grandi personalità: Beniamino Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano”. Un magistrato che si dà alla politica può poi tornare a fare il giudice? “No. E lo ripeto da vent’anni. È assurdo che lo si permetta”. Se si guarda indietro, che percorso è stato il suo? “C’è un tempo per pensare e un tempo per lavorare, io li ho scambiati: prima ho fatto l’avvocato e il professore, e poi, alla fine della mia carriera, da giudice costituzionale, ho pensato”. Cosa ha capito degli italiani? “Che amano il cartongesso. Quando Hitler venne a Roma, la stazione Ostiense fu tirata a lucido a colpi di cartongesso. Mi è sempre parso un episodio rivelatore del nostro carattere: molta apparenza e non sempre sostanza”. Non crede al genio italico? “Alle grandi capacità individuali nel capire i problemi corrisponde uno scarso senso di solidarietà e di coesione”. Nel libro c’è un elogio di sua moglie. “Simonella è stata una compagna paziente. Siamo fatti l’uno per l’altra”. Perché paziente? “È difficile sopportarmi. Sono sempre stato molto concentrato sul mio lavoro e un tempo m’incazzavo anche per le piccole cose, poi ho capito che è uno spreco di fiato inutile. Abbiamo tre figlie, tutte ragazze in gamba”. Che tempo ci attende? “Continuo a pensare a mia sorella, che se ne è andata senza un funerale. Era una donna di valore, si dava meno arie di quante me ne dia io, e forse ha costruito molte più cose di me”. Le indagini da remoto? Riducono i contagi ma aumentano i costi della giustizia di Gabriele Esposito Il Riformista, 31 ottobre 2020 Con il decreto Ristori, pubblicato in Gazzetta Ufficiale due giorni fa, vedono il loro ingresso nell’era telematica del processo penale anche le indagini preliminari. Dopo i tentativi di introdurre il processo penale da remoto, ribaditi anche in questo provvedimento e che non trovano e non troveranno il favore dei penalisti in virtù dell’intangibilità del principio dell’oralità, cardine della formazione in contraddittorio della prova nel processo penale (per quanto concerne, dunque, la fase dibattimentale), si può accogliere con discreto apprezzamento quest’ultima novella. Senza dubbio può essere considerata una rivoluzione la previsione del deposito di taluni atti, memorie difensive, documenti, richieste e istanze mediante i portali telematici delle Procure della Repubblica, così come l’aver conferito valore legale al deposito a mezzo posta elettronica certificata di atti diversi da quelli menzionati. In tal modo, non solo si riduce il rischio di contagio da Covid-19 grazie alla ridotta presenza di persone negli uffici giudiziari, ma si abbassano sensibilmente i costi, in termini di risorse economiche e personali, dei difensori. La vera novità, però, è costituita dalla possibilità del compimento di taluni atti di indagine da remoto, i quali richiedono la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa, del difensore (salvo che questi si opponga quando l’atto richiede la sua presenza), di consulenti o di esperti. Il decreto, quindi, prevede che tali soggetti possano essere ascoltati recandosi presso l’ufficio di polizia giudiziaria più vicino al luogo di residenza, sempre che quest’ultimo sia dotato della strumentazione idonea al compimento dell’atto anche in termini di segretezza di quest’ultimo; il difensore può partecipare telematicamente dal proprio studio oppure può decidere di presenziare dal sito in cui è presente il suo assistito. Ciò che, dunque, appare teoricamente un vantaggio in termini di contenimento del contagio da Covid-19 (questa è la motivazione ufficiale, anche se le prospettazioni sono di periodo pre-pandemia), non si può non sollevare perplessità sul maggiore impiego di risorse. È noto agli addetti ai lavori, difatti, che nella maggior parte dei casi il pubblico ministero delega il compimento dei citati atti di indagine alla polizia giudiziaria presente nel proprio ufficio o a quella territorialmente competente; quest’ultima, poi, trasmette celermente l’atto alla Procura. Ebbene, se un interrogatorio deve essere svolto da remoto dalla polizia giudiziaria in organico alla Procura, e l’indagato o la persona offesa presenzia da remoto affiancato da altro organo di polizia, appare pacifico che le risorse impegnate saranno raddoppiate (e, quindi, i costi) per il conseguimento del medesimo scopo. Probabilmente, per tale motivo, sarebbe stato più utile prevedere che quanto meno l’interrogatorio della persona sottoposta a indagini fosse svolto presso lo studio del difensore. Questa e altre considerazioni, comunque, potrebbero vedersi concretizzate in sede di conversione del decreto Ristori in un testo legislativo più raffinato e adeguato ai casi concreti. C’è aria di una tetra “riforma”, per il processo tributario: la fine dell’oralità di Antonio Damascelli* Il Dubbio, 31 ottobre 2020 Lo Statuto dei diritti del contribuente festeggia nel modo peggiore il proprio ventesimo compleanno: dopo i tanti tradimenti inflitti dal legislatore, la beffa delle liti fiscali ridotte, dal decreto Ristori, alla sola trattazione scritta. Vent’anni fa veniva approvato lo Statuto dei diritti del contribuente. Una legge ordinaria fortemente invasiva nel tradizionale rapporto Fisco-cittadini, in quanto introduceva principi generali che, per la prima volta e in maniera organica, disciplinavano i comportamenti delle due parti nel rispetto di valori quali la chiarezza degli atti, la buona fede e correttezza, l’irretroattività della legge tributaria. Fatto è che il mancato rilievo costituzionale delle disposizioni, pur se valorizzate per la loro applicazione da parte della giurisprudenza, ne ha consentito una continua deroga da parte del legislatore, a discapito di quei principi. Nel corso di un qualificato convegno organizzato da Uncat e dalle Camere tributarie della Sicilia su “Vent’anni dello Statuto e Riforma fiscale” si è discusso dell’attualità dello Statuto non disgiunta dalla opportunità di un suo restyling, che tenga conto della priorità del rafforzamento della compliance (anche attraverso, ad esempio, l’istituzione di tavoli regionali) e della valorizzazione di alcuni istituti privi di un’incidenza attiva nella gestione del rapporto d’imposta (ad esempio l’Ufficio del garante del contribuente). Parimenti, per quello che sta più a cuore degli avvocati, merita l’attualità, sul piano generale della riforma fiscale, la giustizia tributaria, assurdamente estranea all’interesse del legislatore. Il momento critico della pandemia ha reso più evidenti le intrinseche criticità del processo tributario. Sol che si pensi all’introduzione sin dal 2018 del processo da remoto e alla sua mancata attuazione ad oggi, con l’impraticabilità di questa modalità, suona come una beffa il Decreto Ristori (d. l. n. 137 del 28 ottobre 2020 pubblicato in Gazzetta lo stesso giorno), che ha stabilito questa modalità fino all’esaurimento della fase emergenziale da Covid. Suona beffa, in quanto il legislatore sa benissimo che, nonostante sia gli uffici finanziari che gli studi professionali siano attrezzati, tuttavia ostano al suo utilizzo le non ancora complete strumentazioni tecniche all’interno degli uffici. Sul piano tecnico si affidano assurdamente ai presidenti delle Commissioni tributarie (in funzione della celebrazione del processo da remoto) indagini sulle precondizioni esterne al processo (divieti, limiti e impossibilità della circolazione), che non si sa con quale grado di certezza o ufficialità si impongano al sindacato della loro scelta, ovvero sull’individuazione dei soggetti “a vario titolo interessati nel processo tributario” (una volta si definivano parti processuali). La modalità del processo tributario, al di là dell’evidente incoerenza della narrazione letterale dell’art. 27 di questo decreto legge, è unica fino alla fine della pandemia: il processo scritto. Mentre fino a oggi era dato alla parte di optare per l’oralità, sia pur rinviando la discussione dei ricorsi nel tempo, dall’attuale decreto l’oralità scompare anche in via opzionale, così almeno stando all’interpretazione strettamente letterale. Ma tanto avrebbe imposto una migliore disciplina che avesse modulato e scansionato le tempistiche degli adempimenti processuali, senza prevedere ex ante l’ipotesi di rinvio a nuovo ruolo per l’impossibilità di garantire il rispetto dei termini. Ciò che preoccupa, al di là dell’emergenza di cui l’Avvocatura è consapevole e doverosamente rispettosa dei presidi eccezionali atti a combatterla, è l’ossigeno che si respira, un refolo che sembra indirizzarsi verso la fine dell’oralità. Ma, pur comprendendo fino in fondo le conquiste della tecnica, resto convinto che l’oralità stia al processo come la cornice al quadro. *Presidente dell’Uncat - Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi Il Csm si spacca ancora anche per sostituire un magistrato di Liana Milella La Repubblica, 31 ottobre 2020 Perfino l’Ufficio studi si divide a metà sulla procedura da seguire per far entrare in Consiglio il componente togato che dovrà prendere il posto del dimissionario Mancinetti di Unicost. A maggioranza è probabile che ce la faccia Pasquale Grasso di Magistratura indipendente. Non trova pace questo Consiglio superiore della magistratura. Funestato dal caso Palamara e dalle conseguenti dimissioni a cascata. Ben cinque a giugno 2019 (due Unicost, tre Mi). Poi un’altra, quella di Mancinetti di Unicost, a settembre. Un tre a tre che ha punito entrambe le correnti di centro (Unicost) e di destra (Mi) della magistratura. Alle spalle già un’elezione suppletiva, autunno dell’anno scorso, per un giudice, visto che nel 2018 alle urne le toghe andarono con un’assurda e irresponsabile penuria di candidati. Tipo quattro pm per quattro posti. Diciannove giudici per 16 posti. Quattro della Cassazione per due posti. Esaurita ormai anche la lista dei non eletti tra i giudici. Visto che dei non eletti del 2018 sono già entrati i davighiani Pepe e Marra. Le “voci di dentro” assicurano che potrebbe farcela Pasquale Grasso, l’ex presidente dell’Anm che a giugno 2019 fu costretto a dimettersi dopo l’esplosione del caso Palamara. Lui era di Magistratura indipendente. Le altre correnti lo accusarono di non aver reagito con immediatezza e in modo drastico allo scandalo e lui, giudice civile a Genova, lasciò polemicamente con una missiva, nella quale non solo annunciava di voler abbandonare pure la sua corrente, ma al contempo ringraziava l’incontrastato leader di Mi Cosimo Maria Ferri (dal 2018 deputato prima del Pd e poi renziano) per il rapporto che aveva avuto con lui e per quello che gli aveva insegnato. Apriti cielo, scoppiò un caso nel caso. Ma adesso Grasso sembra essersi riavvicinato ai suoi tant’è che l’anno scorso si è candidato alle elezioni suppletive, riscuotendo anche un buon successo con 1.983 voti rispetto alla prima eletta, Elisabetta Chinaglia di Area (2.362). Ovviamente i tre di Mi fanno il tifo per Grasso. Che, se entrasse, riporterebbe quasi Mi al successo del 2018, quattro consiglieri su sedici. Ma da oltre un mese il Csm è nelle peste per sostituire Mancinetti che ha lasciato il 9 settembre. Di mezzo il caso Davigo che ha avuto la priorità. La stessa Commissione per la verifica dei titoli che ha proposto la sua cacciata, adesso è alle prese con la sostituzione di Mancinetti. Come ha scritto giovedì pomeriggio Antonella Mascali nella Newsletter sulla giustizia del Fatto quotidiano siamo di fronte a una nuova storia kafkiana. Che non manca di sollevare proteste tra gli stessi consiglieri che liberamente possono seguire i lavori della Commissione titoli. Composta da due toghe rosa di Mi, Loredana Micciché e Paola Maria Braggion, e dal laico indicato da M5S Alberto Maria Benedetti. Guai al solo pensare, dire o peggio scrivere che Micciché e Braggion fanno il tifo per Grasso, e quindi per una soluzione che eviti nuove elezioni suppletive, ma utilizzi Grasso, primo dei non eletti in una graduatoria che però non è quella delle elezioni del 2018, ma è comunque una graduatoria per un’elezione al Csm. Lana caprina? Tempo perso mentre il nostro Paese affonda nel Covid? Tant’è, ogni critica è permessa. Ma le due fazioni si scontrano al Csm. Al punto che la Commissione per la verifica dei titoli affida all’Ufficio studi interno al Consiglio il compito di studiare la questione e fornire un parere. E pure loro si dividono, quattro sono per nuove elezioni suppletive, uno per far entrare subito Grasso, che comunque si è candidato per il Csm. Quesito: ma è possibile che pure l’Ufficio studi sia diviso in fazioni? Per dirla chiara: possibile che sia influenzato anche lui dalla logica delle correnti? E a questo punto la Commissione verifica titoli che farà? Ricorre anche stavolta all’Avvocatura dello Stato come ha fatto per il caso Davigo? Oppure si va in plenum, si vota, e chi vince vince? Potrebbe essere proprio questa la soluzione. Un plenum in cui la maggioranza potrebbe votare a favore di Grasso. Anche per evitare un futuro contenzioso, perché se Grasso fosse escluso e si andasse a nuove elezioni, poi Grasso ricorrerebbe al Tar. Un fatto è certo. Questo Csm insediato a settembre del 2018 scade nel settembre del 2022. Tra due anni. Ha perso per strada sei consiglieri togati su 16 per via di Palamara. Poi ha perso Davigo. Deve affrontare ancora i processi disciplinari contro i 5 dell’hotel Champagne e contro Ferri. Forse è tempo di certezze, non di divisioni e polemiche. Un uomo solo al comando, ecco l’Anm modello Putin di Paolo Comi Il Riformista, 31 ottobre 2020 Il rinnovamento dell’associazionismo giudiziario è affidato, dunque, allo schema “Palamara”, quello dell’uomo solo al comando. Sono state le toghe di sinistra di Magistratura democratica, alla vigilia della prima riunione del nuovo Comitato direttivo centrale dell’Anm, in programma la prossima settimana, a rispolverare il modello del presidente unico, propugnato dell’ex zar delle nomine fin dal lontano 2008, anno della sua indimenticata presidenza. In un lungo comunicato pubblicato ieri, dopo aver ribadito la necessità di difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e ricostruire la credibilità della funzione giurisdizionale e della sua legittimazione democratica, l’esecutivo di Md chiede ai neo eletti “se non si debba riflettere a fondo sulla soluzione di una rigida e predeterminata rotazione annuale delle cariche”. Nell’ultimo quadriennio, 2016-2020, l’Anm aveva deciso di dar il via alla rotazione dei vertici. Quattro presidenti e quattro segretari generali, uno per ogni anno, in modo che tutte le correnti avessero il loro momento di gloria al vertice dell’Anm. Il primo anno la presidenza venne assegnata a Piercamillo Davigo, fondatore di Autonomia & Indipendenza. Terminato il mandato l’ex pm di Mani pulite decise di uscire dalla giunta unitaria perché aveva scoperto che al Csm gli incarichi venivano dati secondo logiche correntizie e non secondo il merito. “L’esperienza dell’ultimo quadriennio ci ha dimostrato che questa prassi, anziché rinforzare la logica dell’unità ed essere funzionale - come sempre è stata - alla piena assunzione di responsabilità, può invece sclerotizzarsi ed essere utile a ricondurre l’immagine dell’associazione al patrimonio del gruppo che di volta in volta ne esprime il vertice”, precisano al riguardo i magistrati di sinistra. “In tal modo - puntualizzano - non si favorisce la partecipazione e quel necessario sforzo di sintesi che, attraverso il dibattito interno, deve essere alla base di un confronto coerente con la politica, in una fase strategica di riforma dell’ordinamento giudiziario e del processo penale”. Fra le righe, dunque, c’è una ricandidatura del pm milanese Luca Poniz, presidente uscente ed esponente di spicco proprio di Magistratura democratica. Lo schema “Palamara” sarebbe comunque apprezzato anche dai centristi di Unicost, la sua ex corrente, ormai depurata degli ultimi fedelissimi. Secondo fonti del Riformista, la nuova squadra sarebbe già pronta. Presidente, come detto, Poniz, segretario generale il giudice del Tribunale di Napoli Alessandra Maddalena, anche per rispetto alle quote di genere, in quota Unicost. Ruolo importante dovrebbe avere anche il giudice romano Aldo Morgigni, ex componente del Csm, davighiano della prima ora. Ancora in castigo Magistratura indipendente, la corrente di destra. Non completamente disintossicata dalle influenze “nefaste” di Cosimo Ferri, fuori ruolo da quasi dieci anni, ma dagli oppositori ritenuto comunque l’indiscusso leader ombra della corrente. All’opposizione, senza sconti, Articolo 101, il gruppo formatosi di recente, dopo l’esplosione del Palamaragate, il cui core business è la lotta agli effetti perversi del correntismo e della lottizzazione delle nomine al Csm. Improbabile un loro coinvolgimento in una giunta con chi si oppone da sempre, come Md, al sorteggio per i componenti del Csm e alla rotazione degli incarichi direttivi. Se dovesse passare lo schema “Palamara”, con un presidente unico per quattro anni, è auspicabile, allora anche un ritorno in grande stile del suo ideatore. Sarebbe un gesto di grande rispetto nei confronti di chi ha avuto per primo questa intuizione. L’ultima parola, sul ritorno di Palamara, spetterà alle Sezioni unite della Cassazione. Piazza Cavour dovrà esprimersi a breve, infatti, sul ricorso contro la sentenza che ne ha disposto la radiazione dalla magistratura. Nel frattempo, per non annoiarsi, Palamara è entrato a far parte della Commissione sulla riforma della giustizia del Partito Radicale. Delitto Pasolini. “A 45 anni di distanza ancora troppi dubbi: non fu ucciso solo da Pelosi” La Repubblica, 31 ottobre 2020 Il legale torna a chiedere la riapertura delle indagini sull’uccisione dello scrittore avvenuta all’idroscalo di Ostia nella notte tra il primo e 2 novembre del ‘75. “La Procura avrebbe potuto indagare nell’ambito della criminalità romana dell’epoca, considerando soprattutto coloro che gravitavano intorno alla neo-nascente Banda della Magliana”. “Sono trascorsi 45 anni dal delitto ma abbiamo delle prove che possono resistere anche al trascorrere del tempo. Oggi sappiamo che Pier Paolo Pasolini non venne ucciso soltanto o forse nemmeno da Pino Pelosi, cioè da colui che la Giustizia aveva indicato come l’unico responsabile dell’omicidio. È necessario quindi sgombrare il campo dai tanti dubbi che ancora gravano su questa complessa e tragica vicenda”. Così l’avvocato Stefano Maccioni legale dei familiari dello scrittore-regista che fu ucciso nella notte tra il 1 e il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia chiedendo di riaprire le indagini L’attenzione, secondo il legale, va puntata sui tre profili genetici individuati su una serie di reperti e rimasti ignoti. “Perché quindi avendo la possibilità di individuare gli esecutori materiali del delitto non ci si è attivati - spiega Maccioni in una nota - nel continuare a fare una valutazione estesa dei Dna come richiesto reiteratamente? Alla luce della relazione finale del Ris abbiamo chiesto un parere pro-veritate alla genetista forense Marina Baldi. La specialista, riprendendo quanto sostenuto dal Ris, afferma che sul reperto 7, maglia di lana a maniche lunghe, ci sono altri due Dna, di cui quello del ‘secondo soggetto ignoto’ è misto al codice genetico di Pasolini ed è stato riscontrato anche su altri reperti ma quello appartenente al terzo soggetto ignoto è un profilo singolo, estrapolato da una traccia verosimilmente ematica. Quindi c’è l’impronta biologica di qualcuno che, nel momento in cui c’è stato il contatto con la vittima, era ferito, con ferita recente perché perdeva sangue”. La genetista ha quindi “attestato che sulla scena del crimine - prosegue Maccioni - nel momento in cui veniva ucciso Pasolini sicuramente era presente anche una terza persona di cui abbiamo il profilo biologico. Su tale presupposto avevo richiesto all’allora procuratore Pignatone e al pm Francesco Minisci di procedere alla riapertura delle indagini al fine di individuare a chi appartenesse il profilo biologico di ignoto 3, oltre che ovviamente quello degli altri Dna rimasti allo stato ignoti. Riteniamo che la Procura avrebbe potuto indagare nell’ambito della criminalità romana dell’epoca, considerando soprattutto coloro che gravitavano intorno alla neo-nascente Banda della Magliana”. L’assurda vicenda di Marco Galati: sbattuto in cella, ma il reato non c’è di Tiziana Maiolo Il Riformista, 31 ottobre 2020 Più che da infiltrato pare essersi comportato da agente provocatore l’Uomo Ombra che per quattro anni ha vissuto quasi in simbiosi con Marco Galati, cinquantenne calabrese di Filadelfia emigrato in Svizzera da ragazzo, dove ha fatto un po’ di tutto, dal bodyguard alla guardia giurata fino a diventare ricco con l’apertura di un ristorante, il Bellavista, nella cittadina di Muri, nella Svizzera di lingua tedesca. Naturalmente è molto sospettoso sulla provenienza di quella ricchezza il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri che nel luglio scorso ha ridato linfa all’inchiesta Rinascita Scott con l’operazione “Imponimento”. Marco Galati viene arrestato insieme ad altre 74 persone nel luglio scorso e buttato nel carcere di Vibo Valentia con l’imputazione di associazione di stampo mafioso, il famoso articolo 416 bis del codice penale. Nessun reato-fine accompagna e sostiene quello associativo. Ma si scopre allora che l’indagato calabro-svizzero avrebbe vissuto per quattro anni in compagnia dell’Uomo Ombra, con cui ha fatto vacanze e cene, con cui è andato in palestra e con cui ha parlato di macchine e motori, di viaggi e di progetti per il futuro. E anche di armi, vere o finte, come quella scacciacani che l’infiltrato comprerà da un amico di Galati, con cui si lamenterà di esser stato imbrogliato. L’Uomo Ombra svolgerà con scrupolo il suo compito. C’è un accordo stipulato tra l’Italia e la Svizzera e un gruppo di lavoro per indagini comuni che riguardano il mondo dei cittadini calabresi emigrati in terra elvetica. Ne individuano tre, e Galati è uno di questi. Si cerca quella cosca della ‘ndrangheta che si rivelerà, a detta degli stessi inquirenti, inesistente. L’infiltrato prova a proporgli di fare affari con opere d’arte o diamanti, ma senza successo. Il suo amico pare più interessato a cambiare franchi in euro possibilmente attraverso agenzie private e un po’ borderline per fare arrivare i soldi in Italia per comprarsi una bella casa in Calabria. Magari cercando di non pagare troppe tasse. Ma reati veri e propri non se ne trovano. Marco Galati viene sottoposto a “tentazioni” non solo dall’infiltrato. Con la sua terra d’origine ha mantenuto rapporti di amicizia, e sono relazioni “pesanti”, come quella con la famiglia Anello, il cui capostipite Rocco è considerato un boss di un certo peso a tutti gli effetti. Sarà proprio lui a proporgli di entrare in affari insieme, ma la risposta sarà no. E questo suo rifiuto sarà considerato dai giudici del riesame, che hanno respinto la richiesta del suo avvocato Antonio Zoccali di scarcerazione o arresti domiciliari, un’”astuzia”, una sorta di copertura del partecipante all’associazione mafiosa che preferisce lavorare sott’acqua per i suoi compari. Una specie di “concorso esterno”. Resta il fatto che nessun “pentito”, nelle inchieste sulla ‘ndrangheta che partono addirittura dal 2004, ha mai fatto il suo nome, né lui mai appare in alcuna intercettazione. È solo amico di Rocco Anello e quando va in Calabria i due si vedono sotto gli occhi di tutti. Il suo avvocato è sconcertato soprattutto per le tante anomalie procedurali di questa inchiesta e di questo modo di fare degli inquirenti, ma anche dei giudici. Il tribunale del riesame sembra giustificare tutto, anche certe sciatterie del copia-incolla ad opera dei gip che la stessa Suprema Corte giustifica, così come il fatto di usare il reato associativo per fare la pesca a strascico e fare di tutt’erba un fascio. Ora si aspetta la cassazione. L’avvocato Zoccali è da sempre un penalista e conosce bene la filosofia dei maxiprocessi (“mi sono formato su quello di Palermo”), anche se negli ultimi anni si è impegnato più in organismi di vigilanza e controllo, oltre che nell’Agenzia dei beni confiscati. Ha accettato la difesa di Galati perché è un compaesano di Filadelfia, ma soprattutto perché ha intuito che dietro le “anomalie” procedurali si stava rischiando violare lo stesso principio del costituzionale del giusto processo. Perché l’Uomo Ombra non ha mai registrato nulla dei suoi incontri con la sua “vittima”, ha solo preso appunti, poi riversati in una relazione, che finirà in Svizzera negli uffici di una società privata, e in Italia nelle mani della Dda di Catanzaro. Ma è tutto qui, e non è sufficiente per dimostrare l’appartenenza a una cosca mafiosa. “Il processo - dice il legale - deve verificare se una persona ha rubato o ucciso, non serve a combattere la criminalità organizzata. Inoltre, con tanti imputati, può capitare che vengano coinvolte persone su cui i giudici non riescono neppure a valutare la posizione. E non vorrei che Marco Galati finisse per pagare qualche comportamento personale che non c’entra niente con l’associazione mafiosa”. Toscana. “Morte detenuto a Livorno richiede interventi per conservare valori costituzionali” met.provincia.fi.it, 31 ottobre 2020 Il Garante toscano dei detenuti: “Prima di tutto le più sentite condoglianze ai familiari. Il contagio è in continua crescita, preoccupa la disattenzione verso i carcerati più fragili. Rispettare loro dignità umana e pensare organizzazioni sanzionatorie diverse”. Il Garante toscano dei detenuti, Giuseppe Fanfani, appresa la notizia del decesso per Covid di un detenuto del carcere di Livorno, rivolge innanzitutto “le più sentite condoglianze ai suoi familiari” e segnala la necessità di “pensare organizzazioni sanzionatorie diverse”, specie in questa fase di emergenza sanitaria, e di “conservare i valori costituzionali”. Il detenuto morto in carcere a Livorno aveva 84 anni ed era affetto da varie patologie, tanto che i suoi legali, già all’insorgere della pandemia, avevano chiesto la detenzione domiciliare per motivi di salute, visto che era un soggetto ad altissimo rischio di contagio con esito infausto. “Purtroppo - dichiara Fanfani - malgrado la sicura attenzione delle forze di polizia penitenziaria e delle direzioni degli istituti, le statistiche degli ultimi giorni dimostrano che il contagio è in continua crescita”. Per questa ragione, il garante invoca “la massima attenzione da parte di tutti gli operatori” ed esprime “grande e rinnovata preoccupazione per la disattenzione che il sistema delle leggi ha verso i detenuti molto anziani, le categorie più deboli a cominciare da coloro che sono affetti da problemi psichiatrici, i tossicodipendenti, i condannati a pene brevi, solo per citarne alcuni. Per costoro - prosegue Fanfani - dovrebbero immaginarsi organizzazioni sanzionatorie diverse, pene alternative, sistemi di recupero sociale e strutture detentive attenuate”. Su questa strada, il garante invita “a procedere tutti coloro che hanno a cuore la conservazione dei valori costituzionali all’interno delle carceri e la dignità umana dei carcerati”. Marche. “Carceri, per ora nessuna infezione di Covid tra i detenuti” Il Resto del Carlino, 31 ottobre 2020 “Al momento nessun contagio tra i detenuti”. Lo annuncia il Garante regionale dei diritti delle Marche, Andrea Nobili, che sta portando avanti una ulteriore fase di monitoraggio tra gli istituti penitenziari marchigiani con particolare riferimento alla situazione sanitaria legata all’emergenza Covid-19. “Gli istituti - evidenzia in una nota - stanno attuando scrupolosamente le disposizioni previste per il contrasto e il contenimento della diffusione del Coronavirus, con particolare attenzione ai nuovi arrivi. Un lavoro che si avvale della collaborazione di tutto il personale che opera nel carcere”. Dopo Montacuto di Ancona e Villa Fastiggi di Pesaro, il Garante ha visitato la casa circondariale di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno. In tutti i casi, oltre ai previsti colloqui con i detenuti che ne hanno fatto richiesta, sono stati attivati confronti diretti con i responsabili delle diverse aree. “Come sempre le criticità non mancano - spiega Nobili - ma il momento attuale ci indica un impegno primario, attento ed oculato soprattutto sul versante sanitario. Soltanto con una collaborazione a tutto campo, contrassegnata dalla continuità d’azione, potremo far fronte ad un’emergenza che impone di tenere sempre alta l’attenzione”. Napoli. “Lo spazio per i detenuti nel carcere non esiste!” di Rossella Grasso Il Riformista, 31 ottobre 2020 Fiaccolata a Poggioreale dopo i primi casi di Covid. “I nostri detenuti non sono curati, hanno sbagliato, devono pagare ma non con la vita, altrimenti mettete la pena di morte e ci mettiamo l’anima in pace”. Così ha gridato una delle donne, mogli di detenuti, che hanno partecipato alla fiaccolata intorno al carcere di Poggioreale di Napoli per chiedere che la situazione nelle carceri con l’incremento dei casi di coronavirus non venga sottovalutata. Insieme a lei hanno pacificamente manifestato un folto gruppo di familiari e amici dei detenuti in una delle carceri più grandi d’Italia e anche tra i più affollati. “Fuori un metro di distanza dentro 10 in una stanza”, recita lo striscione che ha aperto la manifestazione. Si sono radunati e poi hanno acceso le fiaccole. “Mio marito si trova nel padiglione Firenze stanza 21 - ha detto un’altra signora - È cardiopatico e nello stesso padiglione si è manifestato un caso di covid. Sono in 9 in una stanza e ancora devono fare i tamponi a tutti. Mio marito sta male e non gli danno niente, sono abbandonati, soli come i cani”. “Mio nipote è in carcere e ha bisogno di cure - racconta un’altra manifestante - Non stiamo dicendo che vogliamo riportarcelo a casa, chi ha sbagliato deve pagare e siamo d’accordo. Però deve stare bene, non deve morire in carcere”. “Mio marito non sta bene, lo dicono anche i medici, sta facendo anche le piaghe - ha detto Carmen D’Angelo, moglie di Francesco Petrone - Ha avuto un infarto e un ictus, nelle sue condizioni rischia di morire se prende il covid. In più non so nulla di lui da settimane: non parla e non si muove più, videochiamate non ne può fare e nemmeno il piantone è autorizzato a parlare con me perché estraneo alla famiglia. Stiamo impazzendo”. Il problema a Poggioreale è serio perché negli ultimi mesi è aumentata la popolazione carceraria a 2.200 detenuti. Bastano pochi casi di contagi e il carcere rischia di diventare una polveriera per via degli spazi ristretti in cui sono costretti i detenuti. “Non vogliamo che a Poggioreale si spanda una pandemia veloce - ha detto Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli - Attualmente ci sono delle celle in quarantena perché ci sono stati 5 o 6 casi, ma sono tutti isolati e sotto controllo medico. Se il Governo non è capace di fare un provvedimento per detenuti ultrasettantenni, per chi è ammalato e per chi ha un fine pena breve chiediamo amnistia e indulto. Nel carcere non c’è spazio per i detenuti”. Il gruppo di manifestanti ha fatto un giro intorno al carcere dietro il manifesto “Una vita non può valere una condanna, vergogna!”. Poi si è fermato di lato dove c’è uno degli affacci del carcere. Alle finestre i loro amici e parenti detenuti hanno gridato e fatto rumore sbattendo contro le sbarre. “Non vi lasceremo soli”, hanno gridato in direzione del carcere. “È un’eutanasia, vergogna! - hanno gridato ancora - Fate uscire gli ammalati!”. Al corteo ha preso parte anche Don Franco Esposito, cappellano di Poggioreale e Direttore dell’Ufficio per la Pastorale Carceraria: “Se ci stanno 10 o 12 persone in una cella qui a Poggioreale non può essere rispettata la dignità - ha detto - Mi fa sorridere che poi vengono in Chiesa e noi facciamo rispettare le norme sul distanziamento e poi li ritroviamo a centinaia ammassati durante l’ora d’aria senza mascherine perché non hanno la possibilità nemmeno di vivere l’ora d’aria in sicurezza. Se nemmeno il covid riesce a convincere chi ci governa al rispetto della dignità umana allora non ci riuscirà mai nessuno”. “Si prevede un altro lockdown, ci saranno le guerre civili - ha detto Carmela Esposito, membro laico del XII Decanato Pastorale Carcerario e presidente dell’Associazione “Gioco di squadra” - Entrerà in carcere un’altra fascia di poveri, quelli che non avrebbero mai pensato di andare a rubare, ma ora sono pronti a fare saccheggi. Questo è il fallimento della nostra società”. Alessandria. Carcere Don Soria: circa venti detenuti sospetti Covid radiogold.it, 31 ottobre 2020 In collaborazione con l’Asl di Alessandria la direzione del Carcere Cantiello e Gaeta di Alessandria, in piazza Don Soria, ha avviato tutti i controlli per verificare l’eventuale positività al coronavirus di circa venti detenuti della struttura penitenziaria. “Stiamo monitorando la situazione per fare tutti gli accertamenti insieme all’Asl” ha sottolineato a Radio Gold la direttrice Elena Lombardi Vallauri “faremo controlli a tutti nel più breve tempo possibile”. Nel frattempo il Sappe, sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria, ha parlato di “situazione emergenziale” negli istituti di pena di Alessandria. “Chi lavora all’interno degli istituti penitenziari ha diritto, se venuto a contatto con una persona positiva al covid nell’esercizio del suo lavoro, ad essere subito assistito e non di aspettare settimane per effettuare i test” ha detto il vice segretario regionale del Sappe Demis Napolitano “In questo periodo si sta affrontando un momento delicato all’interno delle carceri e creare tensioni e malumore è grave. I poliziotti ricorrono, in autotutela, a un isolamento preventivo e a tamponi a pagamento in strutture convenzionate. Tutto questo è inaccettabile: la Direzione fronteggi con la massima celerità questa situazione per salvaguardare, in primis, lo stato di salute delle persone e rafforzare tutte le misure intraprese nei mesi precedenti. A onor del vero riconosciamo il lavoro della direzione e dello staff in questi mesi. La ringraziamo per quanto fatto. Insieme abbiamo affrontato l’emergenza sanitaria ma ora abbiamo bisogno di risposte rapide da parte delle istituzioni”. Trento. La Garante: “Nel carcere troppi detenuti, rischio suicidi” Corriere del Trentino, 31 ottobre 2020 Nel carcere di Spini di Gardolo “siamo ben oltre il dato massimo di capienza delle 240 presenze: attualmente si contano 308 detenuti”. La Garante dei detenuti, Antonia Menghini, intervenuta a un’audizione della prima commissione del Consiglio provinciale, lancia l’allarme sul rischio suicidi. “Il numero delle presenze - ha detto - ha un’incidenza importante sul numero del personale, la dotazione organica è calcolata sulla base delle 240 presenze alle quali corrisponderebbero 6 educatori, mentre per tutto il 2019 ne abbiamo avuti 3 e oggi siamo a 4. Poi mancano ispettori”. Lodi. Il coronavirus entra anche alla Cagnola di Carlo Catena Il Cittadino, 31 ottobre 2020 Detenuto trovato positivo e subito trasferito, tamponi con esito negativo a tutto il personale. Il coronavirus è entrato anche nel carcere di Lodi: settimana scorsa un detenuto è stato trovato positivo al tampone ed è stato quindi disposto il trasferimento a San Vittore, dove da tempo è istituito un settore ritenuto in grado di ospitare in sicurezza persone potenzialmente contagiose. Una tornata di tamponi è stata eseguita anche per tutto il personale della casa circondariale di via Cagnola, fortunatamente con esiti solo negativi. Nei mesi scorsi la struttura lodigiana era stata oggetto di lavori di ristrutturazione che avevano determinato la scelta di destinare a carceri milanesi anche i nuovi arresti, una limitazione temporanea che ora è rientrata. Sono sospese invece le funzioni religiose, per le quali non è stato trovato uno spazio ritenuto idoneo sotto il profilo del ricambio d’aria che è tra le prime raccomandazioni sanitarie per prevenire la diffusione del virus. La direzione della casa circondariale, dopo il pensionamento dell’ultima dirigente Caterina Zurlo, è stata temporaneamente affidata alla reggenza del vice direttore del carcere di Bollate, il dottor Gianfranco Mongelli. Anche se i numeri di Lodi non sono mai stati drammatici, a livello governativo, per fare fronte a un sovraffollamento delle carceri che in piena pandemia rischia di trasformarsi in un’emergenza sanitaria, si sta preparando un decreto che prevede l’utilizzo del “braccialetto elettronico” per poter mandare agli arresti domiciliari quei detenuti cui manchino 18 mesi al “fine pena” e che non si siano macchiati dei cosiddetti reati ostativi, per mafia, corruzione o violenza sessuale, e che nell’ultimo anno non abbiano subito sanzioni disciplinari o abbiano partecipato a rivolte. Anche a Lodi in primavera c’era stato un episodio di battitura delle sbarre delle celle, a seguito delle prime restrizioni alle visite ai detenuti per ostacolare l’ingresso del covid nella struttura, cui erano seguite sanzioni e trasferimenti, e ciò significa che anche per alcuni dei ristretti di Lodi il “braccialetto” è precluso. I dati del ministero della Giustizia indicano che nelle carceri ci sono già stati circa 150 positivi al covid-19, ripartiti in 41 strutture, su un totale di oltre 54mila persone attualmente in cella in Italia, e che il contagio ha coinvolto anche circa 200 agenti della polizia penitenziaria, di cui tre sono finiti in ospedale. Una situazione numericamente analoga a quella che si era registrata con la prima ondata, a inizio aprile, e che il ministero della Giustizia cerca di contenere con misure straordinarie temendo pericolosi focolai interni. Milano. Dopo Expo: anche i detenuti partecipano al progetto Mind di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 31 ottobre 2020 Il Programma 2121 ruota attorno al carcere di Bollate e vicino al sito Mind, nell’area che nel 2015 ospitò Expo. È “un’iniziativa pubblico-privata promossa dallo sviluppatore immobiliare Lendlease e dal Ministero della Giustizia” per tirocini semestrali che diano ai detenuti competenze lavorative e un’indennità. All’interno di Mind, per ora si può valutare l’andamento solo dei primi 10 detenuti ammessi alla fase pilota. Lendlease, in accordo con il ministero, rinnova i 7 contratti. “Esperienza virtuosa”. “Il primo giorno mi è stato detto: “Per noi sei equiparato a ogni normale dipendente”, e io non pensavo sarebbe stato veramente così. E invece è andata effettivamente così”. Ci sono Paesi, come l’Inghilterra, nei quali da una decina d’anni si fanno addirittura emissioni di “social impact bond”, cioè di obbligazioni (per finanziare progetti di reinserimento lavorativo dei detenuti di un carcere) il cui rendimento, tutt’altro che disprezzabile per l’investitore rispetto al mercato, è agganciato al raggiungimento di una performance particolare come l’abbassamento della percentuale di recidiva dei detenuti di quel carcere una volta scontata la pena anche nelle attività finanziate appunto da quel bond. In Italia si è ancora parecchio indietro, e del resto - nota Filippo Giordano, professore associato di Economia Aziendale alla Lumsa di Roma e di Business Ethics e Responsabilità Sociale alla Bocconi - a inizio anno soltanto il 30% circa della popolazione detenuta era impiegato in attività lavorative, e di questo 30% solo il 13% lavorava per datori terzi rispetto all’amministrazione penitenziaria. Ma ogni tanto qualche iniziativa timidamente si affaccia, man mano che si afferma la consapevolezza che per la collettività la vera sicurezza sociale sia quella di riavere in circolazione una persona diversa da quella entrata in carcere, e che a questo scopo l’apprendimento e l’avviamento a un lavoro siano cruciali. Il Programma 2121, battezzato con un gioco di numeri tra l’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario (che regola il lavoro extra carcere) e il 2021 di fine del programma triennale 2018-2021, ruota attorno al carcere di Bollate vicino al sito Mind-Milano Innovation District nell’area che nel 2015 ospitò Expo. Ed è “un’iniziativa pubblico-privata promossa dallo sviluppatore immobiliare Lendlease e dal Ministero della Giustizia” per tirocini semestrali che diano ai detenuti competenze lavorative, un’indennità equiparabile ai tirocini ordinari, e due moduli di formazione trasversale da parte di Anpal e Anpal Servizi, utili a navigare nella delicata fase del passaggio dall’ambiente carcerario a quello delle aziende ospitanti. All’interno del masterplan del sito Mind, per ora si può valutare l’andamento solo dei primi 10 detenuti ammessi alla fase pilota da novembre 2018 ad aprile 2019: impiegati anche in ruoli di responsabilità nella progettazione Autocad, nell’amministrazione d’ufficio, e nella gestione della sicurezza, 7 sono stati riconfermati o attraverso un prolungamento del tirocinio o attraverso un contratto di lavoro a tempo determinato, uno ha proseguito l’inserimento lavorativo al di fuori del progetto, uno ha terminato l’inserimento a causa della fine dell’appalto dell’azienda che lo impiegava, uno ha finito intanto la pena. In prospettiva, se questi modelli funzionano, ci guadagnano tutti: i cittadini in sicurezza, lo Stato risparmia sulle ingenti spese per carcerazioni sempre più numerose, le aziende ottengono dallo Stato appositi sgravi fiscali, e i detenuti si avvantaggiano dell’apprendimento di un lavoro qualificato, dell’incontro tra formazione erogata e abilità richieste del mondo del lavoro, e a volte persino di un inserimento diretto nel mondo del lavoro dopo il rilascio. Aosta. I volontari del carcere e l’emergenza sanitaria: “Interrotti contatti con detenuti” voxpublica.it, 31 ottobre 2020 “Assicuriamo fornitura indumenti e kit igiene personale”. L’emergenza sanitaria ha bloccato, in parte, l’attività dei volontari dell’Associazione Valdostana Volontariato Carcerario. Quaranta concittadini che, dal 1983, anno di fondazione, si impegnano nell’alleggerire la quotidianità degli ospiti della Casa Circondariale, di Brissogne. “Abbiamo dovuto interrompere il confronto diretto con i detenuti - dice Piera Asiatici, una delle fondatrici del sodalizio. Lo impongono le regole ministeriali che, in ogni caso, non vietano di continuare la nostra attività di sostegno. Ogni martedì e, una volta al mese, il sabato, assicuriamo il rifornimento di indumenti e del kit per l’igiene personale dei reclusi. Rifornimento contrassegnato da una tempistica commisurata alle rispettive necessità”. Per i ragazzi detenuti, soprattutto, è una mancanza molto avvertita. Il dialogo con chi non giudica, non profferisce inutili raccomandazioni e, soprattutto, non pone domande imbarazzanti è un appuntamento, ormai irrinunciabile. Le lunghe giornate trascorse fra le mura di un penitenziario sono, da 30 anni, interrotte e ravvivate da una presenza amica che assicura discrezione e incoraggia nel guardare al futuro con entusiasmo. “I pacchi - riprende Piera Asiatici - li consegniamo agli agenti di Polizia Penitenziaria che provvedono a smistare il contenuto, in base alle esigenze. Abbiamo dovuto modificare la nostra organizzazione. L’importante è non interrompere questo servizio utile e rasserenante” Volontari e simpatizzanti che hanno scelto di dedicare alcune ore del loro tempo a persone in difficoltà, rinchiusi in una struttura sconvolta dalla presenza di focolai di coronavirus. Ieri, un detenuto, risultato positivo, è stato ricoverato al ‘Parini’. La direzione carceraria ha messo in atto ogni precauzione possibile per fermare il contagio. Varese. Carcere dei Miogni, positivi un agente penitenziario e un detenuto varesenews.it, 31 ottobre 2020 Tracciamento su tutti i soggetti che hanno avuto contatti coi positivi, sottoposti a tampone. La direttrice: “Seguiti i protocolli ministeriali”. Un agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere dei Miogni è risultato positivo al tampone SarsCov2, così come un detenuto della struttura: sono in atto tutte le misure di tracciamento e isolamento previste dalle norme. Lo conferma la direttrice della casa circondariale di Varese Carla Santandrea. L’agente è presso il suo domicilio in quarantena mentre il detenuto, asintomatico, verrà trasferito al carcere milanese di San Vittore dotato di strutture sanitarie adeguate. “È stato eseguito il tracciamento di tutte le persone venute a contatto coi due positivi. Nel caso dei detenuti sono stati posti in isolamento e sottoposti a doppio tampone che ha dato esito positivo solo per un soggetto”, ha spiegato la dirigente aggiungendo che “tutte le misure adottate sono state prese in base alle linee guida”. In una Circolare del 14 ottobre 2020 il ministero della Giustizia ha reso noto documenti e comportamenti da seguire da parte dell’amministrazione penitenziaria per la gestione di casi Covid all’interno delle carceri, specificando i periodi di isolamento e quarantena a seconda dei casi. Roma. Un nuovo progetto socio-professionale per detenuti laprimapagina.it, 31 ottobre 2020 È partito il nuovo percorso di reinserimento socio-professionale che impegna soggetti in espiazione di pena ed ex detenuti in tirocini presso associazioni e cooperative convenzionate. Alcuni saranno impiegati in attività di manutenzione del verde, piccoli lavori edili, pulizie, artigianato e pelletteria. Altri, produrranno marmellate, conserve e succhi di frutta presso il laboratorio alimentare “Papa Francesco” gestito da Isola Solidale all’interno del Centro Agroalimentare di Roma. Parte dei beni alimentari sarà devoluta in beneficenza. “I percorsi di riabilitazione professionale sono una risposta alle difficoltà di inclusione incontrate da chi sconta una pena detentiva. Restituire una prospettiva esistenziale attraverso il lavoro, aiuta a reinserire in società persone motivate a crescere e migliorare, sottraendole a criminalità ed emarginazione. Miglioramento e possibilità di riscatto per i singoli, quindi, ma anche attività benefiche e utili all’intera città”, dichiara la Sindaca Virginia Raggi. Si parte con i primi 17 destinatari del progetto - curato dal Dipartimento Turismo, Formazione e Lavoro attraverso i Centri di Orientamento al Lavoro - cui se ne aggiungeranno altri individuati dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà di Roma Capitale. A questo scopo, sono stati infatti destinati 100.000 euro, utili al finanziamento di tirocini trimestrali che prevedono 30 ore di lavoro settimanale, cui far corrispondere una retribuzione di 600 euro mensili. Il tutto, nell’ambito dei protocolli d’intesa fra Roma Capitale e il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, diretti alla riabilitazione e inclusione sociale dei detenuti. “La crescita individuale passa anche per l’occupazione: questo è ancor più vero per quanti sono stati privati della libertà personale. Formazione professionale e inclusione sono le parole d’ordine dei tirocini curati da Roma Capitale in collaborazione con l’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. All’interno della struttura del C.A.R. - importante società partecipata da Roma Capitale - prende il via una importante esperienza che consente a chi la vive di riscoprire la dignità del lavoro e l’orgoglio di fare qualcosa di utile per il prossimo, coniugando virtuosamente produzione e beneficenza”, dichiara l’Assessore allo Sviluppo economico, Turismo e Lavoro Carlo Cafarotti. “Dal 2017, quando abbiamo iniziato in fase sperimentale il percorso teso a favorire il reinserimento sociale dei detenuti attraverso il progetto di lavori di Pubblica Utilità, sino ad oggi, sono stati complessivamente interessati 130 detenuti, tra attività di manutenzione del verde pubblico e piccola manutenzione stradale. Altri 35 detenuti al Nuovo Complesso del Carcere di Rebibbia stanno per iniziare un nuovo corso di formazione e andranno a breve a rafforzare la squadra di operatori giardinieri. Sono numeri importanti che testimoniano quanto l’iniziativa, svolta in stretta collaborazione con il Ministero della Giustizia - DAP e il Dipartimento Tutela Ambientale di Roma Capitale che ringrazio sentitamente, si dimostri valida non solo per la diminuzione del rischio di recidiva del detenuto ma anche per il servizio prestato a beneficio della collettività. La ripresa del progetto legato al percorso di reinserimento socio-professionale con la novità costituita dai tirocini retribuiti va a rafforzare l’aspetto di riscatto del debito nei confronti della comunità e rappresenta una rinascita capace di donare nuova speranza e nuove prospettive di vita una volta espiata la pena” dichiara l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Daniele Frongia Livorno. A Pianosa cessione di terreni per la formazione dei detenuti-agricoltori agenziaimpress.it, 31 ottobre 2020 Terreni ed alcuni annessi agricoli sull’isola di Pianosa, di proprietà del Comune di Campo nell’Elba, sono stati affidati in comodato d’uso al Dipartimento di Amministrazione penitenziaria. L’atto è stato sancito con la firma di un protocollo d’intesa, a cui ha partecipato anche il presidente della Toscana Eugenio Giani. Sullo schermo, collegati da Roma e dall’arcipelago, c’erano tra gli altri il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis e il sindaco Davide Montaiuti. Formazione per i detenuti Con la concessione delle proprietà ora potrà partire il progetto sull’isola e la colonia penale, quello che punta a potenziare l’attività di formazione dei detenuti e a gestire l’azienda agricola della colonia penale dell’isola con un approccio ancora più manageriale, compresa la commercializzazione futura dei prodotti. Così si darebbe peraltro piena attuazione al dettato costituzionale, finalizzando la pena al reinserimento del detenuto nella società per ridurre i casi di recidiva e dunque accrescere la sicurezza di tutti. “Un modello sperimentale e replicabile anche in altre realtà” ha sottolineato il sottosegretario. Il governatore Giani: “Valorizzare l’isola e riabilitare i detenuti” “Un progetto - commenta Giani - che ha la piena condivisione da parte della Regione Toscana ed offre sbocco concreto a tanti ragionamenti pure sulla valorizzazione dell’arcipelago, in parallelo alla rieducazione dei detenuti. Un’attività sicuramente compatibile con il futuro dell’isola. Grande - aggiunge - sarà l’impegno della Regione in questa legislatura appena avviata nella valorizzazione dell’Arcipelago”. La storia dell’isola Pianosa è stata a lungo l’isola proibita, quella del carcere duro del 41 bis: un vago triangolo a sud dell’isola d’Elba, praticamente piatta, dieci chilometri quadrati o poco più. Lì, dopo il 1977 e per venti anni, furono rinchiusi brigatisi prima e boss mafiosi e camorristi poi, in stanze di cinque metri per quattro con tre brande fissate al pavimento. Il carcere di massima sicurezza rendeva praticamente inaccessibile l’isola e questo ha permesso di preservarne le incredibili bellezze naturali, anche dopo il 1997 quando Pianosa è tornata ad essere una colonia penale con una decina o poco più di detenuti, che vi lavoravano all’aperto. Terreni ed edifici che il Comune affida in comodato d’uso al Dipartimento di amministrazione penitenziaria saranno utilizzati per le attività di rieducazione e di reinserimento sociale dei carcerati. La formazione sarà svolta sia in aula che sul campo. Como. La mozione Anzaldo sul Garante dei detenuti ferma da febbraio di Stephanie Barone primacomo.it, 31 ottobre 2020 È protocollata in Comune a Como dallo scorso 20 febbraio. All’ordine del giorno del consiglio comunale poche settimane dopo. Eppure la mozione, presentata dal consigliere comunale Fulvio Anzaldo (Rapinese Sindaco), che chiede l’istituzione di un Garante dei Diritti delle persone detenute o private della libertà personale del Comune di Como, non è ancora stata discussa in aula. I problemi del carcere Bassone di Como sono noti, primo tra tutti il sovraffollamento e la carenza di personale tra le fila della Polizia Penitenziaria. A livello nazionale e regionale esiste la figura del Garante che è possibile introdurre anche a livello comunale per essere più puntuali nella gestione dei rapporti con il carcere. Questa figura aiuterebbe a promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità delle persone private della libertà, a monitorare le condizioni detentive anche attraverso visite nei luoghi della detenzione in città, a segnalare alle autorità competenti il mancato o l’inadeguato rispetto dei diritti a seguito di segnalazioni che giungano al proprio ufficio, organizzare iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema. “Specialmente in questo momento di grave emergenza sanitaria, dobbiamo mantenere alta l’attenzione sulla questione delle carceri sovraffollate, dove il rischio che scoppino nuovi focolai di coronavirus è indubbiamente alto. A fronte del rinvio continuo della mozione sul Garante cittadino per i diritti dei detenuti e vista l’attuale situazione - commenta la consigliera del Gruppo Misto Pierangela Torresani - questa domenica era prevista una marcia di solidarietà a staffetta dal carcere di Como passando dalla Diocesi fino al Municipio cittadino per chiedere un voto del consiglio comunale che affronti finalmente la mozione presentata dal consigliere comunale Fulvio Anzaldo (Rapinese Sindaco) con la volontà e l’attenzione politica che merita”. C’è stata l’adesione di Torresani, appunto, e dei consiglieri del gruppo del Partito Democratico, Patrizia Lissi e Stefano Fanetti e di Gianni Rubagotti. Vista la situazione di grave incertezza sanitaria, è stato però deciso di rimandare la marcia propendendo per una scelta di responsabilità. “Il problema del sovraffollamento delle carceri non può essere tuttavia messo in secondo piano e auspichiamo che l’iniziativa possa aver luogo il prima possibile - aggiunge la consigliera comunale - Per questo motivo invitiamo gli altri consiglieri del Comune di Como, indipendentemente dalla propria appartenenza politica, non solo ad aderire alla manifestazione, ma anche e soprattutto a dedicare alla tematica l’attenzione che la stessa merita”. “L’invito è ovviamente esteso anche allo stesso sindaco Landriscina che ci auguriamo possa partecipare alla nostra iniziativa e possa indirizzare il consiglio a interessarsi una volta per tutte al problema - conclude Torresani - Il carcere di Como è una questione sociale che riguarda anche la Provincia e i suoi Comuni, sia in tempi ordinari sia in tempi straordinari come quelli che stiamo vivendo, i cui servizi sociali, tra le altre cose, si devono fare carico di chi torna in libertà senza un percorso di reinserimento sociale completo e strutturato”. Como. La lettura, forte esperienza di crescita nell’universo carcere Corriere di Como, 31 ottobre 2020 Domenica 1° novembre, alle 18, in streaming dalla pagina Facebook di Villa Bernasconi di Cernobbio, si terrà un incontro dedicato alla lettura, all’illustrazione e una forte testimonianza di cultura come esperienza di crescita in carcere. Eletta Revelli e Katia Trinca Colonel di Bottega Volante, associazione che da anni porta avanti progetti sociali legati alla reclusione, dialogheranno con il disegnatore Davide La Rosa. Verranno raccontate la storia e le curiosità del progetto “I classici dentro e fuori il Bassone” che ha coinvolto, gli scorsi due anni, un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Como insieme a ventisei illustratori professionisti che fanno parte di Slow comix. “Illustrare i libri classici, un progetto per il Bassone. La lettura e il disegno entrano in carcere” è il titolo dell’incontro durante il quale verranno mostrati alcuni disegni degli illustratori che purtroppo, a causa dell’emergenza sanitaria, non si sono potuti esporre a Villa Olmo in occasione di Parolario e Fiera del libro. A stimolare detenuti e disegnatori sono state le parole dei grandi autori della letteratura e della filosofia (Voltaire, Platone, Yourcenar, Melville, Woolf), del racconto autobiografico (Primo Levi, Tiziano Terzani, Kapuscinski), del pensiero contemporaneo (Chimamanda Ngozi Adichie, Elvio Fassone, Andrej Longo, Bjorn Larsson, Concita De Gregorio) e molti altri. Le pagine di quei romanzi hanno fatto nascere emozioni e pensieri trascritti sulla carta da alcuni detenuti e rielaborati dai disegnatori dell’associazione no profit Slowcomix i quali, lasciandosi guidare dalle parole dei detenuti, hanno immaginato e donato la loro copertina per quel classico. Un esempio di come l’interazione di arte e letteratura può donare bellezza anche in un luogo duro e problematico come il carcere. Il cardinal Carlo Maria Martini e il carcere gesuiti.it, 31 ottobre 2020 Nel volume “Un’altra storia inizia qui” Marta Cartabia e Adolfo Celetti si confrontano con il magistero di Martini spiegando il valore che esso continua a racchiudere e la necessità ancora viva di ciò che l’arcivescovo auspicava: una giustizia che ricucia i rapporti piuttosto che reciderli, promuova i valori della convivenza civile, porti in sé il segno di ciò che è altro rispetto al male commesso. “Entrai a piedi nella città, passai di fianco alle grandi carceri di San Vittore, diedi una benedizione e pensai: lì vivono migliaia di persone che devo andare a trovare”. Con queste parole Carlo Maria Martini ricordava il suo ingresso a Milano il 10 febbraio 1980. Dalle visite in carcere che fece lungo tutto il suo mandato episcopale nasce la riflessione racchiusa in queste pagine: come e perché fare in modo che la pena sia giustizia ma anche ricomposizione? Marta Cartabia, presidente della Corte costituzionale, e Adolfo Ceretti, docente di Criminologia, si confrontano con il magistero di Martini spiegando il valore che esso continua a racchiudere e la necessità ancora viva di ciò che l’arcivescovo auspicava: una giustizia che ricucia i rapporti piuttosto che reciderli, promuova i valori della convivenza civile, porti in sé il segno di ciò che è altro rispetto al male commesso. Il testo è il volume inaugurale della nuova collana edita da Bompiani Martini Lecture, in sinergia con l’Università Bicocca e il patrocinio della Diocesi di Milano, su iniziativa della Fondazione Carlo Maria Martini, per condividere il pensiero del Cardinale. Casalone: “Dio chiede giustizia per ricomporre la relazione” - “Con San Vittore - per lui il cuore di Milano - aveva un appuntamento fisso a Natale” spiega padre Carlo Casalone, presidente della Fondazione - “per fare esperienza vissuta di una concezione della giustizia che non poteva rimanere solo teorica. Tante le amicizie nate, epistolari che gli hanno permesso di rielaborare un accompagnamento. Lui stesso andava a visitare le persone, nonostante alcune perplessità delle autorità per i rischi. Tra loro diversi terroristi che poi lo hanno seguito nella sua scuola della Parola in Duomo. Il tentativo di distinguere il peccato dal peccatore è stato per lui fondamentale, per ribadire la dignità della persona. Antesignano del valore della giustizia riparativa, in realtà ancorata nella Bibbia: nella Scrittura non è Dio il giudice ma la parte lesa. Chiede giustizia non per condannare l’altro ma per ricomporre la relazione”. Il primo di una serie di volumi, per condividere la grande eredità di Martini, “lievito” conclude Casalone “per avviare processi che aiutino le persone a far crescere il loro pensiero, la loro azione, la loro responsabilità nella società civile”. Coronavirus, tornano le zone rosse locali. Conte: “No al Dpcm lunedì” di Ilario Lombardo La Stampa, 31 ottobre 2020 Pressing del Pd sul premier che apre alla bicamerale sul Covid. Nel governo nuova lite sulla scuola. La strategia di Giuseppe Conte prevede un tempo di attesa che in molti nel suo governo non vogliono concedergli. Sta tutto qui il senso della spaccatura tra chi chiede di agire subito, imponendo un lockdown alla francese, in una forma più leggera rispetto al confinamento totale che l’Italia ha vissuto a marzo, e chi invece - il premier tra tutti - scommette (spera) che le misure adottate sinora, al netto di un certo isterismo dei decreti prodotti, possano placare la curva dei contagi e farla galleggiare senza picchi. Il Pd spinge per licenziare un ulteriore Dpcm e vorrebbe farlo già tra lunedì e martedì, alla vigilia delle comunicazioni che il capo del governo farà in Parlamento. Conte però continua a tenere una posizione di resistenza: non vorrebbe firmare il terzo decreto in tre settimane, quasi fosse una messa cantata della domenica. Il succo del suo ragionamento è stato offerto ai capi delegazione di maggioranza riuniti per discutere soprattutto di scuola: “Se non aspettiamo, non ci daremo neanche la possibilità di capire gli effetti delle restrizioni imposte”. Restrizioni che considera già molto dure e sulle quali vuole valutare l’andamento della curva almeno fino alla seconda metà della prossima settimana, a ridosso della scadenza dei quindici giorni canonici che servono a produrre le conseguenze epidemiologiche delle chiusure serali di bar e ristoranti, dei coprifuoco locali, della didattica a distanza nella stragrande maggioranza delle scuole superiori. Prima del prossimo decreto firmato Conte che potrebbe ispirarsi al modello di Emmanuel Macron (stretta su negozi, ristoranti, centri commerciali), la leva sull’inasprimento, secondo il governo, deve rimanere in mano alle Regioni. E così si procederà nelle prossime ore. Dai governatori dovrebbe passare la decisione imminente di chiudere intere aree territoriali, creare zone più o meno rosse, con lockdown localizzati dove i focolai fanno più paura. Soprattutto nelle grandi aree metropolitane, Milano e hinterland, Napoli e Caserta, Genova, Bari, Torino. È l’indicazione che si rispecchia nel dossier settimanale dell’Iss e che punta alcune regioni prima di altre: Lombardia, Campania e Piemonte su tutte, dove il virus picchia più duro. Ma preoccupa anche il Veneto, la Valle d’Aosta, Bolzano, e al Sud la Puglia e la Calabria, la più fragile sulla sostenibilità del sistema sanitario. Sullo stato del Mezzogiorno, e sui possibili contraccolpi negli ospedali, c’è una riflessione in corso che incrocia la volontà dell’ala più rigorista del governo e del Comitato tecnico scientifico di procedere con lo stop agli spostamenti da e per le regioni più in difficoltà. Un’opzione che deve essere maneggiata con grande cautela per evitare il ripetersi degli spostamenti in massa di ritorno provocati dalla chiusura improvvisa della Lombardia, a inizio di marzo. I lockdown localizzati, che sarebbero comunque concordati con il governo, avrebbero l’obiettivo di rendere minimi i contatti, abbattere la mobilità, chiudere negozi e attività non essenziali, sbarrare le scuole. Piemonte, Marche, Campania: i governatori si stanno già muovendo autonomamente. Ed è proprio sulle scuole che ci sono le pressioni maggiori. Così, nel governo comincia a profilarsi l’ipotesi di estendere la didattica a distanza anche alle scuole medie, a partire dalle aree più in crisi. Il timore che tutto quello che avviene attorno agli edifici scolastici - dai trasporti, agli assembramenti tra ragazzi all’ingresso e all’uscita - stia alimentando il contagio è diventato ormai certezza tra scienziati e ministri. La titolare all’Istruzione Lucia Azzolina prova opporsi e in difesa del primo ciclo vorrebbe impugnare i provvedimenti di Puglia e Campania, che hanno sospeso le attività didattiche in presenza anche di elementari e medie. “Impossibile” è stata la sintesi della riunione tra i capi delegazione. D’altronde, è il Dpcm a consegnare alle Regioni questo potere. Allo stesso tempo, però, è l’altra riflessione partorita con il premier, va evitato che ognuno si muova in ordine sparso senza un coordinamento nazionale. Assediato dalle richieste di un maggiore coinvolgimento parlamentare e delle opposizioni, Conte è pronto a concedere una sorta di bicamerale sul Covid. Ieri ha inoltrato ai presidenti di Camera e Senato la richiesta “di individuare in piena autonomia la sede e le modalità più adatte” per offrire “un’interlocuzione costante” tra il governo e il Parlamento “sulla gestione della pandemia”. “Un confronto immediato”, si augura, in vista di “eventuali nuovi Dpcm”. Intanto, mercoledì sarà in Aula. Restano 72 ore per convincerlo ad anticipare le prossime strette. “Molti neofascisti in piazza, ma la disperazione è reale” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 31 ottobre 2020 Il nuovo presidente dell’Anpi. Gianfranco Pagliarulo, eletto alla guida dell’associazione dei partigiani dopo la scomparsa di Carla Nespolo: “Assurdo che a sbraitare contro la dittatura sanitaria siano gli epigoni di dittature ben più concrete. Ma la loro presenza in questo contesto non è una novità”. È Gianfranco Pagliarulo, 71 anni, ex del Pci e della Fiom, senatore nei primi anni Duemila, il nuovo presidente dell’Associazione nazionale partigiani. Lo ha eletto ieri il Comitato nazionale nel corso di una riunione in cui si è a lungo parlato delle manifestazioni di rabbia e rivendicazione che stanno attraversando il paese. Pagliarulo, qual è il giudizio dell’Anpi su queste piazze? Siamo davanti a una situazione drammatica sul piano sanitario, sociale ed economico ed è più che legittima la protesta dei più penalizzati. In alcune piazze c’è con evidenza il veleno delle violenze neofasciste, ma sarebbe sbagliato cogliere solo questo aspetto. C’è soprattutto il tema del diritto alla salute, quello degli articoli 32 e 16 della Costituzione. E c’è l’angoscia di chi, in maggioranza lavoratori autonomi, piccoli imprenditori e loro dipendenti, rischia di perdere tutto. Lo Stato non può non rispondere alle loro richieste che sono richieste di sopravvivenza. Vedremo se quanto è stato promesso a ristoro arriverà e se sarà sufficiente. Diceva, c’è anche molta destra a protestare contro i lockdown... Sì, una destra estrema di tipo fascista ed è paradossale che a sbraitare contro la dittatura sanitaria siano gli epigoni di dittature ben più concrete. Ma la loro presenza in questo contesto non è una novità. Li avevamo visti all’opera per esempio nelle periferie romane quando hanno cercato di bloccare l’assegnazione delle case popolari alle famiglie dei migranti e dei rom. Dove c’è disagio, dove c’è la guerra tra poveri, queste forze neofasciste si fanno vedere. Noi lo denunciamo da tempo, abbiano per esempio raccolto con altre associazioni 300mila firme per la messa fuori legge dei gruppi neofascisti e le abbiamo consegnate al capo dello Stato. Ne chiedete lo scioglimento? Sì, sapendo benissimo che per lo scioglimento occorre una sentenza definitiva della magistratura. Intanto chiediamo che non restino impuniti i loro atti di violenza, che oltretutto finiscono per isolare ulteriormente gli strati sociali in questo momento più in difficoltà. Voglio aggiungere che l’altra sera a Roma i disordini sono stati creati da un centinaio di teppisti di estrema destra, non era una manifestazione di popolo e sarebbe stato bene scioglierla immediatamente. Lei diventa presidente dopo la scomparsa prematura di Carla Nespolo, come vuole ricordarla? La grandissima forza di Carla stava nella sua sensibilità, nel modo di fare e nella capacità di ragionamento profondamente femminili. Ha generato un affetto enorme, all’interno e all’esterno dell’Anpi. Quali saranno le sue priorità da presidente? Mi muoverò in continuità con i due presidenti eletti dopo l’ultimo congresso, Carlo Smuraglia e Carla Nespolo appunto. Ma anche con l’innovazione che non è arbitrio, ma adeguamento alle cose che cambiano. Vedo tre linee direttrici. La ricerca dell’unità di tutte le forze antifasciste e che si oppongono all’ispirazione regressiva di questa destra illiberale italiana. Unità certo nei confronti delle forze sociali con le quali collaboriamo da anni, i sindacati confederali, l’Arci, le Acli, Libera e le tante associazioni sul territorio. Ma cercheremo l’unità anche tra le persone, la costruzione di un comune fronte democratico popolare. La seconda linea è quella dei giovani, che già l’Anpi segue da quindici anni ma sulla quale intendo accelerare. Le giovani generazioni sono il futuro anche dell’associazione partigiani. Infine penso che l’Anpi debba svolgere una grande funzione pedagogica collettiva, la pedagogia dei partigiani. Dobbiamo avere una speciale attenzione alla formazione e all’autoformazione di un punto di vista critico, cercare per questo una relazione forte con la cultura e gli intellettuali. Mascherina anagrafica di Giuliano Ferrara Il Foglio, 31 ottobre 2020 Separare gli anziani dai giovani fa accapponare la pelle, ma è ragionevole. È anche fattibile? L’ora di discuterne. Sembra ragionevole la proposta di separazione per fasce d’età fatta da Carlo Favero, Andrea Ichino e Aldo Rustichini. Partono dal fatto che la mortalità da pandemia non riguarda che marginalmente chi ha meno di trent’anni (19 morti su 36 mila circa) e sensibilmente differisce in meglio per chi ha meno di 50 anni (409 morti). Un fatto è un fatto, gli si può replicare respingendone la lezione, per ragioni di etica costituzionale o per la discutibile realizzabilità di misure che quel fatto pare suggerire, ma non si può rimuovere la sua ingombrante solidità. La faccenda va esaminata, non sarà l’uovo di Colombo eppure ha la vigoria di una evidenza difficilmente confutabile. Per tempo parlammo qui della grande scrematura dei vecchi come effetto possibile della pandemia allora in diffusione rapida nella prima ondata, discutendone cinicamente con un economista come Francesco Giavazzi. E mille volte si è espresso il compiacimento etico per la scelta di non avallare la scrematura, di mettere a repentaglio la vita ordinaria di società e economia invece che rassegnarsi al quieto convivere con il virus. Se penso che ci sarà un bus riservato a me e a altri ultrasessantenni, mi vengono i brividi. Lo stesso se penso al docente giovane o adulto che insegna in presenza e a quello più avanti negli anni consegnato alla didattica a distanza. Fa accapponare la pelle anche l’idea della separazione dei giovani dai nuclei famigliari in cui abitano i vecchi, con la disponibilità per la vita quotidiana di safe space, di spazi protetti, negli alberghi e in altri luoghi di accoglienza. Chi ha un’età compatibile con le medie di letalità si incontra nei cinema, nei luoghi di intrattenimento e sportivi, conduce una vita lavorativa ordinaria, e la vita va avanti, l’economia soffre meno, si attenua la logica di blocco eccetera. La dissociazione delle sorti di giovani e vecchi di fronte all’epidemia è concettualmente ributtante. Ma ragionando un po’ più a fondo, misure di separazione per fasce d’età possono sembrare ragionevoli, semplicemente ragionevoli. È anche una proposta fattibile? In teoria sì, in pratica va studiata bene. E quali conseguenze comporterebbe, che so, la distinzione oraria di accesso ai supermercati? Il senso di giustizia e di solidarietà umana è evidentemente contrario a questo modo di vedere le cose, ne è l’opposto. Bisogna però riconoscere che gli standard di libertà e di giustizia e di eguaglianza hanno dovuto essere considerati e governati con flessibilità in una situazione di emergenza sanitaria. E questo in molti campi. D’altra parte, se si potesse idealmente realizzare la separazione senza misure obbliganti, per razionale impulso della volontà degli individui, con suggerimenti e raccomandazioni e pratiche non costrittive, tutti dovrebbero riconoscere che simili comportamenti sarebbero un modo di aiutare sia gli individui sia la società a affrontare in modo meno convulso, con traumi meno gravi, la pandemia. Sarebbe come mettere una super-mascherina al proprio certificato anagrafico. Un vantaggio collettivo. I ragazzi, e questa è un’osservazione banale alla portata di tutti, si comportano bene in generale ma non hanno la stessa allarmante visione delle cose dei vecchi. Fanno fronte, capiscono che c’è un problema, ma appunto considerano un problema la diffusione di quella che per loro è una pericolosa forma influenzale, e lo fanno anche con un elemento di distacco che manca a chi è possibile candidato al dolore di cura e di malattia maligna dagli esiti molto più esposti alla letalità come per i vecchi. Alla proposta di separazione devono avere indubbiamente pensato anche autorità sanitarie e politici competenti, spero. Sarebbe il momento di discuterla e di fornire dati utili a capirne il tasso di realismo e di realizzabilità. Lamorgese: “I decreti sicurezza hanno creato insicurezza” di Leo Lancari Il Manifesto, 31 ottobre 2020 Il leader della Lega accusa il governo di essere corresponsabile della strage di Nizza. La maggioranza fa quadrato intorno alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finita per la seconda volta in meno di ventiquattro ore nel mirino di Matteo Salvini che accusa lei e il governo di essere i responsabili morali della tragedia di Nizza dal momento che Brahim Aoussaoui, il tunisino che giovedì mattina ha ucciso tre persone nella basilica di Notre Dame, era sbarcato a settembre a Lampedusa. “Sciacallo”, “calunniatore della patria” che “specula sui morti” sono i commenti che arrivano da Pd, LeU, Italia Viva e Movimento 5 Stelle. Salvini però non retrocede e torna a chiedere le dimissioni della ministra mentre Fratelli d’Italia chiama Lamorgerse a riferire in parlamento. È ancora mattino presto quando il leader del Carroccio parte all’attacco: “Record di sbarchi (27.190 nel 2020 contro i 9.533 dello stesso periodo di un anno fa), piazze in rivolta e ora perfino un killer sbarcato a Lampedusa e lasciato tranquillamente scappare in Francia a uccidere e sgozzare” dichiara. “Nel mezzo la cancellazione dei decreti sicurezza per aprire porti e portafogli. Cosa deve succedere ancora? Il Viminale è allo sbando, Lamorgese si dimetta”. È solo il primo di una lunga serie di attacchi che proseguiranno per tutta la giornata ma cominciati in realtà giovedì pomeriggio, quando si è saputo che l’autore della strage di Nizza era sbarcato appena un mese fa sull’isola delle Pelagie. Accuse pesanti, specie quella chiamata di corresponsabilità morale in quanto accaduto in Francia, che provocano la reazione della ministra. Lamorgese non si fa intimidire e contrattacca a sua volta: “Responsabilità da parte nostra non ce n’è”, è la prima cosa che ci tiene a chiarire. Aoussaoui “non era stato segnalato dalla Tunisia né risultava segnalato dall’intelligence”, aggiunge ricordando che il tunisino “era entrato a Lampedusa tramite un sbarco autonomo il 20 settembre scorso e successivamente è stato destinatario il 9 ottobre di un decreto di respingimento con ordine del questore di abbandonare il territorio. Come per tutti i migranti che arrivano in Italia, anche per lui era stata adottata la procedura standard che prevede foto segnaletiche, identificazione, impronte digitali e trasferimento a bordo della nave Rhapsody per la quarantena prima di essere avviato verso un centro per i rimpatri. A un certo punto del suo passaggio nel nostro Paese, Aoussaoui è però sfuggito al controllo delle forze dell’ordine, ma non è l’unico terrorista ad aver fatto perdere le sue tracce. “Casi analoghi”, ricorda Lamorgese, sono accaduti anche in passato. “Come mai l’opposizione si scusata oggi con la Francia, cui manifesto tutta la mia solidarietà - afferma la ministra - e non ha ritenuto di scusarsi in altri casi gravi come gli attentati alla metropolitana di Londra nel 2017 o quello alla Rambla sempre nel 2017?”. L’ultima stoccata la titolare del Viminale la riserva ai provvedimenti anti-immigrazione voluti da Matteo Salvini quando era lui il ministro dell’Interno. “Si parla delle nostre modifiche ai decreti sicurezza - afferma - ma quei decreti anziché creare sicurezza hanno creato insicurezza, perché 20 mila persone sono dovute uscire dall’accoglienza da u giorno all’altro”. “Noi - aggiunge invece la ministra - abbiamo cercato di tenere presente le esigenze di sicurezza del paese non disperdendo tutti sul territorio nazionale, facendo dei progetti mirati affinché restassero sotto i radar delle forze di polizia”. Controreplica del leghista: “Secondo il ministro dell’Interno è colpa mia. Siete senza vergogna”. “Ancora una volta il leader della Lega non ha saputo sottrarsi alla propaganda e alla strumentalizzazione politica dinanzi ai tragici fatti di Nizza, perdendo un’altra occasione per tacere”, è il commento di Carmelo Miceli, responsabile sicurezza del Pd. “Speculare sui morti su cui stanno ancora piangendo le famiglie a Nizza è vergognoso”, afferma invece la vicepresidente del Senato, la pentastellata Paola Taverna. “L’ennesima pessima figura che trogloditi da tastiera come Salvini ci fanno fare agli occhi del mondo. È una politica che si nutre di carcasse umane come sciacalli, omettendo, parlando alla pancia della gente con frasi che non hanno alcun senso logico”. Cannabis. Sospeso il decreto sul Cbd, ora sì a una legge globale di Leonardo Fiorentini* e Marco Perduca** Il Riformista, 31 ottobre 2020 Gli oli al cannabidiolo non sono più stupefacenti e possono tornare sul mercato. Ma rimangono criticità sul lato terapeutico e per le tabaccherie. Finché il governo non interviene noi attivisti digiuniamo. Il ministro Speranza ha deciso di sospendere il decreto sul Cbd e avviare un approfondimento scientifico. Salutiamo con sollievo questo ravvedimento, nell’augurio che siano argomenti ed evidenze scientifiche al centro del confronto, e non posizioni ideologiche. L’inclusione delle preparazioni contenenti cannabidiolo (Cbd), un principio attivo della cannabis, nella tabella dei medicinali contenenti sostanze stupefacenti non ha alcun senso. Non lo pensiamo noi, ma l’Organizzazione Mondiale della Sanità che nelle sue raccomandazioni all’Onu sulla cannabis propone l’esclusione dalle sostanze sotto controllo delle convenzioni delle preparazioni a base di Cbd (che contengano meno dello 0,2% di Thc), in quanto non psicoattive. All’inizio di dicembre infatti all’Onu di Vienna si voterà su una serie di raccomandazioni che l’Oms ha adottato dopo anni di revisione di letteratura scientifica e confronto con governi, ricercatori, malati e associazioni. Il punto centrale dell’iniziativa è rimuovere la pianta della cannabis dalla quarta tabella, quella che include piante, derivati e composti chimici ritenuti molto pericolosi per la salute pubblica e senza alcun valore terapeutico, con il fine di renderla più facilmente disponibile per motivi medico-scientifici. A fronte di questo riconoscimento dell’uso terapeutico della cannabis da parte della massima autorità sanitaria mondiale, nell’ultimo mese l’Italia si è caratterizzata per almeno due gravi passi indietro: il decreto di cui abbiamo detto e una grave circolare della Direzione generale dei dispositivi medici e del servizio farmaceutico rispetto alle preparazioni a base di cannabis terapeutica. Secondo quanto comunicato il 23 settembre scorso, non sarebbero più consentite resine, oli e capsule decarbossilate, facendoci tornare a decotti e vaporizzazione. Si nega la possibilità (in piena emergenza covid) della spedizione tramite corriere delle preparazioni galeniche utilizzate da molte persone sia per la difficoltà di reperimento dei prodotti nella farmacia vicina a casa sia per le difficoltà di spostamento che caratterizzano molti pazienti. Per ora ancora nessuna risposta alla lettera aperta lanciata un mese fa da Associazione Luca Coscioni, Forum Droghe e tanti altri, e poi sottoscritta da oltre 1750 persone, che chiedeva chiarimenti rispetto alla circolare e l’apertura di un dialogo con il Ministero. Qualche giorno fa si è aggiunto il Direttore generale delle Dogane e dei Monopoli Marcello Minenna, che ha chiesto ai rappresentanti degli esercizi che vendono, o intendono vendere prodotti da inalazione senza combustione - “svapo” - di autocertificare l’impegno a non commercializzare o detenere foglie, infiorescenze, oli, resine o altri prodotti con sostanze derivate dalla canapa sativa. In mancanza sono passibili di chiusura coatta. Con buona pace delle centinaia di negozi che già esistono e che, come tutti, soffrono a seguito delle misure anti-covid. Malgrado il permanere di una grave mancanza in tutta la penisola di prodotti a base di cannabis, sia di produzione italiana che d’importazione, il governo e le burocrazie statali si adoperano per complicare ulteriormente la vita a chi ne fa uso terapeutico e a ostacolare un settore economico che negli ultimi tre anni aveva visto un fiorire di attività produttive e di commercio. Allo stesso tempo, nonostante adesioni pubbliche di decine di parlamentari, alla Camera tutto tace sui vari progetti di legalizzazione della cannabis che negli anni sono stati presentati e che potrebbero essere accorpati alla proposta di legge d’iniziativa popolare consegnata a Montecitorio nel 2016. I nostri penitenziari restano illegalmente strapieni a causa della legge sulle droghe, con la cannabis che la fa da padrona nelle denunce penali e nelle sanzioni amministrative. Come abbiamo documentato nell’XI Libro bianco, il 34,8% delle persone detenute nelle carceri italiane lo erano per droghe. La media europea è del 18%, quella mondiale del 20%. Un costo enorme in termini di diritti e di amministrazione della giustizia e che vale, solo per la detenzione, oltre 1 miliardo di euro l’anno! Perché alla vigilia di una decisione alle Nazioni unite che sicuramente comporterà fratture tra ultra-proibizionisti e riduttori dei danni, volersi caratterizzare nel panorama europeo per queste decisioni di retroguardia che ci riportano ai periodi peggiori della gestione della lotta alla droga di giovanardiana memoria? Perché non ascoltare la società Civile, i pazienti e i cittadini? Perché fare l’economia del progresso scientifico? *Forum Droghe **Associazione Luca Coscioni I diciotto pescatori di Mazara prigionieri in Libia da due mesi di Felice Cavallaro Corriere della Sera, 31 ottobre 2020 Protesta dei familiari davanti a Montecitorio: “Non hanno violato le leggi”. Il vescovo paga le bollette della luce, il presidente dell’Assemblea regionale fa arrivare duemila euro a famiglia, sindacati e Federpesca raccolgono altri mille euro a testa, ma i familiari dei 18 pescatori di Mazara del Vallo arrestati due mesi fa dai libici, ancora detenuti in una caserma di Bengasi, non ce la fanno più a sopportare il silenzio calato su un intrigo internazionale sfociato in un processo del quale si ignora tutto. Disperazione - Sarà per Covid ed emergenze connesse, ma pochi si accorgono della disperazione di Rosetta Ingargiola sfiorando questa donna di 74 anni raccolta in sé, per terra, davanti a Montecitorio, un cartello in mano per protestare e ricordare il figlio Pietro Marrone, 44 anni, comandante di uno dei due pescherecci sequestrati il primo settembre dai libici di Khalifa Haftar, il “maresciallo” in lotta contro un altro pezzo del Paese: “Loro si combattono e mio figlio è da 60 giorni in carcere senza capire perché. Come non lo capisco io che un figlio di 24 anni ho perso in mare per una tempesta e che adesso, vedova, aspetto solo il ritorno dell’altro”. Parla accanto a una bella ragazza tunisina di 24 anni che la conforta, Insaf, lo stesso dolore, la stessa ansia: “Io voglio solo che mio padre torni a casa. Ho il terrore che tutti dimentichino, qui a Roma. Anche premier e ministri”. Lo dice in perfetto italiano, ben integrata in Sicilia dove il padre, Jemmali Farat, lavora come secondo motorista da anni per Marco Marrone, l’armatore di uno dei due pescherecci trascinati con la minaccia delle armi nel porto di Bengasi. Marrone, un ragazzone di trent’anni, sta pure lui in trasferta di protesta a Roma insieme con un’altra ragazza, Maoires, anche lei senza notizie del padre, Maomed Ben Haddata, un marinaio che definisce “un sequestrato”. Come fanno Cristina Amabilino per il marito Salvo Bernardo e Rosaria Giacalone per il suo Onofrio, stesso cognome, direttore di macchina del “Medinea”. Palazzi romani - Ecco la pattuglia che con tenda e sacchi a pelo prova a scuotere i Palazzi romani, mentre gli altri familiari rimasti nell’isola assediano il municipio di Mazara con il secondo armatore, Leonardo Gangitano, proprietario dell’”Artemide”. Per tutti il dramma è esploso con gli accorati allarmi lanciati via radio dagli equipaggi di altri sette pescherecci di Mazara arrivati quel giorno con i primi due a 60 miglia dalla costa libica. Per pescare il gambero rosso. “Rispettando quindi la norma di non violare le dodici miglia dalla costa di altri Paesi”, spiega Marrone. Ma c’è un pezzo di Libia che ha allungato a 74 miglia la linea delle “sue” acque “territoriali”. Autonomamente. Rivendicando un diritto da nessuno riconosciuto. Anche sparando colpi di mitragliatrice. E bloccando “Medinea” e “Artemide” mentre gli altri natanti riuscivano a disperdersi e tornare a Mazara. Dove adesso sono tutti terrorizzati perché qualcuno sussurra che alla violazione di ipotetici confini potrebbe aggiungersi la presunta presenza a bordo di un po’ di droga. “Un’accusa infamante, se prendesse corpo”, assicurano armatori e familiari temendo una trappola di milizie infide. Di qui l’appello al premier Conte e al ministro Di Maio di scuotere i loro interlocutori dall’altra parte del Mediterraneo. Servizi all’opera - “Ma il premier ci ha ricevuti solo il 29 settembre in fretta assicurando il possibile. Si parla di “Servizi” all’opera. Ma nulla accade”, ripetono per telefono la mamma, le due ragazze e le due mogli a chi è rimasto a Mazara. “Qui ogni tanto passa un deputato, poi niente”, si lamenta Marrone, preoccupato anche da una ipotesi inquietante: “La cosa peggiore è sentir dire che possano diventare merce di scambio per barattarli con quattro libici detenuti in Italia”. Un riferimento chiaro ai quattro partiti da Bengasi nel 2015, condannati a 20 e 30 anni di carcere a Catania come assassini e trafficanti. Ma indicati come vittime di un clamoroso errore “perché si tratta solo di calciatori in cerca di fortuna”, sostengono parenti e tifosi in contatto con l’avvocato Cinzia Pecoraro che spera nella Cassazione, negando però ogni negoziato: “Mai dalla Libia si è parlato di ostaggi. Una bufala”. A ben altra trattativa si affidano invece tutti. Compresi i due armatori che, “ovviamente mettendo al primo posto le vite umane”, sperano anche nella restituzione delle imbarcazioni. “Perché senza non si può lavorare e vivere”. Rapporti Francia-Islam, le ragioni di uno scontro di Massimo Nava Corriere della Sera, 31 ottobre 2020 Le questioni religiose e socioeconomiche si sono mescolate a una progressiva correzione di rotta della politica estera, a partire dalla presidenza Sarkozy. Vent’anni fa, la decisione del presidente Chirac di opporsi all’intervento americano in Iraq aveva suscitato nel mondo arabo musulmano un’ondata di simpatia nei confronti della Francia. Occorre ricordare quel momento per provare a comprendere come questi sentimenti si siano progressivamente tramutati nel loro contrario, con il concorso di ben orchestrate campagne d’odio, l’ultima innescata dal presidente turco Erdogan. La Francia, paladina dei diritti umani, della libertà religiosa, del terzomondismo culturale, è oggi aggredita dall’esterno e disprezzata, addirittura sabotata, all’interno, da strati non proprio marginali della popolazione e da gruppi di giovani musulmani che non si riconoscono nel modello identitario della République, e che costituiscono l’acqua sporca in cui nuotano sicari dell’islamismo radicale e del terrorismo. Un’acqua che è complicato prosciugare, sia per la rete di complicità di cui godono i terroristi, sia perché non si tratta solo di sventare complotti, bensì di stanare cani sciolti, giovani indottrinati che agiscono all’arma bianca, che probabilmente non dispongono di armi ed esplosivi, che sovente nemmeno figurano fra le migliaia di schedati come potenziali terroristi e quindi non identificati né sorvegliati. Il ribaltamento di sentimenti nei confronti di un Paese che si era fieramente opposto alla narrazione dello scontro di civiltà trova pretesti e concause a partire dalla rivolta delle periferie (2005) che mette in luce la disperante e atavica precarietà di giovani di origine magrebina (ma cittadini francesi) per i quali i principi di uguaglianza e di pari opportunità restano sulla carta. Giovani che contestano la lingua di Molière e i programmi di storia, che fischiano la Marsigliese e allo stadio, contro la Francia, tifano Algeria. L’establishment, per bocca dell’allora ministro degli interni Sarkozy, li considera feccia, “canaglie” che vivono nell’illegalità di quartieri da ripulire con ogni mezzo. Da giovani delinquenti a giovani islamizzati il passo è breve, poiché laddove non arrivano cultura ed educazione repubblicana, e dove non mette piede la polizia, prosperano scuole coraniche illegali, moschee clandestine, predicatori di dubbia origine e addirittura didattica organizzata per cinquantamila giovani ritirati dalle scuole pubbliche. È il separatismo culturale e religioso cui ha dato battaglia il presidente Macron. Un secondo passaggio drammatico è stata l’entrata in vigore della legge sulla laicità, nella versione più “radicale” rispetto alla legge del 1905. La proibizione di simboli religiosi nei luoghi pubblici, in nome della neutralità laica della Repubblica, da un lato ha suscitato qualche doloroso imbarazzo negli ambienti cattolici (quando, ad esempio, qualche municipio ha vietato i presepi natalizi) e dall’altro ha provocato profonda irritazione nel mondo musulmano più tradizionalista, sia all’estero, sia in patria, in particolare sulla questione del velo per le donne. Non saranno mai abbastanza le parole di condanna per i vili attentati di questi anni, ma non si può fare finta che le vignette blasfeme di Charlie Hebdo e il “diritto alla blasfemia” - considerato equivalente a un’espressione di satira e quindi di libertà - non abbiano offerto pretesti alle campagne d’odio, non siano insomma benzina su un materiale facilmente infiammabile. Le questioni religiose e socioeconomiche si sono poi mescolate a una progressiva correzione di rotta della politica estera, a partire dalla presidenza Sarkozy, che ha ribaltato la dottrina “terzomondista” di Chirac e ha ricucito il rapporto con gli Usa e la Gran Bretagna, fino alla decisione di intervenire in Libia ed eliminare Gheddafi. Da qui sono cominciati anche gli arruolamenti di molti giovani francesi nelle file dell’Isis, il pendolarismo di terroristi dal Medio Oriente alla Francia, passando per la retrovia del Belgio, la minaccia permanente nelle ex colonie africane nei confronti dei soldati francesi impegnati contro le milizie islamiche. Sul rapporto con la Turchia pesa anche la posizione intransigente contro l’apertura all’Europa e il riconoscimento del genocidio armeno. In questo quadro, non va taciuta una zona grigia in cui si muovono i rapporti d’affari con i Paesi musulmani, forniture di armi, penetrazione capillare nell’economia e nella società francese degli sceicchi del petrolio, dai sauditi al Qatar, uno Stato sospettato di sponsorizzare estremisti islamici e fratellanza musulmana e, al tempo stesso, grande sponsor del Paris Saint Germain, la squadra del cuore dei giovani delle banlieues.Tutto naturalmente all’ombra dei sacri principi della République. Il momento di difendere le diversità di Mohsin Hamid* La Stampa, 31 ottobre 2020 I fatti francesi ci mettono di fronte a una situazione molto difficile, perché ciò che abbiamo visto è lo scontro fra due convinzioni non facilmente distinguibili. La prima è che la libertà di espressione sia importante, e come scrittore non posso che condividerne completamente il senso e il peso. Ogni persona dovrebbe essere in condizioni di dire ciò che desidera in qualunque luogo e in qualunque momento. La libertà di espressione è un valore altissimo. Poi però c’è un altro valore, quello di non insultare gli altri, di rispettarne la differenza, di non alimentare il razzismo usando i mezzi di comunicazione. Ciò che accade in Francia è lo scontro tra questi due valori, ed è ovvio che la soluzione non è facile, quando si ha davanti agli occhi l’assassinio di qualcuno nel modo orribile in cui è avvenuto. Tuttavia, se la posizione di un criminale non è né ragionevole né difendibile da nessun punto di vista, quella di chi cerca di difendersi da opinioni articolate che sembrano fare danno a una minoranza o a un gruppo socialmente debole non può considerarsi una posizione innaturale. Ecco dunque che si tratta di uno scontro tra due punti di vista ragionevoli: la libertà di espressione da una parte, la difesa di una minoranza fragile dall’altra. E la sfida è difendere queste due cose insieme, perché solo sostenendo l’una e l’altra proteggiamo l’intera comunità. Non va dimenticato che il mondo musulmano è formato da persone molto diverse: da Khartoum a Baghdad, le differenze sono tante. Ma questo non significa che esista una incompatibilità con i valori dell’Occidente. Del resto, se guardiamo alla democrazia Usa, possiamo forse dire che tutti i sostenitori di Trump credono nei valori democratici? No, allo stesso tempo sono tanti coloro che invece ci credono, che sono contro il razzismo e l’esclusione dei più deboli. In ogni sistema democratico, abbiamo persone che non concordano pienamente con i valori liberali, e perciò bisogna persistere nell’esercizio della democrazia. Non credo che i musulmani siano più incompatibili di altre persone con la vita democratica: sono pochi, in proporzione, gli individui coinvolti in atti di violenza. E anziché pensare che ci sia un’incompatibilità di fondo, e procedere a un irrigidimento del sistema securitario, sarebbe meglio pensare che tutti, anche i musulmani, vogliano partecipare alla democrazia. Il compito, semmai, è estendere il sostegno ai più fragili perché siano liberi di esprimersi. Poi c’è la politica e le regole su cui si basa il suo potere. Una delle manifestazioni di quest’ultimo è convincere un determinato gruppo di persone che ci sia qualcuno a difenderli. Sebbene Erdogan e Macron siano diversi e con una cultura politica agli antipodi, sotto questo profilo sembrano simili: Macron si presenta come difensore dei valori francesi in opposizione alla Turchia, all’Africa o ad altri; e Erdogan fa la stessa cosa. Entrambi, del resto, attraversano una situazione difficile: l’economia turca è in crisi, quella francese è piegata dagli effetti della pandemia. Ora è il momento di creare opportunità, di stabilire empatia, più che giocare in difesa. È importante per la società europea stabilire un ambiente culturale in cui le diversità possano prosperare, non rinchiudersi nella volontà di ristabilire la purezza di radici individuali. Una ragione di ottimismo c’è, ed è rappresentata dalle nuove generazioni. Recentemente sono stato in Italia, in provincia di Milano, a fare visita alla cugina della madre di mia moglie. Ho visto la piazza animata da ragazzi che sembravano divertirsi, si scambiavano baci e pacche sulle spalle. Guardarli, assistere all’evidenza di una generazione che cresce condividendo il senso di una comunità, mi ha fatto pensare che credere in una vera integrazione è possibile. *Testo raccolto da Francesca Sforza Se riparte lo scontro fra civiltà. Le ragioni del nuovo terrorismo di Nathalie Tocci La Stampa, 31 ottobre 2020 “È la Francia che è sotto attacco!” dichiara il presidente Macron in un appello accorato alla nazione. L’attentato a Nizza, a una settimana dalla decapitazione dell’insegnante Samuel Paty, ritrascina la Francia negli abissi dello scontro di civiltà, rischiando di tirare con sé l’Europa. La cristallizzazione del conflitto in Siria oramai uscito dalla sua fase più acuta, la recrudescenza della guerra in Libia, l’imprevedibilità di Trump, e, infine, la concentrazione globale sulla pandemia, avevano messo a tacere le sirene Huntingtoniane dello scontro di civiltà. Avevamo rimesso nel cassetto quella lente distorta attraverso la quale osservare il mondo, una lente che era stata apparentemente confermata dagli attacchi dell’11 settembre 2001 e messa a fuoco quando le primavere arabe del 2011 entrarono nel loro lungo inverno. La decapitazione di Paty, la dichiarazione scomposta di Macron sulla crisi dell’Islam, le proteste nel mondo mussulmano, il tentativo cinico del presidente turco Erdogan di cavalcare l’onda dello sdegno mussulmano, e infine l’attacco di Nizza e l’appello di Macron, sembrano riportarci al 2015, quando da Parigi a Bruxelles, Londra a Berlino, l’Europa si avvitava nel vortice del terrorismo. Ma siamo realmente tornati a quel periodo? Per certi versi non ne siamo mai usciti. Che la radicalizzazione, fino ad arrivare al terrorismo, abbia profonde cause sociali, politiche, economiche e psicologiche in Francia in particolare e in Europa in generale è oggetto di studio da anni. Seppur mai lineare, esiste un nesso che lega da un lato la marginalizzazione di intere comunità, l’alienamento individuale nell’era digitale, la violenza fisica e psicologica di guerre e migrazioni forzate e le logiche della criminalità, e dall’altro i processi di radicalizzazione fino ad arrivare al terrorismo dall’altro. L’Europa è solo all’inizio della più grave crisi economica e sociale dal dopoguerra, una crisi che ha conseguenze profondamente inique. Sappiamo già che la pandemia ha accelerato le disparità economiche, sociali, geografiche e di genere, un trend destinato a crescere se non contrastato in modo deciso tanto a livello nazionale quanto europeo. Non stupisce dunque se il terrorismo, così come i disordini sociali fomentati da gruppi di estrema destra, trovino terreno fertile nel profondo disagio sociale e economico che stiamo vivendo. Eppure l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno come italiani e come europei è di ricadere nella trappola dello scontro di civiltà, che ci impedisce di vedere e affrontare con lucidità le sfide di portata storica che ci attendono. La Francia e Macron hanno le proprie logiche e motivazioni. Che la Francia, con la sua interpretazione radicale di laicità, ha una questione aperta e mai risolta con l’Islam è risaputo, così come è noto che Macron, che lentamente si prepara alle presidenziali del 2022, è testa a testa nei sondaggi con chi con tutta certezza sarà la sua sfidante: Marine le Pen. In un contesto in cui l’estrema destra non arretra, il Paese viene colpito da una nuova ondata di terrorismo e si ritrova in cima alla tragica classifica della seconda ondata del Covid19, non sorprende che Macron giochi la carta patriotico-nazionalista, così come nei mesi scorsi ha tentato, a onor del vero con poco successo, di cavalcare l’onda della politica estera, dalla Libia al Mediterraneo orientale. È una tattica razionale, per certi versi anche comprensibile, ma non per questo condivisibile. Così come non lo è il gioco di Erdogan, anche lui afflitto da problemi interni, che ha usato la politica estera come leva e riscatto nei confronti della propria opinione pubblica. Nel 2019 il partito di Giustizia e Sviluppo di Erdogan perse le elezioni amministrative, finendo con la clamorosa sconfitta a Istanbul. L’economia era già dolorante, quando la pandemia ha colpito il Paese. Attraverso la politica estera, a partire dalla Libia, passando per il Nagorno Karabakh e finendo con lo scontro con la Francia sull’Islam, Erdogan ha riacquistato un consenso interno, ma anche internazionale nel mondo mussulmano di cui non godeva da un decennio. L’Europa non ha alcun interesse né ad alimentare una lente distorta religioso-culturale che estremizza il dibattito internazionale e da un assist a dinamiche nazionali e nazionaliste, né tantomeno a distrarsi da ciò che concretamente conta: ossia coordinare una risposta europea alla seconda ondata del Covid19 e accelerare il lavoro che assicuri che la ripresa economica dalla pandemia sia verde, digitale e equa. La gravità della crisi è tale che ricadere nel vortice dialettico e politico dello scontro di civiltà è semplicemente un lusso che non possiamo permetterci. Rojhilat (Kurdistan sotto occupazione iraniana): altri curdi giustiziati dal regime di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 31 ottobre 2020 Tra le innumerevoli esecuzioni capitali operate dal regime teocratico iraniano (contro oppositori in genere e contro i curdi in particolare) nel gennaio 2018 aveva suscitato un certo scalpore - almeno a livello mediatico - quella di Hekmat Damir. Accusato di “terrorismo” in quanto militante dell’organizzazione Pejak, questo curdo di origine turca era stato impiccato a Khoy, un carcere della provincia iraniana dell’Azerbaijan occidentale. Gravemente ferito, paralizzato a entrambe le gambe, era stato portato in barella sul luogo dell’esecuzione e qui, ancora sulla barella, il boia gli aveva infilato il cappio al collo. Poi, come di regola, la gru aveva iniziato a sollevarlo nel vuoto. Per chi ama le analogie, le coincidenze il macabro evento ricordava l’esecuzione di James Connolly (fondatore dell’Irish Citizen Army) nel 1916. Non potendosi reggere in piedi a causa delle ferite, l’esponente repubblicano irlandese venne legato a una sedia e così giustiziato. Rilevare che in Iran - da anni - è normale amministrazione ricorrere alla pena di morte contro manifestanti, dissidenti e minoranze è come scoprire l’acqua calda. Caso mai, sembra di capire, tale prassi negli ultimi tempi è andata accentuandosi ulteriormente. Soprattutto ai danni dei curdi. Per citarne qualcuno di recente, il 13 luglio di quest’anno due curdi - Diaku Rasoulzadeh e Saber Shaikh Abdollah - venivano giustiziati nel carcere di Orumiyeh (sempre nella provincia iraniana dell’Azerbaijan occidentale). Condannati a morti cinque anni prima unicamente sulla base di “confessioni” estorte con la tortura e nonostante l’esistenza di prove concrete della loro innocenza. In quel momento almeno altri cinque prigionieri curdi erano in attesa dell’esecuzione (come finora è avvenuto per almeno quattro di loro) mentre di un altro curdo, sequestrato tempo prima dalle forze dell’ordine, nel frattempo si scopriva che era stato passato per armi e fatto sparire. È invece di questi giorni la notizia - divulgata dall’ONG Kurdistan Human Righta Network - delle avvenute esecuzioni di altri quattro curdi. Accusati di omicidio, sono stati giustiziati il 29 ottobre a Orumiyeh. Stando alle informazioni raccolte da Khrn i prigionieri Yasser Cheshmeh Anvar, Ali Malekzadeh e Zinolabedin Hisseinzadeh erano stati condannati a venir giustiziati pubblicamente, ma poi l’esecuzione sarebbe avvenuta tra le mura carcerarie a causa dell’epidemia di Covid19. Il giorno prima Khrn aveva pubblicato un rapporto sul tentativo di suicidio di Ali Malekzadeh che si era tagliato le vene. Un quarto prigioniero - ugualmente giustiziato il 29 ottobre - si chiamava Musa Rahmani. Ma ora la medesima sorte potrebbe toccare a Heidar Ghorbani, un curdo di 47 anni condannato per “ribellione armata contro lo Stato”. Nonostante le innumerevoli irregolarità emerse nel corso del processo e nonostante il tribunale avesse riconosciuto che nel periodo della sua militanza Ghorbani non era armato. Ma ancora una volta sono state determinanti le discutibili confessioni estorte con la tortura. Il suo avvocato ha chiesto di annullare la condanna e un nuovo, regolare processo. Ma invano, almeno finora. Il 28% delle esecuzioni avvenute in Iran nel 2028 riguardavano membri della minoranza curda. O forse meglio: della comunità minorizzata curda, una comunità che - ricordo - rappresenta solo il 10% della popolazione iraniana.