Amnistia e indulto: perché serve un cambio di rotta Il Riformista, 30 ottobre 2020 Sono trent’anni che non si fa una legge di indulgenza collettiva. La proposta presentata alla Camera che riscrive le regole per deliberarla restituirebbe potere e responsabilità al Parlamento. è Stata presentata il 2 aprile scorso, alla Camera dei Deputati, la proposta di legge costituzionale n. 2456, Magi e altri, contenente “Modifiche agli articoli 72 e 79 della Costituzione, in materia di concessione di amnistia e indulto”. Chiediamo a ogni deputato, di maggioranza e di opposizione, di aggiungere la propria firma a quella degli attuali quattro promotori, e a sostenerne il cammino parlamentare, in vista di una sua approvazione entro l’attuale Legislatura. La revisione costituzionale proposta non mira alla concessione di una legge di amnistia e indulto, ma a riscrivere le regole per la sua deliberazione. Prefigura un’inedita architettura degli istituti di clemenza collettiva, ripensati nei presupposti, nella procedura, nei controlli di legalità, coerentemente al disegno costituzionale del finalismo penale, perché la clemenza generale “deve comunque essere valutata in funzione delle finalità “proprie” della pena” (Corte costituzionale, sentenza n. 369/1988). La sua discussione parlamentare consentirà una rinnovata riflessione costituzionalmente orientata sul fondamento, gli scopi e i limiti delle leggi di amnistia e indulto, affrancandole così dalla bulimia passata e dall’odierna astinenza. La vigente formulazione dell’art. 79 Cost. - frutto di un’improvvisa riforma intervenuta nel 1992 - va superata perché rivelatasi una cessione unilaterale di sovranità parlamentare. Vincolandosi a un abnorme procedimento deliberativo, di fatto le Camere hanno rinunciato a due strumenti di politica criminale che la Costituzione repubblicana. legittimandoli, metteva a disposizione del legislatore: al netto dell’indulto approvato nel 2006 sono trent’anni che non è deliberata una legge di clemenza collettiva. Se approvata, la proposta di legge costituzionale n. 2456 restituirà potere e responsabilità al Parlamento, su scelte fondamentali riguardanti l’esercizio della punibilità, ristabilendone una centralità smarrita da troppo tempo. La proposta di legge costituzionale n. 2456, laicizzando gli istituti di clemenza, li emancipa da una strumentale visione palingenetica come pure da una antistorica matrice indulgenziale. Amnistia e indulto, infatti, operano certamente come fusibili del sistema quando l’esercizio della punibilità, andando in cortocircuito, tradisce gravemente i principi della durata ragionevole dei processi o la natura risocializzante e mai inumana della pena. Ma possono rivelarsi altrettanto utili per sciogliere nodi ordinamentali legati a riforme legislative, mutamenti giurisprudenziali, dichiarazioni d’incostituzionalità: quando, cioè, la nuova legalità per il futuro necessita di essere calibrata anche sulle vicende passate, altrimenti schiacciate da una legalità oramai superata. La revisione costituzionale proposta accorda amnistia e indulto con le ragioni dello Stato di diritto, riabilitando le leggi di clemenza dall’accusa tardo-illuministica di deroga arbitraria alla legalità penale. Consente altresì di replicare a chi, in nome di una fraintesa certezza della pena, è contrario alla clemenza (che non c’è). La riforma costituzionale proposta ne valorizza la funzione emancipante rispetto all’egemone rappresentazione patibolare del diritto punitivo: a una sua arcaica visione veterotestamentaria, contrappone “il volto costituzionale del sistema penale” che vincola il legislatore a esercitare la punizione “sempre allo scopo di favorire il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale” del reo (Corte costituzionale, sentenza n. 179/2017). Una finalità, questa, che deve accompagnare la pena “da quando nasce, nella astratta previsione legislativa, fino a quando in concreto si estingue” (Corte costituzionale, sentenza n. 313/1990). Come riconosce la sua relazione introduttiva, la proposta di legge costituzionale n. 2456 riscrive la fonte sulla produzione giuridica delle leggi di clemenza in modo non congiunturale né emotivo: la sua trama normativa, infatti, è frutto di una pregressa riflessione pubblica e partecipata della dottrina giuridica. E su questo obiettivo che possono convergere, trasversalmente, parlamentari di ogni schieramento che conservino ancora il senso del proprio ruolo, rivendicandolo orgogliosamente. Torneranno poi a dividersi sul se, quando e come deliberare una legge di amnistia e indulto, seguendo indirizzi politici legittimamente differenti. Qui e ora, a contare, è esclusivamente una condivisa e rinnovata visione costituzionale degli istituti di clemenza quali strumenti di buon governo. I promotori del presente appello incalzeranno oggi i deputati, domani i senatori, affinché firmino, sostengano e votino a favore della proposta di legge costituzionale n. 2456. Fuori dalle aule parlamentari, opereranno come cassa di risonanza delle sue buone ragioni, in tandem con i settori del mondo dell’informazione sensibili - per storia, linea editoriale, cultura politica - al tema della clemenza collettiva. Danno appuntamento ad un prossimo confronto pubblico, dove contare le firme acquisite alla proposta di legge costituzionale n. 2456 e per ottenerne la calendarizzazione all’ordine del giorno della Commissione Affari costituzionali della Camera. Faremo la nostra parte, con intelligenza e senza demagogia. Ogni parlamentare svolga la propria, perché sarà politicamente giudicato per quanto avrà fatto (o non fatto o mal fatto) per il successo di questa ragionevole battaglia di scopo. I firmatari: La Società della Ragione Onlus, Antigone. A Buon Diritto, Centro per la Riforma dello Stato. Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, l’Altro Diritto. Magistratura Democratica, Nessuno Tocchi Caino, Ristretti Orizzonti. Unione Camere Penali Italiane Appello per amnistia e indulto di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 30 ottobre 2020 Un cartello di associazioni e parlamentari si schiera in favore della proposta di legge costituzionale Due articoli per incidere sulla procedura di approvazione dei provvedimenti collettivi. Chiediamo a ogni deputato, di maggioranza e di opposizione, di aggiungere la propria firma a quella degli attuali promotori, per sostenere il cammino parlamentare di questa proposta di legge in vista di una sua approvazione entro l’attuale legislatura...”. È l’accorato appello di Grazia Zuffa, ex parlamentare e presidente dell’Onlus “La società della ragione”, in favore della proposta di legge costituzionale che punta a innovare gli articoli 72 e 79 della Carta “in materia di concessione di amnistia e indulto”. Il testo, depositato alla Camera lo scorso 2 aprile col numero 2456, è firmato dai deputati Riccardo Magi (+Europa), Enza Bruno Bossio (Pd), Roberto Giachetti e Gennaro Migliore (Italia viva), e si compone di soli 2 articoli, in grado di incidere chirurgicamente sulla procedura di approvazione dei provvedimenti collettivi di clemenza: “La revisione costituzionale proposta non mira alla concessione di una legge di amnistia e indulto, ma a riscrivere le regole per la sua deliberazione”, considera Zuffa, in un appello che verrà diffuso oggi e al quale aderiscono, fra gli altri, le associazioni “Nessuno tocchi Caino” e “Antigone”, ma anche le toghe di Magistratura democratica e l’Unione delle camere penali. L’asticella del quorum. L’amnistia, com’è noto, costituisce una causa di estinzione del reato, mentre l’indulto è una causa di estinzione della pena. Con la prima, pertanto, lo Stato rinuncia ad applicare la pena, col secondo invece si limita a condonarla, in tutto o in parte, ma senza cancellare il reato. Entrambi sono provvedimenti generali con efficacia retroattiva (a differenza della grazia, che è individuale e viene concessa dal presidente della Repubblica), ossia non si applicano ai reati commessi dopo la presentazione del disegno di legge. Attualmente, dopo la riforma costituzionale del 1992 (che ha sottratto al capo dello Stato la concessione di amnistia e indulto, affidandolo in toto al Parlamento), per poterli disporre occorre una legge approvata dai due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Un quorum così alto da rendere arduo il ricorso ai due istituti, tanto che dal 1992 a oggi si conta un solo caso di applicazione dell’articolo 79 della Carta (a fronte di decine di provvedimenti di clemenza prima di quella data). “L’attuale maggioranza dei due terzi rende quegli strumenti inutilizzabili, trasformando l’articolo 79 della Costituzione in lettera morta - argomenta il deputato Magi, primo firmatario della pdl. Noi proponiamo da un lato di delimitare espressamente l’ambito di operatività attraverso il riferimento alle “situazioni straordinarie” e alle “ragioni eccezionali” e dall’altro di conservare un quorum qualificato, comunque più alto di quello previsto per le leggi ordinarie, ma che sia la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, non i due terzi”. L’incubo Covid-19. Secondo Magi, “situazioni straordinarie e ragioni eccezionali potrebbero anche essere quelle legate al gravare, sull’affollamento già cronico delle carceri, dell’attuale emergenza Covid”. Comunque, puntualizza, “in questa fase noi puntiamo in primo luogo a modificare la Costituzione per rendere utilizzabile questi strumenti”. Attualmente, negli istituti di pena italiani si contano 54.815 reclusi, in calo rispetto ai 60mila di prima della pandemia per via di una serie di provvedimenti del ministero di Giustizia: l’ultimo, in gestazione dopo l’allarme su nuovi casi di contagio in alcuni penitenziari, potrebbe riguardare altri 5mila detenuti. “L’esperienza di magistrato di sorveglianza mi permette di capire che anche leggibili provvedimenti di amnistia servono a far tornare il carcere un luogo conforme a Costituzione e utile a recuperare le persone - ragiona con Avvenire Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza a Sassari e presidente di Magistratura democratica, che ha sostenuto l’appello. Recuperare significa costruire sicurezza, mentre lasciare il carcere sovraffollato e privo di risorse può produrre più violenza”. Per De Vito la proposta di legge ha un duplice merito: “Potrebbe sottrarre i provvedimenti di amnistia e indulto agli eccessi clemenziali del passato” quando ogni pretesto (dal quarantennale di Vittorio Veneto, nel 1959, al ventennale della Repubblica, nel 1966) “era buono per svuotare un po’ il carcere in carcere e liberare le scrivanie dei giudici” e insieme rimediare “all’attuale astinenza, che ne impedisce l’uso ragionato anche in un momento come questo”. Non si tratta insomma, conclude il magistrato, “di dire sì o no all’amnistia, ma di stabilire presupposti verificabili per concederla e anche procedure efficaci”. Amnistia e indulto. Gonnella: “L’obiettivo è resettare il sistema” di Angelo Picariello Avvenire, 30 ottobre 2020 Gonnella (Antigone): mettere in condizione il Parlamento di potersi muovere. Anche Antigone, associazione che da 30 anni si batte per i diritti dei detenuti e l’umanizzazione del sistema carcerario, aderisce all’appello per modificare la norma costituzionale su amnistia e indulto. Patrizio Gonnella, docente di sociologia del diritto a “Roma tre”, ne è il presidente. “Si tratta - dice - di mettere in condizione il Parlamento di poter adottare in caso di necessità questo provvedimento”. La possibilità di votare una legge di amnistia e indulto c’è sempre, perché la ritiene impraticabile? Perché la soglia fissata con la norma di modifica costituzionale del 1990 - che ha cambiato l’articolo 79 imponendo il raggiungimento una maggioranza di almeno i due terzi in entrambi i rami del Parlamento per il testo finale ma anche per il singolo articolo - è di fatto irraggiungibile, specie in un sistema come l’attuale sfilacciato in almeno tre poli. Anche il presidente della Repubblica, oltre il terzo scrutinio può essere eletto con la maggioranza assoluta, qui invece si è voluto rendere impossibile l’obiettivo. Ma se è irraggiungibile la soglia dei due terzi per amnistia e indulto, il problema non si ripropone per questa proposta di modifica costituzionale dell’articolo 79, che richiede la stessa maggioranza? Il problema esiste. Ma noi diciamo a chi è perplesso che non stiamo chiedendo di approvare una legge di amnistia e indulto, stiamo semplicemente chiedendo di non privare il Parlamento della possibilità adottare questo provvedimento quando se ne ravvisi la necessità o anche solo l’opportunità. Essa è sempre esistita nel nostro ordinamento, ed è prevista dalla nostra Costituzione, anche se di fatto è inattuabile. Quando si parla di amnistia e indulto si pensa a un “liberi tutti” e i partiti temono l’impopolarità di un provvedimento così ampio. In quali casi potrebbe risultare utile per tutti, in futuro, non privarsi di una possibilità del genere? Una norma non è perennemente immutabile. Ad esempio c’è la sentenza della Corte di giustizia europea intervenuta a correggere la Bossi-Fini laddove ha reso punibile con il carcere la semplice inottemperanza a un obbligo del questore. Qui un provvedimento di clemenza generale poteva essere di aiuto per porre rimedio ai guasti di una norma che ha riempito le nostre carceri, già affollate, di decine di migliaia di immigrati per inadempienze di tipo amministrativo. Ma non dimentichiamo che è in vigore un codice penale del 1930, approvato in un’epoca del tutto superata, che prima o poi sarà il caso di cambiare. Ebbene, se ci si dovesse arrivare, una legge di amnistia e indulto di accompagnamento si renderebbe opportuna, se non indispensabile. Ma è chiaro che i problemi di umanizzazione del sistema carcerario non si risolvono solo con l’amnistia e l’indulto. Assolutamente no. Il legislatore non potrebbe pensare di autoassolversi con una misura del genere approvata una tantum, senza affrontare i nodi strutturali di un sistema che non rispetta i principi di umanità della pena e la sua finalizzazione alla rieducazione del condannato previsti dalla Costituzione, su cui l’Italia è stata più volte redarguita. Come può essere allora correttamente utilizzata una legge di amnistia o indulto? Il vero obiettivo è rendere la pena detentiva residuale, intervenendo sui nodi che sono a monte. La durata della custodia cautelare, innanzitutto. Ma si deve anche intervenire a depenalizzare una serie di reati che possono essere puniti con sanzioni amministrativa. E soprattutto si tratta di potenziare le misure alternative alla pena detentiva, per rendere il sistema finalmente in linea con il dettato della nostra Costituzione. Fatto tutto questo, una legge di amnistia e indulto potrà essere utile per “resettare” il sistema. I volontari per chi sta dentro restano fuori di Antonella Barina Venerdì di Repubblica, 30 ottobre 2020 Se il virus è devastante ovunque, in carcere lo è all’ennesima potenza”, spiega Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, rete di associazioni che si occupa di tutto ciò che riguarda il mondo delle pene giudiziarie. “Durante il lockdown sono stati aboliti i colloqui con i familiari e l’ingresso dei volontari, che sono circa diecimila e garantiscono ai detenuti il grosso del sostegno e delle attività rieducative, oltre che un ponte con il mondo esterno. Sembrava si fosse persa l’idea che in galera ci sono degli esseri umani. E infatti i detenuti erano furenti, incattiviti”. Di più: neanche durante l’estate la situazione è tornata alla normalità. I colloqui sono ripresi solo in parte, con orari ridotti e restrizioni: barriera di plexiglass, divieto d’abbracciare (anche i bambini), niente cibi portati da casa. Tanto che molti preferiscono rinunciare alle visite in favore di videochiamate, introdotte di corsa dopo le esplosioni di rabbia dello scorso marzo, benché implichino colloqui super controllati. E anche il ritorno o meno dei volontari è avvenuto a discrezione dei direttori, con attività comunque ridotte dall’obbligo di distanziamento (anche se poi celle e sezioni sono affollate e non tutti gli agenti indossano la mascherina). “Temo che la rimonta del Covid-19 porti a ulteriori serrate. Perché più facili da gestire e perché il carcere chiuso ha parecchi estimatori”, conclude Favero. “Senza pensare quanto preziosi siano i volontari per i processi di crescita, i familiari per l’equilibrio emotivo, l’uso delle tecnologie per avviare nuove attività da remoto”. Come scrive Giuliano, detenuto da dieci anni: “Pochi capiscono che la proibizione di tutto ci fa diventare bestie anaffettive, che rientreranno nella società con un bagaglio di rabbia accumulato negli anni”. Covid in carcere: misure insufficienti e il mistero dei braccialetti elettronici di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2020 Era prevista la produzione di più di 1.000 braccialetti elettronici al mese e per ben tre anni, con scadenza il 31 dicembre del 2021. Ora è ufficiale, mentre il numero dei contagi in carcere è in continuo aumento tra detenuti e agenti penitenziari (rispettivamente secondo l’ultimo aggiornamento Dap 215 reclusi e 232 agenti), sono solo due i provvedimenti licenziati dal Consiglio dei ministri per quanto riguarda il discorso deflattivo. Uno è nell’articolo 29 del Decreto Ristori e riguarda la durata straordinaria del permesso premio. Dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino alla data del 31 dicembre 2020 ai condannati cui siano stati già concessi i permessi e che siano stati già assegnati al lavoro all’esterno o ammessi all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno, i permessi premio, quando ne ricorrono i presupposti, possono essere concessi anche in deroga ai limiti temporali. La disposizione però non vale ai condannati che rientrano nei cosiddetti reati ostativi dell’articolo 4 bis. L’altro provvedimento, dettato dall’articolo 30 del decreto legge Ristori, riguarda la disposizione in materia di detenzione domiciliare. In sostanza viene ripristinato il provvedimento adottato già nella prima ondata della pandemia e, anche in questo caso, scade il 31 dicembre prossimo. E i senza fissa dimora? Esclusi - La pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, salvo che riguardi sempre i reati ostativi. Ma sono esclusi anche i detenuti raggiunti da un provvedimento disciplinare o che siano privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato. Quest’ultimo punto è dolente. C’è un numero consistente di detenuti che sono, appunto, privi di domicilio. Questa situazione è legata al loro stato di povertà o, se pensiamo ai detenuti stranieri, di privazione del permesso di soggiorno. La riforma originaria, disattesa dal governo giallo-verde (ma non ripresa nemmeno dall’attuale), prevedeva anche l’implementazione delle strutture per ospitare i detenuti privi di dimora. Che fine hanno fatto i 1.000 braccialetti al mese fino a tutto il 2021? - La concessione di questa misura varata dal governo, però, - salvo si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena da eseguire non sia superiore a sei mesi - è subordinata all’applicazione dei braccialetti elettronici. Punto dolente. Il Dubbio sette mesi fa ha sottolineato la mancata trasparenza sul numero effettivo dei braccialetti emessi, ricordando che era stato vinto un bando da parecchi milioni di euro che preveda la produzione di più di 1000 dispositivi al mese e per ben tre anni, con scadenza il 31 dicembre del 2021. Che fine abbiano fatto o del perché non siano stati attivati, non è ancora chiaro. Ora, nel decreto Ristori leggiamo, che “con provvedimento del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, d’intesa con il capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, adottato entro il termine di dieci giorni dall’entrata in vigore del presente decreto e periodicamente aggiornato è individuato il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici da rendere disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente, che possono essere utilizzati per l’esecuzione della pena”. Da sottolineare il passaggio “nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente”. Ma non erano già stati stanziati i soldi nel passato? Ci sono quelli del bando con oltre 19 milioni di euro, e durante la prima ondata era stata avviata un’interlocuzione tra il ministro della Giustizia, il Commissario straordinario Arcuri, e il ministero dell’Interno per garantire l’accelerazione delle installazioni dei dispositivi destinati soprattutto alla detenzione domiciliare di quanti dovevano scontare una pena residua tra i 7 e 18 mesi. Ma cosa prevedeva questo accordo non è dato sapere. L’interrogazione di Roberto Giachetti - Eppure, proprio grazie un articolo de Il Dubbio sul tema, il 21 marzo scorso il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti - su sollecitazione del Partito Radicale, in particolar modo Rita Bernardini che ha più volte posto domande sulla questione - ha chiesto dei chiarimenti con una interrogazione parlamentare rivolta al guardasigilli. Il deputato è entrato nel cuore del problema. L’Amministrazione dell’Interno, nel dicembre 2016, ha avviato una procedura ad evidenza pubblica per la fornitura di braccialetti elettronici conclusasi nell’agosto del 2018 con l’aggiudicazione definitiva dell’appalto a Rti Fastweb: il servizio prevede, per un periodo minimo di 27 mesi, la fornitura di 1000- 1200 braccialetti mensili per l’intera durata triennale fino al 31 dicembre del 2021. “Secondo quanto riportato da un articolo de Il Dubbio pubblicato il 18 marzo 2020 - ha chiesto a marzo Giachetti - dalla relazione tecnica allegata al decreto “Cura Italia” emerge che al momento e fino al 15 maggio siano disponibili solo 2600 braccialetti, sebbene il contratto con Fastweb (che decorre dal 31 dicembre 2018) preveda la fornitura di 1.000-1.200 braccialetti mensili per un totale di 15 mila braccialetti che invece in teoria sarebbero dovuti essere già disponibili alla data odierna”. A quanto risulta non c’è stata nessuna riposta. Non è stato chiarito un quesito semplice, mentre il problema di ripropone. Il bando è stato aggiudicato, i soldi già stanziati, quindi dal 2018 fino al 31 dicembre del 2021 non avremmo dovuto avere alcun problema con l’emissione dei braccialetti. Cosa è accaduto? Perché nel decreto Ristori si fa riferimento ai limiti delle risorse disponibili, quando già è stato aggiudicato un bando da milioni di euro? Mauro Palma: “Le misure del governo avranno effetti limitati” di Viviana Lanza Il Riformista, 30 ottobre 2020 “La stima di 5 mila beneficiari è solo teorica, per sfollare le carceri bisogna fare di più”. “Dubito che i tribunali di sorveglianza abbiano le forze per lavorare allo stesso ritmo del contagio”. Se ci fossero braccialetti elettronici a sufficienza per tutti i detenuti che dovrebbero beneficiare della detenzione domiciliare e se non ci fossero, nel personale di cancelleria e di magistratura dei tribunali e in particolare dei tribunali di Sorveglianza, vuoti di organico grandi come voragini, le misure varate dal governo nel cosiddetto pacchetto giustizia del Decreto Ristori avrebbero un sicuro effetto. Ma, soprattutto quando si parla di carcere, la pratica può essere diversa dalla teoria, le previsioni lontane dai dati di fatto. E così, di fronte a iniziative annunciate con una certa soddisfazione dal governo, non si riesce a essere pienamente ottimisti. Certo, qualcosa si è mosso e questo, in uno scenario di anni di indifferenza politica rispetto ai temi del carcere, è pur sempre qualcosa. Resta però la sensazione che si sarebbe potuto fare di più. “È chiaro che sono delle misure importanti ma anche molto limitate”, osserva il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. Il Covid è ormai una minaccia anche per chi vive e lavora all’interno di strutture carcerarie. I numeri sui nuovi positivi nei 41 istituti di pena crescono di giorno in giorno, al pari dei numeri di agenti di polizia penitenziaria e personale sanitario delle carceri contagiati o in isolamento preventivo. Su una popolazione di 55mila detenuti si sono registrati oltre 150 positivi al coronavirus. Dottor Palma, di fronte a un simile scenario si possono ritenere sufficienti le misure previste nel pacchetto giustizia? Credo che ci sia bisogno di qualcosa di più. Tuttavia, mi sembra importante che si sia affrontato il tema e mi sembra anche di significato positivo il fatto che queste misure siano all’interno del decreto che chiamano Ristori, perché tutto c’è da ristorare, non solo la questione economica ma anche l’aspetto che riguarda chi è in carcere. Cosa cambierà con queste nuove misure anti-Covid? Le misure sono tre. La prima riguarda la detenzione domiciliare per persone con un residuo di pena non superiore a diciotto mesi, con l’esclusione però di determinati reati relativi al 4 bis e con la previsione, per chi deve scontare più di sei mesi, del braccialetto elettronico. È una misura che riprende quella adottata a marzo scorso, ma vale più come segnale culturale che come efficacia diretta. Quindi non bisogna aspettarsi un grande sfollamento delle carceri? Non credo. A marzo il segnale culturale fu dato e molta della magistratura di Sorveglianza si mosse, ma se poi andiamo a vedere quante sono state le applicazioni concrete delle misure notiamo che i casi sono stati limitati. Resta comunque il fatto che si è ottenuto un ridimensionamento della popolazione carceraria che da 68mila detenuti di marzo è scesa a giugno a 52600 detenuti circa. Nei mesi successivi al lockdown, con la ripresa delle esecuzioni degli ordini di carcerazione e delle misure cautelari, il numero degli ingressi nelle carceri è salito nuovamente… Per questo penso che le misure varate dal governo abbiano un effetto più incisivo sul piano culturale che pratico. Sono misure molto limitate, ma giuste da prendere. Va bene anche la misura che prevede che chi ha la semilibertà possa stare in licenza e non rientrare la notte in carcere. È un modo per contenere i rischi di contagio ed evitare di occupare in maniera inutile posti nelle celle. Quindi la semilibertà prosegue fino al 31 dicembre, ed è previsto un ampliamento anche per chi ha un permesso premio prevedendo la possibilità di superare il limite dei 45 giorni entro l’anno. Ciò consente, dunque, di rimanere in permesso anche fino alla fine dell’anno. Si stimano circa 5mila detenuti beneficiari delle nuove misure: circa 3mila detenuti dovrebbero ottenere la possibilità di accedere alla detenzione domiciliare e circa 2mila potrebbero beneficiare di semilibertà e permessi premio. Crede che i tribunali riusciranno a valutare tante posizioni nei tempi stretti che impone la pandemia? Cinquemila detenuti mi sembrano una platea teorica. Dubito che i tribunali di Sorveglianza abbiano le forze per procedere su queste pratiche allo stesso ritmo che il contagio ci richiede. Inoltre, bisognerà vedere come risponderanno, se tutti i tribunali risponderanno in maniera uniformata nell’intero paese. L’esperienza precedente ci dice di no, perché ci sono problemi applicativi che variano da regione a regione. Prima dicevamo che le misure del pacchetto giustizia sono qualcosa ma non abbastanza. Cosa si poteva fare di più. Quali altre misure si sarebbero potute adottare? Noi avevamo proposto altre due misure: un allargamento temporaneo, per quest’anno e per il prossimo, della liberazione anticipata, per cui per coloro che già hanno la liberazione anticipata e hanno già avuto un giudizio del magistrato che l’ha data si sarebbe potuti passare dai 45 giorni per ogni semestre previsti a 75 giorni per ogni semestre. In questo modo nella soglia dei diciotto mesi per la detenzione domiciliare sarebbe rientrata una platea molto più ampia. L’altra proposta riguardava la possibilità di sospendere o rinviare l’ordine di esecuzione per coloro che hanno pene molto basse e sono già fuori dal carcere, in modo da evitare che dopo la condanna definitiva si debba finire in carcere per scontare pochi mesi. Al di là dell’emergenza Covid, qual è secondo lei la più grande criticità del sistema carcerario? Contrariamente a quanto molti risponderebbero, e cioè il sovraffollamento, per me è la qualità del tempo che il detenuto trascorre in carcere. Non può essere un tempo solo sottratto, che si fa passare aspettando che finisca. E non può essere un tempo diverso dalla vita. Pensiamo a un detenuto che entra in carcere e ci resta anni durante i quali fuori accadono delle cose e c’è progresso tecnologico: se questo detenuto non è aggiornato, come troverà lavoro una volta fuori? Inoltre, ogni volta che vado in carcere vedo detenuti impegnati in lavoretti come se non vivessero una vita adulta. Il tempo in carcere è un tempo doloroso ma deve anche essere un tempo di vita, di vita reale. Il primo problema quindi è la qualità del tempo, più che la quantità. Dunque no a un carcere contenitore. Eppure quanti ce ne sono… La Campania e la Lombardia sono i due più grandi contenitori del carcere. Un carcere come quello di Poggioreale, a Napoli, per esempio, è molto complesso, ci sono condizioni difficili anche per chi vi lavora, è un carcere che richiede attenzione ma anche un carcere dove negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti. Il problema vero è che non dovrebbero più esserci carceri da duemila persone. Nelle carceri la situazione dei contagi è di nuovo ad alto rischio di Marco Fattorini linkiesta.it, 30 ottobre 2020 Il numero dei contagiati cresce rapidamente tra i detenuti, 215, e il personale penitenziario, 232. Gli operatori di polizia temono nuove rivolte e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede tenta una corsa contro il tempo per sventare nuovi focolai. “Con il Covid è molto più sicuro stare in carcere che fuori”, scriveva ad aprile Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Chissà cosa direbbe oggi che i contagi nelle prigioni italiane sono più che raddoppiati nel giro di pochi giorni. I numeri crescono rapidamente tra i detenuti, 215 positivi, e il personale penitenziario, 232 casi. Mancano spazi e padiglioni, in galera il distanziamento non esiste. Salvo qualche caso, le strutture non possono fare tamponi autonomamente. E molti istituti non riescono nemmeno a isolare i nuovi arrestati che entrano. Così il ministro Bonafede apre le celle e manda a casa cinquemila persone. “Ricordiamoci che quella carceraria è una popolazione molto vulnerabile dal punto di vista sanitario”, spiega a Linkiesta il Garante nazionale Mauro Palma. Da Nord a Sud, le paure si sprecano. A Terni il focolaio più preoccupante, in alta sicurezza: 68 detenuti su 514 sono risultati positivi al Covid. Gli addetti ai lavori evocano il cosiddetto “effetto rsa”, quello di un contagio che potrebbe diffondersi senza controllo tra le mura della prigione. Gli agenti temono nuove rivolte, dopo che a marzo una cinquantina di penitenziari sono stati devastati e 13 persone hanno perso la vita. “Nella prima ondata non è scoppiata una bomba sanitaria, ma non è detto che la scampiamo anche questa volta. Il carcere è un ambiente ad alto rischio, chiuso e sovraffollato. Molte persone arrivano dalla marginalità estrema, non si sono mai curate prima o hanno patologie pregresse”. Susanna Marietti è la coordinatrice di Antigone, associazione attiva da anni per i diritti e le garanzie del sistema penitenziario. A Linkiesta racconta le preoccupazioni di chi ogni giorno entra nelle patrie galere: “Se l’emergenza sanitaria arriva lì dentro, la sentiremo tutti. Ci ritroveremo in un attimo decine di migliaia di persone che peseranno sul sistema sanitario. Anche per questo bisogna intervenire subito e prevenire, partendo dalla ricerca di nuovi spazi per isolare le persone”. In diversi istituti sono state allestite sezioni Covid e alcuni direttori organizzano i turni per le ore di passeggio in modo da evitare assembramenti. Ma in galera la distanza non c’è, inutile girarci intorno. “Bisogna lavorare per abbassare il numero delle persone ristrette in carcere, è l’unico modo per creare più spazi”, spiega il Garante nazionale dei diritti dei detenuti Mauro Palma. “Dobbiamo puntare ad avere dei ricoveri dedicati, che oggi non ci sono, dove gestire i detenuti con sintomi lievi, in questi casi non bisogna gravare sugli ospedali”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede è corso ai ripari. Un pacchetto di norme, contenuto nel decreto Ristori, prevede che le pene fino a 18 mesi potranno essere scontate a casa col braccialetto elettronico, a eccezione dei condannati per reati gravi. Tra le nuove misure del governo ci sono anche licenze straordinarie e permessi premio più lunghi. Così usciranno cinquemila persone su un totale di 54.800 reclusi. L’obiettivo è alleggerire gli istituti per recuperare locali e sezioni da destinare agli isolamenti. Una corsa contro il tempo, lo sa bene il Garante Palma. “Serve una rapida applicazione del decreto, la situazione cambia continuamente e non sappiamo cosa accadrà tra sette giorni”. All’Associazione Antigone è ricominciato il flusso di telefonate, messaggi e mail da parte dei parenti dei detenuti in apprensione per le condizioni dei loro cari. “Chiedono aiuto, cercano informazioni, temono per i congiunti che hanno già altre malattie”, spiega la coordinatrice Susanna Marietti. “Un’ansia doppia, per il carcere e per il Covid” la definisce il Garante Palma, anche lui subissato da “un numero enorme di segnalazioni”. Intanto il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria ha siglato un protocollo sanitario con i sindacati di Polizia Penitenziaria. “Servirebbero provvedimenti coraggiosi - insiste Marietti di Antigone - bisogna dare respiro alle carceri, purtroppo da anni si racconta alla gente che mandando le persone ai domiciliari facciamo un ‘liberi tutti’. E questa è una sciocchezza. Le pene alternative sono fondamentali, ancor di più in un momento delicato come quello che stiamo vivendo”. Ma in tempi di giustizialismo e manette diventa tutto più complicato. Con il leader della Lega Matteo Salvini, seguito a ruota da Giorgia Meloni di Fdi, che grida allo scandalo: “Il governo chiude ristoranti e palestre ma apre i cancelli delle galere per mandare a casa i delinquenti con la scusa del Covid”. D’altronde, si sa, la politica non ha mai avuto un buon rapporto col mondo penitenziario. Anche prima della pandemia, le prigioni italiane si trascinavano tra problemi e inefficienze. “Il carcere è una nave che imbarca acqua in tempi di mare calmo, se poi arriva una tempesta rischia di andare a fondo. È successo a marzo con la prima ondata del virus e le rivolte”. Gennarino De Fazio è il segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. A Linkiesta spiega: “Il carcere non è una struttura a prova di Covid, si fa quel che si può. Anche solo parlare di sanificazione dei luoghi diventa un ossimoro, ci sono strutture decadenti senza alcuna manutenzione. Ambienti che non sono mai stati salubri”. I sindacati denunciano la mancanza di spazi, l’impossibilità di limitare i contatti tra le persone. “I cosiddetti ‘nuovi giunti’ - continua De Fazio - vengono isolati dai detenuti già presenti nella struttura, ma poi in molti casi vengono messi insieme tra di loro perché non ci sono abbastanza celle”. L’inquietudine degli operatori di polizia è rivolta al rischio di nuovi disordini, dopo quelli di qualche mese fa in tutta Italia, che a Foggia causarono anche la maxi evasione di 72 persone. Oggi la situazione è sotto controllo, domani chissà. Finora si sono registrati pochi segnali: a Pavia i detenuti hanno ritardato il rientro dai passeggi, a Rebibbia alcuni accenni di ‘battitura’. “Le proteste di questi giorni nelle piazze italiane strumentalizzate da frange violente non aiutano. Le carceri sono polveriere pronte a deflagrare”, spiega Gennarino De Fazio. Le micce per proteste future possono essere diverse: il rapido aumento dei contagi, eventuali restrizioni ai colloqui con i familiari in caso di lockdown. E le scarcerazioni per alcuni ma non per altri. “In caso di rivolte violente non saremmo pronti. Siamo pochi, mal equipaggiati e senza alcun tipo di addestramento. Mancano almeno ventimila agenti rispetto alla dotazione organica ottimale, non abbiamo scudi né sfollagente. Sembriamo i Flintstones, quelli del cartone animato con la clava. Durante le sommosse di marzo la Polizia di Stato ha dovuto prestarci i caschi”, racconta il sindacalista della Uil. A differenza delle altre forze dell’ordine, che col decreto ristori ottengono un aumento delle indennità per il lavoro straordinario in questo periodo di emergenza, gli agenti penitenziari non riceveranno nulla. “Peccato che anche noi abbiamo dovuto aumentare le attività di controllo, il lavoro è sempre più delicato. Ma d’altronde sono anni che la politica ha abbandonato le carceri e anche questo governo se ne dimentica”. Quello dei disordini è un pensiero che assilla gli addetti ai lavori. Il Garante dei detenuti Mauro Palma non ha dubbi: “A marzo si è fatto troppo allarmismo su restrizioni ed emergenza sanitaria. È stato un errore che poi ha provocato tensioni. Oggi bisogna lavorare seriamente sulla comunicazione e chiarire la portata dei provvedimenti che si adottano. I detenuti devono essere coinvolti dentro un problema che è comune e generale, il Covid. Non devono sentirsi abbandonati”. Chiudere la cella e buttare la chiave non serve a nulla. Covid-19, le misure per prevenire il contagio all’interno delle carceri di Marco Belli gnewsonline.it, 30 ottobre 2020 I numeri della prima ondata parlano chiaro: il virus in carcere non ha sfondato ed è stato contenuto. Con grandi sforzi e sacrifici, ma è stato contenuto. I dati complessivi del periodo febbraio-agosto parlano di 568 persone contagiate, 4 delle quali decedute (2 agenti e 2 detenuti) mentre per quanto riguarda le restanti 564 si registravano 557 guariti (314 operatori e 243 detenuti) e 7 soggetti positivi. Numerose e diverse le misure messe a punto dal Ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per contenere i contagi da coronavirus in questa prima fase, con risultati e numeri che dimostrano la tenuta del sistema penitenziario. Fin dal 22 febbraio scorso il Dap ha indirizzato ai Provveditorati regionali e a tutti gli istituti penitenziari una serie di circolari e note organizzative e operative per la prevenzione e il contenimento del contagio da coronavirus. Sono stati da subito dettati i primi interventi per i detenuti: quelli trovati positivi al tampone sarebbero stati posti immediatamente in isolamento sanitario in camere singole, dotate di bagno autonomo, all’interno di apposite sezioni detentive dove sarebbero stati effettuati tutti i controlli disposti dalle autorità sanitarie, come previsto dai protocolli del ministero della Salute. I sintomatici e quelli in condizioni più gravi sarebbero stati ricoverati presso strutture ospedaliere esterne. Con notevoli sforzi e anche con l’aiuto della Protezione Civile è stata comunque garantita la dotazione di appropriati dispositivi di protezione individuale: centinaia di migliaia di mascherine FFP2, FFP3 e chirurgiche, migliaia di occhiali e visiere facciali, di camici e tute impermeabili, milioni di guanti monouso e oltre 1.100 kit di protezione totale distribuiti agli istituti penitenziari. Allo stesso modo per l’approvvigionamento di prodotti per la pulizia quotidiana delle persone, l’igiene e la sanificazione periodica dei locali. Grazie alla collaborazione con la struttura del Commissario straordinario di Governo per l’emergenza Covid-19, è stata avviata nei tre stabilimenti penitenziari di Milano Bollate, Salerno e Roma Rebibbia la produzione di 400mila mascherine chirurgiche al giorno (saranno il doppio una volta a regime): è il progetto #Ricuciamo, che si avvale di macchinari tecnologicamente avanzati sui quali si alternano in attività lavorative complessivamente 320 detenuti. Per le attività di triage all’ingresso in carcere sui detenuti nuovi giunti o provenienti da altri istituti sono state installate 145 tensostrutture, grazie alla collaborazione con la Protezione Civile; le strutture sprovviste hanno comunque allestito una zona “filtro”. Rigide procedure precauzionali sono state quotidianamente disposte per il personale all’ingresso degli istituti, con l’uso di termo-scanner per rilevare la temperatura corporea. Con le norme del decreto legge Cura Italia del marzo scorso, il Governo hanno favorito una sensibile diminuzione del sovraffollamento penitenziario di circa 7.500 unità, dai circa 61mila detenuti di febbraio 2020 ai 53mila di agosto, a beneficio di misure alternative alla detenzione: i posti liberati sono serviti a ricavare gli spazi da destinare alla custodia dei soggetti positivi o di quelli da isolare precauzionalmente. Nell’istituto di Milano San Vittore è stato addirittura costituito uno specifico reparto attrezzato per la cura del Covid-19, voluto dall’Amministrazione Penitenziaria e sostenuto dall’Azienda Socio Sanitaria Territoriale Santi Paolo e Carlo e in collaborazione con la Regione Lombardia. Destinato ad accogliere i detenuti positivi provenienti dagli istituti penitenziari del territorio lombardo, l’hub è stato in breve tempo supportato da un reparto per i casi più leggeri, per gli asintomatici e i convalescenti presso l’istituto di Milano Bollate. Diverse sono state le iniziative attivate dall’Amministrazione per sostenere i disagi dei detenuti durante il blocco della circolazione dei cittadini dovuto al lockdown: i video-colloqui per i detenuti, resi possibili grazie all’acquisto di 1.600 telefoni cellulari e di altrettanti donati da una azienda telefonica; l’incremento della corrispondenza telefonica gratuita; l’utilizzo senza costi del servizio di lavanderia; la possibilità di ricevere vaglia postali online; l’aumento dei limiti di spesa per ciascun detenuto. Da ultimo, il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha fatto inserire e approvare nel recente decreto legge sui Ristori alcune norme che puntano a deflazionare gli istituti penitenziari di alcune migliaia di detenuti. Il DAP, dal canto suo, proprio nei giorni scorsi ha sottoscritto, insieme al Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e le organizzazioni sindacali del Comparto Sicurezza, un protocollo con le linee guida per garantire la salute e la sicurezza sul posto di lavoro del personale di Polizia Penitenziaria, in coerenza con i provvedimenti normativi nazionali e regionali. Dana Lauriola: “Il Covid in carcere fa ancora più paura” di Chiara Viti Il Riformista, 30 ottobre 2020 “Qui, dove le distanze di sicurezza anti-contagio non possono essere rispettate, il Covid incombe come una minaccia fatale”. Parole che dovrebbero scuotere le coscienze quelle di Dana Lauriola che, carta e penna alla mano, cerca di puntare un faro sulla situazione delle detenute e dei detenuti durante l’epidemia da coronavirus. La seconda ondata del virus non ha di certo risparmiato le carceri: sono già 150 i detenuti trovati positivi al virus in 41 istituti, 71 solo a San Vittore a Milano, 55 a Terni, altri 12 a Benevento. Ma non solo: sono 200 gli operatori di Polizia penitenziaria contagiati in tutta Italia. E i dati pubblicati questo martedì dal Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria confermano che il contagio all’interno degli istituti si allarga a macchia d’olio. “Abbiamo ascoltato il discorso di Conte e ogni giorno sfogliamo i giornali alla ricerca di qualche notizia sulle carceri e sulla tutela di noi detenute. Niente. Non vi riporto gli sfottò che girano su Bonafede, dal mio punto di vista sicuramente non un grande giurista, ma soprattutto un ministro che non sta facendo nulla per le carceri, luogo di assembramento per antonomasia” mette nero su bianco Lauriola fra le mura del carcere Le Vallette, dove è reclusa dallo scorso 17 settembre. “Un paese civile attento alle fasce più deboli della popolazione (la popolazione detenuta è una di queste) si attrezzerebbe in maniera diversa. Il carcere non è un luogo isolato, decine se non centinaia di persone entrano ed escono ogni giorno per permettere il funzionamento, così come è organizzato. Come si può pensare che questa non sia una popolazione ad alto rischio? Anzi - attacca senza timore la portavoce No Tav - mi correggo, sicuramente i nostri governanti lo sanno, ma non interessa perché qualsiasi azione a nostro favore andrebbe a scontrarsi con la pancia più forcaiola di questo paese, importante bacino di voti. E allora - continua - si attende e si spera”. I detenuti sono inoltre costretti a vivere nell’incertezza che da un momento all’altro vengano interrotti i colloqui con i propri cari, perdendo così l’ultimo appiglio con la realtà al di là dalle sbarre. Lauriola poi si rivolge direttamente ai compagni di lotta scrive: “Sono lì con voi, spero mi sentiate vicina. Questa forza interiore, che prendo dai ricordi, ma anche dall’affetto che ogni giorno ricevo dalle lettere, mi sta aiutando a costruire un nuovo equilibrio. Continuo a pensare che questa detenzione sia la nostra ennesima vittoria perché il potere è stato costretto a svelare il suo volto più feroce e vendicativo. È stato sotto gli occhi di tutti, non si potrà cancellare. Forse questa consapevolezza non servirà a risolvere la mia situazione attuale, ma resterà impressa in chi domani, insieme a tutti noi, vorrà lottare per una società più giusta”. Nella lettera trova poi spazio per raccontare anche piccoli momenti della sua quotidianità: “Leggo, scrivo, gioco a pallavolo. Ammetto di aver avuto qualche momento di sconforto ma ora i giorni, poco alla volta, diventano più leggeri ed i miei movimenti si stanno adattando a questi spazi ristretti”. È di ieri la notizia che il Tribunale di sorveglianza di Torino ha respinto la richiesta della sospensione della misura cautelare in carcere per la portavoce No Tav. Lauriola sta scontando una condanna per un fatto avvenuto otto anni fa, quando circa 300 persone occuparono l’area del casello autostradale di Avigliana della Torino-Bardonecchia facendo passare gli automobilisti senza pagare il pedaggio dopo aver bloccato con il nastro adesivo l’accesso ai tornelli del casello. “Per concludere - scrive ancora Dana Lauriola - dall’alto dovrebbero arrivare dei provvedimenti per ridurre significativamente la popolazione detenuta, bisognerebbe poter essere soli in cella e potenziare i finanziamenti per la salute di questa popolazione “fragile”. Ovviamente non credo questo accadrà, ma credo sia importante almeno dircelo”. Nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri, due giorni fa, sono sì stati presi provvedimenti per limitare la diffusione del contagio anche nei penitenziari, ma a beneficiarne saranno in tutto 5 mila persone, poco meno del 10% della popolazione carceraria (54.815 detenuti). Dal 41bis non si esce. Così Francesco resta sepolto vivo di Maria Brucale Il Riformista, 30 ottobre 2020 Le sue ore scorrono lente nel silenzio di una detenzione che non prevede attività alternative alla cella. Ogni volta impugna il decreto con cui gli viene rinnovato il carcere duro, illudendosi che sia quella buona, e ogni volta invece resta inchiodato al suo buio. Francesco ha 65 anni e da otto è detenuto in 41bis. Pochi colloqui con i familiari ormai in ginocchio per le spese legali e i viaggi per raggiungerlo. Ha sempre contestato il decreto con cui veniva ogni volta rinnovato il “carcere duro”, espressione orrida quanto eufemistica. Il 41bis è il più stridente punto di rottura dei principi costituzionali e convenzionali che governano e delineano il senso della pena. Si contrappone con forza ad ogni aspetto del vivere umano: affettività, territorialità, segretezza della corrispondenza, diritto allo studio ed alla libera informazione, diritto al lavoro, alla socialità. Perfino il diritto alla parola. È sospeso, a norma di legge, il trattamento intramurario ordinario e quello residuo, di rieducativo, ha ben poco. Le ore di Francesco scorrono nel silenzio e nella lentezza del niente di quella carcerazione che non ha attività alternative alla cella. E ogni volta che impugna il nuovo decreto si illude che sarà quella buona, che finalmente i giudici vedranno che non ha contatti con nessuno, che non ha denaro, che pensa soltanto ai suoi cari. Ormai da otto anni vive nel buio di una condizione soltanto punitiva che non aspira al recupero, spegne e basta. I giudici lo capiranno. Così, ancora una volta Francesco è davanti al tribunale di sorveglianza e spera. In udienza, però, si sente contestare dalla procura antimafia che alcuni collaboratori avrebbero parlato di un suo interessamento su fatti estorsivi e, inoltre, che da captazioni ambientali sarebbe emerso che, in una data determinata, durante un colloquio in carcere con la moglie, le avrebbe affidato messaggi di mafia. Le richieste della difesa di acquisire le dichiarazioni dei collaboratori e le trascrizioni delle conversazioni vengono tutte respinte. Non saranno utilizzate, rassicura il collegio. Francesco le troverà, però, nel suo provvedimento di rigetto, un altro, a formare la sua storia di detenuto, una storia scritta da altri e incisa sulla sua pelle alla quale non sa come cambiare il finale perché non gli sono offerti strumenti per farlo. Eppure, un colloquio con la moglie Francesco in quel giorno non lo aveva proprio avuto ma sembra non importare a nessuno. A giudicare Francesco, a decidere delle sue sorti, non c’è il suo giudice naturale, il tribunale di sorveglianza del luogo della sua detenzione, tenuto a conoscerlo. Dal 2009 decide il tribunale di sorveglianza di Roma, per tutti i ristretti in 41bis, in qualunque carcere si trovino, per una norma il cui scopo dichiarato era quello di determinare l’uniformità giurisprudenziale in materia di reclami. Da allora le persone sottoposte al regime differenziato vedono ineluttabilmente rinnovare la loro condizione e patiscono diuturnamente un isolamento di opportunità e di relazioni senza via di uscita. Nel vagliare le impugnazioni, il tribunale si limita ad avallare la presunzione di pericolosità formulata nel decreto ministeriale che applica o proroga la misura in ragione della gravità del reato in esecuzione, anche quando risalente a oltre un ventennio prima, delle dichiarazioni di collaboratori, anche quando in programma di protezione da un quarto di secolo, dei rapporti avuti con mafiosi di spicco, anche se defunti da un decennio. Pochi giorni prima dell’udienza, vengono depositate agli atti del fascicolo le “note Dap”, un carteggio che racchiude i pareri di alcuni organi interpellati sulla necessità che il reclamante rimanga in regime derogatorio. Spesso vengono allegati dei CD contenenti sentenze e ordinanze custodiali (migliaia di pagine) relative ad altre persone nei luoghi in cui l’interessato aveva commesso il reato, in virtù di una suggestione di cointeressenza radicata solo sul dato territoriale. Il contenuto di tali supporti, però, rimane oscuro per la difesa cui non è destinata una postazione computer per visionarli e valutarne pertinenza e utilità a meno che non decida di affrontare le spese onerosissime di copia (circa 350 euro a CD). Le note sono intrise di affermazioni vaghissime e suggestive: “collaboratori di giustizia di recente hanno affermato che dai regimi ordinari i detenuti continuano a veicolare all’esterno i loro messaggi”; “non risulta che Tizio abbia collaborato con la giustizia”; “non si esclude che ove allocato in un circuito comune possa riprendere i contatti con la criminalità”. Si tratta di illazioni la cui vacuità dovrebbe essere apprezzata dal tribunale di sorveglianza per costatare il venir meno dei presupposti legittimanti del decreto ministeriale. Ma ciò non accade. Francesco è ancora in 41bis. Dove senza custodia sono i diritti di Claudio Paterniti Martello* patriaindipendente.it, 30 ottobre 2020 Si moltiplicano i casi di Covid nelle carceri italiane; positivi al virus tra i detenuti e tra gli agenti della penitenziaria. Bene il ricorso a misure alternative, ma la nuova ondata pandemica non distragga dal tema antico degli abusi. Tuttavia qualcosa sta cambiando. Negli ultimi mesi il carcere si è affacciato alle cronache per vari episodi di violenza esercitata da agenti di polizia penitenziaria contro detenuti. Aggressioni degli ultimi nei confronti dei primi emergono d’altra parte periodicamente e testimoniano di un luogo carico di tensioni. Le violenze degli agenti fanno però più clamore, com’è normale che sia, essendo essi custodi della libertà altrui e al contempo esecutori e garanti della legge. I fatti venuti a galla, in alcuni casi, risalgono ad anni fa. A San Gimignano 5 agenti e 1 medico sono sotto processo per tortura per violenze commesse nel 2018. A Torino sono in corso indagini per presunte torture avvenute nell’istituto di pena cittadino nel recente passato: 13 agenti di polizia penitenziaria sono in custodia cautelare, il direttore e il comandante dell’epoca sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento A Viterbo sono in corso delle indagini per violenze risalenti al 2019. Nell’estate dell’anno scorso, nel carcere di Monza, una persona detenuta sarebbe stata prima pestata e poi posta in isolamento. Avrebbe impugnato il provvedimento che la isolava, permettendo così al giudice di acquisire le registrazioni video e facendo venire alla luce il pestaggio. Alla vista del video, in udienza, ha avuto un crollo emotivo. È stato trasferito in un altro istituto. Anche qui ci sono delle indagini in corso. Si tratta solo di alcuni degli episodi di violenza recenti per cui Antigone ha presentato uno o più esposti in Procura o si è costituita parte civile nel procedimento penale. Va poi aggiunto il capitolo delle violenze di marzo, esplose con l’arrivo della pandemia, in seguito alla paura per i contagi, alla chiusura dei colloqui e al blocco delle attività e degli ingressi in carcere. Violenze che hanno segnato in maniera inedita e profonda il nostro sistema penitenziario. A marzo del 2020 Antigone ha ricevuto decine di segnalazioni provenienti dal carcere milanese di Opera e che parlavano di detenuti pestati brutalmente da agenti in tenuta antisommossa. Tra questi c’erano anche anziani e malati. Le presunte violenze del personale di polizia hanno fatto seguito a proteste più che veementi, che hanno infiammato l’istituto assieme ad altri 48 in tutta Italia. Tuttavia non si tratterebbe di violenze volte a sedare le proteste ma di vere e proprie rappresaglie, condotte a luci spente e quando tutti i detenuti erano nelle proprie celle. Segnalazioni dello stesso segno ci sono giunte da Melfi, nel potentino, dove molti detenuti sarebbero stati denudati, picchiati, insultati, posti in isolamento e in alcuni casi trasferiti nella notte tra il 16 e il 17 marzo, come punizione per le proteste della settimana precedente. Segnalazioni diverse ma riguardanti gravi violenze ci sono giunte da Pavia e da Modena. Oltre che da Santa Maria Capua Vetere, nel casertano, che più delle altre carceri si è imposta sulla scena mediatica. In questo istituto centinaia di agenti sarebbero entrati nel reparto Nilo, in rappresaglia per le proteste del giorno precedente e avrebbero insultato, picchiato con colpi di manganello e calci e pugni in testa e nei testicoli detenuti peraltro messi in ginocchio e in alcuni costretti a radersi i capelli. In tutti questi casi Antigone ha presentato degli esposti, oltre ad allertare l’amministrazione penitenziaria. A Santa Maria Capua Vetere l’inchiesta in corso vede imputate per tortura oltre 40 persone. In molti si sono interrogati sulla recente emersione di numerosi casi, chiedendosi se si fosse in presenza di un esacerbarsi della violenza negli istituti di pena o se al contrario episodi del genere (escludendo quelli legati alla pandemia) siano sempre avvenuti, ma che adesso ci siano le condizioni affinché emergano e facciano l’oggetto di procedimenti penali. Chi scrive non ha la risposta. Tuttavia è certo che negli ultimi tempi si siano fatti dei passi avanti sul versante delle norme e di alcune prassi. Dopo un ritardo quasi trentennale, nel luglio del 2017 il Parlamento ha inserito nel codice penale il reato di tortura, la cui assenza aveva impedito a molti magistrati di perseguire violenze psicologiche e fisiche, spesso finite in prescrizione. In diversi casi erano avvenute in carcere. È successo ad Asti, dove nel 2003 due detenuti erano stati portati in celle prive di vetri, denudati, lasciati lì per giorni e ripetutamente pestati. I fatti sono venuti a galla molti anni dopo e sono andati in prescrizione. Il giudice però, nella sentenza, li ha qualificati come tortura, lamentando l’assenza del reato. L’arrivo di una legge, sia pur mal fatta, a causa della subalternità della classe politica alle corporazioni più retrive delle forze di polizia, che l’hanno vista come un bastone fra le ruote, ha significato comunque l’arrivo di uno strumento efficace nelle mani delle autorità giudiziarie; e al contempo è stato inviato un messaggio culturale alle forze dell’ordine, volto a scalfire l’omertà e lo spirito di corpo che tante volte hanno impedito di individuare i responsabili di azioni illegali e inumane, che sono pochi e che macchiano la reputazione dei molti garanti dell’ordine e della convivenza civile. Alla legge sulla tortura va aggiunto il fatto che dal 2016 l’Italia ha un Garante nazionale delle persone private della libertà, il quale visita i luoghi di detenzione, fa raccomandazioni, interloquisce con le amministrazioni e la politica, e in generale porta avanti un’azione preventiva di eventuali violazioni del diritto, diffondendo una cultura e delle prassi maggiormente rispettose dei diritti umani, in linea con un’idea di pena costituzionalmente orientata. Forse anche questo ha contribuito a far sì che molti casi di violenza non finissero nel dimenticatoio. Anche l’Osservatorio di Antigone, nel suo piccolo, ha contribuito a fare del carcere un luogo meno opaco, in cui dal 1998 è presente lo sguardo della società. C’è da sperare che tutto ciò porti a una maggiore diffusione di una cultura rispettosa del diritto e dei diritti, nel luogo teoricamente deputato a ristabilire una legalità violata. *Associazione Antigone “Giustizia, il Dl sia più coraggioso” di Simona Musco Il Dubbio, 30 ottobre 2020 La presidente del Cnf Maria Masi sulle norme anti-Covid per i tribunali: “L’udienza da remoto va ampliata”. L’istituzione forense chiede, con Ocf e tributaristi, di non ridurre le liti fiscali a uno scambio di carte: “Così si va contro la Cedu”. “Il pacchetto giustizia si giustifica come il tentativo di evitare una nuova paralisi della giustizia. Era ed è la nostra prevalente preoccupazione”. A parlare è Maria Masi, presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense. In occasione dell’incontro con il ministro Alfonso Bonafede alla vigilia dell’approvazione del decreto legge, il Cnf ha ribadito la richiesta di salvaguardare la celebrazione dell’udienza in presenza “in tutte le ipotesi in cui il confronto immediato e contestuale sia necessario per la delicatezza degli interessi in gioco o per le attivita` da svolgere”, senza però rinunciare alle forme alternative della celebrazione da remoto o in forma scritta. Una richiesta in parte esaudita, anche se forse sul processo da remoto “si poteva osare di più”, spiega Masi al Dubbio. Per quanto riguarda il civile, ciò che emerge “è l’implementazione delle modalità cartolari rispetto all’udienza in presenza e quella da remoto”, giustificata dal feedback positivo ricevuto dagli uffici nelle ultime settimane. “Avremmo preferito che ci fosse una maggiore spinta nei confronti delle modalità da remoto per tutti quei casi in cui è sconsigliabile la modalità di trattazione scritta e non è possibile, per vari motivi, l’udienza in presenza”, sottolinea Masi, secondo cui l’avvocatura ha avuto nel corso di questi mesi occasione di metabolizzare solo concettualmente tale modalità, nei fatti poco praticata. L’aspetto positivo è che, come più volte chiesto dall’avvocatura, sia stato salvaguardato il principio dispositivo, consentendo alle parti - o anche a una sola di essa - di poter chiedere in ogni caso l’udienza in presenza. Il pacchetto tiene anche conto, nel civile, di alcune modalità indicate nelle linee guida in materia di separazione e divorzi emanate dal Cnf nel periodo più nero dell’emergenza, quello che ha visto la Giustizia finire in lockdown assieme a tutto il resto, ovvero la possibilità di utilizzare la modalità cartolare per i procedimenti di separazione consensuale e divorzio congiunto, “nel tentativo di contribuire a rendere più uniformi quelle prassi disomogenee che hanno rappresentato l’elemento negativo di questi mesi”, continua Masi. Altro aspetto positivo l’aver assecondato le esigenze della giustizia amministrativa, implementando, così come chiesto dalle associazioni degli avvocati amministrativisti, la trattazione online. Ma non mancano lacune, come per il processo tributario, nel quale, denuncia Masi - che ieri ha sottoscritto una nota assieme all’Organismo congressuale forense e all’Unione Nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi - l’oralità è sparita. “In quel caso l’implementazione cartolare non assolve principi di equilibrio”, spiega: nel caso in cui non sia possibile celebrare l’udienza da remoto, infatti, la trattazione si dovrà svolgere mediante la modalità cartolare. Nella nota Cnf, Ocf e tributaristi ricordano però “che anche nel processo tributario deve essere sempre imprescindibilmente garantito il diritto delle parti di discutere in pubblica udienza, come previsto dalla Cedu, in ossequio al principio del giusto processo e che si debba prevedere il rinvio della causa nel caso in cui non risulti possibile per motivi pratici procedere con il collegamento da remoto”. Altrimenti si vanificherebbe il diritto delle parti “di accedere all’unico momento di oralità del processo per la sola carenza di risorse in nome di mal inteso efficientismo”. Tutto questo considerando effettive le richiamate prescrizioni contenute nel dl, ovvero garantendo realmente ai cancellieri l’accesso ad un secondo registro da remoto in modo da ampliare l’attività “smartabile” e rendendo reale la possibilità di lavorare agli atti depositati. Quanto al penale conforta il fatto che l’implementazione del processo telematico abbia subito un’accelerazione spiega Masi -. Ma anche in questo caso bisognerà verificare la sostenibilità del sistema con le risorse attuali, tenuto conto che non abbiamo molto tempo”. Ancora sul penale, spiega la consigliera del Cnf Giovanna Ollà, “la possibilità di mandare atti via pec o con il portale è sicuramente una modalità che fa risparmiare tempo a tutti e distanzia dagli uffici giudiziari e che auspicabilmente dovrà rimanere anche oltre l’emergenza sanitaria”. E così probabilmente sarà, considerato che il processo penale telematico fa parte del disegno di riforma del processo. “Tutti gradiamo il processo in presenza - continua Ollà - ma l’emergenza sanitaria prevede anche dei sacrifici del contraddittorio “dal vivo” che riteniamo, allo stato, accettabili. Il Cnf, già nel primo stop delle attività giudiziarie, aveva comunque preso coscienza della necessità, inevitabile, di svolgere alcune udienze da remoto, tant’è che già a marzo aveva stipulato un protocollo con il Csm per le udienze di convalida e le direttissime che rispettasse le garanzie del difensore e della persona arrestata. È una dolorosa necessità che prevede una parziale deroga del contraddittorio in presenza”. Preoccupa sottolinea infine Masi, la mancanza di una specifica e orientata raccomandazione, per evitare che si ripropongano, ancora una volta, quelle frammentazioni e quei provvedimenti disomogenei che hanno caratterizzato le fasi precedenti. “Sulla base dell’esperienza di questi mesi - sottolinea Masi - è auspicabile una maggiore cura e maggiore condivisione con gli ordini territoriali da parte dei Capi degli uffici giudiziari nel calendarizzare le udienze, e nel garantire più ampio e flessibile accesso al tribunale e alle cancellerie per le attività che, necessariamente, gli avvocati devono svolgere in Tribunale nell’esercizio delle loro funzioni”. Sulle norme anti Covid l’Anm attacca Bonafede di Giulia Merlo Il Domani, 30 ottobre 2020 La pace nel settore giustizia è durata appena 48 ore. Il tempo per il guardasigilli Alfonso Bonafede di dirsi soddisfatto per l’approvazione, nel decreto legge Ristori, delle nuove previsioni in materia di gestione dei tribunali durante la pandemia. L’Associazione nazionale magistrati, infatti, ha definito le norme “inadeguate” e attaccato frontalmente proprio il ministero, accusandolo di dimostrare “una visione disattenta e parziale” nel prevedere che le udienze penali istruttorie e finali di discussione continuino a svolgersi in presenza. Eppure il pacchetto confluito nel decreto legge, frutto di un tavolo congiunto con magistrati e avvocati, ha di fatto recepito buona parte delle richieste avanzate in un documento firmato dai penalisti delle camere penali insieme alle procure della Repubblica di Roma, Napoli, Milano, Torino, Palermo, Firenze, Reggio Calabria, Catanzaro, Perugia e Salerno. Il sindacato delle toghe, invece, ha bocciato in blocco le previsioni sostenendo che, “al ritmo degli attuali contagi tra gli operatori del settore”, si rischia “un nuovo blocco totale della giustizia penale” e che i processi si svolgano “in contrasto con l’esigenza primaria di limitare la diffusione del contagio”. La richiesta della magistratura associata al ministero della Giustizia, dunque, è chiara: apportare “correttivi urgenti” al testo, prevedendo un ampliamento dei processi penali suscettibili di trattazione a distanza oppure la sospensione dei termini processuali almeno per alcune categorie di reati, per arrivare a un temporaneo sfoltimento dei ruoli di udienza per potere trattare in sicurezza i residui processi in aula. In sostanza, modificare in modo sostanziale il testo approvato, sconfessando anche i punti principali del documento congiunto di penalisti e procure. Il nodo da sciogliere è sempre lo stesso, che ha già provocato contrasti tra avvocatura e magistratura: in quali termini e con quali modalità è possibile svolgere le udienze penali da remoto senza comprimere eccessivamente il diritto di difesa. Le nuove norme redatte da Bonafede puntano a un compromesso proprio su questo e prevedono che le udienze penali si possano svolgere in videoconferenza ma solo con il consenso delle parti, ma che tutte le udienze istruttorie e quelle di discussione finale debbano continuare a essere celebrate in presenza. Questo punto è stato quello più criticato dall’Anm, secondo cui così la maggior parte delle udienze continueranno a svolgersi nei tribunali: “Il legislatore si è preoccupato delle misure per le indagini preliminari e le udienze in camera di consiglio, pretendendo invece che tutte le altre udienze penali, cioè le attività più a rischio di contagio, continuino a tenersi nei modi ordinari”. Invece, secondo i magistrati, anche la lettura delle sentenze di patteggiamento, “le discussioni di non particolare complessità” e “l’ascolto di testimoni, in assenza di contrarietà dei difensori” andrebbero svolte in collegamento da remoto. Proprio a questa ipotesi di “remotizzazione” del processo penale, invece, si sono sempre opposti i penalisti. “La stroncatura di Anni è allarmante e incomprensibile”, ha detto il presidente delle camere penali, Giandomenico Caiazza. “Anche nell’emergenza va posto un limite per consentire il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale: il dibattimento non si può celebrare da remoto. Per esaminare un testimone, per esempio, serve la percezione fisica costante, altrimenti è impossibile”. Esistono modi alternativi di rendere sicuro il processo, senza celebrarlo da remoto: “Riduciamo il numero di dibattimenti, distanziamoli come orario, i magistrati accetti no di celebrarli anche nelle ore pomeridiane. Ma non si usi la leva dell’emergenza per stravolgere la natura del processo”, ha concluso Caiazza. La nota dell’Anm contiene anche un risvolto ulteriore: una posizione così fortemente contraria al decreto marca anche una precisa presa di distanza dall’iniziativa delle maggiori procure italiane, che hanno sostenuto insieme ai penalisti l’incompatibilità del dibattimento con il sistema da remoto. Una distanza, quella tra i procuratori sul territorio e l’Anm, che crea una situazione peculiare: se di solito i magistrati si muovono compatti nelle richieste al ministero, sulle norme anti Covid per i tribunali il sindacato si trova a sostenere una posizione opposta rispetto a una parte significativa dei suoi stessi iscritti. Magistrati onorari. Luci e ombre della riforma di Antonello Racanelli* Il Dubbio, 30 ottobre 2020 Da pochi giorni si è conclusa un’altra settimana di astensione dal lavoro dei magistrati onorari che giustamente protestano per la loro attuale situazione, anche nella prospettiva dell’entrata in vigore a pieno regime della riforma Orlando del 2017. In questi stessi giorni proseguono in Senato, in Commissione Giustizia, i lavori per una modifica della legge Orlando. Non entrerò nel merito delle proposte di modifica, ma voglio limitarmi ad evidenziare ancora una volta l’insostituibile ruolo svolto dai magistrati onorari (sono attualmente oltre 5000). Le mie riflessioni si riferiranno esclusivamente ai vice procuratori onorari, settore da me ben conosciuto anche perché attualmente sono il procuratore aggiunto delegato al servizio Vpo della Procura della Repubblica di Roma, ma, ovviamente, le considerazioni possono essere riferite in generale a tutti i magistrati onorari (attualmente nella sola Procura della Repubblica di Roma prestano servizio oltre 70 Vpo). È un dato ormai noto (anche se non se ne traggono le dovute conseguenze) l’assoluta indispensabilità per il normale funzionamento degli uffici di procura dei Vpo. Il 100 % delle udienze innanzi al giudice di pace vede la presenza come pm d’udienza dei Vpo e le udienze innanzi al tribunale in composizione monocratica vedono la presenza come pm d’udienza dei Vpo per una percentuale superiore al 95% (nella Procura di Roma, ma anche in altri uffici di procura, i Vpo rappresentano l’accusa anche nei giudizi direttissimi monocratici nei confronti delle persone arrestate). La presenza e l’impiego dei Vpo consente ai Pm togati di concentrarsi sulle attività di indagine e di rappresentare l’accusa nelle udienze innanzi al Tribunale in composizione collegiale. In molti uffici i Vpo svolgono anche altre attività consentite dalla legge (specie con riferimento ai procedimenti trattati dalle Sdas, sezioni definizioni affari semplici). La riforma Orlando sulla magistratura onoraria è stato indubbiamente il tentativo di disegnare un quadro normativo organico. L’intervento normativo in oggetto ha presentato luci ed ombre: vi sono molti aspetti positivi ma anche notevoli criticità. Sicuramente apprezzabile è stato il tentativo di un inquadramento organico della figura del magistrato onorario anche se le profonde differenze che indubbiamente sussistono tra magistrati onorari giudicanti e magistrati onorari requirenti o inquirenti avrebbe forse consentito una sia pure parziale differenziazione normativa. Le luci o meglio gli aspetti positivi riguardano sicuramente gli aspetti funzionali e cioè i compiti e le funzioni che possono essere svolti dai Vpo. Con l’intervento normativo si è indubbiamente verificato un allargamento anche formale dei compiti loro attribuiti anche se molte delle funzioni, ora normativamente riconosciute, di fatto venivano sostanzialmente già svolte dai vpo, anche se formalmente attribuite ai magistrati togati. Le principali criticità riguardano essenzialmente lo status dei magistrati onorari ed il loro trattamento retributivo- previdenziale. In assenza di un intervento normativo di modifica della legge Orlando, i problemi già esistenti saranno ancora più gravi dopo l’agosto del 2021 quando entrerà a pieno regime la riforma: le norme transitorie consentono ai Vpo in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo del 2017 di continuare ad operare così come hanno sempre fatto finora con l’aggiunta delle nuove funzioni riconosciute. I problemi nasceranno dopo l’agosto 2021 quando entreranno in vigore le limitazioni temporali di attività per i singoli magistrati onorari: se non si interviene seriamente entro quella data si rischia il caos negli uffici di procura. Dopo la legge Orlando non è stato più possibile delegare i Vpo come Pm per le udienze civili: nonostante numerose richieste provenienti dagli uffici giudiziari e anche dal Csm e indirizzate al ministero in questi anni per sollecitare un’iniziativa legislativa, nulla si è mosso. Altra situazione paradossale che è prevista dalla normativa vigente: i Vpo possono svolgere alcune attività (attività significative in ausilio ai magistrati togati) ma per queste attività non è prevista alcuna retribuzione. Trattasi di situazione che, credo, non meriti commenti: è prevista un’attività lavorativa ma senza compenso: ogni attività consentita dalla legge deve essere retribuita. Peraltro, attualmente, si prevede anche lo svolgimento di un tirocinio senza alcuna retribuzione. Ora, tralasciando altri aspetti di dettaglio, pur significativi, bisogna essere chiari: si considera o no la magistratura onoraria una risorsa fondamentale per l’efficienza del sistema Giustizia? Al di là delle facili affermazioni di principio, se la risposta è positiva bisogna trarne le dovute conseguenze in tema di disciplina normativa (in punto di tutele assistenziali e previdenziali oltre che di modalità di impiego). Appare opportuno intervenire anche sul sistema disciplinare, prevedendo una gradazione delle sanzioni: non si capisce per quale motivo per il magistrato onorario sia prevista come unica sanzione disciplinare la revoca dall’incarico; opportuno prevedere anche per i magistrati onorari un sistema più adeguato di trasferimenti oltre che riflettere sulla disciplina attuale in materia di incompatibilità. Urge un immediato intervento normativo che modifichi soprattutto le limitazioni temporali previste a regime dalla riforma Orlando: non dimentichiamo che molti dei Vpo attualmente in servizio svolgono quest’attività da molti anni e rappresentano, quindi, anche un patrimonio di esperienza e di professionalità. *Procuratore aggiunto presso Procura di Roma Regeni e la lezione della nostra giustizia di Luigi Manconi La Stampa, 30 ottobre 2020 Dalla politica italiana una colpevole inerzia. Sergio Colaiocco è un sostituto procuratore che non va in tv (ce ne sono, ce ne sono) e di cui non sono note le opzioni politiche e nemmeno la fede calcistica; se ne conosce giusto l’appartenenza a una corrente moderata della magistratura, ma nessuna rivelazione sui suoi gusti culturali né su quelli enologici. È uno di quelli (ce ne sono, ce ne sono) che non rilascia interviste e nemmeno “colloqui riservati” al fine di trasmettere messaggi o di condizionare l’opinione pubblica. Insomma, è un pm che sembra interamente votato all’attività di pm. Speriamo che si mantenga. Colaiocco, dalla primavera del 2016, prima sotto la guida di Giuseppe Pignatone e ora sotto quella di Michele Prestipino, indaga caparbiamente sulla vicenda di Giulio Regeni, rapito al Cairo il 25 gennaio di quell’anno e ritrovato ucciso, dopo essere stato barbaramente torturato, dieci giorni dopo. Ieri, la Procura di Roma - dunque, Prestipino e Colaiocco - ha diffuso un comunicato in cui si dice pronta a chiudere in tempi brevi le indagini relative all’assassinio di Giulio Regeni, a quasi due anni dall’iscrizione dei presunti responsabili nel registro degli indagati; e nel giorno in cui gli investigatori del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’Arma dei carabinieri e del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia di Stato incontravano, al Cairo, i loro omologhi egiziani. Dietro il linguaggio scrupolosamente giudiziario del comunicato, mi è parso di cogliere quella che può definirsi l’ira dei miti, sia pure educatamente espressa e garbatamente trattenuta. L’ira, cioè, di chi, da oltre quattro anni, lavora per accertare la verità su quegli atroci dieci giorni che videro il ricercatore italiano alla mercé dei suoi aguzzini. Un lavoro investigativo realizzato interamente in ambiente ostile. Per capirci, si immaginino le difficoltà e le fatiche di un’inchiesta svolta in un contesto mafioso; e si moltiplichino per mille le resistenze che lì si incontrerebbero, considerato che le indagini sulla morte di Regeni vengono portate avanti all’interno di un sistema dove la mafiosità è quella degli apparati di sicurezza di un regime dispotico. E quelle indagini sono condotte prevalentemente dall’Italia, da una distanza di migliaia di chilometri e con poteri forzatamente assai limitati. Ciononostante, grazie alla intelligente attività di Ros e Sco, la Procura di Roma, il 4 dicembre del 2018, iscriveva nel registro degli indagati cinque agenti della National Security egiziana. Poi, nell’aprile dell’anno successivo, inviava una rogatoria all’autorità giudiziaria del Cairo per sollecitare adeguate risposte “sull’elezione di domicilio da parte degli indagati, sulle dichiarazioni rese da uno di questi in Kenya nell’agosto del 2017 e su altre attività finalizzate a mettere a fuoco il ruolo di altri soggetti della National Security”. La richiesta di elezione di domicilio è fondamentale perché, se avvenisse, dimostrerebbe che gli indagati sono a conoscenza dell’indagine a loro carico: e ciò consentirebbe, a un tribunale italiano, in caso di rinvio a giudizio, di poterli processare “in assenza” (attuale formulazione della precedente “contumacia”). Di conseguenza, a quanto è dato di comprendere, il comunicato della Procura ha lo scopo di scongiurare ulteriori dilazioni ed evitare nuovi differimenti, di non consentire ancora alla Procura egiziana di menare il can per l’aia e di prolungare all’infinito una ricerca della verità che rischia di consegnarsi all’oblio. Perché questa è la vera e drammatica posta in gioco. Ovvero la sorte della memoria di Giulio Regeni e di ciò che essa rappresenta per una parte significativa della società italiana. La sua storia non richiama esclusivamente una preoccupazione umanitaria o un sentimento filantropico. È una questione tutta politica che - sciaguratamente - la classe politica non ha saputo o voluto intendere. È tutta politica, in primo luogo, perché in discussione è il principio della nostra sovranità nazionale: e non può essere altrimenti dal momento che un cittadino italiano è stato rapito, torturato e ucciso mentre si trovava in un paese considerato alleato (unito all’Italia da un “rapporto speciale” secondo il premier dell’epoca Matteo Renzi); e la mancata cooperazione giudiziaria compromette la capacità dello Stato italiano di tutelare l’incolumità dei connazionali, prerogativa essenziale del potere pubblico; e allo stesso tempo mortifica il suo prestigio internazionale. Ma la vicenda di Giulio Regeni è tutta politica per un’altra ragione ancora. Perché ci fa toccare con mano quanto il tema dei diritti umani sia destinato a rimanere l’ultimo punto all’ordine del giorno dell’agenda politica. L’Egitto, ma il discorso può valere anche per la Turchia, gode nello scenario internazionale e, in specie, in quello medio-orientale, di uno statuto speciale. Non solo per le ben note relazioni economico-commerciali con l’Italia e l’Europa, bensì per il crescente ruolo geo-strategico che gioca in quell’area del mondo: prima come presidio irrinunciabile di fronte alla minaccia rappresentata dallo Stato islamico; poi come fattore di stabilizzazione, sappiamo quanto precaria, dell’eterna crisi libica. In una simile prospettiva, quanto volete che pesi e che valga il corpo sfigurato di Giulio Regeni e quello prigioniero di Patrick Zaky? E quanto volete che contino i corpi delle migliaia e migliaia di egiziani che subiscono la medesima sorte? Infine. Forse si tratta di una mia personale ossessione, ma resto convinto che nell’inerzia mostrata dalla politica e dalla diplomazia italiane nei confronti del regime di al-Sisi, si sconti anche una sorta di complesso di inferiorità del nostro paese. Quando Regeni, in una cella segreta, subiva sevizie e trattamenti inumani e degradanti, l’Italia - che aveva ratificato nel 1988 la Convenzione Onu contro la tortura - attendeva ancora l’introduzione nel proprio ordinamento di una legge in materia. Cosa che sarebbe avvenuta solo nel luglio del 2017, e in una versione assai blanda. Come non pensare che quella inerzia dell’Italia sia dipesa, almeno in parte, dal senso di colpa di chi non aveva tutte le carte in regola, e l’autorità giuridica e morale, per esigere verità e giustizia da un regime torturatore? Il carcere duro “impone” servizi igienici adeguati, areazione e illuminazione naturale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2020 Il rispetto delle condizioni umane della cella non è garantito solo dallo spazio minimo espresso in metri quadri. Il carcere duro non esclude, ma anzi rende indispensabile, di garantire al condannato adeguate condizioni igieniche e di salubrità al di là del numero minimo di metri quadrati a sua disposizione all’interno della cella. Infatti, il criterio puramente spaziale non assicura a chi, sottoposto al regime “41bis”, trascorre fino a 22 ore al giorno nella propria camera detentiva. La garanzia che la carcerazione non sia degradante - come dice la Cassazione con la Cassazione con la sentenza n. 30030 depositata ieri, 29 ottobre 2020. Carceri, c’è l’uomo oltre i 3 metri quadri di Franco Colomo ortobene.net, 30 ottobre 2020 Un recente pronunciamento della Corte di cassazione ha rimesso in discussione i calcoli sullo spazio minimo disponibile per ciascun recluso. Finora quello consentito è stato di 3 metri quadrati. La questione controversa è se questo debba essere computato considerando tutti gli arredi o solo quelli tendenzialmente fissi come i letti. Nel merito - come conferma il magistrato di Sorveglianza di Nuoro, la dottoressa Carla Venditti - la soluzione adottata “non è chiarissima, sembrerebbero da detrarre solo i letti a castello e non quelli singoli, bisognerà leggere la motivazione della Suprema corte”. La questione non appaia capziosa: come ha giustamente ricordato l’ex detenuto Salvatore Buzzi, in un intervento sul Riformista, le direttive dell’Unione europea sull’allevamento dei maiali stabiliscono che un verro debba disporre di sei metri quadrati estensibili a 10 in caso di accoppiamento. Tanto vale - la provocazione - farsi tutelare dalla protezione animali. A quale spazio ha diritto allora un uomo, seppur ristretto in carcere? Il tema è quello del sovraffollamento. A Badu e Carros, ad oggi, i detenuti sono 275 su una capienza di 278, così suddivisi: 205 in “Alta sicurezza 3”; 5 in “As2”; 58 in “Media sicurezza”, reclusi per reati comuni. In quest’ultima sezione vige il sistema delle celle aperte - ricorda la dottoressa Venditti - diverso è per chi, come gli “As3”, deve restare rinchiuso. Tutto dipende dunque da quante persone ci sono nella stanza: “fino a quattro non ci sono problemi, c’è anche stata - ricorda il magistrato - una ristrutturazione importante, le cose cambiano se si arriva ad essere in 6 o in 7. Ci sono stati questi casi, al momento - spiega - la situazione cambia molto rapidamente anche in virtù dell’isolamento Covid, bisogna fare una sorta di composizione”. A ciò si deve aggiungere il probabile ritorno del 41bis. “Pare che il ministro abbia firmato anche per Nuoro - afferma il magistrato - ma non ho nessuna comunicazione ufficiale”. A Mamone il problema spazi per ora non si pone, i detenuti sono attualmente 135 su una capienza di 174. Le carenze più importanti riguardano gli organici, per la Polizia penitenziaria in tutti i ruoli. A Nuoro meno 17 unità per ispettore, meno 24 per sovraintendenti, meno 40 per assistenti capo. Per l’Area educativa i funzionari giuridici pedagogici sono 4 anziché 5. A Mamone la Polizia penitenziaria può contare su 95 unità su una pianta organica di 116, per l’area educativa sulle 7 unità previste sono presenti in 5. “Questo - sottolinea la dottoressa Venditti - non può che riflettersi negativamente sul lavoro di tutti nonostante gli educatori ma anche la Polizia penitenziaria siano preparati e riescano a seguire le persone”. Questo 2020, pesantemente segnato dalla pandemia, ha fatto registrare un alto numero di morti. Secondo il dossier “Morire di carcere” diristretti.it (il sito web di cultura e informazione della Casa di reclusione di Padova) su 117 morti avvenute in carcere fino ad oggi, 46 sono casi di suicidio, lo scorso anno 53 suicidi su 143 morti (67 su 148 nel 2018). A Nuoro nessun episodio, per fortuna, ma la fase più dura del lockdown ha portato anche qui “tanta paura”, ammette il magistrato di Sorveglianza. È capitato di dare permessi e che i detenuti non ne usufruissero per paura del contagio. Lo stesso è accaduto anche a Mamone con alcuni stranieri. L’unico aspetto positivo è stata la concessione delle videochiamate per tutti, anche per l’”As3” e l’auspicio - anche per la dottoressa Venditti - è si possa concedere questa modalità anche in futuro. Anche in Tribunale si fanno i conti con la carenza di personale, “ci siamo trovati dimezzati, con istanze dei detenuti che si moltiplicavano ma abbiamo dato una risposta ed è importante. La sofferenza c’è stata per tutti, anche io non sono potuta rientrare a casa in Lombardia per 4 mesi”. No all’estradizione, pesa il rischio Covid di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2020 L’emergenza sanitaria può bloccare anche le procedure di estradizione, se il sistema carcerario del Paese di consegna non offre garanzie sufficienti. Lo afferma la Cassazione con la sentenza n. 30007 della Sesta sezione penale depositata ieri. La Corte ha così annullato la pronuncia della Corte d’appello conia quale era stata invece dispostala consegna di un cittadino peruviano accusato di rapina pluriaggravata. Tra i motivi del ricorso, la difesa aveva messo in particolare evidenza il fatto che la richiesta fosse stata accolta malgrado dal Perù fossero arrivate, attraverso l’Ambasciata, risposte generiche a una serie di questioni sollevate dalla stessa Corte d’appello sulle condizioni di detenzione cui sarebbe stato sottoposto l’accusato. Per la Cassazione le argomentazioni della difesa sono condivisibili. Innanzitutto è stata omessa l’indicazione dell’istituto nel quale il cittadino peruviano sarebbe stato recluso e sono state fornite solo osservazioni generiche sulle condizioni di rispetto delle libertà in condizioni peraltro di complessivo forte sovraffollamento. Inoltre, è stato garantito dalle autorità del Perù che il sistema penitenziario ha come obiettivi rieducazione e riabilitazione, senza però dare indicazioni sul numero e la rilevanza di rivolte e sulle loro conseguenze. E proprio in relazione alle rivolte, a giudizio della Cassazione, avrebbe meritato di essere analizzata e valutata nel dettaglio l’ampia documentazione fornita dalla difesa sull’esistenza di un forte rischio Covid nelle carceri peruviane. Proprio in rapporto al pericolo di un’ampia diffusione dell’epidemia nelle carceri peruviane infatti la sentenza ora annullata avrebbe dovuto esprimersi. Tanto più davanti alle risposte del tutto incomplete fornite dall’Ambasciata del Perù sulle condizioni igienico-sanitarie. Campania. Covid-19 nelle carceri, l’allarme dei Garanti dei detenuti anteprima24.it, 30 ottobre 2020 “Situazione preoccupante, riattivate le norme anti-contagio”. Hanno scritto una lettera indirizzata a Giovanni Melillo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli; Maria Antonietta Troncone, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di S.M.C.V.; Giuseppe Maddalena, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Benevento, Giuseppe Borrelli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Salerno, Rosario Cantelmo Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Avellino, Adriana Pangia Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli e a Monica Amirante. presidente del Tribunale di sorveglianza di Salerno. Oggetto: l’Emergenza Covid in Carcere. A firmarla sono i garanti dei detenuti della Campania: Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà; Pietro Ioia, garante città di Napoli; Carlo Mele, garante provincia di Avellino; Emanuela Belcuore, garante della provincia di Caserta. “Come Garanti delle persone private della libertà - si legge - vi scriviamo per richiamare la Vostra attenzione sulla particolare situazione in cui versa la popolazione detenuta in un momento di forte fibrillazione dovuto all’emergenza sanitaria da Covid-19 ulteriormente aggravato dall’esplodere delle tensioni sociali. La situazione in Campania si è ulteriormente aggravata. Nelle carceri crescono il sovraffollamento, i contagi tra gli agenti di polizia penitenziaria, il personale sociosanitario e ci sono già una decina di casi tra i detenuti. Gli spazi minimi nelle carceri, limitano fortemente l’applicazione dei protocolli sanitari sia per l’isolamento sanitario che i casi di contagio. Gli stessi ospedali che hanno, come il Cotugno, destinato posti riservati ai detenuti, per l’emergenza sono stati occupati”. “Siamo grati alle Direzioni delle carceri e a quelle sanitarie perché stanno contenendo e limitando il rischio negli istituti, ma questo straordinario lavoro rischia di essere vanificato. Le prossime settimane saranno insidiose, e per questo riteniamo fondamentale la massima collaborazione tra tutti gli attori del mondo penitenziario e in più generale della Giustizia. La peculiarità del momento impone un’accorata richiesta alle Vostre persone, prima come singoli e poi come istituzioni. Tali ragioni, unite alla profonda umanità e alla profondità dei vostri gentili ideali, hanno animato queste poche righe, in ragione del nostro ruolo e della vostra funzione. In tale ottica non pare oltre misura chiedere che vengano immediatamente riprese e rafforzate le misure inerenti alla gestione penitenziaria già elaborate nella prima fase della pandemia da Covid19., con particolare riferimento ai detenuti anziani e malati, e a quelli che devono scontare pene minime sotto i due anni”. Poi i garanti elencano una serie di proposte rivolte ai procuratori: • ridurre l’ingresso dei nuovi giunti per la cui gestione potrebbero nuovamente essere adottati i criteri già elaborati dal Procuratore Generale della Corte di Cassazione con documento del 1° aprile 2020. • il nostro ordinamento prevede un sistema di sanzioni penali calibrato sulla gravità del fatto e la pericolosità dell’autore, pertanto il ricorso alla più afflittiva delle sanzioni penali elaborate dalla dottrina penalistica, mai come in questo momento, deve costituire l’extrema ratio manifestando, invece, una prevalente vocazione verso le misure alternative alla detenzione previste dalle leggi in vigore; • evitare che i detenuti in regime di semilibertà facciano ingresso presso gli istituti penitenziari anche solo per trascorrere le ore notturne. “Le leggi non sono delle macchine che una volta messe in moto vanno avanti da sé. Le leggi sono pezzi di carta: se le lasciamo cadere non si muovono. A volte i ritardi delle decisioni sono causa di ansia, angoscia e sofferenza fisica. Ci rimettiamo a ogni Vostra valutazione - concludono - fiduciosi in una serie di decisioni, alcune delle quali già messe in campo all’inizio della Pandemia”. Campania. Mancano strutture di accoglienza, il carcere come “albergo dei poveri” di Viviana Lanza Il Riformista, 30 ottobre 2020 Accade quando il sistema non riesce a garantire la tutela dei diritti di chi ha poco o nulla, di chi non ha una casa o non ha un lavoro. Accade quando il territorio non è capace di creare accoglienza e inclusione, la burocrazia funziona sulla carta ma non nella pratica e le carenze sono tali da annullare o ritardare la possibilità di un’alternativa. Il problema è stato ribadito nel corso dell’assemblea nazionale dei garanti che si è tenuta a Napoli, alza il velo su una criticità che pesa sulle vite di tanti reclusi e ora, in tempo di Covid e di emergenza sanitaria, sembra assumere proporzioni ancora più drammatiche. “Nei mesi del lockdown è stato difficile far uscire migliaia di potenziali beneficiari della detenzione domiciliare perché non avevano un domicilio”, hanno denunciato i garanti delle varie regioni d’Italia. Liste di attesa bloccate, carenza di strutture e di case di lavoro, numero di educatori insufficiente rispetto al numero dei reclusi da seguire e detenuti che, pur beneficiando di misure alternative alla detenzione, restano ad affollare le celle, già stracolme fino ai limiti della vivibilità, perché non hanno un domicilio, un avvocato di fiducia che possa seguire la pratica, un lavoro o i soldi per potersi permettere un tetto sulla testa che non sia quello umido del carcere. Eccola la situazione ed ecco perché il carcere finisce per diventare anche un albergo dei poveri, come se nelle celle ci fosse abbastanza spazio per continuare a ospitare anche chi ha raggiunto i requisiti per non doverci più stare dietro le sbarre. È un paradosso, ancora uno, del sistema penitenziario del nostro Paese. In Campania si contano 79 detenuti in queste condizioni. Ad agosto scorso si era conclusa la procedura per il finanziamento di centri di accoglienza per detenuti e detenute senza fissa dimora, un progetto nato dalla sinergia tra la Regione, l’assessorato alle Politiche sociali, l’Ufficio del garante regionale, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, l’Ufficio di esecuzione penale esterna e il Dipartimento giustizia minorile e di comunità della Campania. La somma di 300mila euro, concessa dalla Cassa delle ammende del Ministero di Giustizia, era stata destinata a centri di accoglienza per detenuti indigenti, detenute madri con figli e giovani adulti dai 18 ai 25 anni, senza fissa dimora, per un totale di 65 detenuti. Ma a oggi sono poco più di una decina quelli che hanno beneficiato concretamente della possibilità di essere affidati a uno di questi centri di accoglienza e sono così pochi per la difficoltà, segnalata dal garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, di avviare le pratiche per questi detenuti che non hanno nulla. “Serve coinvolgere di più gli educatori e i direttori delle strutture”, dice il garante sottolineando la necessità di tenere alta l’attenzione su questo aspetto del sistema che può e deve funzionare meglio e, indirettamente, può rappresentare una soluzione per svuotare carceri che rischiano di scoppiare con la pandemia in atto. Il progetto cui potrebbero accedere i detenuti senza fissa dimora della Campania prevede un alloggio in unità abitative indipendenti o centri di accoglienza in ambito comunitario, un sostegno per le esigenze di prima necessità, un sostegno economico e sociale, in particolare per le detenute madri con figli minorenni. Si tratta di alloggi transitori, ma pur sempre di una possibilità concreta per la tutela di diritti inalienabili e la funzione rieducativa che deve avere la pena. “Soccorrere chi abbia scontato la propria pena assegnandogli un alloggio, significa anche rispondere all’esigenza di sicurezza sempre più presente nelle nostre città - aveva spiegato il garante Ciambriello alla presentazione del progetto - Bisogna evitare che un detenuto, il cui percorso di risocializzazione non si sia ancora compiuto, rischi di ricadere in una recidiva”. Livorno. Ergastolano malato muore in carcere a 81 anni: era positivo al Covid di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 ottobre 2020 Ad aprile era stata rigettata l’istanza di detenzione domiciliare. Nella seconda ondata c’è il primo detenuto morto avente come concausa il Covid 19. È accaduto ieri nel carcere di Livorno ed era un ergastolano ultraottantenne con patologie pregresse. Durante la prima ondata, i suoi legali, l’avvocata Luisa Renzo e l’avvocato Valerio Vianello Accorretti, avevano chiesto la detenzione domiciliare per motivi di salute visto che era un soggetto ad altissimo rischio di contagio con esito infausto. Sì, perché oltre ad essere anziano, era affetto da ipertensione arteriosa, fibrillazione atriale permanente trattata farmacologicamente, calcolosi e varie cisti epatiche. A.G., queste le iniziali dell’ergastolano, apparteneva appunto alla categoria, essendo anziano e con tante patologie, più esposta a un rischio elevato perché l’eventuale infezione causa con maggiore frequenza complicanze gravi che possono condurre alla morte. Dopo un ulteriore sollecito, l’istanza era stata rigettata ad aprile. In piena emergenza. Fu però un caso fortunato che riuscì ad evitare il contagio e quindi l’inevitabile morte. Ma alla seconda ondata così non è stato. Proprio mercoledì l’avvocato del foro di Roma Vianello Accorretti era andato da lui per un colloquio, ma gli agenti gli avevano detto che era in isolamento con la febbre e che il tampone era risultato positivo al Covid. Oggi la tragica notizia della sua morte. Il cuore non ha retto. Eppure gli avvocati, nell’istanza scorsa, hanno scritto un passaggio che oggi appare purtroppo profetico: “Il perdurare dello stato detentivo espone il signor G. ad un elevatissimo rischio di contagio e quindi un serio pericolo di vita in quanto la prescrizione principe ministeriale imposta a tutta la popolazione e con particolare riferimento ai soggetti anziani e con più patologie, è quella della prevenzione mediante isolamento, misura incompatibile con la condivisione dei medesimi spazi con più persone e del sovraffollamento carcerario, come da più parti indicato”. In questo passaggio si fa anche riferimento a quella nota circolare del Dap messa all’indice prima dal l’Espresso e poi dal programma di Giletti. Oggi abbiamo l’ulteriore prova che quella circolare non solo è sacrosanta, ma da riproporla con urgenza. Soprattutto ora che il contagio ha preso il sopravvento nelle carceri, solo a Terni risultano ad oggi 68 detenuti positivi, e che il governo ha varato dei provvedimenti dove non si prende assolutamente in considerazione i vecchi e malati. Proprio quelli dove il Covid può essere letale. Terni. Covid in carcere, il focolaio in carcere si allarga: i positivi sono 60 ternitoday.it, 30 ottobre 2020 Si allarga il focolaio di Covid19 all’interno del carcere di Terni. Secondo gli ultimi dati diffusi dalla task force regionale per l’emergenza, ad oggi i positivi nella casa circondariale di vocabolo Sabbione sono 68 di cui 3 ricoverati in ospedale. Gli altri detenuti sono tutti asintomatici o con sintomi lievi. Il numero dei contagiati è probabilmente destinato a crescere in considerazione del fatto che vanno ancora verificati gli esiti dei primi 60 tamponi. La situazione del carcere di Terni è la più critica dell’Umbria e una delle più delicate in tutta Italia. I numeri degli altri penitenziari della regione sono infatti assolutamente meno drammatici. Al momento si trovano tutti in una sezione Covid appositamente allestita. Il numero di soggetti infettati dal virus potrebbe salire poiché si attende l’esito dei tamponi processati, agli agenti di polizia penitenziaria. A Spoleto i contagi riguardano 5 agenti penitenziari e 1 operatore sanitario, tutti asintomatici. Nessun detenuto è al momento risultato positivo. Per quanto riguarda il carcere perugino di Capanne, l’unico detenuto positivo è stato trasferito a Pisa. Nell’elenco dei contagi compare anche un agente penitenziario. Larino (Cb). Nel carcere 17 positivi al Covid: “necessari tamponi su tutti i detenuti” quotidianomolise.com, 30 ottobre 2020 Situazione Covid delicata a Larino dove nella giornata di ieri il bollettino diramato dall’Asrem ha evidenziato la presenza di ben 17 positivi nella Casa circondariale di contrada Monte Arcano. Nello specifico, ad essere risultati positivi al Covid sono i detenuti rinchiusi nell’ala di massima sicurezza. “Dalle prime informazioni sembrerebbe essere tutti asintomatici ed in buone condizioni - ha spiegato il segretario del sindacato Spp della Polizia Penitenziaria, Aldo Di Giacomo. Apprendiamo la notizia con preoccupazione considerato che il carcere di Larino è tra gli istituti penitenziari più affollati d’Italia. Bisognerebbe impedire i colloqui con i familiari e l’accesso di tutte quelle persone non necessarie consentendo comunque loro la possibilità di comunicare attraverso Skype; un periodo di almeno 15 giorni potrebbe essere utile ad evitare il propagarsi del virus all’interno dell’istituto penitenziario. È indispensabile, inoltre, fare i tamponi a tutta la popolazione detenuta e a tutto il personale penitenziario. Solo adottando il massimo della precauzione si potrà evitare il peggio”. Roma. “Ci sono 20 persone in carcere con problemi mentali, ma non dovrebbero essere lì” di Giacomo Andreoli Il Riformista, 30 ottobre 2020 “A Roma, tra Regina Coeli e Rebibbia, ci sono 20 detenuti con problemi mentali, per lo più giovani, che dovrebbero essere trasferiti in strutture apposite, le Rems, invece rimangono in carcere perché non ci sono posti”. L’allarme arriva da Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti della Capitale. Una situazione potenzialmente esplosiva, che vista la delicatezza dei casi in questione e le difficoltà emerse negli ultimi anni nel gestire queste persone da parte degli istituti penitenziari, può portare anche a gesti terribili. Due anni e mezzo fa Valerio Guerrieri, ragazzo borderline con vizi di mente, a soli 22 anni si è impiccato nella sua cella a Regina Coeli. Per questo ora sono a processo sette guardie penitenziarie e una psicologa per omicidio colposo, mentre la direttrice e una dirigente del Dap rischiano un procedimento con accuse che vanno dall’omissione di atti d’ufficio al reato di morte come conseguenza di un altro delitto. Non solo: con l’esplosione dei focolai di coronavirus nelle carceri, si rischiano ulteriori problemi. Dopo l’ultima decisione del Consiglio dei ministri 5mila detenuti sono stati mandati a casa con il braccialetto elettronico. Per i ragazzi con problemi mentali sarebbe una soluzione a metà: per loro servono strutture adeguate, con le stesse Rems che non sono state impeccabili negli ultimi anni, per usare un eufemismo. “Sono casi problematici - ci spiega Stramaccioni - queste persone dovrebbero essere sorvegliate in una certa maniera. Sono persone difficili da contenere, da coinvolgere nelle varie attività e la polizia penitenziaria non ha il personale necessario per badare a loro. Tutti hanno un provvedimento per essere curati e contenuti nelle Rems, non in un carcere. Chi dirige gli istituti penitenziari ha provato a parlare con le Asl per trovare un posto, lo ha fatto Silvana Sergi anche con Valerio Guerrieri, ma non c’è nulla da fare. I posti non ci sono: le liste di attesa sono lunghe e queste persone rischiano di entrare nelle Rems tra un anno. Forse troppo tardi: potrebbero peggiorare definitivamente o potrebbero non aver più bisogno di una struttura così, per vari motivi”. Fino a pochi mesi fa tra le persone in questa condizione c’era anche Giacomo Sy, ragazzo bipolare di 25 anni e nipote dell’attore Kim Rossi Stuart. Lo scorso dicembre la madre Loretta Rossi Stuart, insieme a Stramaccioni, ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo: dopo dieci mesi di detenzione ad aprile i giudici sovranazionali hanno imposto all’Italia di liberarlo dal carcere e hanno condannato il nostro Paese a pagare una multa. Adesso è stato trasferito nella Rems di Subiaco. Tra chi invece ancora aspetta c’è un giovane di 35 anni detenuto a Regina Coeli. La mamma, che vuole restare anonima, ci racconta che “il figlio sta male psicologicamente e ha avuto tante vicissitudini complesse, ha una causa civile in corso ed è stato arrestato perché ha dato dei calci ad un portone. Noi faremo ricorso alla Corte europea come ha fatto Loretta per provare a liberarlo e portarlo in una Rems o in una comunità, come consigliano gli psichiatri”. Viterbo. Ucciso in carcere, la famiglia chiede un milione e mezzo al Ministero della giustizia di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 30 ottobre 2020 I familiari di Giovanni Delfino chiedono un milione e mezzo di euro di risarcimento al ministero della giustizia. È l’altra faccia del processo per omicidio volontario sfociato nella condanna a 14 anni dell’assassino. Nel frattempo è emerso che l’omicida, condannato ieri a 14 anni di cui cinque in Rems perché seminfermo di mente, si sarebbe trovato in cella con la vittima per iniziativa di un ispettore della penitenziaria. Non c’entrerebbero, quindi, né il direttore, né il comandante. L’avvocato delle sette parti civili spiega: “C’è anche il danno catastrofale, perché la vittima era vigile in ospedale e ha capito che stava morendo”. Sono la madre 81enne, la sorella, il fratello, la moglie, il figlio e i due nipotini in tenera età della vittima, il viterbese 61enne massacrato con una decina di sgabellate alla testa la sera del 29 marzo 2019 a Mammagialla dal compagno di cella Khajan Singh. L’indiano 35enne è stato condannato ieri a 14 anni di carcere, di cui cinque in Rems, grazie allo sconto di pena dovuto al riconoscimento della seminfermità mentale da parte della corte d’assise presieduta dal giudice Gaetano Mautone. Soffrirebbe di una psicosi a sfondo sessuale. “Ce l’ho piccolo, non funziona più, non sono più maschio, non posso fare sesso, sono triste, sempre nervoso, per questo ho dato fuori di testa”, ha detto ieri rilasciando spontanee dichiarazioni. Disponendo cinque anni di ricovero presso la prima struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi dove si liberi un posto, la corte d’assise ha accolto l’appello dello psichiatra Giovanni Battista Traverso che lunedì, illustrando la sua perizia, ha detto: “L’imputato va curato”. Ai familiari, che si sono costituiti parte civile con l’avvocato Carmelo Antonio Pirroni, è stato riconosciuto il diritto a un risarcimento danni da quantificare in altra sede per la perdita del congiunto. Intanto è in piedi una causa civile per ottenere ristoro dal ministero della giustizia, cui fa capo l’amministrazione penitenziaria. La richiesta già avanzata al ministero della giustizia tiene nel frattempo conto anche della sofferenza spirituale patita da Delfino che, quando è arrivato a Belcolle, era vigile e si è quindi reso conto che stava sopraggiungendo la fine. È il cosiddetto “danno catastrofale”. “La vittima ha capito che stava morendo” - La richiesta è di un milione e mezzo di euro, comprensivi anche del cosiddetto “danno catastrofale”, che tiene conto della “sofferenza patita dalla vittima nella cosciente percezione della propria fine”. Delfino, infatti, nonostante le percosse subite, avrebbe chiaramente avvertito l’avvicinarsi della propria morte, come confermato anche dall’esame obiettivo effettuato nella cartella clinica di pronto soccorso dell’ospedale di Belcolle alla data di ingresso, dove si narra di un paziente vigile. “Tra i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima e trasmissibili agli eredi - spiega l’avvocato Pirroni - oltre al danno morale soggettivo dovuto allo stato di sofferenza spirituale patito dalla vittima nell’avvicinarsi della fine, c’è poi anche il danno biologico terminale, ovvero la lesione del bene salute come danno conseguenza, consistente nei postumi invalidanti che hamo caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del povero Giovanni Delfino, nella fase tra la lesione e la morte”. “Delfino soccorso solo dopo un paio d’ore” - “Non si può inoltre sottacere - sottolinea il legale - anche l’ulteriore negligenza dell’amministrazione penitenziaria laddove, attesa la grandissima sorveglianza cui doveva essere sottoposto Singh, a prescindere dalla collocazione, le guardie carcerarie siano intervenute presso la cella di detenzione comune solo dopo un paio di ore circa dall’aggressione, nonostante il trambusto, le urla di Singh ed i richiami degli altri detenuti di celle vicine”. “È ovvio - ribadisce Pirroni - che un controllo a vista del detenuto Singh, come quello prescritto dai rappresentanti dell’equipe multidisciplinare, avrebbe scongiurato l’aggressione ai danni di Delfino e la successiva morte dello stesso. Non si può quindi ragionevolmente affermare, nella specie, che l’amministrazione penitenziaria abbia adottato tutte le misure idonee a evitare l’evento”. “Singh in quella cella per iniziativa di un ispettore” - Come è noto, oltre a chiedere i danni al ministero della giustizia, la famiglia Delfino ha anche denunciato i vertici di Mammagialla, l’allora direttore e il comandante della polizia penitenziaria. Il fascicolo è nelle mani del pubblico ministero Franco Pacifici, che sarebbe prossimo a chiudere le indagini. Durante l’udienza di ieri del processo al killer del 61enne, nel frattempo, è trapelato qualcosa in merito a delle presunte responsabilità. “È emerso che il direttore e il comandante della polizia penitenziaria si erano adeguati alle disposizioni della commissione multidisciplinare relative alla grandissima sorveglianza in camera di pernottamento da solo di Singh. L’omicida si sarebbe trovato in cella con la vittima per iniziativa di un ispettore”, ha rivelato l’avvocato Pirroni, chiedendo durante la discussione la non imputabilità dell’assassino per totale vizio di mente. “Il carcere non è stato in grado di tutelare i detenuti” - Noti a tutti i precedenti di Singh. Il 14 febbraio 2019 è stato arrestato a Cerveteri per il tentato omicidio del coinquilino omosessuale. Due giorni dopo, nel, carcere di Civitavecchia, ha tentato di uccidere il compagno di cella, salvato da un agente prontamente intervenuto che a sua volta è stato preso per il collo. Motivo per cui è stato sottoposto a Tso, trattamento sanitario obbligatorio. Pochi giorni prima di uccidere Delfino, mentre era già stato trasferito a Mammagialla, il 35enne aveva fracassato uno sgabello perché l’addetto alle pulizie non aveva risposto a una sua chiamata. Mentre era in cella d’isolamento, sottoposto a regime di massima sorveglianza, avrebbe ripetuto episodi di insubordinazione per i quali è stato punito con il divieto di attività ricreative e sportive. “Quindi in maniera del tutto improvvisa è stato inserito nella cella di Delfino, senza che l’equipe medica venisse infornata della cosa e nonostante il diktat rigido della stessa equipe”, ribadisce l’avvocato Pirroni. “È emerso, nel caso specifico, che il carcere, quel carcere, non è stato in grado di tutelare i detenuti, né Delfino, né il suo assassino, a sua volta vittima di una gestione inaccettabile”, ha detto durante la discussione. Livorno. A Pianosa un modello innovativo di esecuzione penale di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 30 ottobre 2020 È stato firmato ieri, in modalità online, utilizzando il sistema della firma digitale, un protocollo fra il Comune di Campo nell’Elba e il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP) con cui il comune concede, in comodato d’uso gratuito, i terreni necessari all’attuazione del PON Inclusione 2014 - 2020 e, in particolare, a quella del progetto “Modelli sperimentali di intervento per il lavoro intramurario e l’inclusione attiva delle persone in esecuzione penale”, presentato dalla Regione Toscana, cofinanziato dal PON Inclusione e gestito dal Ministero della Giustizia. All’interno di queste aree si trovano alcuni fabbricati in cui si svolge l’attività trattamentale dei detenuti. Il Protocollo, firmato dal sindaco di Campo nell’Elba, Davide Montauti, e dal direttore generale del personale e delle risorse del DAP, Massimo Parisi, è stato presentato dal sottosegretario Andrea Giorgis, nella Sala Livatino di via Arenula. Alla videoconferenza hanno preso parte anche il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani, il direttore generale per il coordinamento delle politiche di coesione, Francesco Cottone, il provveditore regionale per la Toscana e l’Umbria, Gianfranco De Gesu, il direttore degli istituti penitenziari di Pianosa e Porto Azzurro, Francesco D’Anselmo, e il presidente del Parco nazionale dell’arcipelago toscano, Giampiero Sammuri. Per Giorgis “questo progetto, dedicato specificamente al trattamento dei detenuti, non potrebbe essere realizzato se venisse decontestualizzato: Pianosa è un parco che anche attraverso l’opera dei detenuti deve trovare ulteriore valorizzazione e realizzazione”. “Si tratta - ha proseguito il sottosegretario - di un importante programma di inclusione sociale che riguarda l’isola e in particolare la colonia agricola e deve segnare l’avvio della realizzazione di un importante percorso”. “Organizzando un trattamento che sia davvero capace di rieducare e restituire al detenuto una vita libera e dignitosa - ha aggiunto Giorgis - si dà piena ed effettiva attuazione all’articolo 27 della Costituzione”. Allo stesso tempo, l’investimento che si fa sul trattamento e sulla rieducazione del detenuto, ha concluso il sottosegretario “è un investimento che viene fatto per tutta la collettività: ridurre la recidiva vuol dire garantire la sicurezza dei cittadini liberi”. Verranno integrate le competenze dei detenuti attraverso percorsi di qualificazione finalizzati alla gestione della colonia agricola. È previsto dal protocollo il rilancio delle produzioni e l’avvio di attività per la trasformazione dei prodotti agro-alimentari. Questo garantirà l’efficacia del piano e l’effettivo reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Alessandria. Detenuti e falegnami, è possibile costruirsi un futuro di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 30 ottobre 2020 Detenuti e falegnami, con un negozio dove esporre i prodotti realizzati, avendo anche la possibilità di proseguire nell’attività una volta terminata la pena. Sono queste le opportunità offerte dalle strutture penitenziarie di Alessandria. Elena Lombardi Vallauri, direttrice di entrambi gli istituti, chiarisce gli aspetti dell’iniziativa: “Il primo punto da rimarcare è quello della realizzazione di una attività professionale da sfruttare anche nel futuro, oltre a un impegno proficuo del tempo durante la permanenza negli istituti”. “La falegnameria - continua la direttrice - nasce negli anni addietro, da una idea dell’associazione ISES ed è poi cresciuta nel tempo. Vi possono lavorare sia coloro che si trovano nella sezione circondariale, ubicata in centro città, sia chi sconta la pena nella sezione reclusione San Michele. Parallelamente, è stato realizzato un negozio sociale, in ambienti che fanno parte della struttura di reclusione. Al suo interno viene promossa l’attività di artigianato del legno ma anche prodotti degli altri istituti penitenziari italiani, favorendo anche il collegamento fra istituti di pena e produttori della zona e la creazione di nuovi elaborati che impiegano la materia prima trattata dai detenuti”. Al di fuori delle mura del carcere è prevista la possibilità di proseguire l’attività, perché “è stata inaugurata una falegnameria esterna - precisa Lombardi Vallauri - che possa aiutare i detenuti che hanno finito di scontare la pena di proseguire l’attività”. Il progetto ha interessato anche celebrità: “Va menzionato l’impegno degli attori di Casa Surace - conclude la direttrice - che hanno sposato la causa e incentivato la produzione di ben 500 mattarelli e 500 spianatoie in legno”. Milano. Programma 2121, quando l’inclusione sociale dei detenuti passa dalle multinazionali vita.it, 30 ottobre 2020 È un’iniziativa pubblico-privata promossa dal Ministero della Giustizia italiano e da Lendlease, operatore globale del real estate, con lo scopo di favorire il reintegro dei detenuti nella società. L’intenzione è stata di valorizzare la presenza del Carcere di Bollate nelle immediate vicinanze del sito Mind Milano Innovation District, il progetto di riqualificazione dell’area che nel 2015 ha ospitato l’Expo. Programma 2121 è un’iniziativa pubblico-privata promossa dal Ministero della Giustizia italiano e da Lendlease, operatore globale del real estate, con lo scopo di favorire il reintegro dei detenuti nella società. I positivi risultati dell’esperienza sono stati evidenziati dal policy paper di Filippo Giordano, Professore Associato di Economia Aziendale presso l’Università Lumsa di Roma e docente di Business Ethics e Responsabilità Sociale presso l’Università Bocconi che sarà presentato domani nella tavola rotonda digitale con relatori nazionali e internazionali. La tavola rotonda sarà introdotta da Bernardo Petralia, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - Ministero della Giustizia; Giovanna Di Rosa, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano - Ministero della Giustizia; Margaret Twomey, Ambasciatore d’Australia in Italia, Andrea Ruckstuhl, Head of Continental Europe, Lendlease. Interverranno tra i relatori Anna Eriksson, Professore di criminologia Monash University; Flavio Mirella, Chief Co-financing and Partnership Section - Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il delitto (Unodc); Paul King, Managing Director Sustainability & Social Impact - Lendlease Europe; Vincenzo Lo Cascio, Responsabile Ufficio Centrale Lavoro detenuti Ministero della Giustizia; Anna Chiara Giorio, Ricercatrice Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro (Anpal); Filippo Addarii, co-Founder & CEO PlusValue. Il nome del Programma 2121 deriva dall’articolo dell’ordinamento penitenziario che abilita i detenuti al lavoro extra moenia (art. 21) unito al framework temporale della durata di 3 anni (2018-2021), da cui “Programma 2121”. Il programma prende le mosse nel 2018 dall’intenzione di valorizzare la presenza del Carcere di Bollate nelle immediate vicinanze del sito Mind Milano Innovation District, il progetto di riqualificazione dell’area che nel 2015 ha ospitato l’Expo universale e gestito dalla società Arexpo. All’interno del masterplan del sito Mind, a sua volta oggetto di un’iniziativa pubblico-privata del valore complessivo di circa 4 miliardi di euro con lo scopo di realizzare un nuovo distretto scientifico e tecnologico sulle scienze della vita, il consorzio guidato da Lendlease ha scelto di promuovere un progetto ad impatto sociale in seguito evoluto in Programma 2121. Così facendo il programma ha di fatto trasformato quello che normalmente sarebbe considerato un punto di debolezza del mercato real estate - la prossimità di un carcere - in un punto di forza caratterizzante. La duplice motivazione di contribuire da una parte al miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti e delle loro famiglie, e dall’altra di formare competenze tecniche per risorse umane nel settore delle costruzioni ha rappresentato il punto di partenza del progetto. Programma 2121 si è qualificato sin dall’inizio come tentativo di sperimentare l’inserimento lavorativo nel settore delle costruzioni (settore privato) che offre molte opportunità di impiego ai carcerati - tanto in termini di numeri quanto per le caratteristiche delle mansioni richieste - con un nuovo modello di partnership che coinvolgesse un’ampia platea di attori pubblici ed aziende. I fattori principali di successo di Programma 2121, individuati dal policy paper di Giordano, sono rappresentati dalla partnership collaborativa multi-attore innanzi tutto per la presenza di Lendlease, realtà multinazionale globale in grado di portare il raccordo con il mondo del lavoro esterno che rappresenta un fattore fondamentale per le esperienze di reintegro lavorativo. Programma 2121 si distingue quindi per unire realtà tra loro istituzionalmente e strutturalmente differenti - dalle istituzioni e società pubbliche, Ministero di Giustizia, Dap, Prap, Anpa, Regione Lombardia, Arexpo, Città Metropolitana di Milano, ai privati Lendlease, PlusValue Advisory Ltd, Milano Santa Giulia SpA, Fondazione Fits! e Fondazione Triulza - nel perseguimento di un obiettivo comune per il bene della società, e per il suo approccio, basato sul tirocinio di reinserimento finalizzato all’inclusione sociale, in grado di unire formazione ed esperienza lavorativa in vista di un effettivo e sostenibile reinserimento nel mondo del lavoro. Il Programma 2121 si propone anche di creare un meccanismo di leva di risparmio governativo generato dall’applicazione del progetto stesso, che riconosca l’iniziativa privata a beneficio del pubblico. Ciò contribuisce a garantire la sostenibilità economico-finanziaria del progetto, la quale rappresenta uno dei tre elementi in grado di garantire la sostenibilità di un programma trattamentale, assieme alla gestione del partenariato e alla corretta progettazione dell’intervento”. Andrea Ruckstuhl, head of Italy and Continental Europe di Lendlease spiega che “siamo è un gruppo globale fortemente impegnato nel raggiungere gli obiettivi dell’agenda globale per il 2030 e ha già portato avanti a livello internazionale iniziative simili di inclusione sociale con successo. Programma 2121 nasce come progetto pilota con l’obiettivo di creare una progettualità condivisa per lo sviluppo di Mind Milano Innovation District che coinvolgesse anche il carcere di Bollate. Da questo presupposto abbiamo iniziato a lavorare ad un modello che potesse essere scalabile sul mercato, e abbiamo voluto inserire una clausola di inclusione sociale nei contratti con la filiera degli appalti. Il modello di Programma 2121 si inserisce nella strategia globale di Lendlease di creare 250 milioni di valore sociale entro il 2025”. Secondo il manager “i risultati estremamente positivi di Programma 2121 potrebbero essere garantiti su una scala più ampia consentendo ai sistemi carcerari di diventare veicoli più efficaci per la prevenzione della criminalità dando a queste iniziative maggiore priorità e più ampia diffusione, con un incremento nell’ investimento di tempo e di risorse a esse dedicate in una pianificazione di medio termine. Va ricordato che la società nel suo complesso, beneficia del lavoro penitenziario grazie agli effetti dei programmi lavorativi sul reinserimento dei detenuti e sulla diminuzione del tasso di recidiva”. L’ideale riabilitativo è affermato dalla nostra stessa Costituzione, all’art. 27: “[...] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le Nazioni Unite, tra le Regole Mandela, ovvero i criteri minimi per il trattamento dei detenuti, affermano che gli obiettivi della reclusione o di altre misure che privano la persona della propria libertà sono principalmente la protezione della società dalla criminalità e la riduzione della recidiva. E ciò può essere raggiunto solo se il periodo di reclusione è utilizzato per assicurare la reintegrazione degli ex detenuti in società successivamente al rilascio, in modo tale che possano condurre una vita autosufficiente e nel rispetto della legge (Unodc, 2018). Molteplici ricerche evidenziano, infatti, che il tradizionale modello di carcerazione, caratterizzato da supervisione e sanzioni, comporta modeste riduzioni della recidiva e, in alcuni casi, ha l’effetto contrario, laddove invece gli effetti medi sui tassi di recidiva riportati negli studi che valutano le attività trattamentali sono positivi e relativamente ampi. Non c’è dubbio che per l’ordinamento italiano e per le principali Istituzioni internazionali (UE e ONU) la riabilitazione dei detenuti e il loro eventuale reinserimento nella società debbano costituire un fondamentale obiettivo dei sistemi penali. Tuttavia, l’orientamento principale della criminologia si è per lungo tempo rivolto verso la pena detentiva, e nella maggior parte dei Paesi il numero di reclusi è aumentato negli ultimi 20 anni, imponendo un enorme onere finanziario ai governi e un grande costo per la coesione sociale. Per quanto riguarda l’Italia, secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) il numero dei detenuti nelle carceri italiane è in continua crescita: al 31 dicembre 2019 nei penitenziari di tutto il paese risultano 60.769 detenuti, mentre al 31 dicembre del 2018 erano 59.655. Solo negli Stati Uniti, ad esempio, ci sono ad oggi 2,2 milioni di persone detenute, con un aumento del 500% negli ultimi 40 anni, spiegato per la maggior parte da cambiamenti nelle leggi e nelle politiche, non nei tassi di criminalità. Ciò ha portato a un sovraffollamento delle carceri e a un aumento degli oneri fiscali per gli stati, nonostante crescenti evidenze che l’incarcerazione su larga scala non sia un mezzo efficace per raggiungere la sicurezza pubblica. La molteplicità di studi condotti documentano che questa “corsa all’incarcerazione”, mentre ha incrementato considerevolmente il costo sostenuto dalle amministrazioni penitenziarie per ciascun detenuto, non abbia prodotto effetti significativi sulla riduzione o contenimento del crimine e della recidiva. Il Consiglio d’Europa ha inserito riferimenti a questo nuovo modo di pensare il carcere già nelle European Prison Rules del 2006, affermando l’importanza di una concezione del carcere fondata sull’engagement dei detenuti, da declinarsi attraverso alcuni filoni: quello del trattamento, attraverso attività di vario genere la cui adesione da parte dei detenuti è sempre volontaria, e quello della partecipazione dei reclusi alla vita dell’istituto. Le persone che entrano in contatto con il sistema di giustizia penale provengono infatti, spesso, da contesti poveri ed emarginati, e lo stigma sociale della criminalizzazione crea spesso un ciclo intergenerazionale di privazione da cui le persone non riescono a uscire. La possibilità di apprendere ed esercitare una professione, offerta ai detenuti da progetti come il Programma 2121, permette potenzialmente di rompere questa catena di povertà e marginalizzazione, contribuendo all’Obiettivo di povertà zero espresso dagli Sdgs. La mancanza di opportunità di istruzione e formazione, che causa disoccupazione e povertà, costituisce spesso un fattore di reato. Lo sviluppo dell’autostima e la possibilità di guadagnarsi da vivere dopo il rilascio sono requisiti essenziali per una riabilitazione di successo. L’accesso all’istruzione, al lavoro e alla formazione mentre si è in carcere - o mentre si scontano sanzioni non detentive - contribuisce non solo all’Obiettivo 1 (Povertà Zero) ma anche all’Obiettivo 4 degli Sdgs, ovvero fornire istruzione di qualità e opportunità di apprendimento per tutti, e all’Obiettivo 8, ossia la promozione di una crescita economica inclusiva caratterizzata da piena e produttiva occupazione e da un lavoro dignitoso per tutti. Fornire opportunità di lavoro e formazione ai detenuti è infatti importante per combattere, attraverso attività significative, l’ozio forzato e il senso di apatia e noia tipicamente indotti dalla condizione detentiva, e migliorare al contempo le loro prospettive di lavoro post rilascio, spesso purtroppo scarse. Tuttavia, nonostante il lavoro penitenziario sia riconosciuto quale leva strategica per l’inclusione sociale, al 31 dicembre 2019 su un totale di 60.769 detenuti presenti nelle carceri italiane soltanto il 30% circa era impiegato in attività lavorative, e di questi solo il 13%, 2381 detenuti, per datori terzi rispetto all’amministrazione penitenziaria (Fonte: Ministero della Giustizia). L’obiettivo di riabilitazione è estremamente complesso, a causa di molteplici fattori (di contesto, legati alla persona, relativi all’esperienza detentiva). In primis, la riabilitazione dei detenuti e il reinserimento coinvolgono diverse aree di intervento: devono infatti essere affrontate problematiche di diverso genere, di carattere educativo, psicologico e sanitario. Il reinserimento, d’altro canto, richiede la rimozione di ostacoli di carattere sociale ed economico, spesso legati al contesto familiare delle persone detenute, ma anche al contesto sociale in cui avviene il reinserimento e queste problematiche vanno affrontate in una prospettiva di lungo periodo. I comportamenti recidivanti, infatti, si manifestano maggiormente nel lungo periodo, e non nei primi mesi successivi al rilascio. Nella configurazione di un programma di reinserimento, è necessario tenere in considerazione almeno tre elementi, che contribuiscono alla complessità nel progettare interventi in grado di dare una risposta efficace al tema della rieducazione e del reinserimento: la molteplicità di problematiche da affrontare, che richiedono un impegno a 360 gradi sulle necessità post rilascio delle persone detenute; l’esigenza di una progettazione non solo ex ante, ma anche in itinere, in grado di portare a un reinserimento stabile di lungo periodo e di adattarsi alle mutate condizioni ed esigenze del panorama detentivo; la complessità della gestione dei partenariati, che necessita di un presidio costante perché la collaborazione possa portare al massimo livello di sinergie e creazione di valore. I soggetti firmatari del protocollo di intesa che ha dato origine a Programma 2121, testimoniano il grande interesse manifestato dalle istituzioni pubbliche verso un’iniziativa fortemente supportata dal settore privato, con l’obiettivo di raggiungere una scala di impatto superiore in termini sia di numeri di beneficiari coinvolti, sia di settori industriali interessati, sia di valore generato. La forte partecipazione pubblica testimonia la determinazione delle istituzioni di allargare il modello dal carcere di Bollate, dove è stato concepito, a tutto il sistema carcerario lombardo, in vista di un’ulteriore estensione all’intero sistema carcerario nazionale sotto il coordinamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria anche grazie alla creazione di un nuovo ufficio dedicato all’inserimento lavorativo. Pesaro. Cani in carcere, il loro affetto per le detenute di Solidea Vitali Il Resto del Carlino, 30 ottobre 2020 Progetto di pet therapy al via, a Villa Fastiggi, con un labrador e un lapinkoira. L’istruttrice: “Aiutano a liberarsi dai pregiudizi”. Pet therapy in carcere. Valentina, Antonella, Sara, Irene, Serena, Costanza... in totale saranno dieci le prime detenute nel carcere di Villa Fastiggi a poter entrare in contatto con Lirya, un labrador retriever di sei anni e con Wonder, un esemplare di lapinkoira, meglio noto come il cane di Babbo Natale perché in Lapponia è impiegato nella guardia e nella conduzione delle renne. Proprio quest’aspetto ha colpito l’interesse delle giovani donne, età media trent’anni. “Un cane così vaporoso, gentile ed esile è un cane da guardia?” È stato il pensiero di tutte ad alta voce. “Già, mai giudicare un libro dalla copertina” osservano Stefano Cucchiari e Stefania Grilli di Abc dog training, istruttori cinofili incaricati dalla Cooperativa Lesignola di Reggio Emilia di tenere gli 8 incontri di pet therapy, prima esperienza del genere in provincia e tra le poche in Italia. “Rebibbia, Pisa, Ancona e sistematicamente da anni a Bollate - spiega Grilli - sono le carceri che nel nostro Paese hanno adottato questa metodologia. L’obiettivo sarà proprio lavorare sui pregiudizi. “Interagire con Wonder e Liria - continua Grilli - mette le persone davanti al fatto oggettivo che non saranno giudicate. Le emozioni che il rapporto con un animale promuove saranno quindi epurate di ogni filtro sociale o culturale. È questa la prima condizione necessaria per liberare le stesse detenute dal pregiudizio che loro hanno su di sé”. Rompere il cosiddetto tetto di vetro. L’auspicio della pet therapy è che “non serva a dare giustificazioni a quanto compiuto - osserva la direttrice del carcere Armanda Rossi - ma di isolare quel momento storico accaduto nella loro vita, individuare le risorse interiori per cambiare”. Ma come riusciranno nell’intento i nostri eroi? “Le emozioni hanno degli odori - spiega Cucchiari. Gli animali avvertono gli stati d’animo di chi li avvicina”. È per definizione un confronto franco. “Non si fugge - sorride Grilli - è un’affettività sincera e gratuita quella che si instaura ed è per questo che è molto efficace”. Ieri il primo incontro. “Non impegneremo solo i cani, ma anche altri animali - aggiunge Grilli - come conigli e gatti”. Che differenza di interazione c’è? “Molta. Gatto e coniglio si avvicinano solo se sono a loro agio, quando cioé chi hanno davanti è nelle condizioni di poterli accogliere. Tippete, il coniglio, da preda impiega molto prima di fidarsi. Più espansivi sono i cani, invece”. E si è visto. “Ma bisogna conoscere il loro linguaggio e non sbagliare le interpretazioni: gli animali invece tendiamo ad umanizzarli” osservano gli istruttori cinofili. Quando Wonder ha leccato il viso di una detenuta non era un “bacio”, ma un modo per tranquillizzare quella persona sconosciuta e disorientata davanti a lei. Un modo per dirle: “vengo in pace” avendone sentito il groviglio interiore. Il direttore di San Vittore: “Il carcere utile è quello che aiuta le persone a crescere” di Laura Pasotti redattoresociale.it, 30 ottobre 2020 Dopo 27 anni nell’amministrazione penitenziaria, Giacinto Siciliano si racconta in “Di cuore e di coraggio” (Rizzoli), un libro che ripercorre la sua carriera dal carcere di Busto Arsizio a San Vittore, passando per Monza, Trani, Sulmona e Milano Opera. Osare. Mettersi in discussione. Non nascondersi dietro le norme che ti dicono cosa fare e cosa non fare. Avere il coraggio di investire sulle persone, sapendo che il risultato può essere positivo o un fallimento. È in questo modo che, dal 1993, Giacinto Siciliano fa il suo lavoro. Un lavoro che prima di lui aveva fatto il padre, Vito, direttore di carcere a Bari, Lecce, Milano e Napoli. Un lavoro che lui era convinto di non voler fare: “Invece, andò diversamente. Forse perché questo lavoro lo avevo nel sangue e anche perché il destino s’impicciò per rimettermi sulla strada che era stata di nonno Giacinto (comandante degli agenti di custodia già ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, ndr) e di papà”, scrive Siciliano nel libro “Di cuore e di coraggio” (Rizzoli). Entrato nell’amministrazione penitenziaria come vicedirettore del carcere di Monza, Siciliano è poi diventato direttore a Busto Arsizio, Trani, Sulmona e Milano Opera, dove è rimasto 10 anni. Dal 2017 dirige San Vittore, lo storico carcere in centro a Milano. A Opera, il carcere di massima sicurezza con un reparto dedicato al regime del 41bis, Siciliano ha portato un “Rinascimento”, come è stato definito, trasformandolo in “una comunità dove c’erano regole da rispettare e da far rispettare”. Oggi a San Vittore, casa circondariale in cui i detenuti sono in gran parte condannati per reati di lieve entità e restano per periodi brevi, sta sperimentando percorsi di responsabilità sui temi della bellezza, della cultura e dell’ordine. Cosa vuol dire avere cuore e coraggio nel fare questo mestiere? Come tutti i lavori anche questo lo si può fare in modo formale, senza rischiare nulla, oppure ci si può mettere in discussione, avere il coraggio di provare a fare cose diverse. Il cuore è la passione che metti nel tuo lavoro ma anche il tentativo di vedere se la persona che hai davanti, che sia collega o detenuto, ha qualcosa di positivo su cui lavorare per valorizzarla. Il cuore serve per agganciare le persone, gestirle e instaurare relazioni che, nel rispetto dei ruoli e della separazione, possono fare la differenza e portarle ad affidarsi a te o a quello che rappresenti. Com’è cambiato il carcere in Italia da quando lei ha iniziato a fare questo lavoro? Si è evoluto e, nel tempo, ha visto ridurre alcune conflittualità. In linea con le disposizioni dell’ordinamento, si è scelto di investire sulle possibilità di cambiamento delle persone, di valorizzare lo spazio e il tempo in carcere, coinvolgendo i detenuti in attività che possano dare loro stimoli su cui lavorare. Una persona chiusa in cella dalla mattina alla sera ha tempo per riflettere, ma se nessuno ci lavora quella riflessione sarà fine a se stessa. Fare attività o progetti non significa non riflettere, anzi un po’ tutte le attività di cui parlo nel libro hanno la finalità di costituire elementi di confronto e riflessione mai banali, mai di intrattenimento, ma di stimolo per le persone a confrontarsi tra loro e con gli operatori. Quando si parla di carcere in tanti invocano un senso di giustizia legato a pene severe, lunghe, parlano di sicurezza, di rinchiudere le persone e buttare via la chiave. Come si può far comprendere l’importanza dei percorsi di cambiamento dei detenuti, anche per la sicurezza della società? Il punto di partenza è che al reato si deve rispondere. E la risposta deve essere significativa e adeguata a ciò che la persona ha fatto. Il lavoro parte da lì, da cosa ha fatto, dal perché, dalle conseguenze, dal fatto che si renda conto di quali siano queste conseguenze e da cosa si può fare per riparare il danno. E cosa fare? Se tengo una persona in carcere senza lavorarci, quella non cambierà, anzi potrebbe incattivirsi. In questo modo non solo non lavoro per ridurre il rischio di recidiva ma forse lo sto peggiorando. Se in carcere si lavora bene, qualche possibilità che le persone non commettano altri reati c’è e attraverso le testimonianze di operatori, detenuti e anche vittime lo si può far capire alle persone. Bisogna provare a investire su questo, altrimenti la recidiva è automatica: primo perché se la persona non cambia, una volta fuori avrà più difficoltà di quante ne aveva prima e continuerà a sbagliare e poi, perché il reato non è un problema del carcere. Il reato sta prima del carcere e noi assegniamo a questo la pretesa che risolva le problematiche di un contesto sociale, familiare, economico che, in qualche modo, non ha funzionato. Però per quanto il carcere possa fare un ottimo lavoro, quando quella persona esce e torna nel suo contesto se non si è costruito altro, è inevitabile la recidiva. Nel libro ha scritto che nel suo lavoro deve andare oltre l’apparenza e vedere il buono in ogni persona. Come si può lavorare con detenuti che hanno commesso crimini gravi, dare una seconda possibilità anche ai più pericolosi? Il nostro obiettivo è tendere alla rieducazione, una parola difficile che può significare tutto e niente. Non sto dicendo che il carcere migliora tutti, cambia tutti e fa i miracoli. La questione di fondo è lavorare con le persone, e non sto parlando del 41bis che è un mondo a parte in cui non ci sono attività. Però a un certo punto le cose possono cambiare, si possono ammorbidire, le persone escono da determinati regimi, il tempo passa, si può lavorare. E si lavora non per dare benefici, se questi ci saranno sarà perché la norma lo prevede, perché le équipe interne e la Magistratura hanno fatto una valutazione. Il concetto è che non bisogna precludersi la possibilità che una persona possa cambiare, se si spera che questa cambi. Nel libro faccio qualche esempio positivo, ma ce ne sono tanti con cui non siamo riusciti a fare nulla, il carcere non è un mondo dove le cose funzionano sempre. A Opera, ha cambiato il modo di concepire il carcere, come ci è riuscito? Avevamo un’indicazione in tal senso, un dato non da poco. E poi lavorando, tutti insieme. Il modo di intendere il carcere è un problema di cultura, di cultura del posto, di cultura delle persone che lo rappresentano e di quelle che lo vivono, per cui abbiamo lavorato con operatori, collaboratori, detenuti, sulla responsabilità e sul provare a vivere in modo diverso gli spazi, nel rispetto di regole precise. L’obiettivo, nel libro ne parlo, non deve essere far rispettare le regole perché è un obbligo ma fare in modo che la persona scelga il rispetto delle regole perché capisce che può avere una restituzione in termini positivi di qualità della vita, dignità, orgoglio; perché capisce che se decide di rispettarle, la vita è diversa. È questa scelta a rendere la persona autonoma. L’obiettivo è lavorare perché, una volta fuori dal carcere, quella persona non abbia più bisogno di qualcuno che gli dice cosa fare e cosa non fare, perché ha capito quali sono le regole della convivenza e del rispetto degli altri. È questo che intende quando parla di carcere utile? Il carcere utile è quello che aiuta le persone a crescere, svilupparsi, a fare scelte positive. Se questo non succede, il carcere è sempre carcere e avrà avuto l’utilità di tenere le persone dentro e non fuori, ma non è servito a prevenire la recidiva di quelle persone rispetto al futuro. Tolti i pochi ergastolani realmente ostativi e al di là di quelle che sono le decisioni della Corte Costituzionale, la maggior parte dei detenuti a un certo punto esce. Il senso è: o si utilizza il tempo e il luogo del carcere come un posto di cambiamento oppure è inutile, è solo un parcheggio temporaneo da cui la persona uscirà più arrabbiata di prima e potrà dire che è colpa degli altri se fa quello che fa, mentre è una sua scelta, legata al contesto. A Opera ha organizzato gli Stati generali sul carcere coinvolgendo operatori, detenuti e risorse del territorio. Tra i temi discussi c’era anche l’ergastolo ostativo. Con le sentenze della Corte europea e della Corte costituzionale del 2019, qualcosa è cambiato. Cosa ne pensa? Si è affermato un principio, quello secondo cui la pena, per avere un senso, deve avere una speranza, una possibilità di uscita, come prevede la Costituzione. La concreta attuazione della sentenza della Corte costituzionale è cosa diversa, complicata. Ma non dice fuori tutti come qualcuno ha sostenuto, dice una cosa diversa. Il concetto è sempre quello: se vuoi provare a fare un tentativo di cambiamento, devi fare in modo che il cambiamento sia riconosciuto. Ma riconoscere il cambiamento vuol dire assumersi delle responsabilità. E questo richiede coraggio, il coraggio di dire no o di dire sì per ciò che è in nostro potere, perché ricordiamoci che noi diamo un parere, la decisione spetta sempre alla Magistratura. Nel libro si parla anche di suicidi in carcere. Crede che si faccia abbastanza per prevenirli? Direi di sì. Si sta facendo un lavoro importante, un po’ dappertutto. Poi è vero che il carcere non è il posto migliore da questo punto di vista e anche se noi lavoriamo tanto, gli spazi sono quelli che sono, mentre lavorare con persone in stato di depressione o con gravi situazioni che possono portare a gesti particolari, richiede luoghi diversi e altre professionalità. In carcere si lavora tanto e forse siamo anche diventati bravini, ma fare questo tipo di prevenzione non è il nostro mestiere. È difficile fuori, a maggior ragione lo è in un contesto dove il rischio è di trasformare la prevenzione in un rigore finalizzato a che non succeda il fatto. Con il risultato che, per evitare che la persona faccia qualcosa si incrementa la sicurezza ma non la si aiuta e forse si finisce per creare situazioni peggiori, perché più il controllo è opprimente più si va in direzione opposta al superamento del problema. Questo vale anche per gli operatori. Il carcere è un posto dove non è facile vivere e lavorare, dove il contesto in cui ti trovi a operare porta sempre fuori problemi. Dietro al suicidio nel 99% dei casi c’è qualcosa che non riguarda il carcere o quello che vi succede, però sicuramente quel contesto non aiuta. Non aiuta noi e non aiuta i detenuti. Dei relitti e delle pene nelle carceri di oggi di Michele Partipilo Gazzetta del Mezzogiorno, 30 ottobre 2020 Il saggio di Stefano Natoli: emergenza dietro le sbarre. Dopo quello che ha fatto, sbattetelo in galera e lasciatelo a marcire”. È una frase che capita di ascoltare dopo ogni efferato delitto, dopo ogni bambino ucciso, dopo ogni stupro. È la reazione spontanea e viscerale per chiedere giustizia. Una giustizia sommaria e crudele come la lama di una spada, tanto i cattivi sono sempre dall’altra parte. Il progresso di una società è segnato innanzitutto dalla sua civiltà giuridica. Una pietra miliare per il nostro Paese è rappresentata dalla pubblicazione nel 1764 di un saggio intitolato Dei delitti e delle pene del giurista e filosofo milanese Cesare Beccaria. Un testo controcorrente per l’epoca, dove il sistema giudiziario aveva carattere fortemente repressivo con misure ferocemente afflittive. Oggi un altro milanese, questa volta un giornalista, prende spunto dal titolo dell’opera di Beccaria e grazie a uno strategico cambio di consonante affronta il capitolo lasciato aperto dal grande giurista, ovvero quella della detenzione. Si intitola “Dei relitti e delle pene” il bel volume di Stefano Natoli (Rubbettino, 182 pagine, euro 15,00) in cui partendo da una fotografia quanto mai dettagliata e completa della situazione carceraria si affronta uno dei problemi più scottanti delle società contemporanee e in particolare di quella italiana. Chi pensa di trovarvi inni al buonismo si sbaglia. Se l’autore avesse voluto, avrebbe potuto raccontare decine di storie strappalacrime grazie al volontariato svolto nella casa di reclusione di Milano-Opera. In realtà prevale lo stile asciutto ed essenziale del cronista con una vita trascorsa al Sole 24 Ore. Con un ritmo incalzante snocciola, cifre, fatti, leggi. A cominciare dal numero abnorme di detenuti: oltre 61mila secondo i dati di febbraio scorso, ammassati in carceri che ne potrebbero contenere al massimo 45mila. Una buona parte sono reclusi in attesa di giudizio o con piccole condanne da scontare. Ma una volta dietro le sbarre le distinzioni cadono e si ritrovano tutti nelle stesse condizioni. “Oggi bisogna fare un passo avanti e chiedersi finalmente se la galera sia, sempre e comunque. la risposta giusta per punire chi sbaglia o se invece debba essere considerata una extrema ratio, ovvero una soluzione per i criminali più pericolosi”. La critica di Natoli è anche la sistema giudiziario che, nonostante alcuni interventi, è carcero-centrico come concezione ed assai lento nei suoi meccanismi. Eppure lo Stato spende parecchio per i detenuti: ciascuno costa “134,50 euro al giorno. Un importo che, moltiplicato per l’intera popolazione carceraria, supera gli otto milioni di euro”. Il che porta a una spesa annua di oltre tre miliardi a fronte degli 8,7 spesi per l’intera amministrazione della giustizia. Ci sarebbe un modo per risparmiare soldi e avere condizioni di vita più civili nelle celle: non con i provvedimenti svuota-carcere, più volte adottati dal legislatore, ma con effetti molto limitati nel tempo. Si tratta invece di migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e ampliare l’applicabilità delle misure alternative alla detenzione, come la detenzione domiciliare o l’affidamento ai servizi sociali. Tutti sistemi indigesti al giustizialismo imperante. Ma non è solo una questione di soldi. Per Natoli nella condizione di oggi viene meno quel principio rieducativo cui ogni pena deve tendere secondo quanto previsto dalla Costituzione. “Il carcere - scrive - è un sistema che “deresponsabilizza” chi ci finisce dentro. Nel corso del tempo, infatti, le persone recluse fanno registrare una “erosione della loro individualità” determinata dall’adattamento alla comunità carceraria che tende, appunto, a livellare gli individui, a spersonalizzarli, a “infantilizzarli”. Natoli rivolge un’attenzione specifica alla pena più grave: l’ergastolo. Già nel 2013 l’Italia è stata invitata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a rivedere questa condanna - in particolare il cosiddetto “ergastolo ostativo”, cioè la sua forma più afffittiva - che appare in palese contraddizione con il principio rieducativo. In altri Paesi sono stati escogitati meccanismi tali per evitare che sia una “pena più crudele della pena di morte”. E in questo caso il riferimento di Natoli è ad Aldo Moro. “Priva com’è di qualsiasi speranza - scriveva il presidente del Consiglio ucciso dalle Br - di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, la pena perpetua appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Natoli non manca di analizzare le spinte che portano a un giustizialismo oggi sempre più evidente. Parla infatti di una montante “cultura del controllo” che non tollera accattoni e vagabondi e che chiede poliziotti e telecamere ovunque. “Ancor più nei periodi di insicurezza economica e sociale - rileva l’autore - il crimine diviene un evento dalla valenza simbolica: come se perseguirlo con ogni mezzo allontani lo spettro di un futuro incerto”. In questi giorni tremendi di Covid l’affermazione si presenta come la chiave per comprendere anche scenari più vasti e complessi. Il volume si conclude con una sorta di decalogo di buoni principi che però hanno in sé anche le indicazioni per evitare che i detenuti diventino o siano considerati “relitti”. Basterebbe che i nostri politici leggessero quello per capire che fare. “Serve un altro ingrediente”, il lockdown si avvicina di Andrea Capocci Il Manifesto, 30 ottobre 2020 Il Dpcm non basta. La curva epidemiologica non si abbassa, Lombardia in testa. Per Arcuri ci vuole una stretta: spostarsi “il meno possibile”, ma difende l’apertura della scuola. Nonostante tre Dpcm in poche settimane, la curva epidemica non si abbassa. I positivi in 24 ore sono stati 26.829, circa duemila più di ieri. I decessi sono stati 217 e il totale ha superato le 38 mila unità. In terapia intensiva ci sono 115 pazienti in più e ora sono 1.651. Per la prima volta, il numero di test eseguiti supera quota 200 mila. Sale al 22,5% la percentuale di tamponi positivi sui nuovi casi testati: quasi uno su quattro. La Lombardia con oltre settemila casi è sempre la regione con più casi. A Milano si registrano oltre duemila chiamate al 118 in 24 ore. In sette ospedali del milanese si registrano “situazioni critiche di iper-afflusso”. In proporzione alla popolazione, la situazione della Campania è simile: più di tremila casi nella regione, tasso di test positivi identico nelle due regioni e vicinissimo al 30%. Tra le regioni più grandi, solo il Lazio mantiene il rapporto tra positivi e test sotto il 10%. Secondo l’assessore regionale D’Amato il 62% dei casi viene trovato attraverso lo screening, “il doppio rispetto alla media nazionale”. Ma questo non impedisce al Lazio di essere la seconda regione dopo la Lombardia per pazienti ricoverati in terapia intensiva. L’ipotesi di un nuovo lockdown, magari più morbido rispetto a marzo, è sempre più concreta. Qualcuno inizia a fare i calcoli su quanto dovrebbe durare. Secondo la fondazione Gimbe, chiudendo i luoghi di lavoro e limitando la mobilità per un mese l’indice Rt scenderebbe del 42%, tornando al di sotto della soglia di sicurezza fissata a 1 dall’attuale 1,5. Chiudendo anche le scuole e vietando di uscire di casa, lo stesso risultato sarebbe raggiunto in due settimane e dopo un mese l’indice Rt sarebbe dimezzato. “Peraltro - spiega il presidente della fondazione Cartabellotta - l’indice Rt oggi sottostima ampiamente la velocità di diffusione del virus. L’indice “si basa su dati relativi a due settimane prima e pubblicati dopo circa 10 giorni. In altri termini, le decisioni vengono prese sulla base di un Rt che riflette contagi di circa un mese fa”. Respinge le accuse di ritardi il commissario straordinario Domenico Arcuri. Rispetto a marzo la situazione è migliore, “oggi noi rincorriamo il virus, lo intercettiamo e riusciamo a ridurne i danni”, sostiene incontrando i giornalisti. E annuncia che “i posti letto in terapia intensiva già attivati o attivabili in pochi giorni sono 10.337”, cioè il doppio rispetto al periodo pre-Covid. Poi ripete una delle bufale cara ai negazionisti: “L’80% dei contagiati è asintomatico”, una percentuale che secondo i dati Iss si aggira intorno al 50% e per l’indagine sierologica Istat non superava il 30%. Ma è lo stesso Arcuri a lasciar trapelare che il Dpcm del 24 ottobre non è ritenuto sufficiente nemmeno al governo. “Io credo che serva qualche nuovo ingrediente”, dice. “Serve un sacrificio ulteriore, dobbiamo tutti muoverci il meno possibile. L’80% dei contagi avviene in famiglia ma qualcuno nelle case il virus ce lo porta”. Se non è l’annuncio di un nuovo lockdown poco ci manca. Rimane uno spiraglio per la scuola: “Al momento non risulta che faccia aumentare il numero dei contagi” secondo Arcuri. “La scuola è uno dei luoghi più protetti”. Non è d’accordo l’assessore alla salute pugliese (ed epidemiologo) Lopalco, che motiva la decisione di chiudere le scuole con i numeri del contagio nella fascia 6-18 anni: “L’aumento della proporzione di casi in quella fascia di età è dunque sicuramente contemporaneo alla riapertura della scuola nella nostra Regione”. Per il futuro Arcuri promette di espandere ulteriormente la capacità diagnostica, arrivando a trecentomila test al giorno tra tamponi molecolari e test rapidi. È una risposta a chi chiedeva perché il governo non avesse acquistato le infrastrutture in estate per arrivare a 400 mila tamponi al giorno come proponeva Andrea Crisanti, l’artefice del modello di sorveglianza della regione Veneto rivelatosi decisivo durante la prima ondata ma mai gradito al governatore Zaia. Oggi la regione fa meno tamponi di Lazio, Emilia-Romagna, Toscana e Piemonte, che registrano meno casi. Il divorzio tra Zaia e Crisanti sarà sancito dal trasferimento del microbiologo allo Spallanzani di Roma secondo le indiscrezioni dell’Espresso. Coronavirus, ecco perché dal 9 novembre sarà inevitabile un lockdown soft di Paolo Russo La Stampa, 30 ottobre 2020 Positivo un tampone su 8 degli oltre 200 mila fatti. Probabile chiusura per un mese, escluse aziende e scuole. Gli esperti lo vanno ripetendo da tempo ma ora anche il governo è convinto: un nuovo lockdown, magari un po’ più mitigato rispetto a quello di primavera, è oramai inevitabile. Il giorno segnato sul calendario con il cerchio rosso è il 9 novembre. Per quella data un nuovo Dpcm chiuderebbe tutto, probabilmente per un mese, lasciando aperte fabbriche, scuole materne ed elementari, aziende agricole, negozi alimentari, farmacie ed altri esercizi che vendono beni essenziali. Non ci si potrebbe muovere da casa propria senza un’autocertificazione che ne attesti la necessità per motivi di lavoro, salute o per fare la spesa. Se la curva dei contagi dovesse impennarsi ancora il dado potrebbe essere tratto però anche prima. Ieri i contagi sono continuati a salire, anche se in misura meno ripida, passando da 24.991 a 26.831 contagi, con altri 115 letti occupati nelle terapie intensive e 983 nei reparti di medicina, entrambi sotto stress. Anche i morti continuano a salire, ieri altri 217 contro i 205 del giorno prima. Una crescita destinata a non finire qui, perché le vittime di oggi sono le persone che si sono ammalate circa un mese fa, quando i contagi erano dieci volte meno. Ed anche a questi numeri guarda più di un ministro, consapevole dell’onda emotiva che potrebbe generare un ritorno ai drammatici numeri di marzo sui decessi. Però nella crescita della curva epidemica c’è anche chi intravede un primo spiraglio di luce. Il fisico e divulgatore scientifico Giorgio Sestili ha analizzato i numeri dell’ultima settimana rilevando che i contagi ora impiegano più tempo a raddoppiare. “Credo sia frutto dei primi Dpcm, ma soprattutto di una nostra maggiore attenzione nei comportamenti” è la sua ipotesi. Ma la realtà dei numeri di oggi continua a spaventare. “I contagiati sono 8 volte di più rispetto a 21 giorni fa, la progressione dell’Rt determina un raddoppio ogni settimana. Ogni numero vale più di mille parole”, sembra quasi voler replicare il commissario Domenico Arcuri nel nuovo appuntamento settimanale per fare il punto sull’approvvigionamento sanitario. Una conferenza stampa dove di numeri ne ha sciorinati tanti, annunciando di voler portare a 200mila il fuoco quotidiano dei tamponi (obiettivo ieri già raggiunto) e di partire da lunedì con altri 100mila test rapidi antigenici, “arrivando così a uno screening quotidiano 300mila italiani”. Sulle terapie intensive ha insistito sul fatto che i macchinari già acquistati consentiranno di portare a oltre 10mila i letti disponibili. Anche se poi le sue stesse tabelle mostrano che di attivi oggi ce ne sono tremila di meno, con un tasso di occupazione da parte dei pazienti Covid vicino a quel 30% considerato limite di guardia dall’Iss. Ma Arcuri è sembrato quasi voler lanciare un lungo appello agli italiani affinché comprendano perché presto sarà necessario fare di più. “Stiamo vivendo un nuovo dramma, vi supplico, non date retta a chi dice non è vero. Dobbiamo raffreddare la crescita della curva epidemica perché a questi ritmi nessun sistema sanitario è in grado di reggere”, dice senza giri di parole. Per poi ammettere che le misure dell’ultimo Dpcm sono “la minima combinazione di soluzioni possibili e che servirà qualche altro ingrediente”. Quale lo lascia capire lanciando l’appello “a muoverci tutti meno possibile”. Bacchettando subito dopo il governatore pugliese Michele Emiliano sulla chiusura delle scuole, “che sono un valore assoluto non negoziabile”, afferma facendo capire che almeno i più piccoli saranno risparmiati dal lockdown che verrà. Scelta dolorosa, che l’ala possibilista del governo vorrebbe ancora evitare. Ma che presto potrebbe diventare inevitabile, salvo voler mettere tutta Italia in quarantena. “Oggi abbiamo 26 mila casi per ognuno di loro dobbiamo tracciare almeno 10 persone. Se il trend è questo- ha spiegato Arcuri- tra 10 giorni dovremo tracciare 2 milioni e 600 mila contatti, tra poco più di 20 giorni tutti gli italiani”. Come dire: se il lockdown non lo farà il governo lo imporrà il virus. Verso il lockdown. Otto italiani su dieci temono gli scontri di piazza di Alessandra Ghisleri La Stampa, 30 ottobre 2020 I garantiti dicono sì alla chiusura totale. No di imprenditori e partite Iva che non credono all’arrivo degli aiuti economici. “Guardo l’impossibile, vedo l’improbabile e sogno l’incredibile”. (Cit.). Ciò che gli italiani temevano si sta lentamente concretizzando sotto i loro occhi. I cittadini si sentono impotenti e sono portati a scommettere che tutto ciò che potrebbe essere probabile per la legge di Murphy si trasformerà in possibile. La realtà è letta come un giro di roulette dove la fortuna di non fare brutti incontri ravvicinati ci tutela dalla malattia. Le tre regole di base - uso della mascherina, distanziamento personale e lavaggio delle mani - le conosciamo bene. Tuttavia tali regole non sembrano arginare quel senso di smarrimento che si respira nel Paese. Siamo arrivati impreparati e questo è un dato di fatto. Il ricordo di febbraio e marzo volevamo lasciarlo nel dimenticatoio, invece per un confronto emotivo con l’attualità ritorna vivo con tutte le eccezioni negative del caso. Allora il virus ci aveva colti - quasi - di sorpresa in un circuito di informazioni spesso contraddittorie. Il presidente del Consiglio, più di ogni altro capace anche di stupire con le sue dirette a reti e social unificati, rappresentava l’istituzione forte, in grado di rassicurare la maggioranza degli italiani: in primavera il consenso di Giuseppe Conte sfiorava il 50%, oggi è intorno al 40%. Le vacanze estive - Allora l’accettazione del lockdown e delle restrizioni emanate dal governo fu “unanimemente” accolto dalla popolazione, dalle categorie produttive e finanche dai leader dell’opposizione che, per qualche settimana, rimasero sottotraccia, in attesa rispettosa. Allora, dopo la paura affiorò a poco a poco la speranza. Si andava verso la bella stagione, l’estate, la luce prolungata nel corso della giornata, il miraggio delle vacanze poi diventato - ahimè - realtà. I primi germi di rabbia e di dissenso furono spenti o quantomeno sopiti grazie all’illusoria diminuzione del numero dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva, dei decessi e dell’idea di poter finalmente scappare dalla realtà per rifugiarsi nel sogno di una vacanza quasi normale. Anche la politica, complice la campagna elettorale, tornò a comportarsi come sempre, ad appropriarsi delle battaglie che alcune categorie - bar, ristoranti, palestre, balneari, estetisti… - avevano iniziato a portare nelle agorà reali e televisive. Il ritorno alla normalità fu il leitmotiv dei mesi successivi al lockdown. L’attività economica, pur tra mille difficoltà e con importanti investimenti, sembrava potersi riprendere grazie alla riapertura, parziale e poi totale, degli uffici, dei negozi, insomma della vita di tutti i giorni. Solo la scuola - tra mille polemiche - rimaneva esclusa dal ritorno alla normalità per le complicazioni dei nuovi percorsi in sicurezza che avrebbero dovuto percorrere gli studenti. Così, quando sembrava che il virus si fosse miracolosamente estinto anche grazie alla buona condotta delle singole persone - ce lo siamo detto e ripetuto con un compiacimento al limite del ridicolo - abbiamo creduto lecito comportarci come se (quasi) nulla fosse accaduto, in vacanza, in discoteca, in famiglia, con gli amici. La sirena dell’ambulanza. Oggi lo scenario appare mutato, stravolto non solo intorno a noi ma soprattutto dentro ciascuno di noi. L’Oms ha pubblicato uno studio in cui parla di “pandemic fatigue”, ossia lo sfinimento della pandemia dovuto a tutte le sollecitazioni della malattia e alle misure restrittive. Tra gli effetti sono tornate anche le palpitazioni al passaggio delle sirene delle autoambulanze. In 9 mesi gli italiani hanno codificato il significato delle limitazioni. Già a maggio con le prime riaperture erano perfettamente consci delle possibili tensioni sociali che si sarebbero potute creare con la crisi economica, perché dopo 60 giorni vissuti in un limbo fisico e psicologico dentro le mura domestiche, in molti avevano già vissuto sulla propria pelle la delusione per il mancato arrivo dei sussidi promessi. Le manifestazioni nelle città, tolti i violenti e i provocatori, sono indicative di un sentimento collettivo rimasto fino ad ora celato. Ancora oggi il 77,5% teme che vi saranno nuove manifestazioni violente nelle piazze. Così il dettaglio numerico giornaliero della pandemia diventa un metronomo che scandisce il tempo del confino. Gli italiani si sentono sfibrati dalle troppe parole, dalla confusione, dall’approssimazione, dalla superficialità e dal continuo inseguire il contagio senza anticiparlo. Forse sarebbe meglio contestualizzare i numeri classificando i significati delle percentuali e associandoli ai provvedimenti dovuti, così si comprenderebbero meglio le azioni intraprese o da intraprendere. Dipendenti e autonomi - In questo clima fortemente stressato emotivamente, ognuno si rende conto che la strada verso un nuovo confinamento totale è veramente breve (50%). Alla luce degli ultimi sviluppi uno su due si sta convincendo che sia necessario un nuovo lockdown (49,4%), tra chi lo desidera di 2 o 3 settimane (29,3%) e chi invece di due mesi (20,1%). Tra i sostenitori troviamo principalmente i cosiddetti “garantiti”, e cioè lavoratori dipendenti e studenti. Molto più critici gli imprenditori e le partite iva insieme alle casalinghe. Di sicuro l’auspicio è che sia localizzato e specifico, limitato a singole aree geografiche a seconda dei picchi di emergenza (70,2%). Mentre prima il virus era molto sviluppato solo in alcune aree geografiche e per buona parte della popolazione molto lontano, il presente ci vede ovunque più a stretto contatto con Covid-19: dal collega positivo alla classe dei figli in quarantena, dall’ufficio chiuso in via preventiva alla risonanza dei molti contagi tra le persone più famose mediaticamente. Il 59,1% è convinto che le restrizioni previste non siano sufficienti per contenere la crescita dei contagi, ma siano allo stesso tempo molto deboli gli aiuti sul fronte economico. I sussidi - Abbiamo chiuso gli occhi e riaprendoli ci siamo trovati in un incubo. Mentre nei primi mesi dell’anno aspettavamo con ansia e fiducia i Dpcm del governo e le parole del premier, oggi l’attesa è accompagnata da critiche e scetticismo. Troppi sono gli annunci che sono stati disattesi. Oggi chi attende i soldi della cassa integrazione e dei sussidi sa - purtroppo in molti casi per esperienza diretta - che con alta probabilità non arriveranno o giungeranno in ritardo. Chi aspetta provvedimenti di qualsiasi natura atti ad agevolare la vita lavorativa e non solo, sa che in linea di massima la realtà non seguirà l’annuncio. Il 51,7% della popolazione non condivide le restrizioni contenute nell’ultimo Dpcm (chiusura di ristoranti e bar dalle 18 con il permesso di fare consegne a domicilio). Per il 75,8% la difficoltà principale risiede nel fatto che le istituzioni hanno in un primo tempo richiesto lavori e investimenti per rendere a norma il locale e ora, a distanza di qualche mese, ordinano di chiudere senza trovare alternative. Anche il tema dei ristori non raccoglie grandi consensi: il 66,4% è convinto che le misure pianificate non saranno sufficienti, il 58,1% ritiene che non arriveranno o giungeranno in ritardo, mentre il 60% è certo che siano misure economicamente insufficienti. Davanti agli occhi non abbiamo più il cartello con la scritta “andrà tutto bene”, ma una lunga notte invernale intervallata dal suono delle sirene e dal flash dei lampeggianti. È come se tutto fosse fuori sintonizzazione con il presente. Perfino la parola lockdown ci dà fastidio e iniziamo a chiamare questa situazione confinamento. Un sistema sociale senza dialettica collettiva di Giuseppe De Rita Corriere della Sera, 30 ottobre 2020 Solo la tecnologia avanzata di comunicazione ha permesso ai cittadini di sentirsi parte del mondo circostante. Il rapporto in remoto ha sostituito il rapporto in presenza. Forse non è inutile, anche se è banale, ricordare che per tutti coloro che l’hanno studiato e gestito, lo sviluppo di un popolo è un fenomeno intimamente dialettico, dove si intrecciano opinioni, discussioni, rabbie, competizioni, conflitti. E non è una verità solo astratta: basta ricordare gli anni ‘70, un decennio di massima trasformazione economica (dall’esplosione dell’economia sommersa alla moltiplicazione delle piccole imprese, fino all’affermazione del grande ciclo del made in Italy), ma anche un decennio di grande dialettica sociale e di forti conflitti collettivi (dagli autunni caldi al terrorismo). Chi ha vissuto quegli anni non può non rilevare che stiamo diventando un sistema sociale senza dialettica collettiva, tanto sono deboli o inesistenti le tracce dello scontro politico, del confronto ideologico, delle lotte di classe, della volontà di ridurre le diseguaglianze sociali. Tutto sembra sia impantanato nel grande lago di una mediocre cetomedizzazione e più ancora nel carattere molecolare e soggettivistico della società, portato più a seguire speranze di innovazione tecnologica che la durezza del confronto sociale. A queste ragioni della caduta della dimensione dialettica e conflittuale della nostra dinamica sociale ha aggiunto forza quel che è avvenuto negli ultimi mesi, segnati da un pieno isolamento individuale (neppure una messa o un funerale, figuriamoci un comizio o un corteo) e con pochissime occasioni di confronto collettivo. Solo la tecnologia avanzata di comunicazione ha permesso ai cittadini di sentirsi parte del mondo circostante. Il rapporto “in remoto” ha largamente sostituito il rapporto “in presenza”, con la letterale esplosione della smart Tv (con la quale ci colleghiamo al “mondo” dal divano di casa nostra) e dello smart-phone (con il quale possiamo essere in connessione in movimento e dappertutto). Un paradiso dei connessi (a parte alcuni infernali messaggi insultanti sui social), dove abbiamo consumato un grande e variegato intrattenimento; dove abbiamo gestito ogni tipo d’acquisto di beni e servizi; dove abbiamo potuto lavorare in solitudine e a casa, in forme diverse di smart-working; dove i nostri figli hanno potuto avere lezioni a distanza; dove qualcuno in famiglia ha continuato a fare yoga o giocare a bridge senza pericoli di contaminazione. L’imperativo ampiamente condiviso è stato quello di evitare i contatti fisici e attestarci sulle connessioni virtuali: un imperativo al tempo stesso dei singoli come del governo di sistema. Ma la riduzione quasi spasmodica dei contatti fisici riduce in ciascuno di noi il rapporto con l’altro, la relazione interpersonale, la vita in comune, i contrasti e i conflitti interpersonali. E la tendenza generale, specialmente politica, sembra privilegiare sempre più le connessioni virtuali, a scapito della dialettica sociale. Ci stiamo ubriacando di didattica a distanza, trascurando ogni rapporto fisico e personale (magari critico o conflittuale) fra docente e allievi; ci stiamo ubriacando di smart-working, trascurando il fatto che il “pacco” delle pratiche da smaltire a domicilio non può attivare un controllo, anche dialettico, fra chi lo imposta e chi lo esegue; ci stiamo ubriacando di incontri, riunioni e convegni fatti in streaming o su Zoom, dove si succedono relazioni e relatori senza che nessuno possa interloquire, dissentire, al limite fischiare; ed alla fine ci stiamo ubriacando, decreto dopo decreto, su un primato del virtuale che aggiri la realtà della vita normale ed eviti ogni occasione di dialogo, di confronto, di conflitto sociale. Le aule scolastiche, i corridoi e le stanze ministeriali, le palestre ed i centri sportivi, i convegni culturali e i congressi scientifici, stanno diventando solo luoghi di assembramento e quindi potenziali focolai epidemici. Ma tutto ciò (malgrado le indulgenze retoriche) rischia di creare una cultura collettiva senza dialettica e implicitamente narcotizzante, che alla fine non ci unisce, anzi ci rende ogni giorno più isolati: soli, più incerti, più impauriti, più in cerca di sicurezza, più dipendenti dal fato e più ligi al potere. Forse esagero, ma mi sembra di vedere spesso tali sentimenti negli occhi dei miei concittadini, l’unico tratto somatico non nascosto dalle obbligatorie mascherine. Quasi che essi aspettino non una vigorosa uscita dal tunnel della crisi, ma il desiderio di chiudere gli occhi e attendere che passi il periodo nero, quasi un inconscio desiderio di andare in letargo come in inverno vanno gli animali e le piante. Evento naturale e forse sostanzialmente coltivato, se si pensa a quanti la mattina hanno poca voglia di uscire dal letto (tanta formazione e tanto lavoro si fanno da casa); e a quanti cominciano a pensare a qualche forma di reddito di cittadinanza, per sé e i propri figli. La ripresa può attendere, lo sviluppo possiamo dimenticarcelo, qualcuno provvederà al bonus da letargo. Francia. A Nizza è scattata nel sangue la trappola dello scontro di civiltà di Alberto Negri Il Manifesto, 30 ottobre 2020 L’estremismo islamico nasce dalla crisi dei regimi secolaristi alleati dell’Occidente e si alimenta in modo esponenziale con le guerre degli Usa e dei loro alleati in Medio Oriente. Come previsto la trappola dello scontro di civiltà è scattata. Non si può affermare che Erdogan abbia ispirato l’attacco con i tre morti a Notre Dame a Nizza ma è chiaro che prendendo di mira la Francia e insultando Macron, ha incendiato il mondo musulmano con conseguenze imponderabili. Dal Medio Oriente all’Est asiatico ieri si bruciavano tricolori e ritratti del presidente francese con l’approvazione dei leader musulmani, anche di quelli che (come la stessa Turchia) hanno condannato il massacro di Notre Dame. Quale è il pericolo? Che dal vaso di Pandora dilaghi, oltre al Covid, quella contrapposizione tra l’Occidente il mondo musulmano che si presta a strumentalizzazioni di ogni genere: questo è quello che vorrebbe Erdogan impegnato su tre fronti di guerra, Siria, Libia, Nagorno Karabakh, nella crisi esplosiva nel Mediterraneo orientale, e dibattuto da gravi difficoltà economiche e sociali in patria. Non è questo un aspetto trascurabile: la Turchia è indebitata con le sue imprese per oltre 330 miliardi di dollari, in gran parte con banche europee. Tra i ricatti di Erdogan non c’è soltanto quello dei profughi sulle rotte dall’Egeo alla Libia (dove si è impadronito delle motovedette italiane) ma anche un possibile fallimento finanziario all’orizzonte. Lui vorrebbe che pagassero gli europei, che disprezza, ma sa che non lo faremo e ora rischia pure sanzioni della Ue per la violazione nell’Egeo delle zone economiche speciali di Grecia e Cipro. Quindi si gioca la carta della mobilitazione del mondo musulmano. Si è sovraesposto con costose imprese militari e sollecita la solidarietà dei Paesi musulmani - e non soltanto al solito Qatar - per venirne fuori. Essendo Erdogan un membro della Nato, teoricamente nostro alleato e degli Usa, ma anche amico-nemico della Russia, il nodo del “grande malato” turco è forse insolubile. Ricordiamoci, pur con tutte le enormi differenze, che Saddam invase il Kuwait quando decise di non pagare più i debiti accumulati nella guerra all’Iran con le monarchie del Golfo e le banche occidentali. È in momenti come questi che bisogna ricordare quanto è avvenuto nelle relazioni tra l’Europa, gli Stati Uniti e le nazioni musulmane. Una storia complessa che però se ci limitiamo agli ultimi decenni è costituita da tappe piuttosto chiare. L’estremismo islamico non nasce dal nulla ma dalla crisi di quei regimi secolaristi che in buona parte erano stati alleati dell’Occidente e si alimenta in maniera esponenziale con gli interventi militari americani e dei loro alleati in Medio Oriente. Nel 1979 la rivoluzione di Khomeini in Iran fa fuori lo Shah considerato dagli Usa il loro guardiano nel Golfo. La risposta occidentale alla rivoluzione sciita fu armare l’Iraq di Saddam che mosse guerra all’Iran: otto anni di conflitto, un milione di morti. Il “mostro” Saddam, che poi invase il Kuwait nel 1990, era stato tenuto in piedi da noi e dalle monarchie sunnite del Golfo cui ancora vendiamo armi a tutto spiano e con le quali Trump e Israele fanno una finta pace, quella di Abramo, che lascia intatte tutte le ingiustizie del Medio Oriente, occupazione della Palestina compresa. Anche noi europei, senza mai reagire, importiamo ingiustizia e propaganda. Nel dicembre del 1979 l’Urss invase l’Afghanistan e gli Usa, con il Pakistan e i soldi sauditi, colsero l’occasione per fare la guerra a Mosca usando i mujaheddin che poi si trasformarono nei talebani e nei jihadisti contro cui si è combattuta la guerra all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001. Con quei talebani gli americani oggi vogliono fare la pace di Doha mentre in Afghanistan i civili continuano a morire. Nel 2003 gli Usa decisero, sulla scorta di false prove sulle armi di distruzione di massa irachene, di distruggere il regime baathista aprendo la strada ad Al Qaida e poi anche al Califfato, cioè al peggiore estremismo islamico che come maggiori vittime ha avuto proprio le popolazioni arabe. Da lì si è aperto il vaso di Pandora che nessuno ha saputo più richiudere. La Siria e le primavere arabe del 2011 sono state l’ultimo esempio di come l’Occidente e il mondo arabo-musulmano - con le monarchie del Golfo a pompare soldi agli estremisti - abbiano strumentalizzare il jihadismo e il radicalismo islamico. Gli Stati Uniti, su ispirazione del segretario di Stato Hillary Clinton, diedero a Erdogan carta bianca per abbattere il regime di Assad alleato dell’Iran e della Russia. La stessa Francia è stata complice di un piano che ha portato oltre 40 mila jihadisti dalla Turchia alla Siria e ora Parigi deve gestire il ritorno in patria dei jihadisti francesi da Iraq e Siria. Prima del 2015 americani, turchi e francesi erano messi d’accordo a defenestrare Assad con ogni mezzo, anche con i tagliagole islamisti, mentre Parigi, Washington e Londra avevano già fatto fuori Gheddafi in Libia. Qui chi semina grandine raccoglie tempesta. E a pagare col sangue, come a Nizza, sono sempre i civili, adesso terrorizzati anche dalla pandemia. Questo non è uno scontro di civiltà come si vuol fare credere ma di interessi che erano prima convergenti e poi divergenti. Che poi la Francia abbia un problema, e grosso, lo sappiamo tutti. In Francia nel 2018 c’erano 26mila individui considerati una minaccia per la sicurezza nazionale, 10mila di questi radicalizzati, ovvero pericolosi. E per liberare il Paese non bastano le leggi sul separatismo religioso. Ci vuole altro: una revisione spassionata della storia recente in cui ognuno, Francia compresa, si prenda le sue responsabilità. Ma chiedere oggi alla Turchia di Erdogan di prendersi le sue responsabilità è pura illusione. Stati Uniti. “Squadre di rimpatrio” da Pechino per i cinesi ricercati. E interviene l’Fbi di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 30 ottobre 2020 “Squadre di rimpatrio” coatto costituite da agenti clandestini operano negli Stati Uniti per riportare in Cina i ricercati per corruzione (o altri reati, compreso forse il dissenso politico). Gli inviati cinesi sotto copertura usano pressioni psicologiche e minacce fisiche per “convincere” i fuggiaschi a tornare e affrontare la dura legge di Pechino. E se la “persuasione” non basta, arrivano al rapimento. È questa la denuncia del Dipartimento della Giustizia di Washington, che ha smantellato una di queste “Repatriation squad”, arrestando 5 dei suoi 8 membri. Quattro sono cinesi che operavano a New York, quartieri Queens e Brooklyn, uno è un detective privato del New Jersey, Michael McMahon, che sul suo profilo Facebook si descriveva come ex sergente della polizia di New York. Gli altri 3 sono stati incriminati ma sarebbero tornati in Cina. Dice Christopher Wray, direttore dell’Fbi: “Questo caso è un altro esempio del comportamento fuorilegge della Cina, le azioni che abbiamo scoperto sono scioccanti”. Secondo l’atto di incriminazione, nel 2017 la squadra di cacciatori cinesi portò nel New Jersey, dove viveva la loro preda, l’anziano padre prelevato a casa in Cina. Lo scopo era di minacciare il fuggiasco di rappresaglia sul genitore, se non avesse accettato di rientrare in patria. Gli agenti cinesi ingaggiarono anche il detective McMahon per sorvegliare moglie e figlia del ricercato e i suoi amici: questi cominciarono a ricevere email che minacciavano le loro famiglie rimaste in Cina se non avessero contribuito all’operazione. Per l’assedio sono stati usati sistemi sofisticati, come visori notturni; e anche metodi da mafiosi, come lettere e pacchi lasciati davanti alla porta di casa. In uno di questi messaggi la vittima, trovò la proposta: “Torna con noi in patria, 10 anni di carcere e in cambio tua moglie e tua figlia staranno bene”. Pechino non nega di aver organizzato una ricerca intensiva dei fuggiaschi nel mondo, tutti corrotti assicurano le autorità. Ma l’Fbi ne dubita, visto che gli inviati cinesi hanno agito in clandestinità, senza chiedere alcuna collaborazione. Nell’elenco dei “catturandi” ci sarebbero anche dissidenti politici, dicono diverse organizzazioni umanitarie. La campagna per il rimpatrio si chiama “Caccia alla Volpe” (“Lie Hu Xing Dong” in cinese) e fu lanciata da Xi Jinping nel 2014 per dare forza alla battaglia anti-corruzione nei ranghi del Partito-Stato. Pechino ha anche dato all’Interpol una lista dei “10 most wanted”. Il Justice Department Usa la descrive così: “Un’azione fuorilegge. Abbiamo mandato un segnale chiaro a Pechino: i loro cacciatori da noi diventano prede”. Risposta sdegnata dalla Cina: “Gli Usa si schierano dalla parte del male”. Libia. Aggirare l’embargo è uno scherzo, quindi è meglio non credere troppo alla tregua di Luca Gambardella Il Foglio, 30 ottobre 2020 Non c’è stato il tempo di apporre le firme all’accordo siglato la scorsa settimana a Ginevra, che il cessate il fuoco in Libia è già avvolto dallo scetticismo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha avvertito che “l’intesa manca di credibilità” perché “non è stato sottoscritto al più alto livello”. L’obiettivo di andare a elezioni nazionali nel 2021 sembra troppo ambizioso, a meno che le potenze straniere che finora hanno influenzato il corso dei combattimenti non decidano di fare un passo indietro. Con gli Stati Uniti ancora latitanti, i fili della diplomazia occidentale sono nelle mani dell’Ue, impegnata a limitare al minimo l’afflusso di armi nel paese e a rendere la tregua la più duratura possibile. Perché questo accada, l’applicazione dell’embargo deciso dall’Onu nel 2011 è determinante. Fathi Bashagha, ministro dell’Interno del governo di unità nazionale di Tripoli, l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale, ha detto al Financial Times che senza il sostegno militare ed economico di forze esterne - leggi Russia, Emirati Arabi Uniti, Francia, Egitto e Giordania - il generale della Cirenaica, Khalifa Haftar, non sarebbe più una minaccia alla pace in Libia. Però i suoi sponsor non hanno mai smesso di consegnargli armi, così come il flusso delle “consegne” è proseguito regolarmente anche dall’altra parte del paese, dove i C130 turchi continuano ad atterrare alla base di al Watyah, che ormai è l’avamposto militare di Ankara in Libia. Finora gli sforzi profusi dall’Ue per ostacolare i rifornimenti di armi hanno incontrato diverse difficoltà. Dallo scorso marzo, Bruxelles ha dispiegato una missione aeronavale al largo della Libia - denominata Irini - per intercettare e dissuadere le navi e i voli diretti nel paese. I risultati sono stati modesti, anzi peggio: secondo un report riservato dell’Onu diffuso dall’Associated Press un mese fa, l’embargo si è dimostrato “totalmente inefficace”. Lo scorso luglio David Schenker, vicesegretario americano per il Vicino Oriente, ha detto che la missione europea non è “seria”, perché intercetta solamente le navi turche, ignorando i rifornimenti aerei diretti dagli Emirati a Haftar. La missione europea Irini era il massimo che l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, potesse ottenere mediando fra i paesi membri. Per il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, l’unico vero obiettivo perseguibile dall’Europa è quello di “raccogliere informazioni sulle violazioni dell’embargo” e istruire così un procedimento presso la Corte internazionale di Giustizia. I tempi rischiano però di essere lunghissimi e il ricorso alla giurisdizione internazionale potrebbe essere del tutto inutile. Ipotizzare di portare al tavolo degli imputati dell’Aia paesi come Emirati Arabi Uniti o Turchia non sembra una strada percorribile. Così, all’Europa non rimane che intercettare quelle società private usate dagli stati per violare l’embargo punendole con le sanzioni stabilite dall’Onu e applicate dall’Ue. In alcuni casi il sistema dimostra di essere efficace. Il 15 ottobre scorso, l’Ue ha congelato i beni di Yevgeny Prigozhin, proprietario del Gruppo Wagner, una compagnia di mercenari russi impiegata dal Cremlino in diversi teatri di guerra, dalla Siria all’Ucraina fino alla Libia, dove sono stati schierati a supporto delle forze di Haftar. Ora, con la decisione dell’Ue, le attività commerciali di Prigozhin in territorio europeo - almeno quelle direttamente riconducibili a lui - saranno confiscate e i suoi asset finanziari congelati. Eppure non mancano i casi in cui le sanzioni in Libia sono state eluse. Lo scorso 15 settembre il Consiglio degli Affari esteri dell’Ue ha congelato i patrimoni di tre società accusate di avere violato l’embargo dell’Onu in Libia. Tutto bene, se non fosse che una di queste si è rivelata essere una società fantasma. Oltre alla Sigma Airlines, un vettore di aerei cargo con sede in Kazakistan, e alla Avrasya Shipping, una compagnia turca che gestisce trasporto cargo, è stata sanzionata anche la Med Wave Shipping. Si tratta di una società con sedi in Giordania e in Libano, proprietaria di una sola nave, la Bana. Lo scorso gennaio, questo cargo battente bandiera libanese, scortato da due navi militari turche, aveva caricato a Mersin, in Turchia, armi, veicoli blindati e alcuni soldati. La consegna era stata regolarmente effettuata il 29 gennaio al porto di Tripoli, sotto i radar delle marine militari di mezzo Mediterraneo. Una volta scaricato il materiale, la nave aveva fatto rotta su Genova e lì, il 3 febbraio, Digos e servizi segreti italiani l’avevano sequestrata, arrestando il comandante, un libanese di nome Joussef Tartoussi, e altri quattro membri dell’equipaggio. Il giorno dopo la pubblicazione della short list con le società sanzionate dall’Ue, si è innescato un cortocircuito. Il governo giordano, chiamato in causa per collaborare nella concreta applicazione delle misure restrittive, ha segnalato a Bruxelles che la Med Wave non si riesce a trovare. Deifallah Fayez, portavoce del ministero degli Esteri di Amman, ha detto che la società “non è giordana, non è registrata nel paese e non se ne trovano tracce da nessuna parte nel regno”. Nella lista dell’Ue ci sono tre indirizzi dove Med Wave avrebbe le sue sedi: secondo Fayez, dalle verifiche fatte, i due uffici giordani sarebbero vuoti. Quella libanese invece rimanda all’Orient Queen Homes Building, un centro alberghiero di lusso nella downtown di Beirut, che ospita anche degli uffici. Qui ha sede anche la Abou Merhi Lines, una società di navigazione che in passato era stata a sua volta proprietaria della nave nel 2015, quando ancora si chiamava Città di Misurata. Il presidente di questa compagnia si chiama Ali Abou Merhi, un imprenditore libanese molto vicino a Hezbollah che tra il 2015 e il 2017 è finito sotto le sanzioni del Dipartimento del Tesoro Usa. Le attenzioni degli americani verso Abou Merhi erano dovute al suo coinvolgimento in un traffico di droga e riciclaggio di denaro che andava dal medio oriente all’Europa fino al Sudamerica per conto di Ayman Saied Joumaa, un narcotrafficante tuttora latitante e ricercato dall’Interpol. Dopo essere stata sanzionata dagli americani, la Med Wave scompare nel nulla: la nave Città di Misurata diventa Sham 1, e poi - nel dicembre del 2019 - Bana. Come risulta dallo storico dei registri dell’Organizzazione marittima internazionale (Iom), anche le società proprietarie cambiano continuamente, a distanza di pochi mesi: prima è la Med Wave Shipping, che poi diventa Middle East Maritime Consult, che poi, fra novembre e dicembre del 2019, torna a essere la Med Wave. L’unica nave inclusa nella flotta è sempre e soltanto la Bana. Abou Merhi ha rifiutato di parlare al Foglio, ma qualche mese fa, intervistato da un canale televisivo libanese, ha ammesso che la Bana era effettivamente di sua proprietà. Peccato che il suo nome non sia né direttamente né ufficialmente ricollegabile alla Med Wave. Per questo motivo gli altri asset dell’imprenditore libanese - proprietario di altre compagnie marittime, sia da turismo sia cargo, e con interessi in Germania e in Grecia - non sono stati congelati dall’Ue. “È del tutto plausibile che si tratti di società fantasma, un sistema di scatole cinesi”, dice al Foglio una fonte vicina al caso e che preferisce restare anonima. Secondo Enzo Fogliani, avvocato specializzato in Diritto penale marittimo, si tratta di un escamotage piuttosto comune nel settore marittimo, in particolare per quelle compagnie che intendono sottrarsi a misure restrittive decise per punire i traffici illeciti. “Spesso le società decidono di crearne altre con una sola nave nella loro flotta per evitare di correre troppi rischi e di esporre troppi asset”, spiega il legale. Una volta sanzionate dall’Ue, le navi non possono più attraccare nei porti dei paesi membri. Ma anche in questo caso, continua Fogliani, l’applicazione delle misure restrittive non è sempre accurata: “A volte riescono ad approdare lo stesso. Non è detto che tutte le autorità portuali si mettano a controllare se ci siano sanzioni pendenti a carico di ogni singola nave che si presenta al molo”. I sotterfugi usati per eludere le sanzioni europee sono noti anche a Bruxelles. Una fonte diplomatica che ha seguito da vicino il dossier del Consiglio dei ministri degli Affari esteri ammette al Foglio che “spesso in questi casi si tratta di società fantasma”. Francesco Giumelli, professore di Relazioni internazionali all’Università di Groningen, è uno dei massimi esperti di sanzioni e da anni studia i limiti nella loro applicazione. Giumelli dice al Foglio che il congelamento degli asset finanziari e la confisca dei beni non devono essere visti solamente come mezzi di coercizione: “Sono anche strumenti che rivestono un significato politico e che servono a disincentivare quei comportamenti che violano il Diritto internazionale. Servono a dimostrare che la comunità internazionale è vigile”. Ma nel concreto, come dimostra la vicenda della Med Wave, le misure hanno spesso un impatto minimo. Il vero nodo nella questione delle sanzioni è un altro, spiega Giumelli: “Chi monitora la loro effettiva applicazione? Nel caso libico, che comunque non è isolato, uno dei limiti è che coloro che devono applicare le sanzioni alla fine sono gli stessi che le violano”. Afghanistan. Le rivolte in carcere e la questione dei detenuti talebani di Maria Grazia Rutigliano sicurezzainternazionale.luiss.it, 30 ottobre 2020 Un leader dei talebani ha discusso con il rappresentante speciale degli Stati Uniti, Zalmay Khalilzad, per chiedere un ulteriore rilascio di prigionieri. Separatamente, nella città di Herat, una rivolta in carcere causa la morte di 8 persone. Il 28 ottobre, Khalilzad ha incontrato alcuni membri di alto livello dei talebani a Doha, tra cui il vice leader del gruppo, Abdul Ghani Baradar. Le due parti hanno discusso le questioni relative all’attuazione dell’accordo di pace tra Stati Uniti e talebani, firmato il 29 febbraio. Tale intesa era stata il primo passo verso l’apertura di un dialogo intra-afghano, inaugurato il 12 settembre e attualmente in stallo. Le difficoltà nel portare avanti i colloqui diplomatici tra talebani e governo afghano si affiancano ad un aumento delle violenze, ormai quotidiane, nel Paese. In tale contesto, i delegati dei militanti islamisti a Doha affermano di non essersi impegnati, nell’accordo con gli USA, a fermare gli attacchi contro le forze di sicurezza Afghane. Tuttavia, in un clima così teso tra le due parti, il portavoce dei talebani Mohammad Naeem ha riferito che il rappresentante statunitense e il leader dei militanti hanno discusso del rilascio di un gruppo di prigionieri, la cui liberazione era stata negata per ragioni di sicurezza. La questione del rilascio dei prigionieri è durata mesi. Il 3 settembre, il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale afghano (NSC) aveva confermato il completamento del rilascio di prigionieri talebani, come previsto dall’accordo talebani-USA, ad eccezione di 7 individui su cui gli alleati internazionali hanno espresso riserve. Il governo afghano, in cambio, aveva visto tornare a casa 1000 soldati afghani tenuti in ostaggio dai talebani. “Gli sforzi diplomatici sono in corso. Ci aspettiamo che i colloqui diretti inizino prontamente”, aveva dichiarato il portavoce del governo in tale occasione. Nel frattempo, anche fonti vicine ai talebani avevano confermato il rilascio di 5.000 prigionieri. Tuttavia, 7 individui rimanevano in detenzione, dopo che alcuni Paesi stranieri avevano esortato le autorità di Kabul a non rilasciarli direttamente. I talebani in questione avevano commesso gravi crimini, anche ai danni di cittadini stranieri. A tale proposito, il 15 agosto, la Loya Jirga, la grande assemblea degli anziani afgani, aveva approvato il rilascio di 400 prigionieri talebani che il governo non voleva liberare. Anche questa decisione era stata percepita come una spinta chiave per l’avvio dei negoziati intra-afgani. I talebani in questione erano stati rilasciati dalla prigione di Pul-e-Charkhi di Kabul, la più grande del Paese. Secondo i dati del governo, dei 400 prigionieri in questione, 156 erano stati condannati a morte, 105 erano accusati di omicidio, 34 erano accusati di sequestro di persona che ha portato all’omicidio, 51 erano accusati di traffico di droga. Inoltre, 44 di loro erano sulla lista nera del governo afghano e dei suoi alleati. Fonti non meglio specificate hanno riferito che alcuni Paesi, come Stati Uniti, Francia e Australia, hanno mostrato riserve sul rilascio di alcuni prigionieri. Tuttavia, nel mese successivo era stata completata la liberazione di numerosi talebani, tranne quelli ritenuti estremamente pericolosi. Il 28 ottobre, dopo oltre un mese di tentativi di negoziare la pace con i talebani a Doha, un portavoce del governo afghano ha dichiarato che la richiesta di rilasciare altri prigionieri non ha alcun valore. “Ciò che i talebani hanno detto e fatto ha indebolito il processo di pace”, ha dichiarato il portavoce presidenziale Sediq Sediqqi. “Il protrarsi della violenza e queste assurde dichiarazioni, che chiedono persino sollevare nuovamente la questione dei prigionieri crea problemi per il raggiungimento della pace”, ha aggiunto. Ad oggi, il governo afghano afferma di aver rilasciato più del numero di prigionieri previsti dall’accordo Usa-talebani, per un totale di 5.600 prigionieri, pur di avviare i negoziati di pace. Inoltre, è importante sottolineare che nonostante le rassicurazioni, alcuni prigionieri talebani liberati dal governo afghano erano poi tornati sui campi di battaglia, secondo il Consiglio di Sicurezza Nazionale di Kabul. Intanto, in un incidente non necessariamente collegato, la notte tra il 28 e il 29 ottobre, almeno 8 detenuti sono stati uccisi e altre 12 persone sono rimaste ferita in una rivolta all’interno di una prigione situata nella città occidentale di Herat. La violenza è esplosa la notte del 28 ottobre, secondo Mohammad Rafiq Shirzai, portavoce del dipartimento sanitario provinciale. Inoltre, altre 12 persone - 8 detenuti e 4 guardie carcerarie - sono rimaste ferite nei disordini che hanno avuto luogo nella struttura, che ospita circa 2.000 prigionieri. Non è noto se ci fossero dei talebani nel penitenziario. La rivolta è scoppiata dopo che le guardie carcerarie hanno iniziato ad eliminare alcuni divisori creati dai prigionieri nel cosiddetto Blocco 5 della prigione. La polizia ha cercato di requisire oggetti non necessari in possesso dei prigionieri e questi hanno opposto resistenza. Una delle 8 vittime riportava ferite da arma da fuoco. Sudan. La denuncia di Antonella Napoli: “riprese le violenze, centinaia di morti” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 30 ottobre 2020 In tutto il Sudan riprendono le manifestazioni contro il governo del primo ministro Abdalla Hamdok. Anche nella regione occidentale del Darfur, dal 2003 teatro di un conflitto tra ribelli ed esecutivo, la situazione torna a livelli critici, con decine di episodi che hanno provocato vittime e sfollati. È quanto emerso oggi dall’audizione presso la Commissione diritti umani del Senato di Antonella Napoli, presidente onoraria dell’associazione Italians for Darfur e direttrice di Focus on Africa, recentemente rientrata dal paese africano dove era stata fermata nel 2019 mentre seguiva le rivolte che avevano portato alla caduta del regime e poi minacciata di morte dai Fratelli musulmani sudanesi. In Commissione ha presentato il Rapporto Sudan 2020, documento annuale redatto dall’ong che dal 2006 segue i conflitti e le vicende sudanesi. “Mentre in tutto il Sudan riprendono le rivolte contro il governo di transizione guidato dal primo ministro Abdalla Hamdok - ha sottolineato Antonella Napoli nel suo intervento - nonostante l’accordo di pace sottoscritto il 3 ottobre a Juba a distanza di 17 anni dall’inizio del conflitto in Darfur, la crisi nella regione registra nuovi picchi di violenze. Da giugno in Sudan, e in particolare nel Darfur, si sono susseguiti scontri violenti. L’Ocha, il Coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, ha registrato decine di episodi nel Darfur occidentale che hanno causato centinaia di morti e feriti, villaggi e case bruciati e lo sfollamento di migliaia di persone compromettendo la stagione agricola già devastata dalla stagione delle piogge, causando la perdita di mezzi di sussistenza e facendo crescere i bisogni umanitari”. Antonella Napoli, giornalista e analista di questioni internazionali, membro dell’ufficio di presidenza di “Articolo 21” e di “Giulia - Giornaliste unite libere autonome”, dirige il magazine “Focus on Africa”. Per il suo lavoro sul Darfur ha ricevuto la Medaglia di rappresentanza del presidente della Repubblica. Dopo il suo fermo ad opera dei servizi di sicurezza in Sudan nel gennaio del 2019, mentre seguiva le rivolte in atto nel Paese, nel giugno del 2019 attraverso una lettera recapitata alla Federazione nazionale della stampa ha ricevuto minacce di morte dai Fratelli Musulmani sudanesi, che facendo esplicito riferimento alla sua attività professionale le hanno intimato di non tornare in Sudan. Per questo motivo è stata disposta nei confronti della giornalista una sorveglianza radio controllata.