Il rischio Covid aumenta ma il sovraffollamento delle carceri non diminuisce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 ottobre 2020 I numeri dei contagi da Covid-19, come previsto, sono in aumento. Tant’è vero che il presidente del Consiglio Conte ha deciso di proporre al Parlamento la proroga dello Stato di emergenza. D’altronde alcune regioni come la Campania hanno varato significative limitazioni di movimento e nella vita quotidiana. In generale le parole d’ordine comunque sono: lavarsi frequentemente le mani, distanziamento fisico e mascherina. Ma mentre nel mondo libero l’attenzione è ancora alta, per quanto riguarda le carceri si è abbandonato il discorso della riduzione del sovraffollamento. D’altra parte le strutture penitenziarie, anche quelle che non hanno fortunatamente subito l’insulto effettivo del virus, continuano a essere intrinsecamente inadatte a consentire il distanziamento sociale. Ma è concreto il pericolo di una ripresa di nuovi focolai in carcere? I dati ci dicono di sì, anche se per ora il numero dei contagi risulta contenuto e fisiologico considerando la situazione complessiva. Ieri c’è stato l’ultimo aggiornamento giornaliero: i detenuti contagiati sono 22, mentre gli operatori sono 58. Numeri bassissimi, quasi impercettibili rispetto alla popolazione penitenziaria. Però non può saltare all’occhio che in poco tempo, è raddoppiato il numero dei detenuti contagiati. Non solo. Preoccupa la situazione napoletana. In tutto sono 17 gli agenti contagiati che operano in alcune carceri campane. Il numero maggiore, 7 agenti, risulta al carcere di Poggioreale. Un carcere complicato, sovraffollato e pieno di reclusi con patologie: se il virus dovesse entrare la questione diventerebbe complicata. Che fare? Sicuramente non ripetere l’errore iniziale quando tutti furono colti di sorpresa. La prima strategia governativa all’affacciarsi dell’emergenza legata al diffondersi del Covid-19 ha portato alla chiusura degli istituti penitenziari da accessi dall’esterno, per evitare che il virus potesse varcare la soglia del carcere. Ma il coronavirus è entrato lo stesso, e il riscontro dei primi casi di positività in alcuni penitenziari ha evidenziato il fallimento della strategia di chiusura delle carceri. Il sovraffollamento in cui i penitenziari sono ripiombati (dopo la tregua segnata dai provvedimenti seguiti alla sentenza pronunciata dalla Cedu sul caso Torreggiani) è diventato, per la conseguente impossibilità di mantenere il distanziamento minimo necessario volto a contenere il rischio da contagio da Covid- 9, un pericolosissimo fattore di espansione del virus. A quel punto il governo ha varato il decreto cura Italia. Misura però insufficiente, tant’è vero che una significativa diminuzione del sovraffollamento è dovuto dal lavoro della magistratura di sorveglianza, anche se a macchia di leopardo. Poi sono arrivate le polemiche “scarcerazioni”, il decreto cura Italia non viene rinnovato, nonostante il Paese sia ancora in stato di emergenza e i numeri dei detenuti stanno ricominciando a crescere. Per ora i contagi sono contenuti anche se raddoppiati nel giro di poco tempo: ma se dovessero esplodere dei focolai, questa volta saremo pronti? Sulla Polizia penitenziaria il peso del sistema carcerario di Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 2 ottobre 2020 La gestione della detenzione va affidata a personale formato per gli scopi rieducativi. Si fa presto a dire “sistema”. Ormai chiunque, specialmente il politico che ha ben orecchiato la parolina magica, quando vuole fare colpo in tv o in pubblico usa questo termine. Fare sistema, approccio sistemico, visione e soluzioni sistemiche, tutte parole che sembrano dare a chi le usa nel linguaggio comune una credibilità inaspettata. Ecco perché ormai in politica, insieme ad altre formulette di più facile consumo, mettendoci anche un po’ di Europa, questi termini si usano sempre più spesso. Il problema però, è inutile nasconderlo, è che se queste espressioni rimangono tali, esse stesse perdono di valore e consumandosi ricascano poi addosso a coloro che le hanno adoperate ma che non hanno dato seguito con le azioni opportune. Questo della Polizia penitenziaria è uno dei casi in cui la politica e chi ha responsabilità più dirette nel settore della Giustizia e nell’amministrazione penitenziaria debba applicarsi a fondo per promuovere una riforma seria e strutturale anche per quanto riguarda l’assetto organizzativo e amministrativo delle carceri facendo uscire finalmente la Polizia penitenziaria dagli istituti. Azione, questa sì strutturale e programmatica, tesa a una riforma seria della carcerazione nel suo complesso. Azione forse sistemica, è il caso di dirlo, per affidare finalmente la gestione della detenzione a personale appositamente formato per gli scopi rieducativi come avviene in quasi tutti i paesi europei che hanno adottato linee e visioni più attuali concernenti le problematiche detentive. Come ho avuto modo di trattare diffusamente nel mio ultimo libro “Non solo carcere”, in questo modo sarebbe possibile attuare il principio costituzionale destinato alla rimodulazione comportamentale. In tutti questi anni la politica ha sempre procrastinato la questione degli Istituti e del loro funzionamento, scaricando i maggiori oneri, incombenze e compiti sulla Polizia penitenziaria. Questo organismo, sarà bene ricordarlo, nasce per “produrre” e gestire con specifiche capacità le problematiche securitarie della carcerazione. Non altro. Non dovendo assolvere ai complessi aspetti gestionali della quotidianità comportamentale del detenuto perché sostanzialmente impreparato a tal scopo, né tantomeno legittimato. Le Raccomandazioni europee benché non ancora direttive comunitarie, stabiliscono che il “servizio” penitenziario debba essere posto sotto la responsabilità di autorità pubbliche, terze ed esse stesse chiaramente separate (regola 71) dall’Esercito, dalla Polizia e dai Servizi di indagine penale. Inoltre si rimarca nelle direttive proprio la necessità che alla direzione degli Istituti penitenziari siano preposte autorità separate dall’Esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale, quali soggetti terzi ed imparziali dell’agire penitenziario. Il fatto che in tale direzione la politica non proceda se non con estrema lentezza, denuncia i vetusti aspetti culturali che albergano a monte circa la concezione del ruolo detentivo di coloro che assolvono impropriamente alla gestione di questo servizio. Il fatto che sia ancora il poliziotto quale figura di interfacciamento tra detenuto e mondo esterno la dice lunga sulla concezione della pena in Italia. Ancora di fatto concepita come pubblica vendetta. In merito a queste problematiche la società civile, la cultura, le pubblicazioni, i convegni e gli interventi dei vari esperti sono tanti e qualificati. Il problema delle carceri italiane è che i detenuti vengono puniti, non rieducati. Sarebbe bene che la politica si mettesse al passo. Magari aggiornandosi. *Vicepresidente CESP – Centro Europeo Studi Penitenziari I detenuti possono essere pestati, ma non possono andare a Italia’s Got Talent di Angela Azzaro Il Riformista, 2 ottobre 2020 Viviamo in uno strano Paese: se qualcuno osa applicare l’articolo 27 della Costituzione e invece di pestare i detenuti, cerca di metterli nelle condizioni di fare un percorso di rieducazione, rischia di finire travolto dalle polemiche o addirittura in galera. Per i benpensanti con la pistola in mano è davvero troppo che invece della vendetta ci sia la possibilità di rifarsi una vita. Figuriamoci poi se questo coincide con la partecipazione a un programma televisivo come è accaduto a un gruppo di detenuti del carcere di Marassi di Genova che lunedì sera hanno registrato il programma Sky Italia’s Got Talent proponendo un brano del loro spettacolo teatrale. Invece di applaudire, commuoversi, dire bravi, come hanno fatto i quattro giudici del programma che li hanno “promossi”, sono scattate le critiche del sindacato della polizia penitenziaria Uilpa per l’orario notturno in cui è avvenuto lo spostamento da Genova a Roma (il talent viene registrato a Cinecittà) e per l’emergenza coronavirus. Il leader della Lega Matteo Salvini non poteva farsi scappare un’occasione così ghiotta per polemizzare definendo l’iniziativa “scellerata e vergognosa”: “Anziché investire in divise, dotazioni, mezzi e pagare gli straordinari agli agenti, ecco come butta i soldi il governo”. Una parte delle spese sono state in realtà sostenute dall’associazione Teatro Necessario che nel carcere di Marassi gestisce da quindici anni i laboratori teatrali, ma è evidente che la polemica è un’altra: non sui soldi, ma sulla natura stessa del carcere. Da una parte c’è la Costituzione, dall’altra c’è l’idea del carcere come buco nero, come un luogo in cui viene sospeso lo stato di diritto. La Lega è pronta a presentare l’interrogazione al ministro Alfonso Bonafede, che ieri in commissione Giustizia ha messo subito le mani avanti: “Ho disposto accertamenti per ricostruire i fatti”. Solerzia che il ministro non dimostra nei confronti dei pestaggi avvenuti nelle carceri come rappresaglia dopo le proteste di marzo. Se si rieduca, scattano i controlli, se si viene presi a botte va tutto bene. Il ministro della Giustizia più inutile e dannoso della storia della Repubblica è così: silenzio sul carcere di Santa Maria Capua Vetere e accertamenti quando si fa di tutto per essere umani. Ma cosa hanno fatto di così male i cinque detenuti? Hanno urlato, bestemmiato, invitato i cittadini a rubare, uccidere? Niente di tutto questo. Sono andati in tv a far vedere il loro talento, hanno raccontato quello che sanno fare. Hanno messo in scena un brano in cui i detenuti salutano i parenti quando entrano in carcere. Lacrime. Emozione. Questo si doveva provare. Invece… Intervistata dal fattoquotidiano.it la direttrice del carcere di Marassi ha difeso l’iniziativa: “La trasferta - ha detto Maria Milano - fa parte di un progetto di lavoro esterno autorizzato da tempo e consentito dall’articolo 21 della legge sull’ordinamento penitenziario. Il viaggio si è svolto in totale sicurezza, sia i detenuti che gli agenti sono usciti con il nullaosta sanitario e sono stati sottoposti a tampone prima del rientro. Ogni attività - ha continuato - può essere considerata superflua, ma io sono dell’idea che il percorso trattamentale non possa essere abbandonato, altrimenti le carceri diventano bombe a orologeria. Scontare la pena con finalità rieducative è un diritto costituzionale”. Speriamo che questa direttrice coraggiosa non debba pagare un prezzo per queste sue parole e per le sue decisioni. Altre volte è successo. L’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, è stata addirittura accusata di concorso esterno in associazione mafiosa ed è stata disposta per lei la misura cautelare dei domiciliari, poi revocata. Al momento è stata sospesa per un anno dal suo lavoro. Ma la sua vicenda racconta bene il clima che si vive nelle carceri italiane: se sei un magistrato di sorveglianza e consenti a un detenuto malato di tumore di andare ai domiciliari, contro di te si scatena l’orda mediatica e arrivano i controlli. Se sei una direttrice che applica la Costituzione, sei fregata e si indaga su di te. Se sei un detenuto e accusi di pestaggio la polizia penitenziaria, aspetta e spera. Qualche anno fa a Berlino i fratelli Taviani vinsero l’Orso d’oro con il film Cesare deve morire, racconto commovente su un’esperienza teatrale nel carcere di Rebibbia. Un gruppo di detenuti deve mettere in scena Shakespeare e scopre quanto nella tragedia del Giulio Cesare ci sia della loro storia e della vita di tutti. Molto probabilmente oggi un film così non si potrebbe fare. Accuserebbero i due grandi registi, Paolo e Vittorio, morto nel 2018, di chi sa quale concorso esterno, di favorire i boss. Chissà quante puntate di Non è l’Arena contro di loro: altro che Orso d’oro, altro che applausi internazionali, gli avrebbero reso la vita impossibile. Come viene resa a tutti coloro che cercano di applicare la Carta, a tutti coloro che cercano di stabilire un legame tra il dentro e il fuori delle prigioni. Viviamo nel Paese in cui il processo mediatico è più diffuso. I verdetti si decidono via tv, le condanne si eseguono sui social, le giurie sono composte da giornalisti, politici, esperti tuttologi. Non c’è caso che ancora prima di arrivare in un’aula di giustizia non venga buttato in pasto all’opinione pubblica. Le prove non contano, contano i “si sa”, i “si dice”, i “si mormora” detti a uso e consumo del pubblico vociante. Ma guai se a quel pubblico per una volta si mostra il lato migliore della pena, se si mostra come i detenuti, anche quelli che hanno commesso reati molto gravi, sono persone, sono esseri umani. Guai se si mostra che sanno fare e che anche loro possono trovare forme di riscatto. Bravi e coraggiosi, quelli di Italia’s Got Talent nel decidere di chiamarli e di farli passare alle fasi successive. Ma sapranno resistere a queste polemiche? Riusciranno a non farsi intimorire? Sarebbe bellissimo perché una volta tanto invece del processo e della vendetta, la tv metterebbe in scena la possibilità del perdono, la possibilità di identificarci con chi ha sbagliato, con chi ha causato il male agli altri e tenta di rifarsi una vita. Ma non ditelo a Bonafede, se no partono gli accertamenti. Bonafede non può rimanere in silenzio sui pestaggi in cella di Stefano Feltri Il Domani, 2 ottobre 2020 Il 6 aprile scorso è successo qualcosa di inaccettabile in una democrazia: una spedizione punitiva di oltre 300 poliziotti è entrata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e ha picchiato i detenuti che protestavano per le proprie condizioni, aggravate dalla pandemia. Sapevamo che quella rivolta non era stata gestita come le altre che le carceri italiane hanno sperimentato durante i mesi del lockdown: a giugno 57 agenti sono stati perquisiti, le accuse dell’indagine includono reati molto gravi come tortura. Matteo Salvini si era precipitato a dare solidarietà. Non alle vittime, ma ai presunti torturatori. Dagli articoli che Nello Trocchia ha pubblicato in questi giorni su Domani sappiamo come sono andate le cose quel 6 di aprile. L’operazione di polizia nel carcere non si è limitata a riportare l’ordine ma, a quanto sappiamo dai testimoni e video, è servita soprattutto a sfogare la tensione accumulata dagli agenti in quelle settimane difficili. Calci, schiaffi, umiliazioni, pestaggi anche ai danni di un detenuto disabile. Di quelle violenze ci sono anche i video. Questo è il paese che già conosciuto scene simili alla scuola Diaz di Genova nel 2001, che ha visto morire ragazzi come Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi per mano di persone che avrebbero dovuto proteggerli e che invece li hanno massacrati e poi hanno fatto di tutto per evitare le proprie responsabilità. Non possiamo dire che abbiamo dimenticato: uno dei filoni del processo Cucchi è ancora in corso, il film che ricostruisce la vicenda ha addirittura vinto un David di Donatello e veniva proiettato nelle piazze come atto di impegno civile. Eppure la vicenda di Santa Maria Capua Vetere lascia indifferenti quasi tutti: erano soltanto detenuti, per di più in rivolta, che sarà mai qualche manganellata? Ma quello che è successo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non può essere tollerato. La magistratura sta indagando, vedremo che esito avrà le inchieste. Ma il piano penale non è l’unico. Su quello disciplinare, non si registra alcuna azione nei confronti degli agenti coinvolti e dei loro responsabili, anche se sappiamo i nomi e i cognomi. Il capo del Dipartimento amministrazione penitenziaria, il magistrato Francesco Basentini (dimessosi a maggio per altre ragioni) non ricorda se ha preso preso provvedimenti. Il suo successore Dino Petralia è rimasto altrettanto immobile. Agenti accusati di tortura restano in servizio, nelle carceri anche negli stessi reparti dove si è svolta la spedizione punitiva del 6 aprile. Tutti sono innocenti fino a prova contraria, dal punto di vista penale. Ma quel giorno, in quel carcere, c’erano persone che non avrebbero dovuto esserci, che hanno tenuto comportamenti inappropriati. Ci sono telecamere di sorveglianza, detenuti che hanno visto e subito, anche referti medici, è lecito immaginare. I fatti già accertati, insomma, sono più che sufficienti per legittimare un intervento dall’alto, se non altro in via cautelare. Se un’azienda scopre un ammanco e ha prove che un suo impiegato ha gestito male la cassa, può prendersi del tempo prima di decidere se licenziarlo, ma lo mette in condizione di non fare altri danni. C’è soltanto una persona che potrebbe - e dovrebbe - rompere questa cappa di silenzio: il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Solo lui può chiedere al Dipartimento amministrazione penitenziaria di rendere conto di quello che è successo. Se Bonafede sceglierà di non interessarsi del caso, nascondendosi dietro il comodo alibi “lasciamo lavorare la magistratura”, si renderà complice dei responsabili di quegli abusi. Sui pestaggi in carcere i funzionari hanno perso la memoria di Nello Trocchia Il Domani, 2 ottobre 2020 Gli agenti indagati per la spedizione punitiva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono ancora al loro posto. Uno si è anche aggiudicato un nuovo incarico. Il ministro Bonafede tace. Un contingente di 300 agenti della polizia penitenziaria, lo scorso 6 aprile, è entrato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, padiglione Nilo, e ha trasformato una perquisizione in un pestaggio, generalizzato, dei detenuti. Ci sono i video e le testimonianze, come abbiamo rivelato nei giorni scorsi, che provano gli abusi. Cosa ha fatto il Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nei confronti dei responsabili di quella spedizione punitiva? Quali provvedimenti ha assunto nei confronti della catena di comando che ha ordinato quella perquisizione straordinaria? Abbiamo chiesto spiegazioni a Francesco Basentini, allora capo del dipartimento e oggi magistrato alla procura di Roma. “A memoria non ricordo se ho avviato un’indagine ispettiva sui fatti di Santa Maria Capua Vetere, non mi ricordo proprio, di solito per fatti analoghi l’ho sempre fatto”, dice Basentini. Il magistrato spiega che quando c’è un’indagine penale, per avviare una verifica interna il dipartimento chiede l’autorizzazione alla procura competente. L’ispezione inizia, quindi, dopo il via libera dell’autorità giudiziaria. A Santa Maria Capua Vetere è iniziata questa verifica ispettiva? “Non lo ricordo”, ribadisce Basentini che però cita altre vicende analoghe, nelle quali è intervenuto. L’ex capo del Dap ricorda il caso di San Gimignano quando ha fatto scattare le sanzioni disciplinari, e un episodio a Torino. “Ricordo molto più chiaramente quel caso, ci fu denuncia del garante locale, e a seguito del nullaosta concesso dall’autorità giudiziaria fu nominata la commissione ispettiva”. Torniamo al caso del carcere Francesco Uccella di Santa Maria. Dopo il 6 aprile tanti si mobilitano. Si muove il garante dei detenuti regionale, Samuele Ciambriello, quello nazionale Mauro Palma, la camera penale e l’associazione Antigone. Quest’ultima invia il 16 aprile un’email al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nella quale allega l’esposto riguardante i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Il destinatario è il capo del dipartimento. All’interno dell’esposto ci sono le segnalazioni raccolte anche dal garante provinciale di Napoli, Pietro Ioia. Un esposto che viene corredato da foto, audio che denunciano pestaggi e violenze. “La ricostruzione che verrà riportata nel presente esposto è stata realizzata sulla base delle segnalazioni pervenute via email o via Facebook, delle telefonate effettuate con familiari dei detenuti e con avvocati, delle immagini e degli audio ricevuti”, inizia così la denuncia di Antigone. Viene ricostruita la protesta dei detenuti per la diffusione della notizia di un contagiato, l’arrivo del magistrato di sorveglianza e poi l’ingresso degli agenti “suddivisi in gruppi di sette agenti, in tenuta “antisommossa” con il volto coperto da caschi e i guanti alle mani” che “hanno posto in essere una seria e grave azione di violenza contro molti detenuti. Secondo la ricostruzione, alcuni agenti sarebbero entrati nelle celle e, cogliendo i detenuti di sorpresa, li avrebbero violentemente insultati e picchiati con schiaffi, pugni, calci e a colpi di manganello”. L’esposto, firmato dal presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, elenca gli orrori commessi e le conseguenze riportate dai detenuti: costole rotte, denti spaccati, traumi cranici, detenuti che non riuscivano ad alzarsi, altri che urinavano sangue. Pestaggi che oggi trovano conferma nelle decine di frammenti video che sono agli atti del fascicolo giudiziario e che, grazie a una testimonianza raccolta, abbiamo ricostruito. Una galleria degli orrori con pochi precedenti nella storia penitenziaria di questo paese. “Ricordo l’esposto di Antigone sui fatti di Opera, poi probabilmente ne fece uno su Santa Maria, ma probabilmente non presi subito visione anche perché a inizio maggio sono andato via. Non riesco a ricordare”, conclude Basentini. L’ex capo del Dap, dimissionario dopo le polemiche seguite alla scarcerazione del boss Pasquale Zagaria finito ai domiciliari, risponde alle domande, ma ribadisce di non ricordare se ha avviato o no un’indagine ispettiva. “Dovrebbe chiedere al nuovo Dap, visto che io ho lasciato a inizio maggio”. A quanto abbiamo appreso è tutto fermo, si è in attesa dell’esito dell’inchiesta giudiziaria. L’ultimo atto dei magistrati è la notifica del decreto di perquisizione, lo scorso 11 giugno, quando i carabinieri hanno sequestrato i cellulari degli agenti indagati. Un fatto è certo, il personale, coinvolto nell’indagine, resta al suo posto. In realtà qualcosa ai protagonisti di quella giornata nera per lo stato italiano è accaduto. Il comandante della polizia penitenziaria, Gaetano Manganelli, indagato nell’inchiesta della procura di Santa Maria, è stato trasferito al carcere di Secondigliano: è stato spostato per ragioni non di opportunità, ma di carriera. Infatti circa due anni fa Manganelli aveva risposto a un interpello, un concorso interno, per ricoprire un incarico direttivo nel carcere di Secondigliano. All’esito della procedura di mobilità, Manganelli era risultato secondo. Il tribunale amministrativo ha accolto, lo scorso giugno, il suo ricorso e ha dato il via libera al trasferimento. Oggi è comandante di reparto. “Io non posso parlarle, non sono autorizzato, sono sereno e ho fiducia nella magistratura”, dice manganelli. Ma perché quel giorno i detenuti furono pestati? “Non posso parlare, c’è un’indagine in corso, parli con il provveditorato”. Il provveditore regionale è Antonio Fullone, non presente il 6 aprile ma indagato per aver disposto quella perquisizione insieme con i vertici dell’istituto, e inviato gli uomini che poi sono stati protagonisti del pestaggio. Furono proprio gli agenti esterni all’istituto a picchiare i detenuti mentre gli “interni” guardavano. Anche Fullone ha detto di non poter parlare. Analoga la posizione del ministro, Alfonso Bonafede, che aspetta l’esito dell’inchiesta, coperta da segreto. Tutti in silenzio mentre tra gli indagati c’è chi resta al suo posto e chi si aggiudica incarichi. I detenuti sono sempre lì, insieme agli agenti che quel giorno guardarono o parteciparono al brutale pestaggio. Per i detenuti non c’è riscatto. Questo carcere è solo vendetta di Fabio Anselmo* Il Domani, 2 ottobre 2020 I partiti tornino occuparsi di diritti umani, non facciano compromessi. Le storie di abusi e violenze nelle celle sono molte. E spesso restano senza giustizia. Con due aggravanti: le famiglie delle vittime affrontano tutto da sole e le indagini subiscono depistaggi. Le storie di violenze di gruppo organizzate da agenti della Polizia penitenziaria contro detenuti inermi si ripetono senza tempo secondo schemi collaudati. La solidarietà di alcune forze politiche, quella di alcune sigle sindacali e le coperture delle amministrazioni di competenza ne garantiscono una sostanziale impunità. Le gravi responsabilità vengono via via sfumate dal decorso del tempo, perdendosi nell’oblio e creando un terreno fertile per depistaggi e insabbiamenti. Le vittime dei cosiddetti abusi delle forze dell’ordine sono lasciate sole. Lo stato quasi mai è al loro fianco per esigere verità e giustizia. Sulle loro famiglie grava il peso di questa civile istanza. Ma i detenuti sono spesso senza famiglie, oppure quando le hanno non sono in grado di sopportarlo. Questa violenza è intollerabile. Non possiamo, tuttavia, nasconderci come di fatto vengano tranquillamente accettati dal cosiddetto comune sentire dell’opinione pubblica. È l’efficace propaganda politica cinica e furba che concepisce le carceri come discariche sociali dove buttare le vite degli ultimi: coloro che, sì, hanno commesso reati ma ai quali viene negata ogni possibilità di rieducazione e riscatto. La pena che è solo sanzione e afflizione è vendetta. Non è così prevista dalla nostra Costituzione. “Se la Costituzione fosse applicata alla lettera, questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni, è fuori legge. Questo carcere con la Costituzione non ha nulla a che vedere”. Si tratta del carcere di Prato e a parlare era un brigadiere della polizia penitenziaria che rispondeva al detenuto Rachid Assarag. Rachid era finito dentro nel 2009 per una condanna definitiva per tentata violenza sessuale. Fin da subito era stato oggetto di aggressioni, maltrattamenti e pestaggi. Laddove reclamava il diritto sacrosanto di scontare la sua giusta pena nel rispetto della Costituzione questa è stata la risposta. Rachid, quando ha visto che le denunce sugli abusi subiti si arenavano, si è procurato un registratore e ha documentato ogni momento della sua vita da detenuto. Da un carcere all’altro le sue registrazioni hanno rivelato uno spaccato spietato e desolante della sua vita in cella. Spedizioni punitive, pestaggi, abusi e torture. Rachid ha registrato tutto e tutti: agenti, medici, infermieri e psicologi, tutti compartecipi di un sistema omertoso fatto di paure e connivenze. È stato ridotto per tanto tempo su una sedia rotelle e ha perso l’uso di un occhio. Quando i Cinque Stelle si occupavano ancora di diritti umani avevano presentato un’interpellanza urgente con la quale si chiedeva conto al ministero della Giustizia di tutti questi gravi fatti. Tra i firmatari, dopo il primo, Vittorio Ferraresi, anche un certo Alfonso Bonafede, oggi a capo del dicastero di Grazia e giustizia. A rispondere fu Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia, che riferì di un’ispezione ministeriale, di cui non si seppe più nulla. Un’inchiesta amministrativa era stata fatta dal Dipartimento della amministrazione penitenziaria anche sul decesso di Stefano Cucchi, che ieri avrebbe compiuto 42 anni. “Responsabilità pubbliche per la mancata assistenza”, “carenze dei servizi sociali interni ed esterni”. Questo si legge nella relazione scritta sul caso Cucchi. Dove si legge anche che “la morte di Cucchi condensa in sé una sommatoria di insensibilità e di disumanità, che merita ogni intervento ad hoc volto a ristabilire, anche per il futuro, regole di verità e giustizia”. Non solo. Riconosce che “il nostro sistema carcerario” si è “trasformato da luogo di rieducazione per condannati a luogo di transito per arrestati, spesso portatori di disagi e bisogni più che di autentica capacità criminale”. La relazione finale, a firma del magistrato Sebastiano Ardita, investe la direzione generale del personale per l’avvio dei procedimenti perché “il quadro che emerge è quello di un’incredibile e continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti, assenza di comprensione e disagio, mancata assistenza ai bisogni, assenza del comune senso di umanità”. Questa relazione, prescindendo dalle responsabilità penali che hanno portato Stefano in carcere nelle condizioni tristemente note, scatta una fotografia impietosa del trattamento riservato al ragazzo nelle strutture carcerarie. Ma a Santa Maria Capua Vetere all’indifferenza si è affiancata la violenza bruta e organizzata. Cosa aspettiamo a farci carico del problema che è oramai sotto gli occhi di tutti? Certo, non è un tema che porta consensi e voti. Più facile assecondare la deriva populista che sta inquinando l’amministrazione della giustizia. Quella del tifo per i buoni e dell’odio per i cattivi Un apprezzamento speciale lo dobbiamo ai magistrati che si sono impegnati in questa vicenda. Di loro abbiamo tanto bisogno come di una dialettica processuale sana così come era stata a suo tempo concepita: gli avvocati esercitano la propria funzione con pieno diritto e, in egual modo, i magistrati. Senza patenti di buoni o cattivi. Nessuno è portatore di verità divina. E voi, forze di governo, recuperate la sensibilità di un tempo per i diritti umani, su di essi non si possono fare compromessi. *Avvocato Lo strumento per punire questi crimini c’è: il reato di tortura di Riccardo Noury* Il Domani, 2 ottobre 2020 Le testimonianze riportate da Nello Trocchia nella sua inchiesta sono drammatiche. Ci dicono che a Santa Maria Capua Vetere, nei giorni successivi alla rivolta violenta del 6 aprile, qualcosa di grave è effettivamente accaduto. Se non bastassero le parole dei detenuti, ci sono le immagini delle telecamere di sorveglianza all’interno del carcere. Altra violenza, dunque, e questa volta violenza di stato. Non per sedare la rivolta, ma quando la calma nel carcere era ampiamente tornata. Circa 400 agenti, secondo quanto riportato all’epoca dei fatti dall’associazione Antigone, in tenuta antisommossa, col volto coperto da caschi e guanti alle mani, impegnati a portare a termine un’azione ritorsiva nei confronti di alcuni detenuti del reparto “Nilo”. Sin da subito, abbiamo visto all’opera un meccanismo vecchio e collaudato: negare le denunce, alzare una barriera difensiva fatta di silenzio, sostenere che esista una “lobby dell’antipolizia”, chiamare a raccolta pezzi di politica “amica”, sempre pronti a prendere le parti delle forze di polizia a prescindere dal loro operato. Qualcosa però ha iniziato a contrastare quel meccanismo che per anni ha favorito l’impunità. Già il 14 aprile l’associazione Antigone aveva depositato un esposto, alla procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, contro agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere locale per tortura e percosse così come nei confronti di medici operanti nello stesso istituto per omissione di referto, falso e favoreggiamento. A giugno, la procura della cittadina campana ha iscritto nel registro degli indagati 44 agenti della polizia penitenziaria e vedremo come le cose andranno avanti sotto il profilo giudiziario. Qualcosa si può fare Ora, rispetto al passato, lo strumento che può contribuire a individuare e a sanzionare in modo adeguato le responsabilità, c’è: il bistrattato reato di tortura, introdotto nell’ordinamento italiano tre anni e mezzo fa dopo quasi tre decenni di vani tentativi. Ci sono i casi di tortura “ordinaria”, in cui i soggetti condannati erano privati cittadini e non pubblici ufficiali, commessi per lo più da minorenni o adulti molto giovani: ricordo, tra gli altri, i maltrattamenti inflitti in un garage di Varese, le sevizie inflitte da una badante a un novantenne di Alghero e la nota storia delle sofferenze inflitte a un uomo con disagio psichico a Manduria. C’è poi la storica condanna emessa il 28 maggio dal tribunale di Messina per torture commesse in Libia, nel campo di detenzione per migranti di Zawiya, da persone successivamente arrivate sul territorio italiano: scosse elettriche, violenze sessuali, mancanza di assistenza medica, di acqua e di cibo. I tre condannati sono un guineano e due egiziani, facenti capo ad Abdurahman al Milad (quel “Bija” di cui la stampa italiana rivelò una controversa visita ufficiale nel nostro paese). E, soprattutto, ci sono i non pochi casi che riguardano proprio le torture “aggravate” in quando commesse da pubblici ufficiali nei confronti di detenuti. I principali sono relativi alle carceri “Le Vallette” di Torino, San Gimignano, Ferrara e, per l’appunto, Santa Maria Capua Vetere. A ciò aggiungiamo che, in una conferenza stampa del 4 settembre 2019, il Garante nazionale per le persone private della libertà aveva dichiarato di avere segnalato una serie di casi sospetti ad altre procure. Non sapremo come andranno a finire questi procedimenti. Ma di sicuro, almeno, non sarà la prescrizione a perpetuare l’impunità. *Portavoce di Amnesty International Italia Carceri e salute: piano per la ricerca del “sommerso” dell’Epatite C in otto istituti italiani medicalexcellencetv.it, 2 ottobre 2020 Al via a Roma il XXI Congresso Nazionale Simspe (Società Italiana di Malattie e Sanità nei Penitenziari) “L’Agorà Penitenziaria 2020”. La situazione psichiatrica e infettivologica delle carceri a sei mesi dallo scoppio della pandemia. Si rafforza il progetto di medici specialisti e operatori sanitari, già partito in 8 istituti. Calati del 90% i trattamenti nei penitenziari italiani, dove risiede un ricco serbatoio di pazienti. Ci sono voluti 30 anni per trovare una cura per sconfiggere l’Epatite C e speriamo che siano sufficienti pochi altri mesi per vincere la Covid-19, soprattutto in ambiti di estrema fragilità quali nostre le carceri, laddove si annida un cospicuo serbatoio di pazienti HCV positivi. L’iniziativa Simspe su 8 carceri - L’iniziativa della Simspe - Società Italiana di Malattie e Sanità nei Penitenziari, approvata dal Comitato Etico dell’ISS nel dicembre 2019, si candida come un punto di riferimento per nuove politiche. “Come nella popolazione libera c’è stato uno stop nei trattamenti, anche nelle carceri vi è stato un rallentamento a cui adesso dobbiamo far fronte - evidenzia il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico di Simspe e referente del progetto in seno al gruppo di lavoro ministeriale di sette persone che si occupa degli screening gratuiti previsti dall’emendamento al Milleproroghe - La metodologia applicata è basata su un approccio che prenda in esame le singole sezioni di ciascun penitenziario (una sezione abitualmente è composta da 60-70 detenuti circa). Il progetto è già partito in otto carceri, trasversali alle diverse regioni (San Vittore a Milano, Sassari, Alghero, Civitavecchia, Genova, Salerno, Eboli, Vallo della Lucania). Il progetto era già partito prima della pandemia, analizzando al 31 gennaio 2020 un campione di 2758 persone, distribuite in 46 sezioni detentive: di questi sono state analizzate le cartelle di 2173 soggetti, quindi il 78,8%, di cui la quasi totalità, 2038, il 93,8% ha eseguito i test antihcv: la prevalenza di HCV è stata del 10,3%. L’aspettativa era che fossero viremici almeno 3 su 4, mentre siamo a meno della metà: ciò significa che in molti sono già stati avviati alla terapia nei Serd o nei centri specializzati, quindi anche nelle persone detenute si sta osservando una riduzione del numero dei malati come conseguenza dei trattamenti estesi avvenuti negli ultimi anni nella popolazione libera”. La ricerca del “sommerso” dell’epatite C riparte dai penitenziari - La pandemia ha interrotto il processo di eradicazione del virus nei pazienti affetti da Epatite C, con un decremento di circa il 90% dei trattamenti. Un peso che grava sul rallentamento già verificatosi nei primi mesi del 2020, quando emergevano le prime difficoltà nell’individuare i soggetti da trattare. L’innovazione garantita dai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (Daa) per il trattamento dell’epatite C ha avuto una portata rivoluzionaria per la possibilità di eradicare il virus in maniera definitiva, in tempi rapidi e senza effetti collaterali, ma una volta trattati i pazienti conclamanti, restano fuori coloro che sono ignari di aver contratto il virus, il cosiddetto “sommerso”. Per questo è necessaria una vera politica di screening, che riguardi in primis le cosiddette “key populations”, come tossicodipendenti e detenuti. L’emendamento al Decreto Milleproroghe approvato lo scorso febbraio ha stanziato un fondo di 71,5 milioni di euro per il biennio 2020-2021 per l’accesso gratuito allo screening, ma necessita di un’applicazione entro l’anno. Le analogie con l’Hiv - Il processo in corso ricorda quanto già avviato da alcuni anni per l’HIV, virus che a differenza dell’HCV non si può eradicare ma solo controllare impedendone la replicazione e azzerando la viremia fino a renderlo non trasmissibile. “Si sta verificando ciò che è avvenuto anche per l’HIV - spiega il Prof. Babudieri - Nel 2001 l’8,4% dei detenuti erano positivi, nel 2005 il 7,5%, nel 2008 il 7,3%, nel 2010 il 6,2%, nel 2012 il 5,2%, nel 2015 il 3,1%, ora siamo intorno all’1,8%: non sono diminuiti i comportamenti a rischio, ma i trattamenti che azzerano la viremia ematica riducono anche la possibilità di trasmissione, quindi restano quasi solo i vecchi positivi. Questo ci dice che quando si interviene nella cura di una malattia su un singolo si hanno effetti su tutta una popolazione. Il fatto che metà delle persone detenute positive al test HCV sia guarito dal virus grazie ai trattamenti risolutivi e ai farmaci Daa significa che il numero si sta riducendo e, conseguentemente, che si restringe il serbatoio dei malati che possono trasmettere il virus”. Il XXI Congresso Simspe - Il tema dell’eliminazione dell’Epatite C nelle carceri è al centro del XXI Congresso Nazionale Simspe “L’Agorà Penitenziaria 2020”, in corso dal 1° al 3 ottobre come inedita Web-Conference con i partecipanti esclusivamente collegati online. Presenti nella consueta sede congressuale a Roma i dirigenti di Simspe e alcuni relatori, ma molti contributi vengono trasmessi in via telematica. Le relazioni si sviluppano lungo quattro moduli principali. “Abbiamo avviato una riflessione sulla quotidianità di ognuno di noi, attraverso quattro grandi macrosettori in cui si articola il nostro lavoro: le malattie infettive, la psichiatria, l’attività delle professioni sanitarie, le problematiche medico-legali” spiega il Prof. Babudieri. “Il Coronavirus si è per fortuna ad oggi affacciato in pochi Istituti ma non sono riportati eventi tragici al loro interno - evidenzia il Presidente Simspe Luciano Lucanìa - Al centro del dibattito, come è naturale, vi sono tutte le situazioni che abbiamo vissuto in questi mesi terribili e le nostre esperienze, preziose per trovare le soluzioni migliori ai diversi problemi clinici, organizzativi e logistici che possono emergere in questo ambito. Tutte le nostre attività nell’ambito delle diverse discipline sono inserite nei topics di questa Agorà”. Molti volti nuovi nella corsa dei giudici al parlamentino Anm di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 2 ottobre 2020 Elezioni dal 18 al 20 ottobre, ecco i candidati nelle cinque liste. Le liste dei candidati per prossime elezioni per il rinnovo del comitato direttivo centrale, il cosiddetto “parlamentino” dell’Anm sono state depositate questa settimana. Trentasei i posti in palio. Le elezioni si terranno in tre giorni, dal 18 al 20 ottobre. Una volta eletto, il Cdc indicherà poi la giunta esecutiva centrale, composta da nove membri, tra i quali il presidente ed il segretario generale. Sono le prime elezioni dopo lo scandalo che ha colpito la magistratura lo scorso anno e ha determinato, a seguito di dimissioni a catena, un cospicuo ricambio sia dei componenti del Cdc che del Csm. Solo a piazza Indipendenza sono stati sei i consiglieri costretti alle dimissioni. L’ultimo, il mese scorso, è stato il giudice Marco Mancinetti, incappato in un procedimento disciplinare per essere finito nelle chat dell’ex presidente Anm Luca Palamara. Il suo posto è al momento vacante in attesa che il Csm decida se il collega Pasquale Grasso, primo dei non eletti, abbia i titoli per subentrare o meno. I gruppi si presentano, pur con alcune eccezioni, prevalentemente con volti nuovi. Si tratta in gran parte di magistrati che non hanno mai fatto politica associativa. A loro è delegata la responsabilità di far superare la sfiducia che avvolge l’associazionismo giudiziario. All’ultima Assemblea generale, quella che ha confermato l’espulsione di Palamara, i partecipanti erano stati poco più di cento su oltre ottomila iscritti. Ai quattro tradizionali gruppi associativi si è aggiunta la lista “Articolo 101”, nata in questi ultimi mesi in segno di rottura con il ‘ sistema’ degli accordi sulle nomine fra le correnti. Fra i cavalli di battaglia, infatti, il sorteggio per l’elezione dei togati del Csm, la rotazione degli incarichi, l’uscita dei gruppi associativi da Palazzo dei Marescialli. Dopo lo scoppio dell’affaire Palamara diversi esponenti del gruppo si erano spesi molto per lo scioglimento del Csm e per nuove elezioni. La tornata elettorale era inizialmente prevista per marzo, poi rinviata a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19. Il voto avverrà per la prima volta in modalità telematica. La data ultima per l’accreditamento è stata fissata al dieci ottobre. Nella lista di Area Dg, il cartello progressista, si segnala la ricandidatura del presidente uscente, il pm milanese Luca Poniz e dei giudici Silvia Albano e Giovanni Tedesco, oltre alla presenza del consigliere di Cassazione Giuseppe Santalucia, capo dell’ufficio Legislativo al ministero della Giustizia all’epoca in cui guardasigilli era Andrea Orlando. Magistratura indipendente, la corrente moderata delle toghe, si presenta in tandem con il Movimento per la costituzione, il gruppo nato dalla scissione di Unicost. Fra i candidati, Antonio Sangermano, procuratore per i minorenni di Firenze ed Enrico Infante pm a Foggia. Sono di Mi, invece, Giuseppe Spadaro, presidente del Tribunale per i minorenni Firenze e Cesare Parodi procuratore aggiunto a Torino. Autonomia & Indipendenza, la corrente fondata dall’ex pm di Mani pulite e consigliere del Csm Piercamillo Davigo, sulla cui permanenza a Palazzo dei Marescialli anche quando il prossimo 20 ottobre sarà collocato in pensione si è da tempo aperto un acceso confronto, schiera l’ex togato Aldo Morgigni, ora giudice a Roma. Unicost, il gruppo di centro di cui Palamara è stato per anni il leader indiscusso, ha la lista con meno candidati: solo trenta. Tra loro il giudice Giacomo Ebner e la consigliera di Cassazione Silvia Giorgi. E infine “Articolo 101”. Fra i candidati si segnala Andrea Reale, giudice a Ragusa e uno degli animatori del blog toghe. blogspot.com, il portale contro il “correntismo”. Difficile fare previsioni. La disaffezione, come detto, è tanta. L’ultima Assemblea ha puntato sul “rilancio dell’azione dell’Anm su rinnovate basi etiche e statutarie con il contributo paritario delle diverse sensibilità culturali presenti in magistratura”. Era stata approvata anche una mozione indirizzata al ministro della Giustizia e al Parlamento. Fra i punti salienti, un no secco a qualsiasi ipotesi di separazione delle carriere. E sul progetto di riforma della giustizia messo in campo da Alfonso Bonafede, erano stati evidenziati alcuni aspetti ritenuti “critici”, come “la previsione di sanzioni disciplinari quali strumenti per garantire la maggior tempestività dei processi”. Tale ipotesi, facevano presente i magistrati, “in assenza di misure che effettivamente rendano funzionale il meccanismo processuale, è destinato a produrre risultati ingiustamente punitivi in danno dei singoli magistrati, senza apportare alcun positivo contributo all’effettività e tempestività della giustizia civile e penale”. Cantone: intercettazioni a misura di connessione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020 Arrivano anche da Raffaele Cantone le prime indicazioni sull’applicazione della riforma delle intercettazioni. Analogamente a quanto fatto da altri uffici inquirenti, il nuovo capo della Procura di Perugia mette nero su bianco, in una direttiva, una serie di soluzioni ai casi già più controversi. A partire dalla disciplina da applicare nel passaggio da vecchie a nuove regole. Da superare è il dato formale dell’iscrizione del reato, quando la relativa notizia è stata acquisita in una data anteriore al 31 agosto 2020 (la riforma è partita il 1° settembre): in questo caso, come per i procedimenti iscritti contro ignoti prima del 31 agosto e identificazione successiva e per le notizie di reato emerse prima della fine di agosto con successiva formazione del fascicolo attraverso stralcio, si continueranno ad applicare le vecchie misure. Discorso diverso per i procedimenti iscritti prima del 31 agosto nell’ambito dei quali emergono attività investigative in corso e in particolare nuove notizie di reato che rendono indispensabili nuove iscrizioni. Per queste situazioni, la direttiva di Cantone chiarisce che continuerà ad applicarsi la disciplina precedente in caso di connessione forte (articolo 12 del Codice di procedura penale) con le imputazioni originarie, ritenendo che non ne derivino nuovi procedimenti; a tutte le altre iscrizioni, invece, dovrà essere applicata la riforma, nella convinzione che si tratta di procedimenti nuovi e diversi, senza che abbia rilevanza il fatto che l’iscrizione avviene in un procedimento già instaurato. Le trascrizioni integrali delle intercettazioni non devono, di norma, più avvenire, nel caso di procedimento nel quale è chiesta dal Pm l’applicazione di misure cautelari. Nella richiesta il pubblico ministero dovrà limitarsi a riassumere il contenuto delle intercettazioni. Quanto a una delle più significative novità dell’ultima versione della riforma, cioè la nuova regolamentazione dell’utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti diversi, in coerenza con quanto disposto di recente dalle Sezioni unite della Cassazione, la direttiva Cantone ricorda che l’uso è possibile, a prescindere di qualsiasi rapporto di connessione, quando i reati ulteriori rispetto a quelli oggetto dell’originaria autorizzazione rientrano nel lungo elenco previsto dall’articolo 266 del Codice di procedura penale. Anche le intercettazioni attraverso trojan possono essere utilizzate in via estensiva, ma solo quando indispensabili per la prova di una categoria di reati meno ampia di quella oggetto delle intercettazioni allargate “normali”. Le conversazioni registrate attraverso il trojan potranno riguardare solo la scoperta di reati diversi ma per i quali il Codice ammette l’impiego del captatore informatico. Perché i Pm possono accanirsi anche dopo l’assoluzione? di Alberto Cisterna* Il Riformista, 2 ottobre 2020 Sappiamo tutto di una retata, non sappiamo nulla di come si concludono i processi. Serve questo silenzio a garantire serenità alle toghe? Può darsi. Ma che senso ha inseguire un imputato dopo che i giudici hanno detto che ha ragione? Si è conclusa mercoledì - con il fioco clamore mediatico che in questo sfortunato Paese viene tributato alle assoluzioni degli ingiustamente accusati - la vicenda di un ufficiale di alto rango dell’Arma dei Carabinieri. Il nome poco importa - lo ha fatto ieri Il Riformista - e anche il suo processo sarebbe da considerare di scarso rilievo. Una falsa testimonianza in un processo di ‘ndrangheta. Non una corruzione o una collusione mafiosa, né un depistaggio o peggio ancora un pestaggio. Nulla di particolarmente grave nella colonna infame dei reati che di tanto in tanto vengono contestati a fedeli servitori dello Stato e per i quali, a distanza di tempo, fioccano inevitabili archiviazioni o assoluzioni. La Cassazione ieri ha respinto il ricorso che la procura d’appello aveva proposto contro l’assoluzione che era stata pronunciata dai giudici di secondo grado, cancellando una prima condanna. Ancora una volta nulla di particolarmente grave, sono cose a cui la gente è abituata purtroppo, e quando capìta che il velo dell’omertà mediatica sia squarciato e la notizia si spanda in mille rivoli minori, non sono pochi quelli che pensano che un colpevole l’abbia passata liscia e che debba ringraziare il cielo di aver scampato le manette, piuttosto che lamentarsi della lapidazione investigativa. È un problema di civiltà. Una nazione abbrutita da fughe di notizie, da arresti presentati come condanne, da conferenze stampa percepite come verdetti inappellabili, ha completamente smarrito quali sia il rigore anche etico imposto dalla presunzione di innocenza e non esercita più alcun controllo sulle notizie che provengono dagli apparati della repressione penale i quali, da anni, agiscono in perfetta simbiosi con ben collaudati e servizievoli consorzi mediatici. Ma ancora una volta nulla di particolarmente grave. Sono cose note da tempo. Per quale motivo strapparsi le vesti questa volta, cosa ci potrebbe essere di diverso da altri casi, finiti in silenzio e sopiti nell’indifferenza di tutti. Qualche tempo or sono - in tempi di leggi ad personam sfacciatamente presentate come tali (anche oggi, invero, i casi non mancano, ma tutto è più felpato) - si era pensato di inibire al pubblico ministero la possibilità di proporre appello contro le sentenze di assoluzione. Il processo penale si svolge nel pieno contraddittorio, l’accusa porta le proprie prove e se il giudice le ritiene inadeguate o insufficienti l’imputato deve essere lasciato in pace. Regola semplice, forse anche ragionevole, che tuttavia è incespicata nei rilievi censori della Corte costituzionale e per ragioni che - all’epoca e tenuto conto del contesto politico della riforma - potrebbero anche comprendersi. Questo non avrebbe impedito al legislatore di por mano alla questione per altra via, imponendo a esempio rigorosi filtri gerarchici per l’impugnazione del pubblico ministero e, soprattutto, monitorando l’esito dei processi ai fini della ricostruzione delle carriere, di quelle carriere che sono esibite nei tornei torrentizi come folgoranti e per le quali nessuno sa effettivamente come una retata di manette si sia conclusa o come un’indagine eccellente abbia avuto il proprio epilogo. I curricula (che la riforma Bonafede vorrebbe rendere ostensibili e pubblici) tacciono su questo profilo, certo non marginale della questione, e sono pieni piuttosto di numeri riguardanti indagini - anzi (come le si chiama ora con linguaggio inappropriato per un magistrato anche se dell’accusa) “operazioni” - e mai di riferimenti alla loro conclusione e ai verdetti definitivi. Non che questo snodo cruciale della vicenda fosse sfuggito all’attenzione delle menti più raffinate del Parlamento italiano e che non si fosse prevista una norma in proposito. Ma il 18 dicembre 2004, il presidente Ciampi rinviò alle Camere, rifiutandone la promulgazione, il testo della legge di delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario, definitivamente approvata dalla Camera l’1 dicembre 2004, e svolse svariati rilievi, uno dei quali concernente proprio questo monitoraggio dell’esito dei procedimenti. Rilevò la Presidenza della Repubblica che la prevista “istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali” fosse in palese contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione. E ancora “il monitoraggio dell’esito dei procedimenti - fase per fase, grado per grado - affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla ‘organizzazione” e dal “funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro”. Quindi, il nocciolo della questione: “inoltre, da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni: in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza “della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione”. Un punto invalicabile che, con grande onestà intellettuale, il messaggio di Ciampi enunciava senza alcun infingimento e dietro il quale si scorgeva anche il peso delle preoccupazioni provenienti dalla corporazione. Aleggiava il pericolo che il controllo sull’esito dei processi, operato dal Ministro della giustizia, potesse condizionare l’esercizio della giurisdizione. Non si può negare che sia vero. Il problema è, però, comprendere se esista un punto di equilibrio tra l’assenza di efficaci controlli (il Csm è, almeno formalmente, in grado di poter verificare questo aspetto quando cura la valutazione dei singoli magistrati) per lasciare tranquillo e sereno il manovratore giudiziario, e l’esigenza dei cittadini e dello Stato di prevenire il ripetersi di errori seriali da parte della stessa toga, se non dello stesso cluster di toghe non poche volte avvinte dalle medesime indagini e messe a guardia degli stessi imputati. Si badi bene, non si tratta di discutere né dei fondi per l’ingiusta detenzione da manette facili (sono i casi più gravi, ovviamente) né degli indennizzi per la irragionevole durata del processo (messi in bilancio 2020 per 180 milioni di euro), ma della necessità di scovare quelli che, in sanità, vengono definiti gli “eventi avversi” ossia i casi in cui la macchina sistematicamente si inceppa e nessuno riesce a porvi rimedio in modo celere e definitivo. Così consentire al pubblico ministero, che ha visto miseramente naufragare la propria ipotesi investigativa. di rimandare l’imputato assolto innanzi alla corte d’appello e, se ben ammanicato, anche al cospetto della Cassazione, è un danno che il sistema non può sopportare. L’obiezione è nota: le impugnazioni dei pm contro le assoluzioni sono infrequenti e non sono quelle a intasare le aule dei gradi superiori. Ma la risposta è parimenti chiara: l’impugnazione non può essere il sistema per impedire all’imputato, già proclamato innocente, di uscire per sempre dal processo e, soprattutto, per impedire un redde rationem sulle indagini. “Causa che pende, causa che rende” proclamavano un tempo i vecchi avvocati; ma parlavano d’altro. Quando è in gioco la libertà e la dignità della persona ogni causa che pende è una causa che rende un pessimo servizio allo Stato e alla collettività, oltre che al singolo. La riforma dell’ordinamento giudiziario voluta dal Ministro della giustizia dovrebbe fare un passo in avanti e tentare - nel percorso tracciato dal presidente Ciampi - di costruire una costante verifica sui processi per confrontarne l’esito con le indagini. Una, due, dieci, trenta assoluzioni sono fisiologiche, un nugolo non lo è più: mettere insieme ottimi e scadenti pubblici ministeri non è una buona idea, soprattutto quando sono i secondi i più assetati di notorietà e di carriera. *Magistrato Magistrati corrotti? Per Gratteri la colpa è degli avvocati di Davide Varì Il Dubbio, 2 ottobre 2020 Per il procuratore Gratteri l’ordine degli avvocati e le camere penali dovrebbero vigilare sui colleghi che corrompono i magistrati. Di chi è la colpa della deriva morale della magistratura? Ma degli avvocati naturalmente. La singolare teoria arriva dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri il quale riconosce che sì: nella magistratura italiana “c’è anche un problema corruzione”, ma la responsabilità è degli avvocati che non denunciano: “Noi magistrati guadagniamo bene, io sono contento dello stipendio che ho - riconosce Gratteri - quindi il resto si chiama ingordigia, e allora bisogna essere feroci nei confronti di questi magistrati che commettono reati ricevendo soldi e regalie. Ben vengano, dunque, queste indagini per scoprire un problema che c’è ed esiste, che molti avvocati sanno che esiste, quindi mi auguro che ci siano avvocati che denuncino queste corruzioni, che non sopportino che i loro colleghi più spregiudicati riescano a vincere una causa o ad avere un’assoluzione perché riescono a trovare il canale per pagare”. Per Gratteri, “ci vorrebbe, dunque, maggiore attenzione anche da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati e delle Camere penali, non solo del Csm, Ufficio ispettivo perché gli avvocati sono i primi a sapere quello che accade nei tribunali, nelle cancellerie e dietro le quinte di un processo”. Dopo la lezione sulla reale missione degli avvocati, il procuratore Gratteri è poi passato ai suoi cavalli di battaglia, al repertorio classico. A cominciare dalle presunte scarcerazioni dei boss in tempi di Covid: “La verità è che si è cavalcata la tigre, e sono usciti minimo 8mila detenuti. Fra questi anche gente detenuta al 41bis. E stato un pessimo segnale anche perché è avvenuto un mese dopo le rivolte nelle carceri”. E il fatto che lo stesso ministro della giustizia abbia spiegato più e più volte - non ultimo ieri - che il numero degli scarcerati dell’alta sorveglianza non ha mai superato le “223 unità”, il procuratore Gratteri, e con lui la solita schiera di indignati - continua a raccontare una storia diversa e non suffragata da fatti e prove. Senza contare che ognuna di quelle scarcerazioni è stata decisa da un magistrato di sorveglianza che, giustamente, ha seguito le nostre leggi e la nostra Costituzione. Ma questo, per qualcuno, evidentemente è un dettaglio. La schizofrenia è compatibile con la detenzione in carcere avvocatopenalista.org, 2 ottobre 2020 Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 23 giugno - 29 settembre 2020, n. 27119. Presidente Iasillo - Relatore Cairo. Ritenuto in fatto e considerato in diritto. 1. Con l’ordinanza in epigrafe, in data 18/12/2019, il Tribunale di sorveglianza di Roma rigettava la richiesta di detenzione domiciliare avanzata nell’interesse di Ja. Br.. Al momento della domanda l’istante era in espiazione della pena di un anno, undici mesi e ventotto giorni di reclusione, di cui al cumulo emesso dalla Procura della Repubblica di Cuneo il giorno 1/8/2018, per i reati di truffa e sostituzione di persona, commessi nell’anno 2010, di falsità e di violazione della misura di prevenzione (2013), con un fine pena al 7/9/2021. Premetteva l’adito Tribunale che l’istante aveva fatto ingresso dalla libertà nella struttura penitenziaria di Viterbo, all’esito del rigetto delle istanze operato dal Tribunale di sorveglianza di Torino. Rilevava che v’erano diverse segnalazioni di P.S., oltre a precedenti penali e carichi pendenti, che davano conto di un rischio di ricaduta nel reato. Si presentava, peraltro, un contesto familiare e abitativo precario. Ja. viveva in una roulotte, insieme a sette componenti il nucleo familiare; aveva continuato a frequentare persone pregiudicate ed erano assenti comprovate fonti lecite di guadagno, per il suo sostentamento. Lo stesso istante, osservava il Tribunale, era stato denunciato dalla moglie per maltrattamenti e, al di là della remissione di querela, il 12/11/2019, da parte della donna, era stato sottoposto a TSO, nel periodo compreso tra l’1 e il 7 agosto 2019, a seguito di uno scompenso psicotico. Il Tribunale dava conto del quadro patologico che si ricavava dalla relazione sanitaria (obesità, ipertensione, ipercolesterolemia, schizofrenia paranoide cronica) aspetto che, tuttavia, non esauriva la valutazione da compiere, dovendo Ja. aderire alle prescrizioni imposte. Si trattava di patologie suscettibili, del resto, di essere adeguatamente curate in carcere. 2. Ricorre per cassazione Ja. Br., con il ministero del suo difensore di fiducia e lamenta il vizio di motivazione, in ordine all’erronea applicazione della legge penale sui gravi motivi di salute ex art. 47-ter L. 26 luglio 1975, n. 354. Il detenuto era affetto da schizofrenia paranoide cronica e il carcere di Viterbo aveva ritenuto l’incompatibilità con il regime detentivo ordinario, indicando la necessità di una continuità terapeutico assistenziale presso il CSM di riferimento. Il quadro clinico era confermato all’udienza del 18/12/2019 nella nuova relazione aggiornata. La motivazione risultava, dunque, viziata nella parte in cui aveva ritenuto che la condizione di salute fosse destinata a migliorare nel contesto detentivo. Si trattava di una conclusione in contrasto logico e medico-scientifico con le acquisizioni a disposizione. Ja. era, invero, affetto da una patologia psichiatrica grave che risaliva al 2006 e non era gestibile in ambito intramurario. Il richiamo ai delitti commessi era stato travisato, poiché si trattava di fatti che erano stati commessi in una condizione di delirio psicotico paranoide verso i familiari. D’altro canto il detenuto aveva diritto a essere curato adeguatamente a non essere sottoposto a trattamenti non tollerati dalle condizioni di salute. 3. Il ricorso è manifestamente infondato e, in parte, proposto fuori dei casi ammessi. 3.1. Esso non si confronta compiutamente con la motivazione sviluppata dal Tribunale di sorveglianza. Secondo il Tribunale di sorveglianza non ricorrevano gli estremi per ritenere che il detenuto fosse affetto da una patologia idonea a mettere in pericolo la vita o a provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, tale da esigere un trattamento che non si potesse attuare nello stato di detenzione, dovendosi in proposito operare un bilanciamento tra l’interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività (Sez. 1, n. 789 del 18/12/2013, dep. 2014, Mossuto, Rv, 258406; Sez. 1, n. 972 del 14/10/2011, dep. 2012, Farinella, Rv. 251674). La storia giudiziaria di Ja., si è annotato, non era tale da indurre una prognosi positiva sul rispetto di prescrizioni accessorie alla misura della detenzione domiciliare. Ciò neppure per la misura di cui all’art. Ai-ter comma 1 lett. c) Ord. Pen. che, oltre a presupporre costanti contatti con i presidi sanitari territoriali, richiede la capacità del soggetto di aderire in autocontrollo alle prescrizioni imposte. Questo elemento non si coglieva, appunto, nella storia personale dell’istante che aveva violato le norme penali almeno fino al 21/5/2018. La pericolosità sociale e la mancata adesione al piano di reinserimento sociale, proposto dai servizi territoriali, erano, dunque, elementi che deponevano per una condizione ostativa al beneficio della detenzione domiciliare invocata. Né in questa logica coglie nel segno il dedotto travisamento secondo cui il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che l’ambiente carcerario avrebbe permesso un trattamento clinico di maggiore pregnanza. Il ricorso non si conforta compiutamente con il ragionamento sviluppato dal Giudice di merito che ha semplicemente evidenziato come le condizioni psicofisiche del detenuto potessero essere adeguatamente controllate in contesto detentivo. Già la presa in carico da parte dei servizi dell’istituto ne avrebbe permesso un miglioramento, con assunzione costante di terapia ed effettuazione periodica di colloqui psicologici e psichiatrici. Risulta, dunque, correttamente valutato il quadro clinico che caratterizza la condizione del condannato ed è riassunto nel provvedimento impugnato nella sua completezza, con correlata spiegazione delle ragioni a fondamento della decisione di respingere la richiesta avanzata. Non risulta, del resto, su tale base, che l’espiazione della pena in atto contrasti, allo stato e, in concreto, con il diritto alla salute o con il senso di umanità costituzionalmente garantiti, in quanto non si evidenziano condizioni tali da far postulare conseguenze dannose, anche sul piano della dignità umana, così da privare la pena del suo significato rieducativo. Le cure e i trattamenti clinici sono indicati come praticabili -e in effetti praticati- all’attualità, nella struttura penitenziaria. L’ordinanza impugnata, dunque, tratta ogni aspetto, con motivazione immune da censure, sia per il profilo di pericolosità che per quello clinico. Su quest’ultimo il ricorso rimette la ponderazione e la qualificazione anche di aspetti di merito e di valutazioni in fatto che non possono essere affidate allo scrutinio di legittimità. Sulla base di quanto illustrato, il ricorso va dichiarato inammissibile. Alla declaratoria di inammissibilità segue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila a titolo di sanzione pecuniaria, in ragione delle questioni dedotte. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Violenza sessuale; abuso di autorità anche nei rapporti privati o di fatto di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020 Corte di cassazione - Sezioni unite - Sentenza 1 ottobre 2020 n. 27326. Nei reati sessuali l’abuso di autorità scatta anche nei rapporti privati e di fatto, e non solo in caso di una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, se c’è una situazione di supremazia sfruttata per costringere la vittima a subire o compiere atti sessuali. Le Sezioni unite della corte di cassazione, con la sentenza 27326, escludono la necessità della natura formale e pubblicistica dell’autorità di cui l’agente abusa per commettere il reato, previsto dall’articolo 609-bis del Codice penale. Chiarendo poi che l’autorità “privata” non è solo quella che deriva dalla legge ma anche quella di fatto. Per il Supremo collegio è importante l’esistenza oggettiva di un rapporto autoritario. E va dimostrata in modo inequivoco, attraverso un’analisi concreta della dinamica dei fatti “idonea a porre in luce un rapporto di soggezione effettivamente intercorrente tra l’agente e la vittima del reato”. Va poi provata anche l’arbitraria utilizzazione del potere, dando conto della relazione tra abuso di autorità e conseguenze sulla capacità di autodeterminazione della persona offesa “poiché una condotta che dovesse diversamente estrinsecarsi dovrebbe inevitabilmente essere inquadrata nei contermini ipotesi di minaccia o induzione”. In linea con questa conclusione le Sezioni unite precisano che per la configurabilità del reato, pesa la valenza coercitiva e dunque non è neppure rilevante che la posizione di preminenza dell’agente sia venuta meno, perché resta una sudditanza psicologica che deriva dall’autorità da questo esercitata in passato e dalla relazione di dipendenza indiretta tra autore e vittima “quando il primo abusando della sua autorità concorre con un terzo che compie l’atto sessuale non voluto dalla persona offesa”. Tenuità del fatto anche se l’investitore si ferma ma non assiste il ciclista lievemente ferito di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020 Il reato di omissione di soccorso si realizza anche in presenza di dolo eventuale. Ma la valutazione delle circostanze di fatto come l’estrema lievità del danno arrecato possono ben condurre al riconoscimento della causa di non punibilità per tenuità del fatto. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 27241 depositata il 1 ottobre, ha riconosciuto l’applicabilità dell’articolo 131 bis del Codice penale al caso dell’automobilista che dopo avere determinato l’impatto del proprio autoveicolo con una bicicletta e determinato la caduta del ciclista che la conduceva si era solo fermato e verificata l’assenza di lesioni evidenti si era allontanato dal luogo dell’incidente senza prestare alcuna specifica assistenza e senza attendere l’arrivo dell’ambulanza. Il caso - La Corte - pur riconoscendo la causa di non punibilità per tenuità del fatto - respinge però il ragionamento della difesa del ricorrente secondo cui non sussisteva nel caso specifico l’elemento soggettivo del reato previsto dal settimo comma dell’articolo 179 del Codice della Strada. La Cassazione spiega che la fattispecie incriminatrice per chi non presta assistenza non è integrata solo in caso di dolo specifico, ma è sufficiente quello eventuale. Cioè, argomenta la Cassazione, che realizza il reato stradale anche il semplice allontanamento dal luogo dell’incidente senza attendere l’arrivo del soccorso. Infatti, nella vicenda ciò che la Cassazione ha stigmatizzato è stato proprio l’allontanamento del responsabile dell’incidente stradale, che si era giustificato con l’arrivo di diversi connazionali del ciclista i quali mostravano un atteggiamento aggressivo nei confronti del ricorrente. Per la Cassazione questi avrebbe potuto prestare la doverosa assistenza anche solo attendendo in lontananza l’arrivo dei soccorsi e della polizia per i rilievi. Al contrario il ricorrente dopo una breve sosta con cui constatava l’assenza di lesioni visibili a danno del ciclista si era repentinamente allontanato dal luogo dell’incidente. Ed è proprio questo tratto della sua condotta ad aver integrato il reato. Anche se proprio il fatto di essersi nell’immediato fermato a verificare le conseguenze dell’impatto ha rappresentato uno degli elementi per il riconoscimento della tenuità del fatto, unitamente ad altri fattori quali la prognosi di soli 5 giorni per la lieve ferita riportata dal ciclista, la compresenza di altre persone attorno alla persona ferita e il non aver negato il fatto non appena rintracciato dalla Polizia. Datore responsabile per non aver impartito al lavoratore deceduto le regole di sicurezza di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2020 Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 1 ottobre 2020 n. 27242. Il datore è responsabile nei confronti del prestatore deceduto quando non abbia fornito le principali regole in materia di sicurezza. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza penale n. 27242/20. La vicenda. Il socio lavoratore - all’oscuro delle corrette tecniche di abbattimento degli alberi - aveva commesso un errore e la pianta era caduta in direzione del prestatore che moriva per un infarto. La colpa del datore era per negligenza, imprudenza e imperizia e in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e in particolare per aver omesso di indicare nel documento di valutazione dei rischi lavorativi le idonee misure di prevenzione e protezione attuate in relazione alle mansioni di operaio addetto all’abbattimento delle piante. Il lavoratore era intento ad abbattere i pioppi. Dopo aver proceduto a realizzare la cosiddetta “tacca di direzione” alla base dell’albero per determinare appunto la direzione di caduta, la pianta cadeva ma urtava con i rami l’albero vicino andando a colpire il torace del lavoratore con esito fatale per quest’ultimo. Il figlio ha evidenziato, peraltro, che il padre deceduto, non si allontanava dalla pianta quando iniziava a tirarla con il cavo (pratica corretta), ma solo nella fase finale del taglio, ovvero quando la pianta stava ormai per cadere con tutti i rischi del caso. In altre parole il prestatore non aveva mai ricevuto alcuna istruzione e formazione sul punto e aveva adottato una tecnica operativa rischiosa che l’azienda per cui lavorava non aveva cercato in alcun modo di modificare. A tal proposito i Supremi giudici hanno ravvisato una mancanza di formazione (trasferire ai lavoratori conoscenze utili per lavorare in sicurezza); informazione (come ridurre i rischi sull’ambiente di lavoro) e addestramento (come usare correttamente le attrezzature). Respinto in definitiva il ricorso del datore per tutte le inadempienze a suo carico. Piemonte. La pandemia non ferma l’azione dei Garanti dei detenuti torinoggi.it, 2 ottobre 2020 Il 6 ottobre il punto della situazione sugli interventi progettuali in corso nei singoli Istituti. “La pandemia non ha fermato l’azione dei garanti dei detenuti del Piemonte che, anche in vista di una possibile recrudescenza del virus nei prossimi mesi, si sono dati appuntamento martedì 6 ottobre per fare il punto della situazione sugli interventi progettuali in corso nei singoli Istituti”. Lo ha annunciato oggi il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. I garanti territoriali, ha aggiunto, prenderanno inoltre parte il 9 e il 10 ottobre all’Assemblea nazionale annuale, che si svolgerà nella sede del Consiglio regionale della Campania e che lo vedrà impegnato nella sessione dedicata al tema “Reinserimento sociale e accoglienza delle persone private della libertà”. “Sarà un’ottima occasione di scambio e di confronto - ha sottolineato Mellano - per affrontare problemi legati alla prevenzione sanitaria, al lavoro, all’istruzione e al reinserimento sociale, nella convinzione che la ripartenza post Covid del mondo del carcere non possa prescindere da un’attiva partecipazione al dibattito da parte di tutte le componenti del mondo dell’esecuzione penale”. Infine ha espresso la propria soddisfazione per la conferma di Sonia Caronni al ruolo di garante comunale dei diritti delle persone private della libertà per la Città di Biella. Siracusa. Morte di un detenuto, chiesta condanna per 6 medici srlive.it, 2 ottobre 2020 I pubblici ministeri Tommaso Pagano e Massimo Tricomi hanno chiesto la condanna per sei degli otto medici finiti sotto processo per la morte di un detenuto. La richiesta è stata avanzata dai due rappresentanti della pubblica accusa a conclusione della requisitoria al processo che si sta celebrando davanti al giudice monocratico del tribunale aretuseo, Federica Piccione. La vicenda giudiziaria ruota attorno alla morte di Alfredo Liotta di 41 anni, avvenuta il 26 luglio 2012. Il detenuto proveniva da Avellino ed era stato appoggiato provvisoriamente alla casa circondariale di Cavadonna. La denuncia era stata sporta dal difensore civico dell’associazione che si occupa delle condizioni dei detenuti nelle carceri italiane, su segnalazione della sorella della vittima. Il 6 giugno 2013 Antigone depositava un esposto alla Procura di Siracusa per chiedere che venissero individuati i responsabili della morte di Liotta. Il 29 novembre del 2013 la Procura informava dell’avvenuta iscrizione nel registro degli indagati di nove medici che avevano visitato Liotta, incluso il perito della Corte di Assise di Appello e l’allora Direttore del carcere. La consulenza tecnica collegiale, depositata il 23 giugno 2014 censurava il comportamento del personale medico dal 21 luglio al 25 luglio 2012: Alfredo è morto nel letto della sua cella per collasso cardiocircolatorio “dovuto a rettorragia da verosimile lesione emorroidaria”. Il 14 dicembre 2016 il Pubblico ministero ha chiesto l’emissione del decreto che dispone il giudizio per omicidio colposo per nove dei dieci indagati, stralciando la posizione del direttore. Tra le persone offese, il Pubblico ministero indicava anche l’Associazione Antigone. Il 17 maggio 2018 si è conclusa l’udienza preliminare con il rinvio a giudizio di otto medici del carcere e del perito nominato dalla Corte di appello che aveva definito Liotta un “simulatore”. Lecce. Tra salute mentale e detenzione chi soffre è sempre l’essere umano lecceprima.it, 2 ottobre 2020 Un contributo di Sharon Orlandi e Ilaria Piccinno, osservatrici dell’associazione Antigone sulla condizione carceraria in Puglia. Le condizioni di detenzione nei penitenziari sono un indicatore della civiltà di un Paese. Il monitoraggio è affidato, oltre che alle strutture di riferimento del ministero di Grazia e Giustizia, anche a organismi terzi che in modo indipendente si incaricano di vigilare sul rispetto delle leggi e delle convenzioni in materia. Attraversando i corridoi del Reparto di Osservazione Psichiatrica e del Reparto Infermeria della Casa Circondariale Borgo San Nicola di Lecce si sente solo il silenzio di un’istituzione che lascia i propri operatori in balia di vuoti normativi, sovraccarico di lavoro e servizi territoriali assenti che parcheggiano e dimenticano le persone detenute in reparti in cui non dovrebbero stare, o perlomeno non permanere sine die. Svariati e differenti sono stati i tentativi messi in atto dal ministero della Giustizia e dal ministero della Sanità per garantire a detenuti ed internati con patologia psichiatrica un’assistenza sanitaria personalizzata e continuativa. Nella nostra città ha preso avvio nel 2017, a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. nel 2015, il Reparto di Osservazione Psichiatrica (R.O.P.), una sezione speciale all’interno dell’istituto carcerario prevista dall’ordinamento Penitenziario. Il R.O.P. dipende dal Distretto Asl competente per territorio ed è destinato al trattamento sanitario di imputati o condannati che durante la detenzione sviluppino una patologia psichiatrica, a condannati a pena diminuita per vizio parziale di mente (art. 111 c.7 D.P.R n. 230/2000) ed a detenuti od internati, la cui condizione psichica debba essere posta sotto osservazione nelle apposite sezioni, dette “sezioni osservandi”, per una durata non superiore a 30 giorni, prorogabile (art.112 D.P.R n. 230/2000), i quali versino in una condizione di infermità o minorazione psichica, non compatibile con la detenzione in sezioni ordinarie. L’ingresso e l’uscita avvengono su decisione interna dell’amministrazione sanitaria e penitenziaria, senza alcuna previsione di un controllo giurisdizionale, come accade nel caso di ricovero in luogo esterno al carcere. È altresì sancito il rispetto del principio di territorialità, in base al quale dovrebbero essere inviati solo detenuti dalla regione di residenza. Nei fatti è tutto ben diverso. Nel Rop di Lecce sono ospitate persone con patologie psichiatriche la cui permanenza si protrae oltre i 30 giorni previsti, per arrivare anche a diversi mesi. Il principio di territorialità non viene sempre rispettato, pena la lontananza dagli affetti da parte di soggetti con un equilibrio psichico già molto precario. Ad oggi sono solo 10 le persone presenti a fronte dei 20 posti disponibili, ma il reparto non ha accolto mai più di 15 pazienti dall’inizio della gestione. Innumerevoli le richieste di invio di detenuti da sottoporre ad osservazione psichiatrica, e a complicare ulteriormente la situazione c’è la carenza di personale; da ben cinque mesi all’interno del reparto vi è un solo medico psichiatra sui quattro previsti in organico. Una situazione precaria pronta ad esplodere improvvisamente. Una pazzia, è innegabile, lasciare un solo medico all’interno di un reparto così fragile e complesso. Il rischio di burnout è dietro l’angolo, laddove la pressione psicologica e la responsabilità di una struttura dipendano esclusivamente dalle decisioni di un singolo. Un luogo in cui dovrebbe prevalere la funzione diagnostica e riabilitativa del soggetto con patologie psichiatriche, lascia il posto ad un luogo in cui, come accadeva negli Opg., sembra piuttosto predominare l’aspetto custodiale, a scapito dunque dell’osservazione e trattamento del soggetto psichiatrico. Il carcere, limitandosi a contenere la malattia psichiatrica, assume così il ruolo di istituzione di “scarico” di soggetti problematici, precedentemente svolta dagli scomparsi Opg, spostando le problematiche senza realmente risolverle. Di recente è stato indetto un bando di concorso per la selezione di medici psichiatri da inserire nell’organico del Rop di Lecce, ma è andato tristemente deserto. Manca, altresì, un lavoro di equipe, come assente è la formazione all’ingresso del personale medico che si troverà poi a contatto con soggetti con importanti patologie psichiatriche, e per di più in un contesto, quello penitenziario, fatto di regole ben precise da osservare. Infine, 250 sono le persone detenute che attualmente, all’interno della casa circondariale di Lecce, assumono una terapia psichiatrica. Nel 2019 i detenuti in trattamento nell’istituto leccese rappresentavano il 29% del totale della popolazione detenuta. Nel reparto Infermeria di Borgo San Nicola, dove sono allocate anche persone detenute con disturbi psichiatrici, la situazione non è di certo migliore. Sono solo due i medici psichiatri a fronte dei 1054 detenuti. Il burnout anche qui è pronto ad entrare in scena. Il disturbo di personalità è la diagnosi più diffusa all’interno del penitenziario e nei casi più attenzionati l’unica soluzione è il collocamento del soggetto in una comunità terapeutica esterna. Peccato per le liste d’attesa con tempi di inserimento molto lunghi che costringono il detenuto ad attendere in sezione finché non si libera un posto. Molto spesso, l’unica risposta che il soggetto ha verso questa attesa è quella di mettere in atto gesti auto-etero aggressivi, aggravando ulteriormente il proprio stato di salute. Nel carcere di Lecce è stato fatto molto dal punto di vista del reinserimento, della proposta professionale e della promozione della cultura. Si può dire che è un angolo virtuoso di umanizzazione della pena ma tuttavia è circondato dal deserto; un territorio che non investe e valorizza le risorse umane che lì dentro si sono formate negli anni. I servizi territoriali, che dovrebbero fungere da ponte, sono in realtà ponti tibetani fragili e ingolfati dove spesso si cela anche il pregiudizio verso il proprio utente. Bari. Nuovo polo giudiziario, ecco il simbolo del Recovery di Errico Novi Il Dubbio, 2 ottobre 2020 Firmata la convenzione tra ministero della Giustizia e Demanio. Bonafede: “Passo decisivo”. E il presidente dell’Ordine, Giovanni Stefanì, ora chiede procedure straordinarie. Se si vuole avere idea di cosa potrà significare, per la giustizia, il Recovery fund, bisogna mettere due immagini a confronto. La prima è evocata dalle parole che il guardasigilli Alfonso Bonafede ha affidato ieri a un post su Facebook: “Quando mi sono insediato come ministro, a giugno 2018, a Bari la giustizia veniva celebrata nelle tende: una situazione vergognosa e irrispettosa dei diritti dei cittadini e del lavoro di magistrati, avvocati e personale amministrativo”. Il secondo fotogramma rimanda di nuovo al dicastero di via Arenula, che ieri ha siglato la convenzione con l’Agenzia del Demanio per la realizzazione del “Parco della Giustizia” nel capoluogo pugliese. Un passo importante per restituire, a una delle più importanti città italiane, le strutture attese da lustri. L’opera, come spiega il guardasigilli, costituisce “uno dei principali progetti realizzati dal ministero in vista del Recovery plan: per il primo lotto”, oggetto appunto della stipula di ieri, “sono già stati stanziati 95 milioni di euro”. Ed è chiaro che le risorse straordinarie assicurate dall’Europa saranno un carburante decisivo per la rapidità e la qualità dell’opera. Ecco, con la firma per il polo giudiziario di Bari si ha un’idea plastica, istantanea, dei benefici che il fondo Ue potrà assicurare per i tribunali e per chi concretamente vi opera. A cominciare dagli avvocati, protagonisti a Bari di un impegno che definire tenace sarebbe riduttivo: “È un indiscutibile passo avanti”, spiega al Dubbio il presidente dell’Ordine degli avvocati di Bari Giovanni Stefanì, “e anzi ci chiedevamo da tempo perché si tardasse nella firma della convenzione. Credo che per l’avvocatura barese sia giusto rivendicare il merito di aver esercitato, in questi due lunghi anni, una pressione costante, spesso in piena sintonia con il sindaco Decaro.L’auspicio è che la destinazione, al Parco della Giustizia, di quote del Recovery fund possa trascinare con sé un particolare valore aggiunto connesso all’eccezionalità di quelle risorse: vale a dire la procedura commissariale e straordinaria. Se non ci fosse”, nota Stefanì, “i tempi rischierebbero di diventare comunque troppo lunghi, tra gara europea per la progettazione e gara interna per l’esecuzione. La firma tra ministero è Demanio è un segnale concreto per l’avvio dell’iter. Crediamo che debba diventare il presupposto per l’individuazione di un commissario e di una procedura straordinari”. Finora il ministro Bonafede non si è mostrato favorevole all’ipotesi. Di certo tiene molto a fare del polo barese un esempio di risposta forte ai gravissimi limiti dell’edilizia giudiziaria nazionale. Non a caso, nell’audizione alla Camera della scorsa settimana, ha indicato proprio nelle “infrastrutture sia materiali che digitali” l’asset decisivo nel Recovery plan della giustizia. “Dopo aver assicurato in via provvisoria una sistemazione dignitosa agli uffici giudiziari”, assicura, “adesso l’obiettivo è consegnare alla città di Bari, in tempi ragionevoli, un Polo della Giustizia degno di questo nome”. Nella nota di via Arenula si forniscono alcuni dettagli: la convenzione “prevede che l’Agenzia provvederà all’espletamento delle gare d’appalto necessarie all’affidamento dei servizi tecnici e delle opere”. La location è già individuata da tempo ed è “l’area delle caserme dismesse “Capozzi” e “Milano”. La convenzione, materialmente sottoscritta dal direttore generale delle Risorse materiali di via Arenula Lucio Bedetta e dal direttore del Demanio Antonio Agostini, disciplina “la programmazione, la progettazione, l’esecuzione e il collaudo delle opere riguardanti il Primo Lotto funzionale del nuovo polo giudiziario barese”. Tra gli interventi previsti, “la demolizione degli edifici preesistenti, la bonifica dell’area e la realizzazione delle opere di urbanizzazione”. Il ministero ricorda anche che la “prima pietra virtuale” risale al gennaio 2018, alla firma del Protocollo d’intesa non solo col Demanio e le Infrastrutture, ma anche con i vertici del distretto di Corte d’appello barese. Di fatto, è un intervento epocale. Che davvero potrebbe fare del Recovery fund non un sollievo dall’emergenza ma l’occasione per assicurare strutture degne di un Paese europeo. Milano. Si può essere “liberi” in carcere: a Opera inaugura un ranch aperto a tutti milanotoday.it, 2 ottobre 2020 Al via il progetto Freedom: un ranch in carcere a Opera aperto a tutti. Libertà, anche se in carcere. Sabato al penitenziario di Opera inaugura “Freedom”, libertà appunto: un grande maneggio, una fattoria didattica e un ranch che portano con sé un nome simbolico, un percorso di rieducazione e reinserimento. Gli ospiti dell’istituto di pena potranno infatti così apprendere l’arte del maniscalco, dell’artiere e del sellaio, utili per il proprio reingresso nella società. All’evento, parteciperà il Garante dei detenuti di Regione Lombardia Carlo Lio, che porterà un saluto anche a nome del Presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi. Il progetto prevede l’accesso al maneggio degli esterni a prezzi contenuti ed è volto ad accogliere in particolare ragazzi diversamente abili. Oltre ai cavalli, sequestrati alla criminalità organizzata, nel ranch sono presenti altri animali: asini, maialini thailandesi, pavoni, tartarughe e pappagalli. Il team di volontari che ha dato vita e sostanza al progetto è composto dalle “Giacche verdi” Onlus attiva con i cavalli all’Idroscalo, oltre ai membri della Polizia penitenziaria dell’istituto di pena, con il contributo di Fondazione Cariplo. Due detenuti già operano all’interno del centro ippico: il primo si è formato con le “Giacche verdi” come maniscalco, mentre l’altro si occupa degli animali della fattoria, in particolare degli asini. Parma. Università e carcere: aperto il bando di tutorato a sostegno degli studenti detenuti di Mattia Ondelli parmareport.it, 2 ottobre 2020 Rivolto agli studenti di corsi di laurea magistrale e ai dottorandi di ricerca dell’Ateneo. Domande fino alle 13 del 25 ottobre. L’Università di Parma propone ai propri studenti di corsi di laurea magistrale e ai dottorandi di ricerca l’attività di tutor didattico in favore di studenti detenuti negli Istituti Penitenziari di Parma e iscritti all’Ateneo. L’attività è finalizzata al miglioramento della didattica degli studenti detenuti attraverso una comunicazione costante e la facilitazione delle interazioni con i docenti titolari dei corsi. Il tutorato didattico prevede fino a un massimo di 80 ore di attività per ogni tutor e un compenso orario di 20 euro. Fermo restando l’interesse per tutte le discipline insegnate nell’Ateneo, va sottolineato che gli ambiti disciplinari maggiormente scelti dagli studenti detenuti sono quelli dei settori umanistico, socio-politologico ed economico. Possono presentare domanda per partecipare alla selezione: - gli studenti iscritti all’Ateneo di Parma nell’a.a. 2020/2021 al primo anno di un corso di laurea magistrale la cui ultima laurea conseguita abbia votazione pari o superiore a 100/110 - gli studenti iscritti all’Ateneo di Parma nell’a.a. 2020/2021 dal secondo anno e fino al secondo anno fuori corso di un corso di laurea magistrale e gli studenti iscritti agli ultimi due anni di corso di laurea magistrale a ciclo unico con non più di due anni di ripetenza o di fuori corso, che abbiano maturato una media di almeno 30 crediti formativi universitari per anno di iscrizione - i dottorandi di ricerca iscritti nell’a.a. 2020/2021 provenienti da tutte le aree di studio la cui ultima laurea conseguita abbia votazione pari o superiore a 100/110. Possono presentare domanda di ammissione tutti gli studenti in possesso dei requisiti che regolarizzino l’iscrizione entro il 31 dicembre 2020 e anche gli studenti preiscritti o iscritti sotto condizione: la regolarizzazione dell’iscrizione dovrà essere fatta entro il 31 marzo 2021, come indicato nel Manifesto degli Studi. La domanda, scaricabile dalla pagina della U.O. Contributi, Diritto allo Studio e Benessere Studentesco del sito di Ateneo www.unipr.it, dovrà essere compilata integralmente dal 1° ottobre al 25 ottobre 2020 e inviata dal proprio indirizzo e-mail istituzionale a protocollo@unipr.it oppure tramite posta elettronica certificata personale (allegando fotocopia della carta d’identità) a protocollo@pec.unipr.it, entro le 13 del 25 ottobre 2020. Per tutti i dettagli consultare il bando di concorso (unipr.it/bandi/opportunita/bando-lattribuzione-di-assegni-attivita-di-tutorato-rivolta-studenti-2). Napoli. Carceri, oggi seminario sul diritto allo studio a Secondigliano di Massimo Iaquinangelo istituzioni24.it, 2 ottobre 2020 Il ruolo centrale dell’istruzione nell’edificare una società inclusiva e consapevole, la sua valenza di strumento di riabilitazione e riscatto culturale nelle carceri, ai fini del reinserimento sociale dei detenuti, sono i presupposti che hanno portato il professor Samuele Ciambriello, Garante Regionale delle persone private della libertà, a promuovere un incontro su questo tema. Esso avrà luogo oggi, venerdì 2 ottobre, alle ore 15:00 presso l’Istituto penitenziario “Pasquale Mandato” di Secondigliano, nella forma di un seminario dal titolo “Polo Universitario in Carcere: Diritto allo studio per costruire il futuro”. Parteciperanno in qualità di relatori: la Direttrice dell’istituto Giulia Russo, il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria della Regione Campania Antonio Fullone, il Portavoce della conferenza nazionale dei garanti Regionali e locali Stefano Anastasia; il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli Adriana Pangia; il Magistrato di Sorveglianza Margherita Di Giglio; Marella Santangelo Membro del Consiglio Direttivo della Cnupp; Franco Prina Presidente della Cnupp, Conferenza Nazionale Delegati Poli Universitari Penitenziari presso la Crui, racconteranno la loro esperienza due ristretti studenti del polo universitario. Le conclusioni saranno affidate al Sottosegretario di Stato per la Giustizia Andrea Giorgis e il Ministro dell’Università e della Ricerca, Gaetano Manfredi. “Questo sarà il terzo anno di attività del Polo Penitenziario Universitario di Secondigliano, che conta ad oggi circa 70 studenti, rappresentando un fiore all’occhiello del Mezzogiorno, il diritto allo studio si coniuga con il diritto a ricominciare, anche per i diversamente liberi”. Così ha dichiarato il Garante dei Detenuti della Regione Campania, Prof. Samuele Ciambriello. Libri. “Nostos, Itaca oltre le mura”, di Gaetano Ippolito milanmagazine.it, 2 ottobre 2020 Dai laboratori con i detenuti nasce un romanzo di formazione ispirato alle loro storie. Dall’esperienza laboratoriale all’interno delle carceri di Gaetano Ippolito è venuta alla luce l’idea di un romanzo che portasse in scena i tormenti dei detenuti e il loro desiderio di riscatto sociale. L’autore per diversi anni è stato impegnato come volontario in progetti di scrittura creativa per i detenuti, al fine di favorire l’inclusione sociale degli stessi, con spettacoli teatrali rappresentati in esterno in vari teatri campani. “Nostos, Itaca oltre le mura” è un romanzo di formazione che narra le storie di quattro personaggi le cui vicende personali si snodano nel contesto di una casa circondariale, nell’ambito di un torneo calcistico. In gioco, un allenatore (educatore) che mette in campo, con la squadra di calciatori (detenuti), un singolare e nuovo esperimento, quello del metodo del cambiamento. Scontata la propria pena, i protagonisti dovranno muovere nuovi passi lungo le strade tortuose della realtà del mondo: come l’uomo dal multiforme ingegno, Ulisse, affinché il “ritorno a casa” si compia, dovranno uccidere i Proci, ovvero, i propri fantasmi interiori, i veri usurpatori del benessere dell’anima. Il romanzo è edito da Pedrazzi editore ed è disponibile anche su Amazon con spedizione gratuita. L’autore ha dichiarato: “Alla fine della mia esperienza, ho scoperto che sono stato io ad aver imparato da loro più di quanto abbia, in verità, insegnato”. Gaetano Ippolito nasce nel 1972 in provincia di Caserta. Diplomato in regia cinematografica presso la Nuova Università del Cinema e della Televisione a Cinecittà (Roma), lavora come regista, produttore e documentarista. Autore di Inside Africa (2012), vincitore del festival del documentario di Luca Zingaretti; Professione: artista (2015), documentario sulla condizione degli artisti. Produttore de La Domtiana (2007), di Romano Montesarchio, in onda su Rai3 nel programma Doc3, sulla Bbc nel programma My Country e su ORF (televisione di stato austriaca); Eclissi parziale (2010), documentario presentato al mercato Hot Docs di Toronto (Canada). Sceneggiatore del cortometraggio Ciruziello (2018), in onda su Rai Cinema. Curatore di laboratori di scrittura creativa, di cinema, di teatro, per progetti educativi rivolti ai detenuti e finalizzati all’inclusione sociale. Radio. Una rubrica di promozione della salute per “Liberi dentro - Eduradio” ausl.bologna.it, 2 ottobre 2020 Sabato 3 ottobre alle 11 e in replica domenica 4 ottobre alle 18, su Radio Città Fujiko 103.1 FM, l’ultima puntata di “Liberi dentro - Eduradio”, la radio per il carcere e la cittadinanza. I podcast di tutte le puntate sono online. Andrà in onda sabato 3 ottobre alle 11 e, in replica, domenica 4 ottobre alle 18, su Radio Città Fujiko 103.1 FM, l’ultima puntata di “Liberi Dentro - Eduradio”, la radio per il carcere e la cittadinanza. Per la rubrica di promozione della salute interverrà Olga Nieddu, ostetrica dell’Azienda Usl di Bologna, sul tema della prevenzione dei tumori femminili. Durante l’emergenza Covid-19, a causa delle restrizioni imposte dal lockdown, nelle carceri furono interrotte le attività di insegnanti, formatori, assistenti spirituali, volontari. Anche l’attività degli operatori sanitari dell’Unità Assistenza Penitenziaria fu, necessariamente, ridotta. Era, tuttavia, molto sentita la necessità di non interrompere il servizio culturale, educativo, di assistenza spirituale, nonché il legame interpersonale costruito negli anni tra società esterna e ristretti. L’idea era quella di rilanciare l’insieme delle attività attraverso una trasmissione radiofonica per il carcere, unire le voci per dare voce a un progetto “a distanza”, almeno in via provvisoria, finché non fosse stato possibile ripristinare le varie attività dentro il carcere, che potesse arrivare a quanti più detenuti possibile. Nel progetto furono coinvolti anche gli operatori sanitari dell’Azienda USL di Bologna che lavorano all’interno della Casa Circondariale di Bologna, per proporre i temi della promozione della salute e della prevenzione. Operatori che, a loro volta, hanno coinvolto nel progetto “Liberi dentro - Eduradio” diversi professionisti dell’Azienda, in qualità di esperti. “È stata un’esperienza molto positiva”, racconta Agnese Drusiani, educatrice dell’Unità Assistenza Penitenziaria dell’Azienda Usl di Bologna. “La possibilità di utilizzare un mezzo come la radio, per raggiungere le persone recluse, anche con contenuti di salute, rappresenta un’occasione importante per riuscire a comunicare con i nostri utenti. Sia in questo periodo di restrizioni, che in un ambiente chiuso sono ancora più vincolanti, sia potenzialmente in futuro, come sostegno all’attività di promozione della salute effettuata a contatto diretto, considerati gli importanti bisogni di “Health Literacy” della nostra utenza”. Suicidio assistito, il pm contro l’assoluzione di Welby e Cappato di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 ottobre 2020 Caso Trentini. La procura ricorre in appello, a pochi giorni dall’anatema di Papa Francesco. Colpo di scena: a pochi giorni dall’anatema di Papa Francesco contro aborto e suicidio assistito, la procura di Massa ricorre in appello contro la sentenza di assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato dall’accusa di istigazione e aiuto al suicidio per la morte di Davide Trentini, l’uomo malato di sclerosi multipla che nell’aprile 2017 è stato aiutato economicamente e accompagnato in una clinica Svizzera rispettivamente dal tesoriere e dalla co-presidente dell’associazione Luca Coscioni. Nella sentenza del 27 luglio scorso la Corte d’Assise di Massa aveva rigettato la richiesta del pm Marco Mansi di una condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione basandosi sul pronunciamento della Corte Costituzionale che sul caso di Dj Fabo aveva configurato la non punibilità per chi aiuta un aspirante suicida che, tra l’altro, è sottoposto a “trattamenti di sostegno vitale”. Secondo i giudici di Massa, questa condizione fissata dalla Consulta nella sentenza 242/19, “non significa necessariamente ed esclusivamente dipendenza da una macchina”. Era il caso, appunto, di Trentini, che dipendeva da trattamenti farmaceutici senza i quali sarebbe morto, dolorosamente e lentamente. “Prendiamo atto con rispetto - commentano i radicali Welby e Cappato che si erano autodenunciati per esplicitare la loro azione di disobbedienza civile - della decisione della procura di Massa di ricorrere in appello contro la nostra assoluzione”, ricorso che “arriva pochi giorni dopo la lettera “Samaritanus bonus” (con la quale la Santa Sede ha definito un “crimine” l’aiuto a morire e ha bollato come “complici” coloro che partecipano a tale aiuto, materialmente o attraverso l’approvazione di leggi) e conferma la gravità dell’incertezza giuridica e della minaccia che incombe sui malati terminali italiani che vogliano sottrarsi a condizioni di sofferenza insopportabile”. Migranti. Cpr di Ponte Galeria, ucraino con problemi psichici a rischio espulsione di Annalisa Cangemi fanpage.it, 2 ottobre 2020 Il Garante: “È illegittimo”. Il caso di un migrante, con gravi problemi psichici, detenuto nel Cpr di Ponte Galeria, getta una luce su una prassi illegittima che calpesta i diritti dei cittadini stranieri: non solo non gli è stato permesso di essere difeso dal suo avvocato di fiducia, ma secondo il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio il cittadino straniero non dovrebbe nemmeno trovarsi all’interno di un Cpr. Nel Cpr di Ponte Galeria, alle porte di Roma, si registra sempre più spesso una prassi illegittima. Se un migrante è vulnerabile, affetto da gravissime patologie psichiatriche, rischia comunque l’espulsione, e senza nemmeno avere diritto di essere difeso dal suo avvocato di fiducia. È la storia di un giovane di 32 anni, in Italia da molti anni, che aveva ottenuto un permesso per cure mediche, valido fino al 31 agosto 2020, e che poi gli sarebbe stato revocato perché si è ritenuto fosse socialmente pericoloso, a seguito di una denuncia per atti osceni in luogo pubblico. Il migrante, nato in Ucraina, si trovava prima detenuto al Cpr di Gradisca, ed era seguito dal Dipartimento di Salute Mentale di Trieste. Poi è stato trasferito al Cpr di Ponte Galeria, dove è tutt’ora detenuto. Ma come succede ormai sempre più spesso in occasione delle periodiche udienze di proroga della misura di trattenimento, anche in questo caso il decreto di fissazione dell’udienza non è stato notificato al suo avvocato di fiducia, nominato in sede di prima convalida della misura a Gradisca. In pratica la proroga viene considerata un procedimento autonomo, e l’avvocato di fiducia non ha ricevuto nessuna informazione sullo sviluppo del trattenimento del suo assistito, pur non essendoci stata alcuna comunicazione di una eventuale revoca del suo mandato da parte del cittadino straniero. Esiste solo un foglio prestampato in cui l’uomo dichiara di non avere avvocati di fiducia. Il rapporto dello straniero con il suo avvocato di fiducia, che avrebbe potuto assicurare il rispetto dei suoi diritti, non è stato preso in considerazione. La Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti Civili (Cild), che insieme a Baobab Experience sta seguendo il caso, ha sollecitato con una lettera l’intervento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, informando anche il Garante nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale e il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio. Si legge nel testo della lettera: “Questa modalità di procedere da parte delle autorità competenti sembra essere espressione di una prassi ormai consolidata in base alla quale, nei procedimenti di prima convalida e successive proroghe del trattenimento degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio italiano, ogni udienza - dalla convalida del trattenimento alle successive proroghe - viene considerata come procedimento autonomo e, pertanto, l’avvocato di fiducia nominato in sede di prima convalida non è considerato legittimato a presenziare alle successive proroghe”. Vista la fragilità del cittadino ucraino non solo ogni ipotesi di rimpatrio dovrebbe essere esclusa, perché potrebbe comportare danni irreparabili alla sua salute fisica e mentale, ma anche la stessa detenzione all’interno del Cpr di Ponte Galeria non dovrebbe essere consentita. Eppure proprio ieri si è svolta l’udienza a Ponte Galeria, in cui è stata convalidata la proroga del trattenimento. Come si vede, a livello procedurale, in vista di una sua sempre probabile espulsione, il migrante non è stato tutelato. Ma c’è di più. Come ha raccontato Cild a Fanpage.it l’avvocato d’ufficio nell’ambito dell’udienza di ieri ha chiesto di produrre una lettera del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasia del 22 settembre scorso (indirizzata, tra gli altri, al giudice di pace e all’ufficio immigrazione) insieme a documenti medici allegati alla missiva del Garante che erano stati precedentemente inviati dall’avvocato di fiducia, e la lettera a firma di Cild indirizzata al Presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati. Il giudice però ha rigettato la richiesta ritenendo che il deposito poteva avvenire soltanto in cancelleria fino al giorno precedente all’udienza, dichiarando inoltre che nel fascicolo processuale non c’è traccia di alcuna documentazione medica, che attesti il precario stato di salute mentale dell’assistito. A quanto risulta al Cild, l’interessato si è rifiutato per due volte di sottoporsi a visite mediche per verificare la compatibilità con la detenzione al Cpr (accertamenti richiesti sia dall’avvocato di fiducia che dal Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Stefano Anastasia). Il giudice quindi non ha potuto fare altro che convalidare la proroga del trattenimento, concedendo al difensore di depositare la documentazione in suo possesso fuori udienza, per una eventuale nomina di un perito e una nuova decisione in ordine alla compatibilità. Ma il tempo stringe, e per la Questura a giorni il migrante potrebbe essere rimpatriato, in assenza di documenti che dimostrino i problemi di salute. Il Garante a Fanpage.it: “Trattenuto illegittimamente” - “Il problema in primo luogo è la palese incompatibilità di questa persona con quella struttura - ha detto il Garante Stefano Anastasia a Fanpage.it - La questione dell’eventuale espulsione viene dopo. Siamo davanti a una persona che chiaramente non è in condizioni di sopportare la detenzione all’interno di un Cpr, ed è questo punto che non si riesce a sollevare davanti al giudice di pace, che continua a non prendere in considerazione delle certificazioni mediche che pure personalmente ho inoltrato al Tribunale, da cui risulta in modo inconfutabile che si tratta di una persona affetta da gravi problemi psichiatrici”. “Purtroppo la asl di Roma non riesce a rilevare queste patologie perché il cittadino straniero è in un tale stato di confusione e sofferenza mentale che non intende sottoporsi ad accertamenti. L’unica cosa che si poteva fare a questo punto era informare l’avvocato d’ufficio di questa situazione, come abbiamo fatto, affinché potesse produrre questa documentazione medica, di cui ovviamente non poteva essere a conoscenza. Il rischio di espulsione è sempre incombente, e a quel punto cosa farà? Intanto c’è il perdurare di una condizione che dal punto di vista del nostro ordinamento è illegittima, perché prima di stabilire il trattenimento di una persona in un Cpr bisogna valutare la sua capacità di sostenere quel regime di privazione della libertà. Ed è certo che una persona già in sofferenza mentale aggrava la sua condizione in una situazione del genere”. Libia. Italiani prigionieri da un mese: “Liberateli!” di Mario Di Marco La Verità, 2 ottobre 2020 Cresce la rabbia per i 18 pescatori di Mazzara, fermati in acque internazionali, detenuti nelle carceri libiche. Musumeci: “Il governo e Di Maio devono fare di più”. Il pressing sul premier Giuseppe Conte e sul ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si sta facendo incalzante. L’accusa è che il governo non stia facendo niente per riportare a casa gli 8 pescatori italiani fermati dalle forze libiche di Haftar all’inizio di settembre e che verranno processati il mese prossimo da un tribunale militare di Bengasi, come riferisce il generale dell’esercito nazionale libico (Lna) Mohamed al Wershafani all’italiana Agenzia Nova. L’accusa è quella di violazione delle acque territoriali libiche, mentre al momento non si accenna più al traffico di stupefacenti, ritrovati a bordo delle imbarcazioni. Oltre agli 8 italiani, figurano anche cittadini tunisini, filippini e senegalesi, per un totale di i8 pescatori. Le autorità libiche sotto il comando di Haftar avevano chiesto in cambio a Roma la liberazione di quattro scafisti libici detenuti nelle carceri di Catania con l’accusa di traffico di esseri umani. Conte e Di Maio hanno ricevuto martedì scorso una delegazione di familiari dei pescatori di Mazara del Vallo. La mamma di uno di loro si è incatenata da tre giorni alla ringhiera che delimita piazza Montecitorio. Si chiama Rosetta e ha 73 anni. Sta seduta per terra: “Non me ne vado finché la situazione non si sblocca. L’ho promesso a mio figlio”. Suo figlio è Pietro Marrone, capitano del peschereccio Medinea che, insieme con l’Antartide, era andato a pescare gamberi rossi (60.000 euro di merce ributtata in mare) a 38 miglia dalle coste libiche, quindi in acque internazionali. Ma i militari di Haftar non si sono fatti problemi. I pescatori sono stati fermati e imprigionati. “Il governo è impotente”, afferma la presidente dei senatori di Forza Italia, Anna Maria Bernini. E ricorda che “dieci anni fa il premier Silvio Berlusconi, in pochi giorni, fece ripartire per l’Italia tre pescherecci sequestrati dalla Marina libica, ma soprattutto riuscì a risolvere una complessa vicenda diplomatica facendo liberare dal regime di Gheddafi l’imprenditore svizzero Max Goeldi che era stato arrestato per violazione delle leggi sull’immigrazione. Ora l’Italia ha perso ogni influenza sulla Libia: per liberare i nostri connazionali dovremo chiedere l’aiuto degli alleati del generale Haftar?”. Sull’inerzia del governo picchia duro anche il governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che si è sfogato con Radio24: “Si deve fare di più. Al posto del ministro Di Maio andrei subito a parlare con le autorità a Tripoli, mi auguro abbia la forza di farlo. Conte mi ha assicurato un intervento personale ma credo non si sia fatto tutto quello che andava fatto spero possa avvenire nelle prossime ore”, ha detto. Musumeci ha anche aggiunto: “Non è possibile che dopo un mese i8 persone siano detenute in uno Stato straniero senza che lo Stato di appartenenza conosca la posizione giuridica di ognuno. Familiari e autorità dello Stato di appartenenza devono conoscere le reali condizioni. Il silenzio e ciò che colpisce maggiormente i familiari”. Ma mentre il Consiglio comunale di Mazara del Vallo comunica che a far data da ieri, unitamente ai familiari dei pescatori prigionieri, occuperà l’aula consiliare in segno di protesta, da Chigi e dalla Farnesina tutto tace. Se ne lamenta la senatrice di Fi, Gabriella Giammanco, che sulla vicenda ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri: “Ma Di Maio non viene in Senato a rispondere e quindi non si sa nulla”. Intanto cresce la rabbia di madri, mogli e figlie dei pescatori detenuti nel carcere di El Kuefia, a 15 km a sud est di Bengasi: “Liberateli subito”, implorano. Bielorussia e Turchia, le sanzioni Ue restano solo una minaccia di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 2 ottobre 2020 Consiglio europeo straordinario sulla politica estera. Non c’è nessuna decisione precisa, nessun automatismo. Scontente Grecia e Cipro. La discussione continua. La questione turca in primo piano, al Consiglio europeo straordinario dedicato alla politica estera che si conclude oggi a Bruxelles. Rimandato di una settimana a causa della quarantena del presidente Charles Michel, il Consiglio ha cambiato programma e affrontato subito il principale ostacolo che si pone di fronte a una Ue che stenta a diventare “geostrategica”, come è nel programma della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, anche se le circostanze lo esigerebbero. La Ue vuole mettere “ogni strumento a sua disposizione” per assicurare la sovranità di Grecia e Cipro: le sanzioni sono solo una minaccia, non c’è nessuna decisione precisa, nessun automatismo. In più, la Ue vorrebbe proporre alla Turchia di “modernizzare l’accordo doganale” e “facilitazioni commerciali”, oltre a insistere sulla “cooperazione sui migranti”. Ma Grecia e Cipro ieri sera hanno respinto questo testo, “troppa carota, non abbastanza bastone”. La discussione è continuata a cena. La scelta tattica era di sgombrare il terreno per circoscrivere l’incendio scatenato da Cipro, che vorrebbe “prendere in ostaggio” la Ue, mettendo il veto sulle sanzioni contro il regime bielorusso per condizionare la discussione su Minsk alle sanzioni alla Turchia. Ankara sta giocando la carta della desescalation, ha ritirato la nave da ricerca Oruç Reis, e due navi da guerra che l’accompagnavano, dalle acque contese con la Grecia a sud dell’isola di Kastellorizo, ma ne mantiene un’altra nella zona economica esclusiva di Cipro, dove è in corso una battaglia per il controllo dei giacimenti di gas. “La solidarietà con Cipro e la Grecia non è negoziabile” ha detto Emmanuel Macron, ma suggerisce di “trovare la strada per riprendere il dialogo” con Ankara. Angela Merkel, che ha la presidenza semestrale del Consiglio, è contraria a imporre sanzioni contro la Turchia. “Abbiamo una dipendenza reciproca sull’immigrazione”, mette in guardia. Ci sono “linee rosse” per Sebastian Kurz, cancelliere austriaco: “dobbiamo inginocchiarci? Non siamo deboli”. La questione turca rientra anche sul fronte della guerra in Nagorno-Karabakh, dove combattono azeri e armeni. La Ue ha stilato una lista di una quarantina di personalità bielorusse, responsabili della repressione, che potrebbero subire sanzioni. Macron ha incontrato a Vilnius Svetlana Tsikhanuskaya, ma suggerisce “pragmatismo” e non chiude il dialogo con Mosca (ma al Consiglio è stata posta anche la questione dell’avvelenamento di Alexei Navalny). Gran Bretagna e Canada hanno già imposto sanzioni a varie personalità, Lukashenko compreso. Nella Ue le decisioni sono più lente, perché ci vuole l’unanimità. Il passaggio a un voto a maggioranza qualificata per la politica estera è stato evocato, ma non ha nessuna possibilità di essere approvato ora. La Ue è di fronte a un dilemma, “pensare sé stessa come potenza” dice la Francia, che però porta avanti in solitaria questa strategia. La Germania frena ancora, per il momento. La grande maggioranza degli altri hanno altre priorità e non sono mai stati “grandi potenze”. Oggi i 27 parlano di Cina, in particolare dell’accordo sulla protezione degli investimenti e della protezione del clima. Macron non sarà presente, ma rappresentato da Merkel. Gran Bretagna. Migranti reclusi sulle navi, la folle idea di Johnson di Carlo Lania Il Manifesto, 2 ottobre 2020 Tra le ipotesi anche il trasferimento su piattaforme petrolifere dismesse nel mare del Nord, su delle isole o addirittura all’estero. Per il 2021 previsto un sistema a punti: entra solo chi è qualificato. Non sono solo i problemi legati alla futura gestione del mercato interno a far salire la tensione tra Gran Bretagna e Unione europea. Anche se per ora se ne parla poco o niente tra il governo di Boris Johnson e Bruxelles c’è un altro argomento che rischia di inasprire ulteriormente i rapporti e riguarda l’immigrazione. Quando mancano tre mesi alla Brexit, Londra non ha infatti ancora un piano su come gestire un fenomeno che negli ultimi mesi, pur mantenendosi lontano dai numeri che si vedono in Spagna, Grecia o Italia, ha comunque fatto registrare un aumento degli sbarchi di migranti provenienti dalla vicina Francia. Cosa fare di queste persone è una delle questioni sul tavolo che Londra sa di dover risolvere al più presto. Con la fine del periodo di transizione fissata per il 31 dicembre, e quindi con la conseguente uscita dall’Unione europea, finisce anche la possibilità per la Gran Bretagna di usufruire di quanto previsto dal regolamento di Dublino, per il quale la responsabilità del migrante ricade sul Paese di primo approdo. In futuro non sarà quindi più possibile per Londra rimandare indietro quanti arrivano dal Continente come accade oggi. Per ovviare a questa situazione un mese fa il governo britannico ha presentato a Bruxelles una bozza di accordo che di fatto non cambierebbe nulla, prevedendo la possibilità di rimandare indietro “tutti i cittadini di Paesi terzi e gli apolidi” che entrano nel suo territorio senza documenti verso i Paesi attraverso i quali hanno viaggiato. Insomma una specie di Dublino fatto in casa e in maniera unilaterale che secondo il Guardian non sarebbe piaciuta ai funzionari dell’Unione europea, al punto da respingere la proposta perché “troppo sbilanciata”. “Stiamo sviluppando piani per riformare le nostre politiche migratorie e di asilo in moda da poter continuare a fornire protezione a chi ne ha bisogno, mentre evitiamo criminalità e abusi del sistema”, ha dichiarato un portavoce di Dowing Street ammettendo di considerare anche alle misure adottate in altri paesi. In realtà, almeno per ora, il governo britannico sembra essere preso da una specie di isteria in grado di produrre soluzioni tra le più disparate. Tra le ultime, anticipate dalla stampa inglese, c’è quella di affittare vecchie navi in disuso da ancorare e sulle quali confinare i migranti arrivati attraverso il canale della Manica, in attesa che venga definito il loro status. Stando a quanto rivelato dal Financial Times Londra starebbe trattando con l’Italia l’acquisto per sei milioni di euro di una imbarcazione di 40 anni in grado di ospitare 1.400 persone in 141 cabine. Un’altra ipotesi riguarderebbe una nave da crociera dove potrebbero trovare posto 2.417 persone in mille cabine. In questo caso il prezzo sarebbe di 100 milioni di euro. Ma nella lista delle proposte figura anche la possibilità di trasferire i migranti su piattaforme petrolifere dismesse nel mare del Nord, su delle isole o addirittura all’estero, in Paesi come Moldova, Marocco, Papua Nuova Guinea, Ascensione e Sant’Elena. Proposte che ricordano le misure adottate in passato dall’Australia. Accordo o no per il dopo Brexit la Gran Bretagna lavora da tempo a un ulteriore giro di vite nei confronti dei migranti. L’idea è che dal 2021 nel Paese debbano entrare solo quelli qualificati e in grado di parlare inglese da selezionare grazie a un sistema a punti che favorirà i migranti in grado di svolgere le attività più ricercate dal mercato del lavoro britannico. La riforma è stata illustrata a in parlamento a luglio dal ministro dell’Interno Priti Patel, equipara comunitari e non e prevede ingressi privilegiati solo per medici, infermieri e altri addetti ai servizi sanitari. Nagorno-Karabach, il rischio di una guerra “per procura” di Francesco Battistini Corriere della Sera, 2 ottobre 2020 Azeri e armeni si fronteggiano, ma pesa il ruolo di Russia e Turchia che sostengono i contendenti mentre Ue e Stati Uniti tacciono. “Solidarizzerei col Nagorno-Karabach, se solo sapessi dov’è”. Trent’anni fa, quando esplose la prima faida etnica nell’Urss agonizzante, la battuta faceva ridere e diceva una mezza verità: certi conflitti ci sembravano troppo lontani per preoccuparci davvero. Perché il Caucaso era un mosaico incomprensibile, la Russia un rebus e la Turchia uno scatolone di giunte militari filoccidentali. A rassicurarci (o forse no) c’era un’America trionfante, solitaria guardiana del mondo. D’uguale ad allora è rimasta solo l’indifferenza globale per questa guerra prima feroce e poi a bassa tensione, che pure fece 30mila morti. E la rabbia che azeri e armeni covano: nessuno sa veramente perché si odino tanto, disse una volta Ryszard Kapu?ci?ski, l’hanno succhiato col latte materno e forse non lo sanno più nemmeno loro. Intorno è cambiato tutto. Ed è per questo che i primi cinque giorni di nuove cannonate in Nagorno-Karabakh preoccupano. A Mosca, oggi c’è uno Zar amico più della cristiana Armenia che del musulmano Azerbaijan, ma nella sostanza neutrale: non ha truppe sul terreno, lascerebbe come sono i confini, non vuole rispettare l’impegno d’aiuto militare firmato con Erevan, propone di negoziare con Baku... Ad Ankara, è il contrario: il Sultano minaccia i Paesi che sostengono la “furfante Armenia”, rivendica le comuni radici con gli azeri, sorvola il campo di battaglia coi suoi F-16, per solidarietà islamica, invia a combattere i suoi mercenari siriani e libici... E se gli Usa sono alle prese con le presidenziali, se l’Ue tanto per cambiare tentenna dopo aver gestito tre decenni d’inutili negoziati, è evidente il rischio d’un allargamento del conflitto. Putin, poco lieto che il tacchino turco venga a zampettare nel suo vecchio pollaio sovietico, ha sempre in canna un intervento stile Crimea: la stragrande maggioranza del Nagorno-Karabakh è pur sempre armena e ha diritto, perché no, d’attaccarsi alla madrepatria. Erdogan invece si concede il sarcasmo: “Finora russi, francesi e americani se ne sono fregati del Nagorno-Karabakh, e cercano una tregua adesso?”. Comunque, anche per evitare che vi s’infili il vicino Iran, i soli che possano risolvere la crisi sono proprio quei due. Gli stessi che si sfidano in Siria e in Libia, ma vanno d’accordo quando c’è da martellare gli americani e tenere gli europei fuori dal gas caucasico. Qualcuno intravvede già una guerra (e una pace) per procura. Gli azeri sono pronti a una campagna militare di durata. Gli armeni sono meno ricchi, meno armati, meno forti. Ma dice un loro proverbio che all’uccellino cieco è Dio che fa il nido: e il loro dio ha tutti i Mig e i Sukhoi che servono. Repubblica Democratica del Congo, dieci anni fa il report Onu sui crimini di guerra di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 2 ottobre 2020 Un decennio dopo la pubblicazione del “Congo Mapping Exercise Report”, che denunciava oltre 600 gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario commessi nella Repubblica Democratica del Congo dal 1993 al 2003, le autorità congolesi e le Nazioni Unite non hanno fatto abbastanza per assicurare alla giustizia i responsabili di quelle azioni efferate, che nella maggior parte dei casi vennero qualificate come crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il rapporto fu commissionato dalle Nazioni Unite dopo la scoperta, nel 2005, di tre grandi fosse comuni nella provincia del Nord Kivu, nell’est del paese. La conseguenza, ha commentato oggi Amnesty International, è che l’impunità continua ancora oggi a negare giustizia e a favorire la commissione di ulteriori violazioni dei diritti umani. La giustizia interna ha operato poco e male, per lo più attraverso processi sommari in corte marziale. Il Tribunale penale internazionale, dal canto suo, ha aperto indagini sui crimini di diritto internazionale commessi a partire dal 2002, ma purtroppo buona parte di quelli denunciati nel rapporto delle Nazioni Unite si verificarono negli anni precedenti. Uno dei casi più gravi, su cui il rapporto delle Nazioni Unite sollevò il dubbio se potesse essere definito crimine di genocidio (dubbio rimasto tale), riguardò i crimini commessi tra il 1996 e il 1997 dall’esercito del Ruanda e i ribelli suoi alleati dell’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo-Zaire ai danni di rifugiati ruandesi e cittadini congolesi di etnia hutu. Di rilevante, sul piano della giustizia internazionale, c’è stata solo la condanna di tre ex capi ribelli della provincia dell’Ituri per atrocità commesse nel 2002 e nel 2003. Ma le indagini non hanno toccato gli alti livelli politici e militari. *Portavoce di Amnesty International Italia