Decreto carceri, allarme per i contagi Covid: vanno a casa 5.000 detenuti di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 29 ottobre 2020 La decisione: tremila ai domiciliari con il braccialetto e duemila non rientreranno la notte. La seconda ondata del Covid svuota le celle. Sono almeno cinquemila i detenuti, vista la necessità di combattere i focolai del contagio, che potranno dormire a casa. La decisione due giorni fa durante il Consiglio dei ministri. Duemila carcerati (già in regime di semilibertà) non rientreranno in cella, e altri tremila, condannati per reati minori, saranno liberati dopo l’applicazione del braccialetto elettronico. In tutto poco meno del dieci per cento dell’attuale popolazione carceraria (54.815 detenuti). Sono già 150 i positivi al virus, 200 gli agenti di polizia contagiati. La seconda ondata del Covid spaventa le carceri: sono già 150 i detenuti trovati positivi al virus in 41 istituti, 71 solo a San Vittore a Milano, 55 a Terni, altri 12 a Benevento. Non solo: anche 200 operatori di Polizia penitenziaria risultano contagiati in tutta Italia, tre sono ricoverati, il resto in quarantena a casa. I focolai negli istituti per ora sono sotto controllo e al ministero della Giustizia dicono che i numeri di oggi sono in linea con quelli di inizio aprile, ma è il crescendo degli ultimi giorni a preoccupare. Così, nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri, due giorni fa, sono stati presi provvedimenti per limitare la diffusione del contagio anche nei penitenziari. A beneficiarne saranno circa 2 mila detenuti attualmente in semilibertà che la sera potranno dormire a casa senza rientrare in cella e almeno 3 mila detenuti comuni: in tutto, 5 mila persone, poco meno del 10 per cento della popolazione carceraria (54.815 detenuti). La nuova norma, entrando nel dettaglio, prevede la possibilità della detenzione domiciliare, ma con l’applicazione del braccialetto elettronico, per circa 3 mila detenuti che hanno subìto pene di durata non superiore a 18 mesi. Il Guardasigilli, Alfonso Bonafede (M5S), con un post su Facebook ieri ha tenuto a sottolineare che la norma in questione non si applicherà ai condannati per mafia, terrorismo, corruzione, voto di scambio, violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, stalking. E sarà preclusa anche a chi ha partecipato alle rivolte nelle carceri, a chi ha subìto un procedimento disciplinare nell’ultimo anno e infine a chi, dopo l’entrata in vigore del decreto, sarà oggetto di nuove contestazioni per disordini, rivolte, sommosse. Sempre al fine di contenere le occasioni di contagio, che il regime di semilibertà può accrescere per il fatto che il detenuto ogni giorno fa la spola tra il mondo esterno (dove studia o lavora) e il carcere (dove la sera torna a dormire), ecco che il decreto prevede per circa 2 mila detenuti (esclusi i condannati per mafia o terrorismo) la possibilità di non rientrare a dormire in cella. Al condannato in semilibertà, il magistrato di sorveglianza potrà dunque concedere licenze con durata superiore a quindici giorni fino al 31 dicembre 2020, salvo che non vengano ravvisati gravi motivi. “Sono norme importanti ed equilibrate - commenta il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Giorgis (Pd) - che mi auguro contribuiranno a ridurre i rischi di diffusione dei contagi senza compromettere le esigenze di sicurezza”. Il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, per la lotta al Covid chiede però al governo un ulteriore sforzo: “Resta ineludibile la predisposizione di spazi di ricovero interno che si spera non siano necessari, ma che sarebbe errato non prevedere”. “Dobbiamo essere uniti e coesi contro l’unico nemico, la pandemia”, è l’appello del ministro Bonafede. È così che il governo nell’ultima seduta ha varato il pacchetto-giustizia. “Tutti gli operatori devono trovarsi nelle condizioni di poter lavorare in sicurezza”, dice il Guardasigilli. Tra le misure previste: “Indagini preliminari con collegamenti da remoto”; “udienze penali mediante videoconferenze (con il consenso delle parti)”; “possibilità di ricorrere all’udienza cartolare anche per i casi di separazione consensuale e divorzio congiunto”; “possibilità per gli avvocati penalisti di depositare da remoto, con pieno valore legale, istanze, memorie e atti mediante il portale del processo penale telematico o tramite invio pec”. Infine, una promessa: “Al ministero - conclude Bonafede - stiamo lavorando per garantire che i cancellieri in smart working possano accedere ai registri del civile e del penale in modo da potenziare l’attività a distanza. E agli avvocati si darà la possibilità di accedere dai loro studi, dopo la chiusura delle indagini, agli atti del procedimento penale”. Bonafede: “Fuori chi ha meno di 18 mesi, ma nessun permesso per mafiosi e rivoltosi” di Liana Milella La Repubblica, 29 ottobre 2020 Nel decreto Ristori sono contenute anche le misure per le prigioni chieste dal Guardasigilli. Dice il sottosegretario alla Giustizia del Pd Andrea Giorgis: “Norme che ridurranno contagi”. Anche per le carceri arrivano le misure anti Covid. Fuori, ma con il braccialetto elettronico, chi ha una condanna fino a 18 mesi. Ma nessuna concessione a mafiosi e protagonisti delle rivolte di febbraio. Le annuncia con un post su Fb il Guardasigilli Alfonso Bonafede che però subito precisa: “È escluso chi è stato condannato per mafia, terrorismo, corruzione, voto di scambio politico-mafioso, violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia e stalking, nonché chi ha subito una sanzione disciplinare, o ha un procedimento disciplinare pendente, per la partecipazione a tumulti o sommosse nelle carceri”. Paletti che, già in partenza, escludono la possibilità che boss mafiosi, com’è avvenuto tra marzo e aprile di quest’anno a seguito della circolare del 21 marzo, possano andare ai domiciliari. Aggiunge il sottosegretario alla Giustizia del Pd Andrea Giorgis: “Sono norme importanti e ragionevoli che contribuiranno a ridurre i rischi di diffusione dei contagi negli istituti penitenziari senza compromettere le esigenze di sicurezza. Inoltre le norme processuali consentiranno di garantire continuità alla giustizia senza limitare i fondamentali diritti di difesa e di azione”. Il Covid nelle carceri - A oggi, nelle carceri, su una popolazione di 55mila detenuti, ce ne sono oltre 150 risultati positivi al Coronavirus distribuiti nei 41 istituti di pena con alcuni focolai sotto osservazione e con oltre 200 agenti della Polizia penitenziaria in quarantena a casa. I dati però, a quanto affermano fonti del ministero di via Arenula, stanno aumentando vertiginosamente giorno dopo giorno. Da qui è nata l’esigenza - proprio com’è già avvenuto a marzo con il primo decreto sul carcere - di adottare misure di alleggerimento che contrastino una possibile diffusione della malattia. Domiciliari sotti i 18 mesi di pena - Ma ecco in sintesi il provvedimento. A partire dalla detenzione domiciliare. Che sarà possibile e verrà concessa solo se il magistrato di sorveglianza non ravvisa gravi motivi che la ostacolano. In questo caso sarà il giudice ad autorizzarla per quei detenuti che devono scontare ancora una pena residua non superiore a diciotto mesi, anche se si tratta di un periodo residuo rispetto a una pena maggiore. Il braccialetto elettronico - Ma, com’è già avvenuto a marzo nel pieno dell’emergenza Covid, ai detenuti ai domiciliari verrà imposto il braccialetto elettronico. Uniche eccezioni per i condannati minorenni o per quei detenuti la cui pena residua da scontare non è superiore a sei mesi. In ogni caso, com’è scritto nel testo del decreto, sono esclusi dal beneficio tutti i detenuti che si trovano in regime di 4bis, l’articolo del regolamento penitenziario del 1975 che esclude appunto da una pena attenuata i soggetti condannati per i delitti più gravi come mafia e terrorismo e chi è stato coinvolto in disordini o sommosse come quelle di febbraio. Le licenze premio - Per i detenuti che già si trovano in regime di semi libertà saranno concesse licenze premio straordinarie fino al 31 dicembre. Ne potranno fruire anche coloro che già sono ammessi al lavoro esterno, salvo che il magistrato di sorveglianza non ravvisi gravi motivi per bloccare l’accesso alla misura. Anche in questo caso sono esclusi i soggetti condannati per i delitti più gravi. Il decreto specifica che le misure potranno essere concesse su istanza dell’interessato, per iniziativa della direzione dell’istituto penitenziario oppure del pubblico ministero. Punito chi viola i permessi - Punite anche, con misure specifiche, le eventuali violazioni delle agevolazioni ottenute. A chi si allontana dal domicilio concordato verrà contestato il reato di evasione, punito con pene più elevate rispetto a quella da scontare, nella misura di un anno nel minimo e tre anni nel massimo, a cui si aggiungono anche i casi di evasione aggravata. Gli esclusi dai benefici - Il decreto non si applicherà a chi è sottoposto al regime della sorveglianza particolare; ai destinatari di un procedimento disciplinare nell’ultimo anno; a tutti coloro che hanno preso parte a tumulti e sommosse negli istituti penitenziari, in particolare quelle di febbraio; ai soggetti condannati per uno dei delitti indicati dall’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario, tra cui terrorismo, mafia, corruzione, voto di scambio, violenza sessuale, oltre a delitti di maltrattamento e atti persecutori. Infine esclusi anche coloro che, dopo l’entrata in vigore del decreto, saranno sottoposti a contestazioni disciplinari. Le motivazioni delle misure - Come recita il testo di accompagnamento al decreto le misure hanno l’obiettivo “di ridurre le eccessive presenze negli istituti penitenziari per la durata e il procrastinarsi del periodo di emergenza igienico-sanitaria”. Tenuto conto, appunto, che a oggi la popolazione carceraria è di 55mila detenuti. Tema caldo anche alla Consulta - Per una coincidenza, giusto la prossima settimana, la Corte costituzionale affronterà proprio il caso di uno dei decreti di Bonafede che si è reso necessario dopo la scarcerazione dei boss. È quello che prevede l’obbligo, per il magistrato di sorveglianza, di rivalutare la misura concessa, cioè i domiciliari, la prima volta dopo 15 giorni, e poi con cadenza mensile, per verificare se essa è ancora necessaria, nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture interne o di reparti di medicina protetta. Secondo il giudice di sorveglianza di Sassari Riccardo De Vito, che aveva concesso i domiciliari al boss Pasquale Zagaria (poi rimesso in carcere da un paio di settimane), la norma invaderebbe la sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria e violerebbe il principio di separazione dei poteri, tanto più se applicata retroattivamente - il decreto è di maggio - rispetto a decisioni assunte a febbraio. De Vito lamenta varie violazioni della Costituzione, tra cui l’obbligo di verificare le condizioni di salute del detenuto. Anche i giudici di Avellino e di Spoleto si sono rivolti alla Consulta. Bonafede, più coraggio: contro il Covid domiciliari e sospensione della pena di Stefano Anastasia* Il Riformista, 29 ottobre 2020 Di fronte all’arrivo della seconda ondata del Covid-19, in carcere “il tema torna a essere quello della riduzione del numero di presenze”, come scrive il Garante nazionale nel suo comunicato di ieri. Per aver chiaro cosa questo significhi, basta fare attenzione al caso di Terni, il più significativo e preoccupante in queste ore. Nel giro di pochi giorni si è passati da un primo caso di un detenuto pauci-sintomatico a venti, e poi a quaranta, mentre scrivo a sessanta detenuti positivi al virus, tre dei quali sono dovuti ricorrere all’assistenza medico-ospedaliera. La diffusione del virus è tale che non si è riusciti neanche a tracciare la sua dinamica. I tamponi sono ancora in corso e i numeri potrebbero ancora aumentare. Lo sapevamo e lo ripetiamo da marzo (anzi no, forse da febbraio): le comunità chiuse sono luoghi in cui la diffusione del virus rischia di essere più grave che altrove. Lo abbiamo visto nelle residenze sanitarie assistenziali così come nei focolai penitenziari che sono stati registrati anche nella prima ondata. In carcere, poi, le condizioni igieniche e di promiscuità nella vita quotidiana amplificano i rischi delle altre comunità chiuse. Si può cercare di costruirgli un cordone sanitario intorno, ma nessun carcere sarà mai completamente sigillato: quotidianamente vi entrano operatori e personale addetti a servizi essenziali che vivono la vita di fuori e possono, anche senza colpa, portare il virus dentro. Visti i numeri, a Terni per il momento è stata attrezzata una sezione dedicata, a cui forse bisognerà affiancarne un’altra, destinata alla ospitalità di coloro che progressivamente dovessero negativizzarsi, prima che se ne possa disporre il rientro nelle sezioni comuni. Questo significa avere disponibilità di spazi, per il semplice rispetto delle norme di igiene e prevenzione. E gli spazi si trovano solo se gli istituti si svuotano. Il problema non è semplicemente la riduzione del sovraffollamento, ma la necessità di avere spazi liberi, ben oltre il rientro nella capienza regolamentare degli istituti. È notizia di queste ore che il Governo nel decreto Ristori ha approvato nuove misure per la riduzione della popolazione detenuta. Bene, ma è necessario che esse abbiano la necessaria incisività e la rapida applicabilità che quelle di marzo non sempre ebbero. Non a caso, il Garante nazionale auspica che possano non solo confermare, ma anche “ampliare quelle adottate a suo tempo”. Va bene dunque il ritorno delle licenze straordinarie per i semiliberi. Va bene la semplificazione dell’accesso alla detenzione domiciliare a fine pena, soprattutto se verrà liberata dalle limitazioni che hanno indotto tanti magistrati ad adottare la normativa ordinaria, piuttosto che quella “semplificata”. Ma forse serve anche qualcosa di più, come il ritorno alla liberazione anticipata speciale che diede ottima prova di sé in occasione della risposta alla condanna della Corte europea per i diritti umani per il sovraffollamento inumano e degradante delle nostre prigioni. Un provvedimento naturalmente semplificato, fondato sui presupposti della buona condotta e della partecipazione all’offerta trattamentale, che potrebbe ridurre del necessario le presenze in carcere, se applicato con decorrenza da quando si è interrotta la sua precedente vigenza, e cioè dal gennaio 2016. E senza scandalo bisognerà tornare a utilizzare la sospensione della pena o la detenzione domiciliare per motivi di salute nei confronti dei detenuti anziani e vulnerabili, come giustamente suggeriva quella nota della direzione generale dei detenuti che ha sconcertato chi non ha chiara la gerarchia dei valori nel nostro ordinamento e il posto che in essa occupano il diritto alla salute e alla vita della persona, di qualsiasi persona, di qualsiasi reato si sia macchiato. Queste le sfide che ci attendono, nei prossimi giorni, e che dovranno rispondere efficacemente a detenuti, familiari e operatori, tutti legittimamente preoccupati per le condizioni di salute proprie o dei propri cari. *Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà Garante per le Regioni Lazio e Umbria Il carcere e quella riforma attesa da anni di Danilo Paolini Avvenire, 29 ottobre 2020 Il Garante: 150 contagi, si torni a riflettere sulla riduzione delle presenze in cella. La ricetta di Pagano. Rispetto alle 54.815 persone detenute oggi presenti in carcere, il numero di contagiati si aggira attorno alle 150 unità, mentre è più alto (circa 200) il dato riguardante il personale penitenziario. È l’ultima contabilità relativa al carcere, diffusa proprio ieri dal Garante nazionale dei diritti dei detenuti nel suo bollettino. “Il tema torna a essere quello della riduzione del numero di presenze attraverso provvedimenti che, pur tenendo fermo il criterio della complessiva sicurezza, siano in grado di fare emergere la centralità della tutela della salute di ogni persona” ha sottolineato il Garante. Del tema della riforma del sistema penitenziario si è occupato a lungo, nella sua carriera, lo storico direttore di San Vittore, Luigi Pagano. Sulla sua figura e sulle sue proposte, è stato dato alle stampe un libro. A San Vittore di direttori ne sono passati tanti, ma se dici “il direttore” tutti pensano a lui, Luigi Pagano. Per 15 anni, a partire dal 1989, ha diretto il carcere milanese per eccellenza (San Vitur), lui che “milanese” lo è divenuto nel tempo, arrivando dalla provincia di Caserta. Prima aveva avuto la responsabilità di altri istituti: Pianosa, diversi in Sardegna, poi Piacenza, Brescia, Taranto. Infine è stato provveditore lombardo per l’amministrazione penitenziaria e, dal 2012 al 2015, vicecapo del Dap. Questo per dire della sua esperienza e conoscenza diretta di quel mondo dolente e nascosto che sono le prigioni. Un bagaglio che adesso, da pensionato e consulente del Difensore civico della Regione Lombardia, mette a disposizione in un volume da qualche giorno in libreria, intitolato appunto “Il direttore - Quarant’anni di lavoro in carcere” (Zolfo Editore, pagg. 300, 18 euro). “Non so se Luigi Pagano conoscesse per nome tutti i 1.800 detenuti che c’erano in quel momento a San Vittore, ma certamente conosceva le loro storie, criminali e personali, conosceva le loro emozioni, i loro turbamenti, le loro esigenze” scrive nella prefazione il magistrato antimafia Alfonso Sabella. È questo che colpisce, in effetti, coloro che - come chi scrive - hanno avuto occasione di conoscere Pagano: oltre alla grande preparazione professionale, il tratto umano e un approccio non burocratico all’universo penitenziario. Un universo che necessita da sempre di una riforma complessiva, che tuttavia non arriva. Si è ancora fermi alle “domandine” (il diminutivo è già indicativo di una condizione d’inferiorità), che il detenuto deve presentare per avere “una testa d’aglio” o “un mazzettino di prezzemolo” o qualunque altro modesto “extra”. Non a caso il primo capitolo porta il titolo “La riforma prossima ventura”, perché - osserva “il direttore” - negli anni ci si è ormai abituati, dentro quelle mura spesse, a “realtà create, da uomini, nei secoli scorsi e ancora tollerate da uomini che pur avrebbero il dovere morale e giuridico di intervenire per rimuovere lo scandalo, ma scelgono l’indifferenza”. Realtà “fuorilegge”, aggiunge fuori dai denti Pagano, se dobbiamo stare alla Costituzione repubblicana, all’Ordinamento penitenziario e anche al Comitato contro la tortura presso il Consiglio d’Europa. Da tali amare considerazioni prende avvio un vero e proprio viaggio nelle diverse carceri italiane conosciute e dirette da uno che, ci tiene a sottolinearlo, quel lavoro lo ha scelto e non accettato come ripiego. Un viaggio insaporito da aneddoti gustosi, ricordi drammatici, citazioni non scontate, buone pratiche (ancora poco diffuse) e venature ironiche per l’ottusità dell’onnipresente burocrazia. Quarant’anni di vita e di carriera, insomma, spesi con la convinzione che in carcere sono rinchiuse persone, non numeri. A Pagano, per dire, si deve l’invenzione dell’Icam di Milano, struttura per ospitare le mamme detenute con i propri figli, affinché i bambini non debbano stare in carcere. Ed è anche merito suo se nel 2014 l’Italia, riuscendo a ridurre nel giro di pochi mesi un sovraffollamento carcerario spaventoso, ha scampato la condanna della Corte Europea per i diritti dell’Uomo per “trattamento inumano e degradante nei confronti dei detenuti”. “Non si può governare a suon di carcere e condanne esemplari” di Viviana Lanza Il Riformista, 29 ottobre 2020 “Si è imboccato un trend che allontana la prospettiva di una riforma legislativa per dare più spazio alle misure sanzionatorie fuori dal carcere e si è scambiato il principio della certezza della pena con quello della certezza della pena carceraria”. Il professor Vincenzo Maiello, giurista, ordinario di Diritto penale all’università di Napoli Federico II e penalista impegnato in processi di rilevanza nazionale, descrive lo scenario attuale e interviene sulla riflessione proposta dal Riformista sul tema delle misure alternative alla detenzione. Misure a cui è difficile accedere se non passando per tempi di attesa lunghi e burocrazia rigida. Eppure, meno carcere vuol dire più sicurezza se si considera che il tasso di recidiva è più basso nei casi in cui viene applicata una misura diversa dalla reclusione in un istituto di pena. Si può sperare, dunque, in una riforma nel breve termine? “Attualmente non vedo le condizioni - commenta il professor Maiello - Occorrerebbero altro personale politico, altra cultura di governo e un’approfondita e consapevole riflessione sui costi del populismo e su dove ci sta portando l’idea di governare la società a suon di carcere e inasprimenti di pena. Purtroppo, la cultura costituzionale della rieducazione, che rappresenta l’applicazione del principio solidaristico all’interno della giustizia penale, sembra sul viale del tramonto e vive una stagione di difficoltà e di grande crisi”. L’opinione pubblica è sempre più pronta a invocare pene esemplari e celebrare i processi in tv. “Anziché incattivire la risposta sanzionatoria bisognerebbe renderla più celere e garantire maggiore qualità alle decisioni giurisdizionali, abbassando la quota di errori giudiziari e cercando di liberare i giudici dalla pressione mediatica del crucifige, caratteristica dell’opinione pubblica intransigente con gli altri e lassista con se stessa”. Al fattore culturale si aggiungono poi fattori normativi, legati a iter farraginosi, procedure complesse, attese eccessive, zavorre del sistema giudiziario: è così anche nella sfera delle misure alternative al carcere. “Un limite del diritto dell’esecuzione penale è che non è riuscito del tutto nel tentativo di coniugare la legalità dei presupposti per l’applicazione delle misure alternative con l’idea della rieducazione che deve governare tutta la fase esecutiva”, spiega il professor Maiello. Quale soluzione sarebbe possibile? “Occorrerebbe riformare la normativa e creare un’opera di coordinamento”, sottolinea. “La riforma del diritto dell’esecuzione penale era in dirittura di arrivo sul finire della scorsa legislatura, quando il percorso legislativo fu interrotto dal sopraggiungere della prospettiva elettorale. Ricordo che, in quel contesto, ci fu la convocazione degli Stati generali dell’esecuzione cui si deve la messa a punto di una notevole proposta riformatrice che aveva incontrato il favore dei ceti più qualificati della dottrina, dell’avvocatura e della magistratura”. Con l’attuale legislatura, una simile riforma non sembra più così vicina. “Noi - osserva il giurista - dovremmo riprendere la grande lezione della criminologia post-positivista che, a partire dalle ricerche dei primi del Novecento, mise in luce la dannosità delle pene detentive brevi, proponendone la soppressione sia perché nocive all’idea di prevenzione speciale sia perché inutili sul piano della prevenzione generale”. “Il volto della giustizia penale - aggiunge - è condizionato dalla cultura della società di un determinato momento storico. Non esiste un diritto penale più evoluto e civile all’interno di una società arcaica così come all’interno di una società culturalmente consapevole e raffinata non dovrebbero esserci gli strumenti di una giustizia penale primitiva. E in questi anni - conclude Maiello - la giustizia penale ha registrato una recrudescenza, una curvatura della vocazione liberale dei suoi principi guida che ha innescato un’involuzione autoritaria dei suoi effetti, dominati dalle logiche dell’irrazionalismo emotivo di matrice populistica”. “È difficile difendere gli ultimi degli ultimi che vivono nel Cpr” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 ottobre 2020 Da queste pagine abbiamo spesso denunciato come i Cpr si trasformino spesso in veri e propri lager. Una situazione molto critica è quella del Cpr di Macomer in provincia di Nuoro, come ci racconta l’avvocata Rosaria Manconi, presidente della Camera Penale di Oristano. Lei assiste alcuni “detenuti amministrativi” del Cpr di Macomer: quali sono le criticità che interessano la funzione difensiva? Nonostante i regolamenti e le ulteriori disposizioni a tutela dei diritti dei trattenuti, di fatto, le violazioni delle garanzie difensive sono presenti. Nomine di fiducia possibili solo grazie all’intervento della rete di attivisti che mettono in contatto l’avvocato e lo straniero, comunicazione della nomina solo pochi minuti prima delle udienze di convalida, che si risolvono il più delle volte in una mera formalità e talvolta con una semplice videochiamata al legale che nulla sa del procedimento. Avviso al difensore con tempi ristrettissimi, senza dare modo di prendere visione degli atti e del fascicolo del trattenuto, tantomeno di incontrarlo. Talvolta il colloquio difensivo è reso impossibile per la mancata conoscenza da parte dello straniero della lingua e per la indisponibilità del mediatore/ traduttore. Gli atti ed i provvedimenti successivi alla udienza non vengono notificati né agli interessati né ai loro difensori. Quali sono le condizioni di vita nel centro? L’opacità caratterizza i Centri per il rimpatrio. È difficile avere informazioni su quanto accade dentro. I reclusi hanno difficoltà a comunicare con l’esterno e per le associazioni, giornalisti e attivisti è impossibile accedere a queste strutture per monitorarne le condizioni. La notizia di un giovane marocchino che nel Cpr di Macomer si era cucito la bocca e di un suo compagno di “cella” che si era ferito, per esempio, è trapelata solo a seguito del ricovero ospedaliero. In nome della sicurezza viene negato lo svolgimento di qualsiasi tipo di attività. Non esistono aree destinate alla socialità, né biblioteche, né impegno lavorativo. Solo ozio e convivenza forzata, promiscuità, ghettizzazione. Le condizioni di vita nel Cpr sono insostenibili. Noti sono i casi di tentato suicidio, autolesionismo, tentativi di rivolta. Da informazioni trapelate dalla struttura medica del Cpr di Macomer alcuni reclusi richiedono farmaci per sopportare le condizioni di vita alienanti e prive di speranza. I trattenuti hanno difficoltà a comunicare telefonicamente con i propri cari. E a ricevere da loro un contributo economico. Per es. una scheda telefonica costa 5 euro e loro ricevono 2,50 euro al giorno. Non hanno quindi possibilità di acquistare alimenti o altri beni di necessità. In generale, cos’è che non funziona dal punto di vista burocratico nella gestione di queste persone? I centri si sono rivelati un fallimento rispetto alle intenzioni dei governi che volevano destinarli per il periodo strettamente necessario per organizzare gli allontanamenti e nel contempo per controllare gli ingressi. Di fatto la chiusura dei confini, il blocco dei voli, la mancata collaborazione di Paesi di origine rendono spesso impossibile il rimpatrio. E così i migranti vengono liberati per essere rimessi nel circuito della irregolarità, al quale poi vengono sottratti con un ulteriore provvedimento di espulsione e trattenimento. E così, spesso, all’infinito. Può farci qualche esempio di casi mal gestiti? Un giovane marocchino, in Italia da oltre quindici anni, in possesso di regolare permesso lavorativo e documenti di identità, perfettamente integrato, operaio specializzato con contratto a tempo indeterminato presso una ditta della Penisola, subisce una condanna a seguito di una denuncia di maltrattamenti da parte della compagna. Esce dal carcere anticipatamente per buona condotta e una volta messo piede fuori dalla struttura viene fermato, privato dei documenti e del permesso di soggiorno e trasferito a Macomer. Ha proposto ricorso ma nel frattempo è stato espulso con ordine di lasciare l’Italia entro sette giorni. Ma il caso più eclatante è quello di un giovane palestinese, al quale è stata riconosciuta la protezione internazionale, poi revocata senza che gliene venisse data notizia e motivazione. Ha chiesto a più riprese di tornare nel proprio Paese, a Gaza, perché lì risiede la sua famiglia e perché piuttosto che stare rinchiuso in questa struttura preferisce rischiare la vita nel suo Paese. Ad oggi è ancora trattenuto nel Cpr di Macomer. I detenuti di solito sono considerati cittadini di serie B, gli “ospiti” del Cpr forse di serie D... La verità è che queste strutture sono destinate, in nome di una presunta esigenza di sicurezza, alla esclusione della “underclass” - gli ultimi degli ultimi nella scala sociale - dalla comunità. A questi non viene assicurato il rispetto della dignità della persona e dei diritti fondamentali. Non c’è interesse politico, né attenzione dei media e della società civile verso questi soggetti. E ciò rende ancora più urgente una nuova disciplina normativa che regoli adeguatamente la materia e la nomina di un organismo indipendente di controllo e vigilanza. La riforma Bonafede bocciata dai capi della Cassazione di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 ottobre 2020 La presidente aggiunta Cassano e il procuratore generale Salvi demoliscono i capisaldi del disegno di legge delega che dovrebbe ridurre i tempi del processo penale: più utile depenalizzare e aumentare le dotazioni dei tribunali. Bocciature eccellenti per il disegno di legge delega Bonafede di riforma del processo penale. Già bersagliato dalle critiche degli avvocati e dei giuristi ascoltati in commissione giustizia alla camera, il testo - che contiene anche la norma sulla prescrizione che infiammò mesi fa i rapporti tra Pd e 5S - è stato pesantemente attaccato ieri sera dal primo presidente e dal procuratore generale della Cassazione. Il primo presidente Pietro Curzio ha lasciato la parola a Margherita Cassano, da luglio la prima donna presidente aggiunta della suprema Corte con competenza sul penale. Cassano ha bocciato diversi capisaldi della riforma Bonafede, a partire dall’introduzione del giudice monocratico in appello. Misura che nelle intenzioni dovrebbe consentire di svolgere più udienze, ma che in concreto secondo la giudice di Cassazione produrrà ulteriori rallentamenti perché nei tribunali non ci sono né le aule né il personale amministrativo per moltiplicare le udienze. Un danno invece di un vantaggio, ottenuto peraltro come ha sottolineato il pg Giovanni Salvi con il sacrificio delle garanzie per l’imputato. Criticabile per Cassano anche l’introduzione di quella sorta di udienza preliminare che dovrebbe decidere sul non luogo a procedere: sia dal punto di vista dell’anticipazione del giudizio sia dal punto di vista della incompatibilità dei giudici, con l’ulteriore appesantimento dei ruoli nei tribunali. Per Salvi è inutile accelerare i tempi delle indagini preliminari, dal momento che le prescrizioni si producono per la gran parte per i ritardi nella fissazione delle prime udienze. Pesante il giudizio di Cassano sull’accordo raggiunto da Pd e M5S sulla prescrizione: il blocco della prescrizione dopo il primo grado allungherà i tempi della definizione delle cause e, ha detto, “non si concilia con i principi costituzionali di giusto processo e ragionevole durata”. Le soluzioni, anche per la Cassazione, sono quelle più volte proposte (ma non perseguita da Bonafede) di larghe depenalizzazioni e interventi sulle dotazioni dei tribunali. “Obiettivo raggiunto: dibattimento salvo dalla deformazione informatica” di Simona Musco Il Dubbio, 29 ottobre 2020 “Pacchetto giustizia”, tra le novità il deposito digitale di atti indicati dall’avviso di conclusione indagini. Caiazza (Ucpi): “Ora istituzionalizziamo i veri progressi del processo telematico”. Il ministro Bonafede: “In questo momento è importante che la Giustizia vada avanti. “L’obiettivo cruciale è stato raggiunto: salvare, nella sostanza, il dibattimento dalla deformazione informatica”. Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, è soddisfatto. Perché tutte le sue richieste, condivise con i procuratori di dieci dei più importanti uffici d’Italia - Milano, Roma, Napoli, Firenze, Catanzaro, Reggio Calabria, Palermo, Perugia, Salerno e Torino - sono state quasi totalmente soddisfatte dal “pacchetto giustizia” approvato martedì con il decreto ristori. Soddisfazione palpabile anche dalle parti di via Arenula, dove il ministro Alfonso Bonafede si prende il merito di aver trovato una soluzione per non bloccare i processi, nonostante l’aumento dei contagi. “In questo momento difficile, è importante che la giustizia vada avanti”, ha scritto ieri sul suo profilo Facebook il Guardasigilli, che vuole garantire a tutti - magistrati, avvocati, cancellieri, personale della polizia penitenziaria e operatori della giustizia - la massima sicurezza sul lavoro. Da qui la necessità di digitalizzare e remotizzare parte delle attività della Giustizia, che ora potrà usufruire di indagini preliminari da remoto. Una novità “positiva”, secondo Caiazza, anche in prospettiva. “Non abbiamo mai espresso avversione nei confronti della modernizzazione del processo - spiega al Dubbio -, anzi abbiamo chiesto in tutte le forme possibili la remotizzazione del processo penale, purché non riguardasse il dibattimento nell’assunzione della prova”. Ma non solo: sarà possibile svolgere udienze penali mediante videoconferenze o collegamenti (con il consenso delle parti), ad eccezione delle udienze istruttorie e di quelle per la discussione finale, udienza cartolare anche per i casi di separazione consensuale e divorzio congiunto e deposito di istanze, memorie e atti mediante il portale del processo penale telematico o tramite invio pec. “Inoltre - ha spiegato Bonafede - al ministero stiamo lavorando per garantire che i cancellieri in smart working possano accedere (con pc dedicati) ai registri del civile e del penale in modo da potenziare l’attività lavorativa a distanza. Contestualmente, si darà agli avvocati la possibilità di accedere dai loro studi, dopo la chiusura delle indagini, agli atti del procedimento penale”. Una delle novità più importanti, come confermato anche da Caiazza, è l’obbligo di depositare memorie, documenti, richieste ed istanze indicate dall’articolo 415-bis, comma 3, del codice di procedura penale presso gli uffici delle procure della Repubblica, mediante il portale del processo penale telematico individuato con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia. Gli altri atti depositabili attraverso l’apposito portale messo a disposizione del ministero della Giustizia saranno, inoltre, individuati con un successivo decreto, mentre per i restanti atti sarà possibile comunque il deposito via pec. Insomma, si tratta di un’implementazione del fascicolo penale telematico. Una novità “importante”, per Caiazza, che aveva chiesto l’accesso al Tiap, dove verranno depositati gli atti dai pm, attraverso password momentanee. Un punto “fondamentale”, ha sottolineato il leader di Ucpi, perché tali atti rappresentano uno dei principali motivi di “presenza” degli avvocati in Tribunale, e per il quale si chiede una istituzionalizzazione. Così come per il deposito telematico, “passo indispensabile”. Il risultato più importante è, però, un processo da remoto “soft”, che salvaguarda “la natura irrimediabilmente orale, quindi fisica, del processo penale”. Rispetto alla posizione dei penalisti, “che non contempla eccezioni”, il decreto prevede la possibilità di celebrare a distanza le udienze con i testimoni tecnici, ovvero consulenti e periti, da remoto, condizione temperata dall’essere subordinata al consenso del difensore. Poco soddisfatti, invece, i tributaristi: “In ordine alle misure urgenti relative allo svolgimento del processo tributario - afferma l’Unione nazionale delle Camere degli Avvocati Tributaristi (Uncat) -, la bozza è assai deludente, non solo per le farraginose e generiche precondizioni che dovrebbero autorizzare i singoli presidenti ad adottare il “rito da remoto”, con conseguenti provvedimenti a macchia di leopardo ma, soprattutto, perché è lo stesso legislatore ad essere consapevole dell’impraticabilità, allo stato attuale, del processo da remoto per le deficienze degli strumenti di accesso da parte degli stessi uffici giudiziari. L’opzione della trattazione scritta diventa, pertanto, non più una facoltà bensì l’unico sbocco nell’attuale momento”. La portavoce dei No Tav Lauriola non si è pentita, resta in carcere di Chiara Viti Il Riformista, 29 ottobre 2020 Dana Lauriola resta in carcere. Il Tribunale di sorveglianza di Torino ha respinto la richiesta di sospensiva della misura cautelare. La portavoce dei No Tav è stata condannata a due anni di reclusione nel carcere torinese Le Vallette, per violenza privata e interruzione di pubblico servizio. “È l’ennesimo fatto grave e ingiusto nei confronti di Dana, che risulta quindi l’unica, a oggi, del gruppo dei 12 condannati a essere stata mandata in carcere - commentano i No Tav in una nota - È che non vi siano le condizioni per giudicare Dana e i No Tav, serenamente e imparzialmente, ed è ora di prenderne atto”. Lauriola è stata arrestata all’alba dello scorso 17 settembre, quando gli agenti Digos si sono presentati a casa dell’attivista a Bussoleno, in Val di Susa. Attualmente sta scontando una condanna per un fatto avvenuto otto anni fa, quando circa 300 persone occuparono l’area del casello autostradale di Avigliana della Torino-Bardonecchia facendo passare gli automobilisti senza pagare il pedaggio, bloccando con il nastro adesivo l’accesso ai tornelli del casello. “Andrò in carcere, ma la notizia non giunge inaspettata. Ho semmai la fortuna di poter salutare famiglia e amici prima che vengano a prendermi”. Aveva commentato appena appresa la notizia della condanna. “Credo che in prigione mi prenderanno in giro, sono l’unica in Italia ad andarci per un mezzo blocco stradale” aveva poi concluso. A seguito dei fatti del casello di Avigliana ci furono dodici condanne per reati di violenza privata, danneggiamento aggravato e interruzione di pubblico servizio. Tra loro c’era anche Nicoletta Dosio, ex professoressa e storica militante No Tav. Anche lei condannata per violenza privata e interruzione di pubblico servizio. Dosio non aveva mai chiesto misure alternative alla detenzione in carcere ma suo caso, complice le disposizioni governative per ridurre il sovraffollamento e i contagi da coronavirus, alcuni mesi dopo l’arresto, le sono stati concessi i domiciliari. A giugno del 2019, la Corte di Cassazione aveva confermato la sentenza di due anni di carcere per Lauriola. Qualche mese dopo, a novembre, la difesa aveva chiesto la misura alternativa dell’affidamento in prova, in una cooperativa - la Aeris - dove l’attivista già lavorava già dal 2015. Il 14 settembre, però, il Tribunale di sorveglianza di Torino ha rifiutato tutte le misure alternative richieste, e ha dato il via libera all’arresto. I giudici avevano scritto nelle motivazioni della sentenza che “la necessità dell’arresto è stata giustificata dal mancato pentimento rispetto all’attivismo con il movimento No Tav”. La società Sitaf, gestore dell’autostrada, aveva inoltre chiesto a tutti gli imputati un indennizzo di 25 mila euro. La cifra sarebbe giustificata dal danno d’immagine che si sarebbe portato con sé un progressivo abbandono da parte dei turisti, impauriti dalle azioni del movimento No Tav. Il danno materiale quantificato dal Tribunale è stato invece di soli 777 euro, corrispondenti ai mancati pedaggi di quella giornata, e successivamente rimborsati da tutti gli imputati. Roma. Regina Coeli, 35enne caduto in depressione si toglie la vita: “Vogliamo la verità” di Alessandro Rosi fanpage.it, 29 ottobre 2020 La Procura di Roma ha avviato le indagini e chiesto l’autopsia, oltre all’esame tossicologico. Il ragazzo era già stato spostato più volte tra i reparti del carcere. “Se le condizioni psichiche erano compromesse”, si interrogano i legali della famiglia del detenuto, “perché non è stata disposta la sorveglianza a vista?”. Non si dà pace la famiglia del ragazzo di 35 anni che nei giorni scorsi si è tolto la vita nel carcere di Regina Coeli. E ora il pm Maria Rosaria Guglielmi ha aperto un’indagine per capire se quella morte si poteva evitare. I risultati dell’autopsia arriveranno a breve, mentre gli esami tossicologici chiesti dai legali della famiglia del detenuto sono stati appena autorizzati. L’esito permetterà di ricostruire meglio quando accaduto. “Vanno chiarite le circostanze, che riteniamo sospette, in cui è avvenuto il suicidio”, spiegano i penalisti della famiglia Fabrizio Consiglio ed Eugenio Salvatore Daidone. “Il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo aver denunciato, ai propri cari, le continue violenze subite all’interno della Casa circondariale”. Il carcere era a conoscenza delle difficoltà del detenuto. “Più volte e probabilmente per questi motivi, il ragazzo era stato spostato nei vari reparti del carcere di Regina Coeli. Se le condizioni psichiche erano compromesse perché non è stata disposta la sorveglianza a vista? Faremo tutto il possibile - continuano - per chiarire la vicenda. La famiglia chiede verità”. Sono 12 i detenuti a Regina Coeli che aspettano di essere trasferiti in una Rems - Se il 35enne che si è suicidato nei giorni scorsi dovesse essere o meno trasferito in una Rems, strutture che accolgono detenuti con disturbi mentali, lo appurerà la magistratura. Ma la situazione nel carcere di Roma resta complicata. “Ad oggi sono 12 le persone detenute a Regina Coeli in lista di attesa per un posto in Rems”, scrive su Facebook Gabriella Stramaccioni, garante delle persone private della libertà di Roma. “Sono persone che presentano forti problematicità. Rischiano di rimanere in questa situazione per un lungo tempo, visto che mancano i posti e non si stanno cercando alternative”. Il garante poi prosegue: “Ribadisco la necessità di un tavolo di coordinamento regionale che affronti la questione delle liste di attesa e della individuazione di strutture di cure adeguate”. Roma. Detenuto morto nel carcere di Regina Coeli, disposti esami tossicologici askanews.it, 29 ottobre 2020 Legali famiglia: “Pm ha accolto nostra istanza, vogliamo verità”. La Procura di Roma ha aperto un’inchiesta in merito alla morte di un detenuto, A.R. di 35 anni, avvenuta nei giorni scorsi nel carcere di Regina Coeli. Secondo quanto si è appreso il fascicolo è stato affidato al pm Maria Rosaria Guglielmi. I risultati della autopsia che è stata eseguita nei giorni scorsi saranno consegnati agli inquirenti nelle prossime settimane. In seguito ad una istanza dei legali della famiglia, gli avvocati Fabrizio Consiglio ed Eugenio Salvatore Daidone, sono state affidati anche degli esami tossicologici. “Vanno chiarite le circostanze, che riteniamo sospette, in cui è avvenuto il decesso - hanno detto i penalisti Consiglio e Daidone - Facciamo presente che il giovane era caduto in un forte stato depressivo dopo avere denunciato, ai propri cari, le continue violenze subite all’interno della casa circondariale”. I legali ribadiscono che “più volte e probabilmente per questi motivi, il ragazzo era stato spostato nei vari reparti del carcere di Regina Coeli. Se le condizioni psichiche erano compromesse perché non è stata disposta la sorveglianza a vista? Faremo tutto il possibile - continuano - per chiarire la vicenda. La famiglia chiede verità”. Terni. Covid, il focolaio in carcere si estende: “Trasferire i detenuti” umbriaon.it, 29 ottobre 2020 Crescono di ora in ora i casi fra le persone ristrette a vocabolo Sabbione: 55 al primo pomeriggio di mercoledì. Il Garante: “Stop a nuovi ingressi. Terni è caso più rilevante in Italia”. Crescono di ora in ora le positività al Covid-19 riscontrate fra i detenuti del carcere di Terni. Al primo pomeriggio di mercoledì erano 55, tutte relative a persone del circuito ‘Alta sicurezza’. Non risultano allo stato - un secondo giro di tamponi verrà effettuato nelle prossime ore - positivi fra il personale e fra gli agenti della polizia penitenziaria. La situazione è sicuramente tesa ed una delle decisioni è stata quella di allestire una sezione Covid interna per dividere i contagiati dagli altri: in base all’evoluzione, potrebbero esserne create prossimamente altre. “Come un fiammifero in un pagliaio” - Ad analizzare la situazione è il garante dei detenuti della regione Umbria, Stefano Anastasìa: “Sapevamo dall’inizio che la condizione dei nostri istituti penitenziari era quella che un eventuale positivo avrebbe potuto produrre l’effetto di un fiammifero in un pagliaio. Ed a Terni, primo carcere italiano dove viene riscontrato un focolaio così importante, è accaduto proprio ciò. In molti casi, parlo in generale, il sovraffollamento, la promiscuità, la precarietà dei servizi e degli spazi dedicati all’igiene fa sì che determinate problematiche possano acuirsi in una struttura detentiva. La sfida più importante, vinta anche a Terni fino ai giorni scorsi, è quella di bloccare il Covid all’ingresso. In Umbria i casi riscontrati prima del focolaio ternano erano tutti relativi a persone che stavano entrando in carcere e che lo screening ha consentito di bloccare. Una procedura che ha funzionato e che funziona ma ovviamente non si può escludere, come è avvenuto, che il virus entri in carcere. Fra operatori penitenziari, sanitari, insegnanti e tutta una serie di figure che operano nella struttura, se la circolazione del Covid all’esterno è altissima, può accadere ciò che si sta verificando a Terni”. Terni, focolaio carcerario più importante d’Italia - “Sarebbe utile e importante quale sia stato il veicolo della diffusione all’interno della casa circondariale di vocabolo Sabbione - osserva Stefano Anastasìa - ma a questo punto, ed è emerso anche nelle interlocuzioni con l’autorità sanitaria, credo sia molto difficile. Adesso c’è soltanto da gestire in maniera efficace, anche e soprattutto sul piano sanitario, la situazione. Individuando ed isolando tutti i detenuti positivi, garantendo loro la necessaria assistenza, con grande professionalità, nelle cose di ogni giorno: dagli aspetti sanitari ai pasti, fino all’igiene. Accanto a ciò sarebbe necessario, a mio giudizio, chiudere il carcere di Terni a nuovi ingressi e trasferire altrove tutte le persone non affette dal virus. Una sorta di carcere-Covid? Sì perché trasferire i detenuti positivi è impossibile, peraltro in un istituto che già lavora al di sopra delle proprie capacità. Serve poi il necessario personale sanitario, anche sul piano numerico. In Italia, nella prima ondata del Covid, abbiamo registrato focolai in città come Torino, Verona, Voghera. Il caso-Terni è, per entità, il maggiore sin qui riscontrato: basti pensare che ad oggi sono circa 150 i detenuti positivi in Italia”. Un terzo sta a Terni e nel tardo pomeriggio di mercoledì il bilancio è salito a 60 Covid+, di cui 3 ricoverati in ospedale. Napoli. Troppi detenuti col Covid, è il momento di svuotare Poggioreale di Viviana Lanza Il Riformista, 29 ottobre 2020 A Poggioreale si continua a stare anche fino a 13 in una cella, nonostante le criticità di una struttura che necessita di ristrutturazioni (i fondi sono stanziati ormai da anni e ancora non si dà il via ai lavori) e nonostante l’attuale emergenza sanitaria che impone più stringenti e rigorose misure per evitare i contagi. Il bilancio più attuale dei contagi all’interno del carcere cittadino è di cinque detenuti e 21 dipendenti dell’istituto penitenziario. I detenuti sono tutti asintomatici e comunque tenuti sotto osservazione medica e in isolamento per evitare l’estendersi del rischio di contagio all’interno delle celle. Si tratta di quattro nuovi giunti, cioè di quattro persone arrestate nei giorni scorsi e sottoposte al tampone per verificare la positività al virus prima di fare il loro ingresso nei padiglioni del carcere. Un quinto detenuto positivo al Covid era invece recluso nel reparto Roma. Il garante regionale delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, e il garante di Napoli, Pietro Ioia, hanno trascorso ieri la mattinata nel carcere di Poggioreale e hanno avuto un incontro con il direttore Carlo Berdini, con il comandante della polizia penitenzia e con i responsabili sanitari. L’attenzione è a tutto campo, anche in considerazione del fatto che ci sono positivi anche tra il personale della struttura penitenziaria, fra agenti della polizia penitenziaria e infermieri: anche in questo caso non risultano casi gravi e c’è un monitoraggio costante. Seguendo le stesse procedure applicate al di fuori delle carceri, anche a Poggioreale è in atto uno screening per il tracciamento dei contatti e si sottopongono ai tamponi sia coloro che hanno avuto modo di essere a contatto con i positivi sia chi manifesta sintomi che possono essere riconducibili al virus. Ma non è solo il rischio Covid a rendere difficile la vita all’interno delle celle di Poggioreale. Al termine della loro visita nel carcere, e in particolare nei padiglioni Roma e Milano, i garanti Ciambriello e Ioia hanno ribadito la gravità del sovraffollamento definito “emergenziale e vergognoso con celle da sei, nove, addirittura tredici persone in una stanza” e delle condizioni strutturali e igieniche della struttura. “Risultano necessari e impellenti le azioni di riqualifica attraverso l’utilizzo dei finanziamenti del Provveditorato campano delle opere pubbliche”, hanno sottolineato i garanti annunciando ulteriori visite a Poggioreale e nel carcere di Secondigliano. Sulle condizioni dei detenuti è alta l’attenzione anche da parte della Camera penale di Napoli che, presieduta dall’avvocato Ermanno Carnevale, nei giorni scorsi ha rivolto un appello ai capi degli uffici giudiziari affinché vengano al più presto ripristinate le misure adottate a marzo scorso, all’indomani della prima ondata della pandemia, con gli obiettivi di ridurre il numero dei nuovi ingressi in carcere, incidere sull’esecuzione di ordinanze di custodia cautelare e ordini di carcerazione, consentire ai detenuti in regime di semilibertà di pernottare presso le loro abitazioni fino al termine del periodo di emergenza sanitaria, estendere il più possibile l’applicazione delle misure alternative alla detenzione. Roma. Paura a Subiaco, otto internati della Rems positivi al coronavirus Il Tempo, 29 ottobre 2020 Rems in apprensione, a Subiaco, per 8 casi di positività al test sierologico effettuato all’interno della struttura che ha preso il posto dei vecchi Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg). Cinque vigilanti, 2 infermieri e un internato sono infatti risultati positivi al test sierologico e sono in attesa degli esiti del tampone molecolare. Per scongiurare l’eventuale avvio di un possibile focolaio all’interno della Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che ospita 20 persone in un’ala dell’ospedale sublacense, “il paziente è stato isolato in una stanza destinata a queste emergenze e gli operatori sanitari sono stati rimandati a casa in isolamento. In entrambi i casi, sarà necessario attendere i risultati dei tamponi per valutare la situazione. Probabilmente questo richiederà alcuni giorni. In ogni caso, mi è stato garantito - spiega il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa - che all’interno della Rems vengono seguiti tutti i protocolli e le disposizioni della Asl in materia di prevenzione del contagio da Covid-19. Il test sierologico è un esame puramente epidemiologico e non fornisce alcuna informazione sullo stato di salute attuale della persona che lo fa, evidenziando infatti solo la presenza di anticorpi al virus”. Gradisca d’Isonzo (Go). Morto nel Cpr per overdose di overdose, ora si cerca il fornitore ansa.it, 29 ottobre 2020 Dopo che l’autopsia ha accertato la causa della morte di Orgest Turia, il 28enne arrestato a Merano e trovato senza vita nel Centro per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo (Gorizia), e cioè un’overdose di metadone, si indaga per capire come il giovane sia entrato in possesso della sostanza, oltretutto in quantità tale da provocare la morte. L’avvocato Nicola Nettis, incaricato dalla famiglia, solleva perplessità: “Il ragazzo è stato trasferito dal carcere di Bolzano, alla Questura e poi direttamente al centro per il rimpatrio”. Napoli. “Detenuto modello, resti a casa”, ma finisce in cella per una norma-beffa di valentina stella Il Dubbio, 29 ottobre 2020 Pm e Gip disarmati, la burocrazia fa danni pure col Covid. “Problema gravissimo di cui si deve fare carico il legislatore, normativa illogica, burocrazia irragionevole”: così l’avvocato napoletano Paolo Cerruti descrive al Dubbio la situazione in cui è coinvolto un suo cliente. La storia inizia nel 2018 quando Nunzio (useremo un nome di fantasia) all’età di 23 anni viene arrestato a Ercolano per rapina insieme con un suo amico: lui guidava l’auto mentre l’altro scippava la borsetta a due badanti. Il ragazzo, al tempo studente incensurato che lavorava anche per sostenere la famiglia, fu identificato e arrestato a nove mesi dai fatti. “In quel periodo - ci dice l’avvocato - la sua condotta è stata impeccabile. Inoltre il pm e il gip concordarono nel dare al ragazzo la misura degli arresti domiciliari perché capirono che Nunzio non era un delinquente abituale e si era subito ravveduto per l’errore”. Inizia poi il processo, che il giovane vive mentre si trova appunto ai domiciliari: “Faccio in modo che il danno venga subito risarcito alle donne da parte del mio cliente”, prosegue l’avvocato. Il tempo passa e Nunzio trascorre 2 anni e 8 mesi in espiazione domiciliare, con l’autorizzazione a potersi recare ogni giorno al lavoro. Il 30 settembre scorso arriva la condanna definitiva per rapina e anche per simulazione di reato, perché aveva falsamente denunciato il furto della propria vettura, usata nell’occasione, per sviare le indagini: 4 anni. Incredibilmente, quando mancano in teoria solo 8 mesi per il termine di espiazione della pena, Nunzio viene portato al carcere di Poggioreale: “Durante il tempo trascorso ai domiciliari Nunzio non ha violato alcuna prescrizione e per ogni anno di detenzione gli sarebbero dovuti essere sottratti, come prevede la legge, 3 mesi per la liberazione anticipata. Se così fosse stato gli sarebbero rimasti da scontare solo 7 mesi e 15 giorni. Purtroppo però l’ottusità della norma non ha consentito ancora alla polizia giudiziaria di inviare gli atti sulla buona condotta del mio cliente al giudice di sorveglianza e quindi non gli sono stati riconosciuti quei mesi di benefici. Trovo assurdo che da un mese si trovi in carcere, in cella con 6 persone e col pericolo della diffusione del Covid in un istituto difficile e fatiscente come quello di Poggioreale. Tengo a dire che non c’è alcuna colpa dei magistrati, i quali stanno solo rispettando la legge, ma della burocrazia, che sta impedendo a Nunzio di poter tornare a casa. La norma va cambiata”. Il riferimento è alla previsione per cui prima della notifica dell’ordine di esecuzione non si può chiedere la liberazione anticipata al magistrato di sorveglianza, poiché ancora non è effettivamente iniziata la fase dell’esecuzione penale. Ora l’avvocato Cerruti ha presentato immediatamente istanza al giudice di sorveglianza per chiedere l’affidamento in prova per due motivi, sostanzialmente, come leggiamo nella richiesta: “Evitare che l’intelligente scelta di politica criminale adottata dal Pm titolare delle indagini e dal Gip che emise la misura, finalizzata a impedire la criminalizzazione di un giovanissimo e incensurato lavoratore, venga vanificata con una ingiusta e lunga detenzione inframuraria, sia pure solo per il tempo strettamente necessario a ottenere i benefici penitenziari”, e perché “un illogico protrarsi della detenzione inframuraria costituirebbe un grave pregiudizio per la sua attività lavorativa e per la vita familiare non potendo crescere suo figlio”. Il problema ora è la lungaggine burocratica, ci dice allarmato Cerruti: “Il Covid ha rallentato una situazione già complicata per i Palazzi di giustizia a Napoli. Proprio due giorni fa una circolare del presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia ha prolungato fino al 31 gennaio 2021 le misure per scaglionare accessi negli uffici e udienze. Io non riesco a ricevere le risposte dagli uffici né telefonando né inviando mail. È assurdo. Si parla tanto di rieducazione, di incentivare le misure alternative e poi accadono queste cose”. Roma. Detenuta con problemi mentali trascinata nuda sul pavimento, sospesi due agenti di Giulio Cavalli Il Riformista, 29 ottobre 2020 Sono due gli agenti della Casa circondariale di Rebibbia sospesi dal loro incarico, una sovrintendente e un assistente capo coordinatore in servizio all’istituto che ora sono accusati di falso ideologico e abuso di autorità. La presunta vittima è una detenuta con problemi psichiatrici. I fatti risalgono alla notte dello scorso 21 luglio: la donna è stata trascinata con forza perché aveva rotto un termosifone, dopo avere chiesto una sigaretta e avendo ottenuto un rifiuto, e per questo sarebbe stata portata in un’altra stanza priva di telecamere di sorveglianza. Il tutto sarete avvenuto con la presenza di ben 5 agenti donne e un agente di sesso maschile che avrebbero poi redatto un verbale di servizio in cui era riportata una presunta aggressione da parte della detenuta nei confronti degli agenti che in realtà non sarebbe mai accaduta. “Non risulta che la detenuta stesse tenendo un comportamento aggressivo che abbia reso necessario l’intervento di un agente di sesso maschile, né dai filmati risultano situazioni che rendessero necessario l’uso della forza per lo spostamento della detenuta, come sostenuto dagli indagati nell’interrogatorio” scrive nell’ordinanza la gip Mara Mattioli, che descrive anche i fatti successivi: “Il trascinamento di peso della detenuta, nuda e sull’acqua fredda, non è stato posto in essere per salvaguardare l’incolumità della stessa (avendo la detenuta già da un po’ cessato le intemperanze) apparendo invece chiaramente motivato da stizza e rabbia per i danni causati dalla donna”. Nel video agli atti anzi la donna detenuta è evidentemente in imbarazzo proprio per la presenza di un uomo e cerca di coprirsi le parti intime. Scrive la gip: “L’agente entra nella stanza n.3 e ne esce tenendo ferma la nuca della detenuta che in quel momento appare collaborativa ed è completamente nuda, la accompagna all’interno della stanza n.1 resa nuovamente agibile”. Una circostanza che per l’eccezionale presenza di personale di sesso maschile non autorizzato doveva diversamente essere riportato agli atti. “Inoltre la telecamera esterna alle ore 2.01 del 22/7/2020 riprende nuovamente l’agente entrare nella stanza n. 1 ove è rimasta la detenuta ed uscirne circa 24 secondi dopo. Di questo accesso non vi è traccia nei verbali né dai filmati si capisce sulla base di quale necessità un agente di sesso maschile sia intervenuto da solo presso la cella della detenuta (peraltro ancora completamente nuda)”. Secondo quanto riportato dalla vittima nel suo interrogatorio sarebbe rimasta sola con l’agente uomo nella stanza mentre era minacciata di non rivelare quei fatti a nessuno altrimenti le violenze si sarebbero ripetute. Da qui la condanna di falso ideologico e di abuso di autorità che hanno portato anche alla sospensione del servizio: “personalità del tutto spregiudicate” che avrebbero potuto reiterare le violenze e che avrebbero potuto inquinare le prove. Secondo fonti interne al carcere, infatti, gli accusati non era la prima volta che eccedevano in violenze e risulterebbero diverse segnalazioni e condanne disciplinari nel loro curriculum. Per il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia “pur rimanendo ovviamente garantisti la loro sospensione è un segnale importante perché in molti casi di abusi, quando non vengono coperti con omertà, il personale resta normalmente in servizio e in molti casi restano in servizio nello stesso istituto se non addirittura nelle stesse sezioni”. Per questo, dice Anastasia, “l’intervento del Dap è particolarmente apprezzabile perché è risultato abbastanza urgente, mentre spesso si aspetta l’esito del procedimento penale, quindi molti anni dopo, prima di intervenire e allontanare gli eventuali colpevoli”. Mentre ora le indagini faranno il suo corso e accerteranno eventuali responsabilità però resta da registrare un dato, che è sempre lo stesso: nelle carceri italiani continuano a consumarsi violenze che difficilmente riescono a rompere il muro di omertà che si crea tra agenti penitenziari. In questo caso i video delle telecamere di sorveglianza hanno potuto almeno appurare che non ci sia stata nessuna presumibile aggressione, motivazione molto spesso usata per proteggere la facciata di eventuali violenze, ma solo il lavoro delle indagini ha permesso di scoprire che il verbale redatto sull’accaduto non corrispondesse alla realtà dei fatti. Poi c’è la questione, la solita annosa di cui spesso scriviamo anche sule pagine di questo giornale, di detenuti che non sono nelle condizioni psichiche di poter sicuramente stare in una cella: la donna vittima della violenza nel carcere di Rebibbia è descritta da tutti, anche dagli inquirenti, come una persona con gravi disturbi psichici. Ma siamo davvero sicuri che una situazione del genere non sia anche creata dalla mancanza di misure alternative al carcere che dovrebbero permettere a lei di scontare la propria pena con un metodo alternativo che comprenda anche le giuste cure (oltre alla propria dignità) e che non debba mettere operatori penitenziari (anche senza le giuste competenze) in condizioni così difficili? Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psichici contro l’1% della popolazione generale. La depressione colpisce il 10% dei reclusi mentre il 65% convive con disturbi della personalità. Un detenuto su 4 assume regolarmente psicofarmaci. Tutto questo mentre una sentenza della Corte di Cassazione dello scorso agosto mette nero su bianco che è ora possibile concedere, alla persona affetta da gravi problematiche psichiatriche, la misura della detenzione domiciliare. Ivrea (To). Detenuti pestati in carcere, la procura di Torino toglie l’inchiesta ai pm lavocetorino.it, 29 ottobre 2020 Il pg Saluzzo ha firmato il provvedimento di avocazione di tre delle quattro inchieste per le quali la procura di Ivrea aveva chiesto l’archiviazione. Indagini carenti della procura di Ivrea, l’inchiesta sui presunti pestaggi nel carcere eporediese passa alla procura di Torino. Il procuratore generale Francesco Saluzzo ha firmato il provvedimento di avocazione di tre delle quattro inchieste per le quali la procura di Ivrea aveva chiesto l’archiviazione. Nei guai alcuni agenti della polizia penitenziaria che avrebbero picchiato e vessato diversi detenuti. Gli episodi sarebbero avvenuti nel 2016 nella cella “acquario” del carcere, dove vengono isolati i detenuti considerati irrequieti. La decisione della procura di Torino accoglie il ricorso presentato dall’associazione Antigone e dal garante dei detenuti eporediese, che si erano opposti alle archiviazioni decise dalla procura di Ivrea. Ivrea (To). Bando per il terzo settore per ospitare detenuti di Vanessa Vidano La Sentinella del Canavese, 29 ottobre 2020 Scade venerdì 6 novembre alle ore 12 il bando del Comune di Ivrea per la programmazione di interventi per fronteggiare l’emergenza epidemiologica Covid-19 in ambito penitenziario che permetterà agli enti del terzo settore di ospitare, per 6 mesi, 5 detenuti dell’istituto penitenziario di Ivrea che, in possesso dei requisiti per godere della pena alternativa e che non abbiano un residuo di pena superiore ai 18 mesi, non possono uscire dal carcere perché privi di un posto in cui risiedere per la durata della pena alternativa. L’azione - figlia del decreto del 18 marzo 2020 che permetteva ai detenuti di uscire in determinate condizioni per far fronte al sovrappopolamento carcerario e alle ripercussioni della pandemia di Coronavirus - arriva solo ora a distanza di mesi per alcune lungaggini burocratiche che, non fosse per l’infausto ritorno del virus, avrebbe rischiato di rendere vana l’azione. L’ente finanziatore è il fondo di Cassa delle ammende, ente pubblico istituito nel 2017 e che ha lo scopo di finanziare programmi di reinserimento e accompagnamento in ambito carcerario. I fondi sono prima passati dallo Stato alle Regioni, che a loro volta li hanno dati ai Comuni sedi di istituti penitenziari. Il pocket money previsto è di 20 euro al giorno a detenuto - per tutta la durata dei 6 mesi - che copriranno le spese di vitto e alloggio e gli eventuali progetti di inserimento sociale e lavorativo. “Verranno scelti detenuti a fine pena - spiega la garante dei detenuti Paola Perinetto - di modo che alla fine dei 6 mesi possano tornare a godere del regime di libertà. Un altro fondo simile che i garanti hanno seguito da vicino è stato quello del Uepe (Ufficio per esecuzione pena esterna, ndr) che ha finanziato progetti di pene alternative per 29 detenuti in Piemonte. Il fondo è stato elargito direttamente senza il passaggio attraverso la Regione, cosa che ha velocizzato di molto i tempi, ed è già esaurito”. Al bando per l’accoglienza di 5 detenuti per 6 mesi sono invitati a partecipare gli enti del terzo settore, vale a dire organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, imprese sociali, iscritti da almeno un anno ai registri regionali di riferimento; gli enti riconosciuti dalle confessioni religiose con cui lo stato ha stipulato degli accordi; gli enti di patronato riconosciuti dalla legge. Gli enti candidati, in forma singola o con un’associazione temporanea di scopo, devono avere ciascuno almeno una sede nell’area pertinenziale di Ivrea. Carcere più umano, maggiore sicurezza recensione di Paolo Borgna Avvenire, 29 ottobre 2020 Tutti i luoghi comuni sui permessi premio e sulle possibilità di recarsi a lavorare da detenuti sono smentiti dai numeri: il libro-inchiesta di Bortolato e Vigna. Il modo migliore per smontare un luogo comune è di affrontare i fatti concreti che lo alimentano. Non eludere i dati reali che lo hanno fatto nascere, ingenerando la diffusa opinione che singoli episodi siano l’unica quotidiana realtà. Ma prendere quei dati reali per le corna, dandovi una diversa spiegazione. È il metodo seguito da Marcello Bortolato (presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze) ed Edoardo Vigna (giornalista del Corriere della sera) nel loro “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Laterza, pagine 176, euro 14). Il libro parte da due fatti di cronaca. L’ergastolano per quattro omicidi che, per la prima volta in permesso premio dopo 44 anni di carcere, aggredisce con un taglierino, nel sotterraneo di un ospedale milanese, un signore di 86 anni. Un altro condannato, in permesso, che tenta di sgozzare la compagna che lo vuole lasciare dopo aver saputo che era stato condannato per avere, tredici anni prima, ucciso la sua fidanzata all’epoca ventunenne. Come spiegare ai cittadini che i permessi premio sono uno strumento irrinunciabile per governare il pianeta carcere? Come spiegare che non ci può essere “pena senza un orizzonte”, non solo perché lo dice Papa Francesco ma perché lo dicono cuore e intelligenza di chiunque abbia avuto a che fare col carcere? Come spiegare al padre di una ragazza ammazzata che, mentre sua figlia non potrà mai più vedere un Natale, il suo assassino, tra qualche anno, a certe condizioni, potrà trascorrerlo in casa con i suoi cari? C’è un solo modo per tentare di spiegare, far parlare i numeri. Ricordare ad esempio che, contro l’1,08 per cento di casi in cui il detenuto che ha ricevuto un permesso commette un reato oppure non rientra in carcere, sta un 98,92 per cento dei casi in cui va tutto bene. Ma quel 98,92 per cento, ovviamente, non finirà mai nei titoli dei giornali. Eppure, ciascuno di quelle migliaia di permessi di soggiorno conclusi col ritorno in carcere del condannato è una pietra che pavimenta la strada per restituire alla società, al termine della pena, un cittadino migliore di quando era entrato in carcere. Per diminuire il rischio che, una volta completamente libero, il condannato torni a delinquere. Perché, nella quasi totalità dei casi, i permessi sono usati non per andare al mare ma per visitare la famiglia, per cominciare la ricerca di un lavoro, per riannodare i rapporti col mondo esterno. E tutto ciò serve a garantire all’intera comunità più sicurezza. A rendere un po’ meno utopica la promessa dell’art. 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato (e non è un caso che questo articolo non parli di “pena”, bensì di “pene”: perché già i Costituenti - molti dei quali avevano conosciuto la galera nel ventennio fascista - avevano chiara l’idea che il carcere non può essere l’unica sanzione inflitta in caso di condanna). Non sono solo fiori. Non siamo così ingenui da non sapere che il carcere, con la sua “violenza minima strettamente necessaria” diretta a impedire che ciascuno si faccia giustizia da solo (Luigi Ferrajoli), ha anche una funzione di deterrenza e di difesa sociale. Ma ognuna di queste funzioni deve essere letta, interpretata, lumeggiata dall’articolo 27. Con questa luce sul fondo, Bortolato e Vigna raccontano il carcere e la sua vita quotidiana. Non quello descritto come un grand hotel da chi sta fuori. Perché, ricordano gli autori, se nel 1949 il protagonista di Riso amaro diceva “Il carcere l’ha inventato qualcuno che non c’è mai stato”, oggi possiamo dire che solo chi non ha mai messo piede dentro le mura di una prigione può pensare che “dentro si vive meglio che fuori”. Il carcere delle pagine di Bortolato e Vigna è quello reale: con le sue celle triple e i tre metri quadri per detenuto, le ore d’aria, la “socialità”, le celle aperte sui corridoi ma più spesso chiuse (per rendere più facile la sorveglianza), i difficili tentativi di “sorveglianza dinamica”, i regolamenti, lo studio, i lavori, le diverse mansioni affidate ai detenuti, i suicidi, i colloqui, i rapporti col personale, i rumori, la televisione in ogni cella sempre accesa (ma chi decide il canale?). Il tutto, raccontato con linguaggio chiaro che, pur non rinunciando ad affrontare i complessi aspetti tecnici della materia, rende la lettura godibile anche da parte di un pubblico non specialistico. Con la stessa chiarezza gli Autori spiegano, sfatando altrettanti luoghi comuni, tutte le famose “misure alternative” al carcere: quali sono, quando e come si possono applicare, a cosa mirano, quali difficoltà incontrano. E anche qui, numeri e percentuali parlano da soli. Ne ricordiamo una: su dieci detenuti, in Italia, sette tornano a delinquere. Ma questa recidiva crolla (fino all’uno per cento!) per quei condannati che stando in carcere hanno potuto lavorare. Basterebbe questo dato per confermare l’assunto centrale del libro: creare condizioni di vita più dignitosa per i detenuti e aprire il carcere alla società non significa soltanto essere più umani. Vuol dire anche creare più sicurezza per tutti i cittadini. A riprova del fatto che l’umanità può essere momentaneamente sconfitta, può essere irrisa, umiliata, apparire ingenua e velleitaria di fronte al male. Ma, alla fine, vince. Liliana Segre: “Rifiutai la vendetta, divenni una donna di pace”. di Antonio Carioti Corriere della Sera, 29 ottobre 2020 “Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah” di Liliana Segre (prefazione di Ferruccio de Bortoli, a cura di Alessia Rastelli, pp. 64) è edito dal “Corriere della Sera”, con il sostegno e la partecipazione di Esselunga e sarà in edicola gratis con il quotidiano venerdì 30 ottobre. La senatrice sopravvissuta ad Auschwitz parla alle nuove generazioni. E a tutti noi. In un volume il discorso che conclude le sue testimonianze sulla Shoah. Tutto cominciò nel settembre del 1938 per Liliana Segre, quando era ancora una bambina che si apprestava a frequentare la terza elementare. Lo racconta la senatrice a vita nella testimonianza resa a Rondine (Arezzo) il 9 ottobre scorso e pubblicata nel volume Ho scelto la vita, a cura di Alessia Rastelli, in edicola venerdì 30 ottobre con il “Corriere della Sera”. Le dissero il papà e i nonni: “Tu non puoi più andare a scuola”. All’improvviso era “diventata invisibile”: una reietta da escludere, costretta a lasciare le compagne, senza alcuna colpa se non quella di essere ebrea. Possiamo solo immaginare che trauma sia stato per lei e per migliaia di altri bambini nelle stesse condizioni. Erano gli effetti più assurdi e crudeli del decreto “per la difesa della razza nella scuola fascista”, primo passo della legislazione antisemita introdotta da Benito Mussolini per cementare l’alleanza con il Terzo Reich di Adolf Hitler, l’Asse costituito nel 1936 che avrebbe portato il nostro Paese alla guerra e alla rovina. Bisogna però chiarire un punto. L’Italia non adottò le leggi razziali perché la Germania lo avesse chiesto. Non esiste alcun documento che dimostri pressioni di Berlino su Roma in quella direzione. Semplicemente il dittatore fascista non voleva essere da meno del suo omologo tedesco, anzi ambiva a rivaleggiare con lui per diventare il punto di riferimento dei vari movimenti di stampo fascista attivi in Europa, animati in genere da una feroce ostilità antiebraica. Per tornare al decreto che colpì la piccola Liliana, conviene forse andare a rileggere che cosa scriveva nel suo diario all’epoca Giuseppe Bottai, che nel 1938 era ministro dell’Educazione nazionale. Il 2 settembre presenta il provvedimento antisemita in Consiglio dei ministri e confessa di provare “una tal qual commozione” per la sorte degli insegnanti e degli alunni che verranno espulsi. Si rende conto che sta perpetrando un abuso, eppure procede disciplinatamente. Quando poi gli vengono riferite le critiche di un altro gerarca, Italo Balbo, contrario alle leggi razziali, Bottai replica “che in un regime come il nostro le direttive del Capo si accettano o non si accettano; che per non accettarle occorrono motivi di irresistibile resistenza morale; che a tanto non arrivano le riserve secondo me possibili sul “metodo” della lotta antisemita”. Qui misuriamo l’effetto corruttore dei sistemi totalitari, la narcosi della coscienza che provocano negli individui in nome dell’obbedienza assoluta a capi ritenuti infallibili. In un clima del genere coloro che non sono affetti dal fanatismo ideologico finiscono tuttavia per abbandonarsi alla passività, per scivolare nel male denunciato con gran forza da Liliana Segre in tutti i suoi interventi pubblici: l’indifferenza. Quanti, anche all’interno del regime, pensavano che le leggi razziali fossero un sopruso, ma si rimisero alla volontà del Duce? E quanti le accettarono, anche sulla base di antichi pregiudizi? Del resto la Chiesa cattolica presentava gli ebrei come “perfidi”, per non parlare dell’accusa assurda, ma ripetuta tanto a lungo, di “deicidio” per la crocifissione di Gesù. Si slittò così gradualmente sul piano inclinato che durante l’occupazione nazista portò a trasformare gli ebrei italiani, come scrive Ferruccio de Bortoli nella prefazione del volume, “da persone in oggetti di scarto”. Esseri privati della loro individualità, da eliminare come insetti nocivi o, se abili al lavoro, da sfruttare fino allo sfinimento come bestie da soma. Un intero popolo da estirpare sistematicamente, con procedure mutuate dall’industria moderna. La logica del lager era profondamente disumanizzante. Metteva i deportati gli uni contro gli altri, li induceva a chiudersi nella loro disperazione, distruggeva ogni forma di solidarietà. “Noi non volevamo sentire, non volevamo sapere. Giorno dopo giorno diventavamo più egoiste”, racconta Liliana Segre di sé stessa e delle sue compagne di sventura. Eppure la senatrice a vita, che aveva 13 anni quando fu deportata il 30 gennaio 1944, riuscì a conservare la voglia di vivere e il senso di umanità fino all’ultimo. Anche durante la “marcia della morte”, quando venne condotta via da Auschwitz mentre i sovietici si avvicinavano, seppe rinunciare alla tentazione della vendetta, all’impulso di rendere a uno dei suoi aguzzini quello che aveva subito. “Il capo dell’ultimo lager in cui ero stata - racconta Liliana Segre nella sua testimonianza - gettò a terra la pistola. Avrei potuto raccoglierla e ucciderlo. Ma non lo feci. E da quel momento sono diventata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso”. Scegliere la vita e la pace, tuttavia, non significa perdonare. Ci sono orrori sui quali non si può passare un colpo di spugna, che continuano a pesare su tutti coloro che si macchiarono di complicità con il genocidio degli ebrei. Furono i nazisti ad attuare le deportazioni e lo sterminio, ma quel crimine spaventoso - non bisogna dimenticarlo - grava anche su una parte del nostro Paese. La Repubblica sociale fascista fondata da Mussolini, riportato in auge dai tedeschi dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati e la tragedia dell’8 settembre 1943, dichiarò subito che gli ebrei erano da considerare stranieri e nemici, poi ne decretò l’internamento, premessa della successiva destinazione verso i lager della morte. Alla Shoah parteciparono anche nostri connazionali, sul piano politico e su quello più direttamente operativo. Non siamo un Paese solo di Giusti, anche se ci fu chi rischiò la vita per salvare gli ebrei. Liliana Segre, nelle pagine del libro edito dal “Corriere della Sera”, ci ricorda che cosa avvenne, a quale livello di abiezione possano giungere gli esseri umani quando bollano come nemici i propri simili non per quello che hanno fatto, ma per l’etnia, la religione, il colore della pelle, le idee. Al tempo stesso invita a non coltivare l’odio, pur senza mai rinunciare alla ricerca della giustizia e al dovere della memoria. Una lezione purtroppo attuale anche oggi. Perché la storia non si ripete mai allo stesso modo, ma ripropone spesso, davvero troppo spesso, orrori analoghi. Covid, verso un lockdown europeo. Ecco la strategia di Bruxelles di Fabio Martini La Stampa, 29 ottobre 2020 Telefonata fra Sassoli e Von der Leyen, oggi la proposta potrebbe essere discussa dai leader Ue. Serve ancora una mattinata di consultazioni, non è detto che arrivi in porto, ma l’ipotesi è suggestiva, clamorosa, per certi versi storica: arrivare ad un lockdown europeo. Con un’intesa, non necessariamente, tra tutti e 27 dell’Unione, ma con una ragionevole maggioranza dei Paesi, che potrebbero adottare un provvedimento di chiusura, sia pure valutando misure adattate alle diverse realtà nazionali. Se ne è parlato ieri sera in una telefonata tra il presidente del Parlamento europeo David Sassoli e la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen. Il primo ha suggerito l’ipotesi e la seconda, dopo averci ragionato assieme, ha apprezzato e ha assicurato di pensarci, valutando la possibilità di farla propria e presentarla oggi al Consiglio europeo straordinario, convocato nel tardo pomeriggio in videoconferenza. Non è ancora una presa in “carico” ma c’è l’idea di parlarne questa mattina in via preliminare con alcuni capi di governo. Si consumerà dunque una mattinata di consultazioni e anche se la proposta potrebbe cadere, senza essere portata al Consiglio, ieri sera era un’ipotesi in piedi, che persuadeva la presidente della Commissione. Una proposta che in partenza sconta già l’impossibilità di trovare l’unanimità dei 27, un Paese come la Svezia, da mesi ormai, si è attestato sulla linea radicale della non-chiusura, scartando ogni ipotesi anche soft di lockdown e dunque, si valuta a Bruxelles, non aderirà mai ad un accordo così vincolante. E lo stesso atteggiamento di chiusura potrebbe essere assunto da altri Paesi. Ma l’ipotesi accarezzata da Von der Leyen e Sassoli non è quella di un voto, di un impegno vincolante per tutti, ma invece di una proposta della Commissione aperta all’adesione degli Stati membri. Anche se dovesse essere presentata nella formula più soft, Von der Leyen vuole prima parlarne con i Paesi-guida dell’Unione e questa mattina - prima del vertice - chiederà cosa ne pensino la Cancelliera Angela Merkel, il presidente francese Emmanuel Macron e naturalmente anche i leader dei Paesi che finora hanno maggiormente resistito ad ogni restrizione delle libertà personali. Nelle ultime 48 ore, Germania, Francia e Olanda hanno ceduto all’idea di misure più drastiche, i prossimi Paesi destinati a “cedere” sono Spagna e Belgio: tutti questi Paesi assieme all’Italia e agli altri che hanno già adottato chiusure parziali - si ragiona a Bruxelles - potrebbero sentirsi “alleggeriti” da un lockdown su vasta scala. E nell’eventualità che la proposta arrivi al tavolo dei 27 e sia accettata, si immaginava come suggestiva l’ipotesi che, sia pure per un limitato periodo di tempo, in buona parte dei Paesi dell’Ue possano avere libertà di circolazione soltanto gli studenti, che lontani da qualsiasi assembramento, vedrebbero diminuire le possibilità di essere contagiosi. La presidente della Commissione, in vista del vertice straordinario di oggi, ha sostenuto che la situazione della pandemia di coronavirus è “molto seria” e “occorre intensificare la nostra risposta nell’Unione europea”, invitando tutti gli Stati membri a collaborare strettamente nella lotta al Covid-19 che in Europa in questo momento corre veloce. Per potenziare il tracciamento e intensificare l’accesso ai test rapidi con risultato in 15 minuti, anche se meno affidabili, Bruxelles ha stanziato 100 milioni di euro. Serve agire tutti insieme”. E sempre con l’idea di un’azione comune e ben coordinata ha proposto: “I test antigenici rapidi stanno arrivando sul mercato. Questo può avere un ruolo significativo ma noi proporremo un approccio comunitario alla loro approvazione e utilizzo”. Picco di baby gang dopo il lockdown: così nasce il disagio in periferia di Andrea Galli Corriere della Sera, 29 ottobre 2020 Guerriglia urbana, l’analisi nel vertice in Prefettura: esponenziale crescita dell’aggressività da parte della fascia dei 14-16 anni. L’incontro è su Internet, sono le chat a lanciare la chiamata a raccolta. In un quadro mutevole, dunque ancor più minaccioso, il vertice in Prefettura sull’ordine pubblico ha cristallizzato il seguente scenario. Lo ha fatto dopo le violenze di lunedì e prima dell’annunciata manifestazione di giovedì, per la quale il questore Sergio Bracco ha diffidato i promotori ufficiali (il movimento imprese italiane) dall’organizzare l’evento stesso, alle 17 in via Clerici, a Bresso. C’è un punto di partenza obbligatorio, analizzando sempre l’ultima guerriglia e l’attuale periodo storico. La manifestazione era stata di fatto “promossa” da commercianti, baristi e camerieri, i quali poi non sono riusciti a gestire la situazione. La dissociazione della categoria, si sente ripetere dagli operatori della sicurezza, è il minimo che si potesse fare. Offensivo pensare che basti. E non venga accolto come giustificazione un primo dato oggettivo: i promotori non hanno firmato nessun atto distruttivo. L’incapacità di governare la piazza è un secondo dato oggettivo (e loro erano pur sempre lì, a riempire lo spazio e impegnare agenti). Ma allora chi dirigeva? Non i neofascisti associati agli ultrà. I primi, in particolare, si sono isolati già nelle iniziali fasi. C’erano anche militanti anarchici, “riconducibili all’area di via Gola”, ugualmente, in linea generale, “distanti”. Questa frammentazione dello schieramento (proprio mai s’erano visti movimenti antitetici, abituati a fronteggiarsi, stare invece a fianco) risponde a trame nazionali, come spiega un investigatore di via Moscova. La contemporaneità dei disordini in più città, che ha risposto a un coordinamento, ha generato un’estrema difficoltà nel modulare in anticipo gli spostamenti dei reparti mobili come ausilio mirato in una zona d’Italia anziché un’altra. La medesima frammentazione introduce un’ulteriore criticità: la mancanza di un interlocutore, o più interlocutori, con i quali dialogare nella contrapposizione delle parti, esasperata nell’offensiva contro carabinieri e poliziotti, i primi obiettivi dei violenti. Ed eccoci arrivati a loro. In Questura invitano a osservare l’esponenziale crescita dell’aggressività, che spesso sfocia in episodi di baby gang, da parte della fascia dei 14-16 anni, successiva al lockdown. Giovani rabbiosi, anzi per esplicitare meglio “incazzati contro il mondo”, che non hanno nel mirino le recenti misure del Governo. Forse le ignorano pure. Questa rabbia, in relazione alla provenienza geografica, a cominciare dalla periferia settentrionale (i gruppi più numerosi sono partiti dal quadrante viale Monza-via Padova-Lambrate) richiama il disagio delle seconde e terze generazioni di figli di migranti. Tema ampio, enorme, una tema con puntualità alla ribalta di Milano, e drammaticamente soggetto a manipolazioni dei politici, un tema che di per sé fa capire come sia rischioso demandare tutto alle forze dell’ordine evitando un’analisi su cosa è stato fatto nei decenni dai governanti locali. Non si deve poi dimenticare l’”apporto” numerico dall’hinterland, in una composizione urbanistica e sociale, dice un investigatore, che non limita il malessere agli estremi lembi milanesi, ma interseca l’intera città metropolitana. Sono ragazzi che (forse) non hanno un preciso spazio fisico, dove per esempio provare a cogliere il fermento come potevano essere, cinquant’anni fa, agli esordi del terrorismo, la Statale e la Siemens. L’incontro è su Internet; sono le chat a lanciare la chiamata a raccolta, convocare in tempo zero decine di giovani, comunicare ritrovi, fomentare, suggerire piani. Una “improvvisazione strutturata”, che spaventa i non addetti ai lavori; in queste ore istituzioni società di vigilanza hanno chiesto con insistenza: proteggeteci, interpretando carabinieri e poliziotti come un servizio ad personam. Ma non esiste un’agenda del futuro. E non si può essere ovunque a difendere ogni Palazzo, ogni strada commerciale. Proprio perché i ragazzi sono imprevedibili, se non forse con un’insistita attività di prevenzione capace di cogliere i famosi segnali sul territorio che interrogano per prime famiglie e scuola. A settembre, a Milano il capo della polizia Franco Gabrielli aveva presieduto una riunione “interna”. Aveva illustrato le criticità di mesi complicati e s’era richiamato allo sforzo instancabile di “leggere” la città e la provincia, di interpretarla ancor prima di “starci” fisicamente, di adattare le azioni a seconda dell’interlocutore, della sua provenienza, delle sue istanze, di cosa si porta dietro e dentro. Nell’era del Covid, il controllo dei dati è alla base del nuovo welfare di Luigi Agostini e Michele Mezza Il Manifesto, 29 ottobre 2020 Ci vogliono i dati sociali, necessari per fermare il contagio, dati confiscati da pochi gruppi privati che tendono ormai a sostituirsi ad ogni potere democratico. Ci sono decenni in cui non accade niente e settimane in cui accadono decenni. La massima di un giovanissimo Lenin, meglio di ogni ulteriore speculazione, documenta il tempo che stiamo vivendo. Lo Stato, come luogo pubblico non subalterno al privato, è al centro di un tiro incrociato. La pandemia, che pure sembrava mettere al centro l’idea di pubblico come unica salvezza, sta dando la stura agli istinti speculativi e reazionari che decenni di individualismo parassitario hanno contribuito a diffondere in tutte le fibre sociali del Paese. La sanità pubblica e universalistica sta combattendo una battaglia campale, ma senza una strategia politica e senza una base sociale che la rivendichi come valore estremo. Il governo annaspa inseguendo un virus che corre a velocità siderale. La sinistra ondeggia fra l’istinto solidarista e la tentazione efficentista. In queste ore che stanno ridisegnando il mondo, dobbiamo ritrovare la forza di un’identità sociale altra rispetto alla dinamica del mercato. É il tempo di una sinistra forte. E vanno quindi sostenuti quegli scienziati, come Andrea Crisanti o Massimo Galli, che chiedono piena autonomia e sovranità nell’uso dei dati per contrastare la marcia del contagio. Senza quei dati che Google e Facebook hanno messo in vendita, diventa davvero difficile circoscrivere il virus. Dobbiamo usare questo mese di simil-lockdown per potenziare la capacità della sanità di prevedere l’incubazione del Covid19 e non di inseguirlo. Ci vogliono i dati sociali, necessari per fermare il contagio, dati confiscati da pochi gruppi privati che tendono ormai a sostituirsi ad ogni potere democratico. I monopoli delle piattaforme ormai tendono a sostituirsi al potere politico, sfruttando e piegando il nuovo tratto distintivo della nostra epoca, la potenza di calcolo, che tutto regge e tutto regola. É così che la sinistra, attraversando il terreno lastricato di dolore della pandemia, può rientrare nel nuovo tempo, imparando dalla realtà: analisi concreta della realtà concreta. Una sinistra che possa tradurre in digitale i suoi tradizionali linguaggi di solidarietà, di democrazia e di riorganizzazione degli assetti produttivi e sociali. Esattamente come nel cuore della crisi degli anni ‘30 il movimento del lavoro interloquì con tutti i mondi della cultura per ridisegnare un modo in rovina, oggi bisogna rimettere in piedi questa capacità di parlare a tutte le persone a partire dalla loro sicurezza e salute, in un mondo in cui solo con i dati digitali si può anticipare e predire la velocità del contagio. Una sinistra che parta proprio dalla sanità, dall’articolo 32 della Costituzione, che fa obbligo allo Stato di assicurare ad ogni cittadino e garantire ad ogni comunità non solo la sicurezza ma la piena consapevolezza sulle misure diagnostiche e terapeutiche. Una consapevolezza che non può prescindere oggi dal controllo esplicito e cosciente di quel flusso di dati sensibili che rappresenta la base della nuova produzione di valore e di autonomia sociale e di sovranità statuale. É indispensabile che Immuni, l’applicazione di tracciamento, sia collegata alla tessera sanitaria e sia parte integrante della documentazione di ogni cittadino. L’applicazione deve potersi agganciare al GPS in modo di monitorare i nostri movimenti. La pandemia ci ha insegnato ormai che senza un controllo esplicito dei dati, il contagio diventa inarrestabile e si muore. Nessun pretestuoso e strumentale richiamo ad una privacy ridotta ad un guscio vuoto - - un privatismo senza più privato- quotidianamente violata e sbeffeggiata dai grandi poteri tecnologici globali, può giustificare che la sanità pubblica non possa essere partner di ogni cittadino nella tutela della salute, sicurezza e socialità. Il fallimento di Immuni, deriva da inefficienza perché nata subalterna ai grandi domini della telefonia mobile. E ci mostra una sola via per una democrazia reale, attuale, moderna, che attivi ogni risorsa e infrastruttura digitale per sostenere una concreta ed efficacie territorializzazione dell’assistenza e del contrasto al contagio nella fase dell’incubazione: la via della sicurezza e della obbligatorietà. Si annunciano nei prossimi mesi l’avvento di soluzioni, come il 5G e la rete a banda larga, che renderà inevitabile la circolazione veloce di pacchetti di dati corposi e rilevanti, come le stesse cartelle cliniche: dobbiamo convertire il titubante progetto di Fascicolo Sanitario Elettronico in una straordinaria ed autonoma Infrastruttura, pietra angolare di un welfare pubblico competitivo ed efficiente che trascini la modernizzazione del paese. Che dimostri come Pubblico non equivalga a Burocrazia. Il ministero della Salute deve diventare il fulcro e la cabina di regia di questo nuovo welfare del calcolo, per guidare efficacemente l’intero processo di contrasto alla pandemia, e per programmare le politiche altrettanto necessarie alla tutela della salute pubblica. Accanto a medici ed infermieri, è indispensabile oggi un Super-computer al ministero della Salute per rispondere all’emergenza con una strategia che veda lo veda completare la interoperabilità di tutti i dati della sanità. L’universo pubblico dispone di straordinarie capacità di calcolo, come le infrastrutture di Eni, Leonardo e Inpes, dimostrano. Essere Stato oggi significa congiungere e finalizzare tutti questi assets alla nostra sicurezza e salute. Oggi e non domani. Omofobia, passano alla Camera i primi cinque articoli del ddl Zan di Alberto Custodero La Repubblica, 29 ottobre 2020 Cirinnà: “Non si è mai liberi di odiare”. Il ddl Zan, che consta di 10 articoli, contiene misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità. Sono stati approvati dalla Camera i primi cinque articoli (dei dieci) del ddl Zan che contiene misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale, all’identità di genere e alla disabilità. Approvata la prima parte della legge, domani pomeriggio - dopo l’informativa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul dpcm - riprenderà in Aula l’esame degli emendamenti sulle cosiddette “azioni positive”, ovvero tutte le iniziative sia per la protezione delle vittime di violenze sia per la sensibilizzazione delle pubbliche amministrazioni sulla non discriminazione. La votazione finale della legge è prevista per martedì prossimo, dopodiché il testo passerà al vaglio del Senato. Approvato anche l’emendamento della maggioranza secondo cui “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Zan: “La legge sarà tra le più moderne d’Europa” - “L’Italia - spiega a Repubblica Alessandro Zan - era al 35esimo posto in Europa per accettazione sociale lgtb, con questa norma che comprende anche il contrasto all’abilismo sarà tra le più avanzate d’Europa. Si tratta di un ampio strumento contro le discriminazioni e le violenze”. “L’emendamento della maggioranza che è stato approvato - sottolinea il relatore del ddl - ricalca la giurisprudenza che si è formata sulla legge Mancino secondo cui la libera espressione non deve mai sconfinare nell’istigazione all’odio e alla violenza. L’opposizione voleva far passare una norma scriminante che creava una disparità di trattamento per condotte omotransfobiche che rischiava di compromettere la stessa legge Mancino”. L’Aula aveva in precedenza approvato l’emendamento che estende la legge contro omotransfobia e misoginia anche ai reati commessi per la disabilità della vittima. Cirinnà: “Non si é mai liberi di odiare” - “L’approvazione dei primi cinque articoli della proposta di legge Zan - commenta la senatrice Monica Cirinnà - é una bella notizia. Non solo perché la maggioranza ha dato un segnale forte di impegno e compattezza, ma anche per i miglioramenti che sono stati apportati al testo. Penso anzitutto all’introduzione della disabilitá tra le condizioni personali protette dalla legge Mancino: un messaggio importante e concreto di inclusione e tutela, la migliore risposta a chi dice che questa legge é una legge ideologica. E penso anche all’approvazione dell’articolo 3, in materia di tutela della libertà di opinione”. “Abbiamo superato l’ostacolo su cui si era bloccata - dichiara Cirinnà - nella scorsa legislatura, la proposta Scalfarotto, approvando una norma ragionevole ed equilibrata. A chi dice che questa legge é liberticida, é stato ribadito quel che é giá chiaro nella giurisprudenza: si é liberi di esprimere il proprio pensiero, ma non si é mai liberi di odiare. Spero adesso che la Camera approvi in tempo brevissimo il resto della legge, e mi impegno sin d’ora a garantire un passaggio rapido al Senato. Stiamo lavorando per un’Italia più libera, più giusta, più civile”. I cinque articoli approvati del ddl Zan - L’articolo 1 del testo sull’omofobia, approvato dall’Aula, modifica l’articolo 604 bis del codice penale, aggiungendo tra i reati di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa, punibili con la detenzione, anche gli atti di violenza o incitamento alla violenza e alla discriminazione “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. L’articolo 2 del provvedimento, sempre approvato dalla Camera, modifica invece l’articolo 604 ter del codice penale, relativo alle circostanze aggravanti, aggiungendo anche l’identità di genere e la disabilità tra i reati la cui pena é aumentata fino alla metà. L’articolo 3 è stato riformulato, rispetto alla versione originaria, con un accordo di maggioranza a cui si sono dette contrarie le opposizioni: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti o di opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. In pratica, la riformulazione ribadisce esplicitamente che la punibilità scatta quando vi sia il concreto pericolo degli atti discriminatori o violenti”. L’articolo 4 Interviene sulla cosiddetta Legge Mancino. L’articolo 5 Modifica l’articolo 90-quater del codice di procedura penale sulla condizione di particolare vulnerabilità della persona offesa. Il trattato per la proibizione delle armi nucleari entrerà in vigore il 22 gennaio di Paolo Mastrolilli La Stampa, 29 ottobre 2020 Ma la sua applicazione resta un’utopia. Nessuna delle potenze che possiedono gli ordigni atomici lo ha ancora firmato, finora hanno aderito 50 paesi. Il trattato che proibisce tutte le armi nucleari è diventato ufficialmente realtà, ed entrerà in vigore il prossimo 22 gennaio. Naturalmente il suo obiettivo resta un’utopia, perché nessuna delle potenze che possiedono gli ordigni atomici lo ha firmato. Però è un segno dei tempi e un elemento di pressione, che secondo i suoi promotori potrebbe obbligare quanto meno ad una nuova riflessione globale sul tema degli strumenti bellici finalizzati alla distruzione di massa. Il Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons era stato negoziato all’Onu sotto la spinta di paesi come il Costa Rica, che hanno una lunga tradizione pacifista, e nel 2017 era stato approvato dall’Assemblea Generale con 122 voti favorevoli. Il testo, non vincolante, vieta di sviluppare, testare, produrre, possedere, schierare, trasferire, e naturalmente usare le bombe nucleari. Da allora in poi 84 paesi membri del Palazzo di Vetro lo hanno firmato, ossia quasi metà della membership, ma l’Italia non è uno di questi, perché l’adesione la obbligherebbe ad interrompere l’alleanza con la Nato e gli Stati Uniti, chiedendo la rimozione delle armi atomiche dal suo territorio. La legge internazionale prevede che per entrare in vigore, un trattato ha bisogno di essere ratificato da almeno 50 paesi. Questa soglia è stata raggiunta sabato scorso grazie all’Honduras, e quindi tra 90 giorni il Tpnw diventerà realtà. Il segretario generale Guterres ha celebrato l’evento come “il culmine di un movimento mondiale, per attirare l’attenzione sulle catastrofiche conseguenze umanitarie dell’uso di qualsiasi arma nucleare”. Naturalmente nessuno si illude sul fatto che questo testo porti all’eliminazione degli ordigni atomici. I nove paesi che li possiedono, cioè Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, India, Pakistan, Corea del Nord e Israele, non hanno aderito, e Washington ha inviato una lettera a tutti i membri chiedendo di cancellare la loro firma dal documento, perché “pur riconoscendo il vostro diritto sovrano di accedere al Tpnw, noi crediamo che voi abbiate commesso un errore strategico”. L’amministrazione Trump infatti ritiene che Russia e Cina non rinunceranno mai ai propri arsenali, come dimostra il rifiuto di Pechino a partecipare al negoziato del nuovo trattato Start con Mosca, e quindi il Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons è un’iniziativa ingenua che finirà solo per mettere sotto pressione le democrazie. I promotori non si illudono sulla possibilità di arrivare ad un bando immediato, ma vedono il documento come l’inizio di un processo, simile a quelli che poi hanno portato ai divieti delle armi chimiche e biologiche, le mine, le bombe a grappolo. Il primo passo sarà l’entrata in vigore del trattato, che quindi diventerà uno strumento internazionale ufficiale. Con ciò sperano di rendere inevitabile una riflessione globale, che nel corso degli anni possa aumentare le adesioni e quindi la pressione su chi lo rifiuta, allo scopo di far passare nella comunità mondiale l’idea di un pianeta senza armi nucleari. Egitto. Due anni di battaglia solitaria, la Procura di Roma chiuderà le indagini su Regeni di Chiara Cruciati Il Manifesto, 29 ottobre 2020 Due anni fa l’iscrizione di cinque egiziani, membri dei servizi segreti, nel registro degli indagati. Dal Cairo solo silenzi, dal governo italiano nessun aiuto. Il 4 dicembre 2018 la Procura di Roma annunciava l’iscrizione nel registro degli indagati di cinque agenti della Nsa, la sicurezza nazionale egiziana. Dava un nome ai presunti rapitori, torturatori e assassini di Giulio Regeni, scomparso al Cairo quasi tre anni prima, il 25 gennaio 2016, e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo. Tra poco più di un mese quell’iscrizione compirà due anni, i 24 mesi oltre i quali il codice di procedura penale non permette di andare. Per questo ieri la Procura ha fatto sapere di essere prossima alla chiusura delle indagini sull’omicidio del giovane ricercatore friulano. Lo ha comunicato mentre al Cairo si svolgeva l’ennesimo incontro tra il team investigativo di Ros e Sco e gli inquirenti egiziani. Quelli che da anni promettono la luna ma non consegnano neppure il dito che la indica. A partire dalle richieste che Piazzale Clodio ha inserito nella rogatoria dell’aprile 2019 e rimasta senza risposta alcuna. L’ultima promessa risale allo scorso primo luglio quando il procuratore capo Michele Prestipino insieme al pm Sergio Colaiocco, in videoconferenza, chiese lumi e risposte rapide. In cima agli interessi della Procura romana sta l’elezione di domicilio dei cinque indagati e la conferma della presenza di uno di loro in Kenya, nell’agosto 2017, quando lo si sentì a un pranzo riferire dettagli specifici sulla sparizione di Giulio. Il primo luglio regnò il silenzio nello spazio virtuale che divideva gli inquirenti, plastica rappresentazione della distanza siderale tra le intenzioni di verità degli uni e quelle di insabbiamento degli altri. Ieri il primo a intervenire in merito è stato Erasmo Palazzotto, deputato di Leu e presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni: “Tale circostanza pone in capo al governo la responsabilità di esercitare ogni tipo di pressione diplomatica nei confronti dell’Egitto. In assenza di una risposta adeguata dovremo prendere atto e trarne le dovute conseguenze”. Finora non pervenute. Sentito dalla Commissione il 18 giugno, due settimane prima della videoconferenza del primo luglio, il primo ministro Conte aveva tracciato la strategia governativa: si ottiene rispetto e collaborazione da amici, continuando a intrattenere rapporti diplomatici e commerciali con Il Cairo. Il riferimento era all’autorizzazione alla vendita al regime di due fregate Fincantieri da 1,2 miliardi di euro, mai bloccato. Due anni fa l’iscrizione nel registro delle notizie di reato da parte dell’allora procuratore Pignatone era stata accolta con favore dalla famiglia Regeni. Con un lavoro certosino capace di superare un percorso irto di ostacoli e silenzi, la Procura di Roma era riuscita a individuare almeno cinque funzionari della Nsa responsabili del rapimento. I loro nomi fanno tremare i muri dell’impalcatura di omertà di cui è fatto il regime del presidente al-Sisi: il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mahmoud Najem. Li fanno tremare perché dimostrano che la teoria del “caso isolato” e - peggio - delle mele marce non regge: i cinque erano/sono figure centrali nella macchina statale egiziana del controllo sociale e della repressione fisica, ingranaggi del sistema Nsa, erede del temuto Ssis, l’intelligence nota a ogni egiziano nell’epoca Mubarak. La rivoluzione del 2011 non l’ha spazzata via: ha cambiato nome, ma la fattura è identica e anche il suo controllore, il ministero degli Interni. Erdogan infiamma il mondo musulmano: “Parigi odia l’Islam, vuole nuove Crociate” di Giordano Stabile La Stampa, 29 ottobre 2020 L’ira di sunniti e sciiti dopo la vignetta di Charlie Hebdo sul presidente turco. Il giornale: “Libertà di blasfemia”. Charlie Hebdo ribadisce il suo “diritto alla blasfemia” e mette in prima pagina una vignetta su Recep Tayyip Erdogan. Il leader turco reagisce con una querela e parole di fuoco contro Emmanuel Macron, accusato di voler condurre “una nuova crociata” e di alimentare “l’islamofobia”. E gli fa eco la guida suprema iraniana Ali Khamenei, che riprende l’accostamento della Shoah alle “persecuzioni” dei musulmani in Europa. Due antichi imperi, la Turchia sunnita e l’Iran sciita, per secoli rivali, sembrano risorgere all’unisono nel duello con il presidente francese e nel cavalcare il risentimento anti-Francia che scuote il mondo islamico dopo la ripubblicazione delle vignette su Maometto. È un’onda difficile da contenere anche per i leader amici dell’Occidente. Dopo le prese di posizione nel Golfo, ieri sono arrivate le critiche agli “abusi della libertà di espressione” da parte di Abdel Fatah al-Sisi, pure stretto alleato di Parigi. Ma tant’è, il clima è questo, e a muoversi a suo agio è Erdogan. La vignetta del settimanale francese, che lo mostra sul divano in canottiera, mentre solleva l’abito di una donna con due bicchieri di vino su un vassoio ed esclama “Uh, il Profeta”, lo ha forse toccato nell’amor proprio ma gli ha dato l’occasione per un’altra tirata in grado di galvanizzare i seguaci. “Non l’ho neppure guardata”, ha precisato. Poi ha annunciato la querela, la seconda dopo quella nei confronti dell’olandese Geert Wilder, e si è ancora una volta erto a difensore dell’islam: “La mia collera non è dovuta all’attacco ignobile nei confronti della mia persona, ma agli insulti contro il Profeta”. Difenderlo, ha continuato “è una questione d’onore”. La Francia e l’Europa, ha concluso, non meritano politici come Macron, che vorrebbero soltanto “rilanciare le crociate”. Ieri le manifestazioni hanno di nuovo attraversato l’immenso spazio che va dal Marocco all’Indonesia, ma l’epicentro è stato Teheran. Hanno cominciato i giornali del mattino, con caricature che mostravano Macron nelle sembianze di un demonio, un leitmotiv. Poi è arrivato Khamenei, con due tweet studiati per alimentare la rabbia. “Giovani francesi - ha esortato - chiedete al vostro presidente perché sostiene gli insulti al Messaggero di Dio in nome della libertà di espressione. Non è libertà, è oltraggio”. E poi l’affondo sulla Shoah: “Perché è un crimine sollevare dubbi sull’Olocausto mentre insultare il Profeta è permesso?”. Una frase che esplicita le allusioni prima di Erdogan e poi del premier pachistano Imran Khan. Nella capitale migliaia di manifestanti bruciavano le foto di Macron e urlavano “Emmanuel Rushdie”, un riferimento alla fatwa di Khomeini contro lo scrittore indiano. Lo strano sodalizio turco-iraniano è stato confermato dal consigliere della guida suprema Ali Akbar Velayati, che si è schierato contro l’Armenia nella disputa con l’Azerbaigian, appoggiato dalla Turchia. E guarda caso il Paese europeo più vicino agli armeni è la Francia. Parigi ha ribattuto agli assalti di Erdogan con una dichiarazione dell’Eliseo. “Non rinuncerà mai ai suoi principi e ai suoi valori”, a partire dalla libertà di espressione, nonostante “i tentativi di intimidazione”. La difesa di Charlie Hebdo ha però un prezzo. I tradizionali alleati arabi sono costretti ad allinearsi con i loro avversari regionali. Dall’Egitto sono arrivate le dichiarazioni di Al-Sisi contro l’uso della “libertà di espressione come giustificazione degli insulti all’islam”, mentre il grande imam di Al-Azhar, Ahmed al-Tayeb, ha chiesto ai governi occidentali di “punire le azioni anti-musulmane”. Bielorussia, 200.000 firme per chiedere la fine della repressione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 ottobre 2020 Ieri mattina Amnesty International ha trasmesso alle autorità della Bielorussia, attraverso le ambasciate del paese, 191.000 firme raccolte in 184 stati e territori (più di 23.000 in Italia) per chiedere la fine della repressione nei confronti delle proteste pacifiche e l’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia. La petizione era stata lanciata nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali del 9 agosto. Durante la fase finale della campagna elettorale, già c’erano state centinaia di arresti, tra i quali quelli - per accuse fabbricate - dei leader dell’opposizione e candidati alla presidenza Viktar Babaryka e Syarhei Tsihanouski. Dopo le elezioni, centinaia di migliaia di persone sono scese in strada per contestarne l’esito. Le proteste pacifiche sono state represse con una forza brutale e indiscriminata. Almeno sei manifestanti sono stati uccisi, migliaia sono stati arrestati e centinaia sottoposti a torture. Le proteste continuano in tutto il paese e ogni settimana vengono arrestati centinaia di manifestanti. Da ultimo le autorità della Bielorussia si sono scagliate contro gli operai che il 26 ottobre hanno aderito all’appello allo sciopero lanciato dall’opposizione politica. Secondo il Centro per i diritti umani “Viasna”, nelle prime ore di sciopero sono stati eseguiti oltre 100 arresti. Già alle 7 di mattina del 26 ottobre uomini in borghese hanno picchiato e arrestato gli operai che stavano scioperando alla Grodno Azot, una delle principali aziende del comparto chimico. I firmatari dell’appello di Amnesty International chiedono che la sistematica campagna di intimidazione e terrore contro i manifestanti pacifici cessi immediatamente, che si celebrino processi nei confronti degli appartenenti alle forze di sicurezza sospettati di aver commesso violazioni dei diritti umani e che sia posta fine alla prassi illegale di mandare in piazza bande di uomini in abiti civili che scendono da veicoli privi di targa per arrestare i manifestanti. La battaglia delle donne polacche di Giuseppe Sedia Il Manifesto, 29 ottobre 2020 Una protesta sensazionale. Lo sciopero tutto al femminile contro le restrizioni alla legge sull’aborto, già oscurantista prima dell’ultimo veto dell’Alta corte, ha bloccato il Paese. Il governo polacco dispiega i militari nelle strade del paese ma le donne continuano a prendere coraggio contro la messa al bando dell’aborto terapeutico. Sono giorni che le manifestanti ribadiscono il proprio niet alle restrizioni sull’interruzione di gravidanza introdotte la settimana scorsa con una sentenza emessa del Tribunale costituzionale vicino al governo della destra populista di Diritto e giustizia (PiS). Dopo le proteste e i cortei serali dei giorni scorsi ieri finalmente le polacche si sono ritrovate in strada già a partire dall’una di pomeriggio complice uno sciopero nazionale tutto al femminile che ha mandato in tilt il paese intero. “Visto che la Polonia non funziona fermiamola! Ne faremo una nuova!”, è l’appello lanciato dalla sigla “Sciopero nazionale delle donne” (Osk) a cui la società civile ha risposto presente anche nei centri medi e medio piccoli del paese. C’è chi ha beneficiato di un permesso di qualche ora per assentarsi dal luogo di lavoro e chi invece ha preso un giorno di ferie, talvolta non retribuito. La dirigenza del Pis aveva creduto ingenuamente che i polacchi avrebbero rispettato il divieto di assembramento di più di 5 persone attualmente in vigore in tutto il paese a causa dell’epidemia di Covid-19. Hanno aderito alla protesta anche Hanna Zdanowska, sindaca di Lodz, terza città del paese, che ha postato sui social la foto della sua sedia vuota in ufficio, e il sindaco di Varsavia, Rafal Trzaskowski. Con il tempo parzialmente nuvoloso di ieri in tutta Polonia non c’è stato bisogno di aprire gli ombrelli scuri come quattro anni fa quando la massiccia mobilitazione sotto la pioggia del “lunedì nero” aveva poi spinto il PiS a cestinare una proposta di legge che mirava a introdurre il divieto totale di aborto. Quella che doveva essere una mobilitazione contro il verdetto choc dell’alta corte polacca che sancisce l’impossibilità di interrompere volontariamente la gestazione in caso di malformazioni del feto - più del 90% degli aborti praticati legalmente ogni anno in Polonia - si è invece progressivamente trasformata in una protesta contro il governo tout court. Due giorni fa il numero uno del PiS e vicepremier polacco Jaros?aw Kaczynski aveva lanciato su Facebook un appello video in cui chiedeva di difendere le chiese polacche costi quel che costi. A molti non è piaciuto il fatto che il fratello gemello dell’ex-presidente Lech, scomparso dieci anni fa nella catastrofe aerea di Smolensk, si sia messo a giocare con la storia indossando sulla giacca una spilla con la kotwica, il simbolo della resistenza clandestina durante l’occupazione nazista. L’intervento di Kaczynski ha fatto scattare l’ironia di molti cittadini sui social network che hanno paragonato il suo discorso minaccioso alla famosa diretta televisiva del 13 dicembre 1981 quando il generale dell’esercito Wojciech Jaruzelski, dichiarò la legge marziale in Polonia. “Mettete a repentaglio la vita della maggioranza delle persone, siete dei criminali!”, ha tuonato ieri il vicepremier dai banchi del Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, puntando il dito contro l’opposizione colpevole a sua detta di soffiare sul fuoco della protesta. Altri esponenti del PiS hanno provato invece a cambiare tono presentando l’abolizione dell’aborto terapeutico come una necessità per tutelare il diritto alla vita dei feti portatori di sindrome di Down. A spingere per questa narrazione ci hanno provato il premier polacco Mateusz Morawiecki nonché l’europarlamentare ed ex sottosegretario alla Giustizia Patryk Jaki. “Questa sentenza è un segnale ufficiale che i bambini diversamente abili non possono essere eliminati. La maggior parte degli aborti riguarda proprio questi casi”, aveva dichiarato Jaki, padre di un figlio affetto da sindrome di Down, all’indomani del pronunciamento della corte. In verità molto spesso le donne ricorrono all’interruzione volontaria di gravidanza dopo essere venute a conoscenza di altri tipi di danni al feto che spesso sono irreversibili. La posta in palio al momento è altissima. E per questo che le donne in Polonia sono pronte a tutto per scongiurare il rischio di dover ricorrere ancora più spesso alla clandestinità in patria oppure a di abortire all’estero. Kirghizistan in fiamme, Russia e Cina già pronte a prendere il controllo di Andrea Nicastro Corriere della Sera, 29 ottobre 2020 Nel Paese ora comanda Sadyr Zhaparov, ex ufficiale sovietico che era in prigione all’inizio del mese. Le pressioni economiche di Mosca e Pechino. Poco più di tre settimane fa, uno degli -stan dell’Asia Centrale (Paesi musulmani, ex comunisti e in genere petroliferi) prendeva fuoco. Nella notte seguita ad elezioni spudoratamente truccate, il Parlamento del Kirghizistan veniva assaltato, il presidente se la cavava per un soffio e un ex presidente era liberato a randellate dalla cella. Poteva essere l’inizio della terza carneficina in 15 anni. Ad oggi, invece, le vittime stanno sulle dita di una mano. È questa l’unica buona notizia della vicenda, il seguito sa di sconfitta per la democrazia e i diritti umani. Dei due presidenti in lizza non ne è rimasto neanche uno. Il legittimo si è dimesso per “non passare alla storia per un bagno di sangue”. Il galeotto è tornato in prigione. Ora comanda Sadyr Zhaparov, ex ufficiale sovietico, anche lui in prigione all’inizio del mese per aver sobillato la maggioranza kirghiza contro la minoranza uzbeka. Liberato dalla “folla”, Zhaparov è passato come un fulmine da “terrorista” a premier fino a presidente ad interim. Ora promette la luna: lotta alla corruzione, Stato di diritto, aiuti economici e un voto regolare. Prestissimo. È il padrone assoluto del Paese e il killer di fatto dell’ultima rivoluzione colorata. Quelle tra 2004 e 2005 nell’ex spazio sovietico furono rivolte pacifiche che chiedevano democrazie di stile occidentale. In Ucraina e Georgia si è arrivati alla frantumazione del Paese, in Kirghizistan all’uomo solo al comando. L’arretramento del liberalismo rispetto all’autoritarismo è evidente in tutto il mondo. L’Europa non c’è ancora. Gli Usa non vogliono più esserci. Da chi dipende il nuovo uomo forte del Kirghizistan? Forse dai criminali che l’hanno liberato di galera. Forse dalle masse impoverite da crisi e Covid. Più probabilmente da Russia e Cina. Mosca ha fermato gli aiuti all’ex repubblica sovietica “fino alla stabilizzazione” che tradotto significa fino a che Zhaparov non bacerà la pantofola di Zar Putin. Pechino non vuole differire le rate del prestito da 1,8 miliardi, cioè chiede concessioni minerarie e influenza. Quale tra i due grandi Paesi autoritari arde dal desiderio di promuovere in Kirghizistan i valori democratici dell’Occidente?