Nelle carceri contagi raddoppiati in 3 giorni: 145 reclusi e 199 agenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2020 Rita Bernardini chiede l’applicazione della liberazione anticipata speciale. Nel giro di una settimana, c’è stata una considerevole impennata di positivi al Covid 19 tra detenuti e agenti penitenziari. Il carcere, ancora una volta, si trova ad affrontare la pandemia con i numeri del sovraffollamento che rincominciano a crescere. Ma partiamo dai dati. Secondo il report del Dap aggiornato lunedì sera, abbiamo un totale di 145 detenuti e 199 agenti penitenziari contagiati. Un balzo enorme, considerando che appena una settimana fa erano invece 54 i detenuti positivi, mente 90 erano gli agenti contagiati. Poco più di un mese fa risultavano 11 poliziotti penitenziari e 10 detenuti positivi al virus. Salta nell’occhio la Lombardia, con 47 casi di detenuti positivi nel carcere di san Vittore. Ma il numero è consistente proprio perché c’è il reparto Covid. Il carcere umbro di Terni è invece diverso perché non c’è tale reparto, ma hanno raggiunto 44 detenuti positivi al coronavirus. La situazione, dopo che a partire da giugno tutto era sembrato ritornato alla normalità, tanto che alcune istanze di scarcerazione sono state respinte con la motivazione della fine emergenza, ora potrebbe sfuggire di mano. Per questo il governo dovrebbe dare un impulso per la ripresa della detenzione domiciliare per motivi di salute. Attualmente ci sono dei penitenziari che ospitano diversi detenuti con gravi patologie e over 70enni. A causa della polemica scientemente scatenata contro quella famosa nota circolare del Dap che ha chiesto di segnalare alle autorità giudiziaria questa tipologia di detenuti a rischio, tutto si è fermato e numerose istanze di scarcerazione sono rimaste inevase. Ricordiamo che a causa della chiusura senza se e senza ma, i detenuti si erano sentiti lasciati da soli e impauriti dal virus. Le criticità preesistenti erano emerse con forza e ha avuto come conseguenza violente rivolte, con tanto di morti e pestaggi come reazione. Tutto questo si può evitare. Invece, il governo vuole solo inserire la possibilità di far espiare la pena fuori dal carcere per chi non ha più di 18 mesi da scontare. Non solo, questo alla condizione che sia applicato il braccialetto elettronico. Punto ancora controverso perché non c’è trasparenza sul numero di dispositivi effettivamente prodotti. Teoricamente, secondo il bando vinto, ad oggi ce ne dovevano essere a migliaia. Questo provvedimento, da solo, avrà chiaramente un effetto deflattivo minimo. C’è Rita Bernardini del Partito Radicale che non ci sta e chiede l’applicazione della liberazione anticipata speciale, disegno di legge presentato dal deputato Roberto Giachetti su proposta di Nessuno Tocchi Caino. “Per quanto ne sappiamo - spiega nel frattempo De Fazio, Segretario Generale della UilPa - il governo si appresta a varare doverose misure di ristoro per le categorie più colpite dall’ultimo Dpcm e a prevedere giusti stanziamenti economici aggiuntivi in favore delle Forze di Polizia che dovranno operare i controlli, ma non abbiamo invece notizia di disposizioni in favore della Polizia penitenziaria e per migliorare la sicurezza, sanitaria e operativa, nelle carceri”. Raddoppiano i contagi in carcere, il Covid dà la sveglia a Bonafede di Angela Stella Il Riformista, 28 ottobre 2020 Situazione critica anche nei tribunali, il Guardasigilli costretto a correre ai ripari. Tra le misure discusse nel Cdm, detenzione domiciliare con braccialetto elettronico per chi deve scontare meno di 18 mesi. Udienze a porte chiuse o da remoto, implementazione dei depositi telematici, “scarcerazioni”: sono questi in sintesi gli ingredienti principali della riforma proposta da Bonafede per non fermare la giustizia e contemporaneamente salvaguardare la salute di tutti. Ieri in Consiglio dei Ministri, in corso mentre scriviamo, il Ministro della Giustizia ha messo sul tavolo un pacchetto di nuove misure resesi necessarie per affrontare anche nelle aule di giustizia e in carcere l’emergenza coronavirus. In soli tre giorni, infatti, l’andamento del contagio tra i detenuti è quasi raddoppiato, passando da 75 a 145 positivi, e continua a salire in maniera esponenziale anche fra gli operatori, passati da 117 a 199 affetti dal virus: a rendere noti questi dati, aggiornati alle ore 19 del 26 ottobre, è stato il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria Gennarino De Fazio, a seguito del protocollo firmato dalle sigle sindacali con il Dap e il Dgmc. Anche nei Tribunali la situazione non va affatto meglio: solo la scorsa settimana al Palazzo di Giustizia di Milano sei pubblici ministeri sono risultati positivi al Covid mentre tra le aule del Tribunale e della Procura di Napoli sono stati cinque pm, una stenotipista e un amministrativo ad infettarsi. A Roma due giorni fa i dipendenti del Tribunale, sia civile che penale, si sono ritrovati nella Città giudiziaria per un flash mob contro l’inadeguatezza delle misure di prevenzione e contenimento della pandemia nei palazzi di Giustizia. Insomma, Bonafede si è trovato dinanzi ad una situazione in rapido peggioramento e ha dovuto prendere provvedimenti per non inasprire ulteriormente il clima di tensione e paura tra tutti gli operatori della giustizia. Le misure, da quanto apprendiamo, si dividono in cinque macro aree: disposizioni per l’esercizio Dell’attività giurisdizionale, disposizioni per la semplificazione delle attività di deposito di atti, interventi su detenzione domiciliare e permessi per i “comuni”, misure urgenti relative allo svolgimento del processo tributario e di quello amministrativo. Per quanto concerne la prima parte è previsto che le udienze dei procedimenti civili e penali alle quali è ammessa la presenza del pubblico si celebrino a porte chiuse; in particolare per le udienze penali, sarà possibile disporre la partecipazione da remoto mediante videoconferenze delle persone detenute; le udienze che non richiedono la partecipazione di soggetti diversi dal pm, dalle parti private e difensori, possono essere tenute mediante collegamenti da remoto; nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero e la polizia giudiziaria possono avvalersi di collegamenti da remoto, per compiere atti che richiedono la partecipazione della persona sottoposta alle indagini, della persona offesa, del difensore, di consulenti; il giudice che si trovi in condizioni di quarantena o di isolamento fiduciario per Covid 19 può partecipare all’udienza anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario. In merito alla seconda parte si legge che viene ripristinato il processo penale telematico e che per tutti gli altri atti è consentito il deposito con valore legale mediante posta elettronica certificata. Sul fronte penitenziario è previsto che la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche come residua di pena maggiore, possa essere scontata fuori dal carcere con l’applicazione del braccialetto elettronico. Da questo beneficio sono esclusi i condannati per gravi reati, chi è sottoposto a un regime di sorveglianza particolare e chi ha partecipato alle rivolte nelle carceri. Inoltre al condannato ammesso al regime di semilibertà possono essere concesse dal magistrato di sorveglianza licenze con durata superiore a 15 giorni fino al 31 dicembre 2020, salvo che non ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura. Con questo intervento si cerca così di contenere le occasioni di contagio che il regime di semilibertà può aumentare per effetto della “spola” del detenuto fra l’istituto e il mondo esterno. Contro il Covid detenzione domiciliare per le condanne fino a 18 mesi Italia Oggi, 28 ottobre 2020 È una delle misure contenute nella bozza di decreto esaminato dal consiglio dei ministri. Udienze in videoconferenza e deposito di memorie, documenti, richieste ed istanze esclusivamente dal portale del processo penale telematico. Il giudice in quarantena potrà partecipare all’udienza anche da casa. Contro i contagi da coronavirus in carcere arriva la novità contenuta nella bozza di decreto giustizia all’esame del consiglio dei ministri. Il provvedimento prevede che “la pena detentiva è eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, ove non sia superiore a diciotto mesi”. La norma non riguarda “delinquenti abituali e professionali, e detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare”, e detenuti “che nell’ultimo anno siano stati sanzionati per le infrazioni disciplinari o privi di un domicilio effettivo e idoneo anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato”. Nel testo si legge che “Il magistrato di sorveglianza adotta il provvedimento che dispone l’esecuzione della pena presso il domicilio, salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura. La procedura di controllo, alla cui applicazione il condannato deve prestare il consenso, viene disattivata quando la pena residua da espiare scende sotto la soglia di sei mesi”. Il dl prevede pure che al condannato al regime di semilibertà possono essere concesse licenze con durata superiore a 15 giorni fino al 31 dicembre 2020, salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi alla concessione della misura. Fin qui, le disposizioni concernenti il detenuto, poi tutta un’altra lunga serie di novità che vanno dai processi in remoto fino alle indagini. La partecipazione a qualsiasi udienza delle persone detenute, internate, in stato di custodia cautelare, fermate o arrestate è assicurata mediante videoconferenze o con collegamenti da remoto individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della giustizia. Il deposito di memorie, documenti, richieste ed istanze dovrà avvenire esclusivamente, mediante deposito dal portale del processo penale telematico. Il deposito deve essere effettuato presso gli indirizzi pec degli uffici giudiziari destinatari. l giudice potrà disporre che le udienze civili in materia di separazione consensuale siano sostituite dal deposito telematico di note scritte nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente con comunicazione, depositata almeno quindici giorni prima dell’udienza, nella quale dichiarano di essere a conoscenza delle norme processuali che prevedono la partecipazione all’udienza. Il giudice che si trovi in condizioni di quarantena o di isolamento fiduciario per Covid-19 (che è stato escluso sia qualificabile come malattia) può partecipare all’udienza anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario. Covid, ecco la rivoluzione digitale della Giustizia: sì agli atti da remoto di Simona Musco Il Dubbio, 28 ottobre 2020 Processi penali in videoconferenza ridotti al minimo e udienze a porte chiuse. Braccialetti elettronici per le condanne sotto i 18 mesi. Aumentano i permessi premio. Se non è una rivoluzione poco ci manca. Perché per la prima volta, avvocati e cancellieri potranno accedere anche da remoto ad atti e registri, con un processo da remoto limitato al minimo e processi a porte chiuse contro il contagio. Ma soprattutto lo è anche per quanto riguarda il mondo delle carceri, con permessi e licenze premio più consistenti e la possibilità di eseguire la pena fuori dal carcere per le condanne sotto i 18 mesi. Sono queste alcune delle misure contenute nel “pacchetto giustizia” approvato oggi in Consiglio dei ministri. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha presentato il documento contenente le misure per affrontare la seconda ondata di Covid, che sta condizionando pesantemente i Palazzi di Giustizia, con un aumento costante dei contagi tra magistrati, avvocati e dipendenti, ma anche nelle carceri, dove i numeri cominciano ad essere preoccupanti. Un pacchetto elaborato dopo un incontro con le rappresentanze dell’avvocatura e della magistratura che non prospetta un ritorno al processo da remoto, respinto con decisione dall’Unione delle Camere penali ma anche da dieci procure italiane - Roma, Milano, Torino, Perugia, Salerno, Reggio Calabria, Catanzaro, Palermo, Firenze e Napoli - ma una sua versione più soft, che prevede, comunque, sempre l’accordo tra le parti. Si parte da una digitalizzazione delle indagini preliminari, con alcuni atti eseguibili da remoto: la persona offesa e la persona sottoposta alle indagini potranno essere sentite anche in collegamento dallo studio del difensore che li assiste, mentre i consulenti o esperti di cui si avvale il pm o la polizia giudiziaria potranno essere sentiti in collegamento dal loro studio. Il difensore dell’indagato può opporsi nel caso in cui il compimento dell’atto preveda la sua presenza. È prevista anche la possibilità di presentarsi presso l’ufficio di polizia giudiziaria più vicino al luogo di residenza, purché in grado di assicurare il collegamento da remoto, dove l’atto verrà compiuto con modalità idonee a salvaguardare la segretezza e ad assicurare la possibilità, per l’indagato, di consultarsi riservatamente con il proprio difensore. Il quale parteciperà, in questo caso, da remoto, salvo che decida di essere presente a fianco del proprio assistito. Per quanto riguarda le udienze penali, nei casi in cui la presenza fisica dei detenuti non possa essere assicurata in totale sicurezza, sarà possibile optare per la partecipazione in videoconferenza o con collegamenti individuati e regolati con provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi. Le udienze si svolgeranno da remoto, con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti, ad esclusione delle discussioni finali, in pubblica udienza o in camera di consiglio, e di quelle nelle quali devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti, salvo che le parti vi acconsentano. Il deposito di memorie e documenti previsto dall’avviso di conclusione indagini avverrà esclusivamente mediante deposito dal portale del processo penale telematico individuato. Per quanto riguarda le udienze dei procedimenti civili e penali alle quali è ammessa presenza del pubblico, le stesse dovranno essere sempre celebrate a porte chiuse. Prevista l’udienza cartolare per i processi civili in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto, nel caso in cui tutte le parti che avrebbero diritto a partecipare all’udienza vi rinuncino espressamente con comunicazione depositata almeno 15 giorni prima dell’udienza. Per il giudice che si trovi in quarantena o di isolamento fiduciario per Covid-19, che non verrà considerato come malattia, sarà possibile partecipare all’udienza anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario. Per quanto riguarda le deliberazioni collegiali, invece, si è previsto che possano essere assunte mediante collegamenti da remoto, sia nel civile sia nel penale. Il pacchetto, come anticipato, autorizza finalmente il deposito mediante pec di tutti gli atti, documenti e istanze, nonché l’accesso agli atti successivi alla discovery da remoto, in modo da non rendere necessarie lunghe file davanti alle cancellerie. Infine la vera rivoluzione: accesso da remoto ai registri per i cancellieri che sono in smart working, che consentirà di aumentare la quantità di lavoro eseguibile da remoto per i dipendenti del Tribunale. Per quanto riguarda il processo amministrativo, la discussione orale nelle udienze camerali o pubbliche sarà possibile mediante collegamento da remoto, a richiesta di tutte le parti o su disposizione del giudice d’ufficio. In alternativa potranno essere depositate note di udienza. Il pacchetto contiene anche misure per i detenuti e per le carceri: fino al 31 dicembre, ai condannati cui siano stati già concessi i permessi premio e che siano stati già assegnati al lavoro all’esterno o ammessi all’istruzione o alla formazione professionale all’esterno, saranno concesse deroghe ai limiti previsti per legge - un totale di 45 giorni per gli adulti e di 100 per i minori per ogni anno da espiare. Disposizione che non vale per le persone in carcere per delitti ostativi. Stesso discorso per quanto riguarda le licenze premio straordinarie per i detenuti in regime di semilibertà, salvo che il magistrato di sorveglianza ravvisi gravi motivi ostativi. Le pene detentive sotto i 18 mesi potranno scontate fuori dal carcere, con l’applicazione del braccialetto elettronico, tranne che per i condannati per terrorismo, mafia, corruzione, voto di scambio, violenza sessuale, maltrattamenti e stalking e le persone coinvolte nei disordini delle rivolte in carcere. Viene inoltre previsto il divieto di scioglimento del cumulo di pena per reati associati a mafia e terrorismo. Avvocatura e Anm, lunedì, avevano sottoposto al ministro diverse questioni. Dal canto suo, il Consiglio nazionale forense aveva formulato delle proposte, inviate a Bonafede sabato scorso, in vista della giornata della giustizia, ribadendo la necessità di prediligere la celebrazione dell’udienza in presenza “in tutte le ipotesi in cui il confronto immediato e contestuale sia necessario per la delicatezza degli interessi in gioco o per le attività? da svolgere”, ma senza rinunciare, dove necessario, alle forme alternative di celebrazione del processo. Il tutto con un’agevolazione dell’accesso alle procedure di giustizia complementare (negoziazione assistita, mediazione, conciliazione), quali, ad esempio, il beneficio del patrocinio a spese dello Stato e la previsione di incentivi fiscali più? ampi di quelli finora previsti. L’Unione delle Camere penali, d’accordo con i procuratori delle più importanti procure d’Italia, aveva ribadito l’importanza di salvaguardare la disciplina dell’udienza dibattimentale e dello svolgimento del giudizio di merito dalla smaterializzazione dei processi, “data l’intangibilità del principio dell’oralità, cardine della formazione in contraddittorio della prova nel processo penale”. Da parte sua, l’Unione delle Camere civili aveva chiesto invece una semplificazione della trattazione scritta, prevedendo il ricorso all’e-mail per le note degli avvocati e i provvedimenti del giudice, adeguate strumentazioni di lavoro a una task force di personale in grado di intervenire, tramite collegamento da remoto, in situazioni di particolare sovraccarico degli Uffici giudiziari e vietare che più cause siano fissate alla stessa ora. I tribunali ora tornano alla Fase 1: udienze a porte chiuse e interrogatori da remoto di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2020 Nel decreto legge Ristori approvato ieri dal Consiglio dei ministri, c’è anche un mini-pacchetto Giustizia col ritorno di misure anti Covid negli uffici giudiziari. Si ripristinano i collegamenti da remoto, ma con paletti. Per quanto riguarda le indagini preliminari, sia le persone indagate sia le persone offese possono essere sentite da remoto, se ritengono anche nello studio dell’avvocato che le rappresenta. C’è sempre la possibilità di garantire la riservatezza del confronto indagato-difensore. Da remoto possono essere sentiti i consulenti dei pm o della polizia giudiziaria, pure nei loro studi, ma il difensore di un indagato può opporsi a questa modalità “ove il compimento dell’atto preveda la sua presenza”. Il giudice delle indagini preliminari può essere in video collegamento, ma solo per l’interrogatorio. Tornano a porte chiuse le udienze dei processi penali e civili, anche se in tempi “normali” il pubblico e i giornalisti possono assistere. L’udienza può celebrarsi da remoto, ma non quando è prevista la discussione finale o quando devono essere esaminati testimoni, consulenti o periti, a meno che acconsentano le parti. Per quanto riguarda i processi penali con imputati detenuti, qualora la loro presenza fisica sia ritenuta rischiosa, nell’ottica di evitare il contagio del Covid, è previsto che possano partecipare in videoconferenza. E veniamo alle udienze che toccano migliaia di persone: saranno udienze cosiddette cartolari quelle per separazione consensuale e divorzio congiunto se tutte le parti che avrebbero diritto ad assistere all’udienza vi rinunciano espressamente. Per quanto riguarda le deliberazioni collegiali, sia per i procedimenti civili sia per quelli penali, i giudici possono assumerle da remoto. Se, invece, si tratta di un processo con giudice monocratico, può partecipare all’udienza da remoto non dall’ufficio ma da un luogo diverso solo se si trova in quarantena o isolamento fiduciario per Covid. Per tutti gli atti è consentito il deposito per posta elettronica certificata. Il deposito di atti alle procure “avviene esclusivamente mediante deposito dal portale del processo penale telematico” e “si intende eseguito al momento del rilascio della ricevuta di accettazione da parte dei sistemi ministeriali”. Per evitare afflussi rischiosi nelle cancellerie è consentito agli avvocati l’accesso agli atti dopo la “discovery” da remoto. Accesso ai registri da remoto pure per i cancellieri in smart working. Bonafede: “I giudici positivi al lavoro da casa e indagini preliminari da remoto” di Liana Milella La Repubblica, 28 ottobre 2020 Per affrontare l’emergenza coronavirus e ridurre i rischi di contagio tornano le misure restrittive per garantire le udienze, la partecipazione dei detenuti e il lavoro dei legali. L’Anm e Giulia Bongiorno protestano per la giustizia bloccata dal Covid? E Alfonso Bonafede, il Guardasigilli, risponde dal consiglio dei ministri con misure urgenti contenute in un pacchetto giustizia per affrontare l’emergenza sanitaria anche negli uffici giudiziari. Eccole in anticipo su Repubblica proprio mentre se ne sta discutendo a palazzo Chigi. Il giudice che si trovi in condizioni di quarantena o di isolamento fiduciario per il Coronavirus - ma solo nel caso che sia stato escluso che la sua situazione sia qualificabile come malattia - può partecipare all’udienza anche da un luogo diverso dall’ufficio giudiziario. Per quanto riguarda le deliberazioni collegiali, invece, è previsto che, sia nei procedimenti civili che in quelli penali, potranno essere assunte con collegamenti da remoto. Sarà possibile svolgere anche con collegamenti da remoto la fase delle indagini preliminari. La persona offesa e quella sottoposta alle indagini potranno essere sentite anche in collegamento dallo studio del difensore che li assiste. Anche i consulenti o gli esperti di cui si avvale il pubblico ministero o la polizia giudiziaria potranno essere sentiti anche dal loro studio via pc. Il difensore della persona sottoposta alle indagini potrà opporsi, quando il compimento dell’atto preveda la sua presenza. Il giudice si può avvalere delle medesime modalità, ma per il solo svolgimento dell’interrogatorio. Secondo le disposizioni di Bonafede l’udienza da remoto dovrà essere sempre decisa, ma escludendo le udienze di discussione finale, sia in pubblica udienza che in camera di consiglio, e quelle in cui devono essere esaminati testimoni, parti, consulenti o periti. Ovviamente è necessario l’accordo delle parti. Tutte le udienze per i procedimenti civili e penali per le quali oggi è ammessa la presenza del pubblico si dovranno invece celebrare sempre a porte chiuse. Detenuti in collegamento Per le udienze penali dove la presenza fisica delle persone detenute non possa essere assicurata senza mettere a rischio le esigenze di contenimento della diffusione del Covid il meccanismo sarà differente. È previsto che la partecipazione da remoto con le videoconferenze, garantite dal ministero della Giustizia, sia obbligatoria. Divorzi e separazioni. Sarà possibile ricorrere, se le parti sono d’accordo, all’udienza cartolare per le udienze civili in materia di separazione consensuale e di divorzio congiunto. Tutti gli atti, i documenti e le istanze potranno essere depositati utilizzando la posta elettronica certificata. Gli avvocati potranno accedere agli atti successivi alla discovery da remoto, in modo da non essere obbligati a recarsi nelle cancellerie. Accesso da remoto ai registri anche per i cancellieri che sono in smart working. Giustizia e virus: si ricomincia con i rinvii, tra contagi e paura di Egle Priolo Il Messaggero, 28 ottobre 2020 Coronavirus, è di nuovo allerta nei tribunali. Non si parla di lockdown, chiaramente, sia perché la giustizia è tra i servizi pubblici essenziali che non sono stati toccati dall’ultimo Dpcm del premier Giuseppe Conte, sia perché in effetti al momento tra segnalazioni immediate e sanificazioni anche notturne la situazione nelle aule sembra ancora gestibile. “Sembra” parola chiave. Perché l’allerta, seppur non urlata, passa come in sottofondo tra le righe delle comunicazioni delle udienze rinviate: due solo nella giornata di ieri. Comunicazioni in cui non si accenna al coronavirus ma ad impedimenti generici di alcuni magistrati. Ma dopo il caso positivo riscontrato sul finire della scorsa settimana, e a cui ha fatto seguito la sanificazione d’urgenza effettuata nella notte in tutte le strutture frequentate dal dipendente contagiato, è lecito pensare come i rinvii di alcune udienze in programma oggi siano dovuti a casi quanto meno di isolamento fiduciario. Sul caso, era intervenuta nei giorni scorsi l’Associazione dei giovani avvocati di Perugia, con il presidente Alessandro Ciglioni e il suo direttivo a invitare uffici e istituzioni ad “adoperarsi per garantire che l’attività giurisdizionale si svolga con efficienza e in sicurezza”. Da qui, la richiesta di sanificazione giornaliera, regolamento dei flussi di utenza, obbligo per tutti di utilizzo delle mascherine, un sistema di tracciamento dei contatti autonomo, l’invito a scaricare l’app Immuni e, infine, di “individuare una o più figure, adeguatamente formate, al fine di strutturare e gestire un sistema che consenta di lavorare con efficienza e in sicurezza negli Uffici giudiziari”. Mentre la situazione sanitaria, intanto, è sempre più fluida e si modifica di giorno in giorno, anche se purtroppo il trend è quello della crescita continua dei contagi, il presidente dell’Ordine degli avvocati Stefano Tentori Montalto si dimostra cauto ed equilibrato. “La nostra attività prosegue - spiega - come previsto dai protocolli. Organizzazione e distanziamento, con i nostri continui contatti con i capi degli uffici per verificare l’evolversi della situazione. Segnaliamo le situazioni di assembramento e quelle che ci sembrano criticità perché tutte le organizzazioni sono migliorabili se ce ne fosse la necessità, ma per il resto l’auspicio è che continui ad esserci il massimo rispetto per le prescrizioni generali, fondamentali per la salute di tutti”. Come sempre, basta girare per i palazzi di giustizia per capire come i problemi, a Perugia, siano sempre legati alle strutture: se in Corte d’appello, per esempio, ma anche al civile, la situazione è più gestibile, è chiaro come al tribunale penale di via XIV Settembre, come negli uffici del giudice di pace o di sorveglianza, gli assembramenti sono quasi strutturali, a causa di aule piccole e corridoi. Ma anche nell’auditorium dell’istituto Aldo Capitini non si deve respirare, è il caso di dirlo, una bella aria. Nonostante l’ampiezza degli spazi, scelti dopo mille polemiche proprio per i processi con troppe parti in causa, infatti c’è chi non ci sta. È il caso del professor David Brunelli, impegnato ormai quasi una volta a settimana al Capitini perché tra gli avvocati difensori nel processo Concorsopoli: quasi quaranta indagati, con relativi legali, più magistrati e dipendenti. “In una situazione del genere, qualcuno mi spieghi il motivo di insistere a fare udienze con tutte queste persone in un’aula - spiega. Non c’è motivo e non c’è fretta, mentre è grave mettere a rischio la salute di tutti noi. Sono furibondo”. Covid e giustizia penale: le proposte Ucpi al Ministro della Giustizia camerepenali.it, 28 ottobre 2020 Emergenza Covid e processo penale: la posizione e le proposte dell’Unione delle Camere Penali Italiane rappresentate al Ministro della Giustizia, On. Alfonso Bonafede. Sì ad una forte informatizzazione della fase delle indagini e dell’accesso agli atti e agli uffici giudiziari da parte dei difensori. Ferma contrarietà alla dematerializzazione del processo penale. L’inedita e forte presa di posizione comune degli avvocati penalisti con alcune delle più importanti Procure italiane, condensata in un documento inviato al Ministro della Giustizia e al Consiglio Superiore della Magistratura. Il deliberato della Giunta Ucpi con allegato il documento sottoscritto con le Procure della Repubblica di Roma, Napoli, Milano, Torino, Palermo, Firenze, Reggio Calabria, Catanzaro, Perugia e Salerno. Le nuove misure emergenziali. Le proposte di Ucpi e delle Procure 1. La recrudescenza del fenomeno pandemico ha posto il Governo nella determinazione di intervenire con decretazione d’urgenza con ulteriori misure volte a limitare l’afflusso di persone all’interno dei palazzi di giustizia nel corso delle attività professionali. Il Ministro della Giustizia ha invitato ad horas le rappresentanze dell’Avvocatura ad un confronto ove sono state illustrate, nelle loro linee generali, le proposte che saranno oggetto del testo portato alla discussione del Consiglio dei Ministri nelle prossime ore. Lo schema del Governo sostanzialmente prevede la remotizzazione di una serie di attività secondo quanto già disegnato dall’art. 83 del decreto cd. “Cura Italia”, subordinando l’attività a distanza per l’istruttoria dibattimentale e la discussione al consenso delle parti processuali. Già nella fase del lockdown di marzo-giugno 2020, l’Unione delle Camere Penali ha articolato con chiarezza e determinazione la propria iniziativa politica, volta da un lato a collaborare con ogni sforzo possibile nel concordare con gli Uffici giudiziari territoriali le indispensabili misure per sventare o comunque massimamente ridurre la paralisi della giurisdizione, pur nel prioritario sforzo di salvaguardia della salute pubblica; dall’altro, ad evitare che ciò accadesse con pregiudizio delle irrinunciabili regole di garanzia che presidiano l’esercizio dell’azione penale ed i conseguenti gradi di giudizio. UCPI ha segnalato sin da subito la necessità di poter procedere al deposito degli atti difensivi tramite pec e il ricorso ad una massiccia informatizzazione per tutta l’attività di indagine. 2. Le nuove proposte del Ministero prevedono la possibilità di compiere atti di indagine da remoto, sempre che il difensore non si opponga; inoltre, tanto la persona sottoposta a indagini quanto la persona offesa potranno essere sentiti anche mediante collegamento a distanza dallo studio del difensore. Le udienze si terranno a porte chiuse, mentre il detenuto vi parteciperà in videoconferenza, a prescindere dal consenso; sanno inoltre possibili le deliberazioni delle camere di consiglio con i componenti del collegio collegati da remoto. La proposta prevede una prima apertura al deposito degli atti da parte del difensore via pec. Sono stati prospettati interventi anche in materia di esecuzione penale che renderebbero ancor più stringenti le ostatività alle misure alternative alla detenzione. Salvo che su questo ultimo punto, il Ministro ha voluto sottolineare come le proposte abbiano tenuto conto della ferma opposizione dell’Avvocatura penale alle udienze da remoto per l’attività istruttoria e per la discussione finale, in quanto incompatibili con le regole del contraddittorio e del giusto processo. 3. L’Unione ha ribadito la propria contrarietà ad ogni ipotesi di remotizzazione di attività di raccolta della prova e di discussione in ogni fase processuale che preceda una decisione del Giudice. Tali attività non possono che essere svolte in presenza. A regime deve essere prevista la possibilità per il difensore di procedere al deposito di atti via pec e l’accesso al sistema informatico di consultazione dei fascicoli, qualora realizzato. Resta ferma l’assoluta opposizione a qualsiasi provvedimento che miri a limitare l’accesso alle misure alternative alla detenzione nella fase dell’esecuzione ed anzi si sottolinea la necessità di interventi che agevolino la possibilità del ricorso alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova, quale risposta al sovraffollamento e come misura per contenere e limitare il rischio di contagio all’interno degli istituti penitenziari. 4. In queste ultime ore, l’Unione delle Camere Penali è stata invitata ad un confronto dai Procuratori della Repubblica di Roma, Milano e Napoli, poi esteso ad altre importanti Procure italiane, al fine di verificare la possibilità di indicazioni comuni per affrontare la condizione di emergenza sanitaria. Abbiamo con grande soddisfazione constatato la praticabilità davvero significativa di comuni proposte, pienamente in linea con il quadro di principi che ci appartiene, e che sopra abbiamo ricordato. Ne è scaturito il documento che qui rendiamo pubblico, e che di intesa è proposto all’attenzione del Ministro della Giustizia. La comune proposta elaborata da Ucpi insieme a quelle importanti Procure italiane ha il pregio di dare, innanzitutto, un forte slancio alla smaterializzazione più ampia ed efficace della interlocuzione degli avvocati con gli uffici giudiziari, non solo grazie alla copertura normativa del deposito atti a mezzo Pec, ma anche con l’accesso al Tiap per la consultazione degli atti (fase cautelare e post 415 bis); dall’altro consente lo svolgimento di alcune delle attività di indagine a distanza, sempre fatto salvo il consenso dell’indagato per gli atti che direttamente lo coinvolgono. Sono state inoltre individuate ulteriori attività che, fuori dalla fase dibattimentale, potrebbero svolgersi da remoto con il consenso dell’indagato e del suo difensore, così consentendo la riduzione della presenza fisica nelle aule e negli uffici giudiziari, al contempo salvaguardando l’esercizio concreto del diritto di difesa. L’importanza di questa convergenza tra le Parti processuali non potrà che essere adeguatamente valorizzata nella considerazione del Ministro della Giustizia. La funzione “etica” della giustizia è fuorviante: confonde il “penale” con il “morale” di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 28 ottobre 2020 Le ultime decisioni del Governo ma anche gli ultimi avvenimenti istituzionali e politici non possono non allarmare il cittadino perché contraddittori e in disarmonia con la Costituzione. Il pericolo che possa essere alterato l’equilibrio tra i poteri dello Stato democratico, già in crisi da vari anni, è grande. Costituzionalisti e opinionisti rilevano da tempo che l’equilibrio dei poteri che ha costituito un caposaldo della nostra democrazia, è in crisi. Ma oggi si rischia una lacerazione più marcata perché la debolezza del potere legislativo e l’alterazione del potere esecutivo portano ad una maggiore prevalenza del potere giudiziario. È necessario riflettere sulla crisi del Parlamento e sulla prevalenza del potere giudiziario che incombe pur con tutte le sue anomalie e le sue deviazioni, ed esaminare le conseguenze che si possono determinare. Il referendum sul taglio dei parlamentari presupponeva una risposta ad una domanda che non è stata presa in considerazione dal 70% degli elettori. La domanda era semplice semplice: perché è necessario ridurre il numero dei parlamentari?! Tutte le ragioni addotte per giustificare la decisione del Parlamento erano fasulle, ma ve ne era una valida e strategica: la volontà di delegittimazione del Parlamento e di ridurre la rappresentanza sui territori. Una parte degli elettori, per il 30% ha dato una risposta negativa, e sono questi che vanno tenuti in grande considerazione perché costituiscono lo zoccolo duro della democrazia. La crisi del Parlamento intacca l’equilibrio dei poteri, e proprio per questo bisognava potenziare e qualificare la “rappresentanza”, non ridurla. Invece oggi constatiamo che la politica è ancor più debole rispetto al prevalere del potere giudiziario. Le istituzioni rappresentative non riescono a rappresentare e a soddisfare le istanze sociali, sempre più complesse, e differenziate, e il potere giurisdizionale ha assunto su di sé questi compiti e dunque prevale su quello politico. D’altra parte i ripetuti decreti del Presidente del Consiglio esautorano il Parlamento e si approfitta dell’epidemia per far prevalere un autoritarismo fuori luogo dannoso per il rapporto tra le istituzioni. Il fatto è che questo nuovo “potere” del magistrato, è privo di quel bilanciamento costituzionale che è proprio di uno Stato forte che deve garantire i diritti attraverso la legge. Le scelte politiche almeno degli ultimi trent’anni, dobbiamo riconoscere, sono state condizionate dal potere giudiziario, e oggi più che mai, e in maniera anche esplicita, la maggioranza di governo è condizionata anche da singoli magistrati! Già ai tempi di Tangentopoli la magistratura aveva assunto il “controllo” politico e sociale, con le procure che processano il “sistema” più che indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili, e ha di conseguenza assunto le caratteristiche del giudice etico, fustigatore dei costumi, che condanna il male per far vincere il bene. Una funzione etica della giustizia è pericolosa e fuorviante perché porta a confondere la questione penale che configura un reato con la “questione morale”. Il confondere la “morale” con il “penale” ha quindi determinato e determina disguidi istituzionali che rendono difficile la convivenza civile e l’efficacia delle istituzioni, perché censurare solamente i comportamenti che hanno rilevanza penale consente di considerare normali e validi i comportamenti che invece possono essere riprovevoli sul piano “morale”. È proprio la magistratura che in questi giorni ci offre questo esempio negativo: Palamara che nelle sue funzioni rappresentative ha applicato una lottizzazione selvaggia tra le correnti, viene espulso dalla magistratura con un processo rapido e sommario da parte di chi è stato agevolato dal suo metodo, con una ipocrisia generale perché tutti sono inseriti nel gioco delle correnti; il Procuratore Generale della Cassazione con il suo provvedimento “esplicativo” stabilisce che la “raccomandazione” dei magistrati costituisce un’ “auto promozione” quindi configura un comportamento innocente, niente a che fare col “traffico di influenze” previsto ahimè! tra i reati per i comuni mortali; e per ultimo il magistrato Davigo, pur avendo cessato le funzioni di magistrato vuol restare nel Csm per ragioni di potere, con sofismi da lui sempre contestati, nella interpretazione della legge. La quale è chiara e lineare perché la Costituzione prevede che l’organo di autogoverno, che in ogni caso nessuno ha mai ritenuto di garanzia, sia formato per la durata di quattro anni, da due terzi di magistrati e un terzo di laici. Questo rapporto verrebbe alterato se un magistrato che ha cessato le funzioni continuasse a far parte del Csm: vi sarebbe un “laico” in più! Davigo non è più magistrato e non ha più titolo a far parte di quel consesso perciò avrebbe dovuto pretendere il rispetto di questo principio sacrosanto e invece ripete di non essere “attaccato alla poltrona”, termine dispregiativo, usato da politici da strapazzo come i grillini, che non rende onore alla “rappresentanza” che si esercita in quel consesso, e addirittura dì fa ricorso al Tar. Come è possibile che il campione italiano del moralismo e del giustizialismo non tenga conto di una “questione morale” prima che giuridica, per ragioni di puro potere?! La questione travalica la persona Davigo perché incide sull’assetto di un organo di rilevanza costituzionale e il Csm con la sua decisione ha evitato un vulnus ad un organo costituzionale presieduto dal Capo dello Stato e ha fatto prevalere la “moralità” delle istituzioni. Carceri e Covid: torna all'esame della Consulta il Decreto anti-scarcerazioni di Marta Zelioli meteoweek.com, 28 ottobre 2020 Il 4 novembre torna all’esame della Corte costituzionale il decreto anti-scarcerazioni, approvato dal Consiglio dei ministri a maggio e che impone ai giudici di rivalutare i provvedimenti di detenzione domiciliare concessi ai detenuti per ragioni di salute legati all’emergenza Covid. Un provvedimento voluto dal ministro della Giustizia dopo le tante polemiche che lo avevano investito - con richieste dimissioni da parte dell’opposizione - le scarcerazioni disposte dai magistrati di detenuti condannati per gravi reati, compresi boss di mafia, camorra e ‘ndrangheta. Il vaglio non avverrà in udienza pubblica ma in camera di consiglio. Già nei mesi scorsi la Consulta era stata investita dei dubbi sulla legittimità costituzionale di alcune norme del decreto da parte di alcuni uffici giudiziari. Tuttavia la Corte allora ritenne di rinviare gli atti a quei giudici perché valutassero se le questioni sollevate fossero ancora rilevanti, dopo le modifiche introdotte in sede di conversione del decreto. Nodi che restano secondo i giudici di sorveglianza di tre diversi tribunali (capofila è Sassari che dispose i domiciliari per Pasquale Zagaria, ritenuto la mente economica del boss dei Casalesi e tornato in cella al 41 bis a settembre). E che ora la Consulta dovrà sciogliere. Al centro dell’attenzione la norma che prevede che il provvedimento di concessione della detenzione domiciliare o di differimento della pena per motivi connessi all’emergenza sanitaria da Covid-19 dei condannati e degli internati per una serie di gravi reati vada rivalutato entro 15 giorni e poi con cadenza mensile, se non immediatamente nel caso in cui il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta. Secondo il giudice di sorveglianza di Sassari, l’obbligo di rivalutazione della detenzione domiciliare secondo la scansione indicata dal provvedimento invaderebbe la sfera di competenza riservata all’autorità giudiziaria e violerebbe il principio di separazione dei poteri, tanto più applicata retroattivamente ai provvedimenti già adottati a decorrere dal 23 febbraio 2020. Ci sarebbe anche un contrasto con gli articoli 32 e 27 della Costituzione (tutela della salute e dell’umanità della pena) perché nella procedura istruttoria prevista, è assente ogni riferimento a una verifica delle condizioni di salute del detenuto malato, visto che è previsto solo il monitoraggio dell’effettiva persistenza delle condizioni di emergenza epidemiologica che hanno inciso sull’apprezzamento, da parte del magistrato o del tribunale di sorveglianza, dell’impossibilità della prosecuzione del regime carcerario. Dubbi anche sul rispetto dell’articolo 3 della Costituzione, per irragionevole disparità di trattamento. Questo perché sulla base di una presunzione di pericolosità correlata soltanto al titolo di reato e al regime detentivo, si individua all’interno della platea dei detenuti ammessi ai provvedimenti umanitari in ragione dell’emergenza sanitaria, una categoria di reclusi destinataria di un procedimento di frequente rivalutazione “marcatamente teso al ripristino della detenzione carceraria”. Incompatibilità col regime carcerario, la Ctu è obbligatoria responsabilecivile.it, 28 ottobre 2020 Il Giudice è obbligato a disporre la Ctu medico-legale solo in caso di apprezzabile fumus sull’incompatibilità col regime carcerario rispetto alle patologie del detenuto. “La permanenza nel sistema penitenziario può essere deliberata se il Giudice accerta che esistono istituti in relazione ai quali può formularsi un giudizio di compatibilità rispetto alle patologie sofferte dal detenuto, indipendentemente dalle valutazioni dell’autorità amministrativa. Invero, l’effettuazione della perizia diventa obbligatoria solo in presenza di un apprezzabile fumus di sussistenza di ragioni di incompatibilità col regime carcerario”. In tali termini si è espressa la Suprema Corte (Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 29378 del 22 ottobre 2020), in tema di misure cautelari, con particolare riguardo all’ipotesi di istanza di scarcerazione fondata sull’assunto dell’incompatibilità dello stato di salute del detenuto rispetto alla carcerazione. Il Tribunale della Libertà di Reggio Calabria emetteva ordinanza di rigetto del riesame proposto da un soggetto sottoposto a regime carcerario. Avverso tale provvedimento il detenuto propone ricorso per Cassazione lamentando omessa considerazione nelle conclusioni rassegnate dalla direzione della Casa Circondariale di Siracusa circa l’incompatibilità dello stato di salute rispetto al regime infra-murario, anche in ragione del rischio epidemiologico da Covid-19. Gli Ermellini ritengono la censura non meritevole di accoglimento, oltreché inammissibile per genericità. In primo luogo viene evidenziata la completezza della disamina effettuata dal Tribunale del riesame riguardo le criticità patologiche sofferte dal detenuto e della loro non assoluta incompatibilità con lo stato di detenzione carcerario. Inoltre, viene posto in rilievo che la pandemia in corso non può intervenire sul quadro patologico del soggetto, avuto riguardo alle condizioni dell’istituto penitenziario e alla capacità di gestione del rischio. La permanenza nel sistema penitenziario può essere deliberata se il Giudice accerta che esistono istituti in relazione ai quali può formularsi un giudizio di compatibilità rispetto alle patologie sofferte dal detenuto, indipendentemente dalle valutazioni dell’autorità amministrativa. Invero, l’effettuazione della perizia diventa obbligatoria ex art.299, comma 4-ter c.p.p. solo in presenza di un apprezzabile fumus di sussistenza di ragioni di incompatibilità col regime carcerario. Tale norma dispone che il Giudice, quando non è in grado di decidere allo stato degli atti, può disporre, anche d’ufficio, accertamenti sulle condizioni di salute dell’imputato. Tali accertamenti devono essere eseguiti entro 15 giorni. Se le condizioni di salute vengono segnalate dal servizio sanitario penitenziario, il Giudice può disporre la nomina di un C.T.U. Il Consulente nominato dovrà tenere in considerazione il parere espresso dal Medico penitenziario e riferirne al Giudice entro 5 giorni, oppure entro 2 giorni in caso di manifesta urgenza. Campania. Sempre meno persone riescono a scontare la pena lontano da una cella di Viviana Lanza Il Riformista, 28 ottobre 2020 In Campania i soggetti in carico all’Ufficio di esecuzione penale esterna sono 6.779. I dati sono aggiornati al primo semestre del 2020 e fanno registrare un numero in calo rispetto agli 8.627 soggetti del 2019 e ai 9.067 del 2018. La maggior parte dei soggetti che stanno terminando di scontare la pena con misure alternative alla detenzione è concentrata nella città di Napoli: tra l’area cittadina e quella vastissima della provincia si registrano 3.748 persone in carico all’Ufficio di esecuzione penale esterna, delle quali 3.386 sono uomini e 362 sono donne. Il Ministero della Giustizia ha pubblicato dati distinti per provincia, per cui a voler rimanere nei confini della Campania si scopre che l’altra provincia più interessata da questo tipo di misure è quella di Caserta con 1.369 soggetti (1.269 uomini e 100 donne), e a seguire ci sono Salerno (1.025 soggetti, di cui 904 uomini e 121 donne), Avellino (393 uomini e 26 donne, per un totale di 419), Benevento (218 di cui 193 uomini e 25 donne). In tutta Italia le misure alternative alla detenzione sono una possibilità a cui accedono 143.538 persone. Tanti, infatti, risultano dalle statistiche ministeriali i soggetti presi in carico, con la particolare distinzione fra coloro che risultano presi in carico nel 2020 da periodi precedenti (per un totale di 101.474 casi) e coloro che risultano presi in carico a partire dal 2020 (42.064 casi). Anche sul piano nazionale si nota che la stragrande maggioranza è di sesso maschile (89%), l’11% di sesso femminile. Gli Uffici di esecuzione penale esterna operano nel campo dell’esecuzione delle misure e delle sanzioni di comunità, vale a dire nella sfera che riguarda le possibilità di scontare la pena non per forza all’interno di un carcere. Il lavoro degli Uffici di esecuzione penale esterna si articola in varie aree di intervento: valutazione sulla situazione individuale e socio-familiare nei confronti dei soggetti che chiedono di essere ammessi alle misure alternative alla detenzione e alla messa alla prova; elaborazione e verifica dei programmi trattamentali nelle misure e sanzioni di comunità; svolgimento delle inchieste per l’applicazione, modifica, proroga o revoca delle misure di sicurezza su richiesta della magistratura di sorveglianza; esecuzione del lavoro di pubblica utilità e delle sanzioni sostitutive della detenzione; attività di consulenza agli istituti penitenziari per verificare il buon esito del trattamento penitenziario. Sono attività svolte in sinergia con enti locali, associazioni di volontariato, cooperative sociali per realizzare azioni di reinserimento e inclusione sociale, e in sinergia con le forze dell’ordine per l’azione di contrasto alla criminalità. Nell’ambito delle misure alternative alla detenzione, a livello nazionale si contano 24.582 casi di affidamento in prova al servizio sociale, 17.894 casi di detenzione domiciliare, 1.311 casi di semilibertà. Nell’ambito delle sanzioni sostitutive, secondo dati aggiornati a giugno scorso, sono 4 i casi di semidetenzione e 267 quelli di libertà controllata. Quanto alle misure di sicurezza, 4.863 soggetti sono in regime di libertà vigilata, mentre 784 soggetti svolgono lavori di pubblica utilità per condanne relative a violazioni della legge sugli stupefacenti, 10.745 per violazione del codice della strada e 24.733 sono i casi di messa alla prova. Milano. Nelle carceri milanesi positivi 67 detenuti e 21 agenti askanews.it, 28 ottobre 2020 Sono 50 i detenuti positivi al Covid-19 nel carcere di Milano San Vittore; 16 i casi censiti a Bollate e uno ad Opera. I poliziotti positivi sono complessivamente 21 nei tre istituti penitenziari della città. A rendere noti i dati è il segretario generale del sindacato polizia penitenziaria S.PP. Aldo Di Giacomo. “I dati sicuramente preoccupano, ma preoccupa di più l’immobilismo da parte dell’amministrazione penitenziaria”, ha detto Di Giacomo. Secondo il segretario generale, “bisognerebbe impedire i colloqui con i familiari e l’accesso di tutte quelle persone non indispensabili per un periodo limitato, garantendo comunque loro la possibilità di avere contatto con i loro familiari detenuti” in streaming. “I dati forniti dall’amministrazione penitenziaria - ha detto - sembrano sottostimare il problema o comunque non aggiornati in tempo reale, in quanto i dati forniti dalle nostre strutture ci dicono che i numeri dei contagi sono maggiori”. Per Di Giacomo, “le strutture carcerarie milanesi non sono in grado di poter ospitare e curare decine di detenuti infetti. La maggiore preoccupazione deriva da ciò che potrebbe succedere dal propagarsi del virus in carceri come quello di Milano San Vittore dal punto di vista dell’ordine pubblico ossia di eventuali possibili rivolte. Le organizzazioni criminali all’interno delle carceri italiane sono ancora molto forti e pronte a fomentare nuove rivolte”. Napoli. 4 detenuti positivi nel carcere di Poggioreale, altri 6 in isolamento di Giuseppe Cozzolino fanpage.it, 28 ottobre 2020 Quattro detenuti positivi nel carcere di Poggioreale, altri sei in isolamento. Venerdì fiaccolata all’esterno del carcere da parte dei parenti dei detenuti, preoccupati per le condizioni dei propri cari all’interno della struttura di reclusione napoletana, dove si trovano oltre duemila persone. Sono quattro i nuovi casi di coronavirus all’interno del carcere di Poggioreale. Per altri sei detenuti invece si è in attesa di tampone, ma per ora si trovano in isolamento rispetto agli altri reclusi, per evitare che il focolaio possa espandersi. Il coronavirus, insomma, non teme neppure i muri del carcere, ed ha fatto breccia all’interno della struttura detentiva napoletana intitolata a Giuseppe Salvia, il responsabile del reparto di massima sicurezza del carcere stesso che venne ucciso il 14 aprile del 1981 dalla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo, in un agguato sulla Tangenziale di Napoli, nei pressi dell’uscita dell’Arenella. I quattro casi sono al momento isolati: si tratta di tre persone risultate positive subito dopo l’ingresso in carcere, avvenuto dopo la convalida dell’arresto, mentre il quarto caso riguarda un detenuto nel padiglione Roma che, dopo aver manifestato sintomi comuni all’infezione da Covid-19 come febbre e tosse, è stato sottoposto al test del tampone che ha sciolto ogni dubbio riguardo la sua positività. Sarebbe in ogni caso l’unico dei quattro ad essere paucisintomatico. La sua positività al coronavirus ha fatto scattare l’allarme e l’isolamento per i sei compagni di cella, a scopo precauzionale e che saranno sottoposti a tampone nelle prossime ore. Intanto, c’è apprensione all’esterno da parte dei parenti dei detenuti: all’interno della struttura risultano al momento 2.173 reclusi più il personale della struttura stessa. Il timore dei parenti per la salute dei propri cari ha fatto sì che per venerdì 30 ottobre gli stessi faranno una fiaccolata proprio per richiedere massima attenzione al problema dei reclusi, alle prese come tutti con il Covid che non conosce barriere, muri o celle. Genova. Nel carcere di Pontedecimo salgono a 6 i detenuti positivi genova24.it, 28 ottobre 2020 Tre poliziotti positivi e 5 in isolamento fiduciario. La Uil-Pa: “Abbiamo scritto al presidente Toti affinché solleciti la Asl”. Cresce il contagio nel carcere di Pontedecimo. L’allarme viene lanciato dal segretario della Uil-Pa che in una nota spiega che i detenuti positivi al Covid sono saliti a 6, “mentre per la Polizia Penitenziaria, causa lentezza dei tamponi in attesa oltre ai tre colleghi già positivi, ulteriori 5 poliziotti sono in domiciliazione fiduciaria”. “Occorre tamponare tutti”, poliziotti e detenuti e dichiarare il coprifuoco, evitare qualsiasi forma di colloqui di presenza, attivare tutte le procedure a distanza anche per udienze in Tribunale”. “Ancora una volta un detenuto in isolamento fiduciario è stato tradotto in Tribunale - dice il sindacato - ed era in cella con detenuto positivo al Piano Terra dell’Istituto genovese” A Pontedecimo ci sono attualmente 149 detenuti 80 Uomini e 69 Donne e circa un centinaio di Poliziotti Penitenziari (tra uomini e donne). “Non riusciamo a capire come mai ad oggi l’Amministrazione Penitenziaria non ha provveduto a sollecitare con urgenza l’Asl di competenza aa un celere intervento e per questo motivo stamani abbiamo scritto al presidente della Regione Liguria Giovanni Toti affinché si adoperi anche su una serie di ulteriori misure che riteniamo indispensabili. Varese. Carcere dei Miogni, positivi un agente penitenziario e un detenuto varesenews.it, 28 ottobre 2020 Tracciamento su tutti i soggetti che hanno avuto contatti coi positivi, sottoposti a tampone. La direttrice: “Seguiti i protocolli ministeriali”. Un agente di polizia penitenziaria in servizio al carcere dei Miogni è risultato positivo al tampone SarsCov2, così come un detenuto della struttura: sono in atto tutte le misure di tracciamento e isolamento previste dalle norme. Lo conferma la direttrice della casa circondariale di Varese Carla Santandrea. L’agente è presso il suo domicilio in quarantena mentre il detenuto, asintomatico, verrà trasferito al carcere milanese di San Vittore dotato di strutture sanitarie adeguate. “È stato eseguito il tracciamento di tutte le persone venute a contatto coi due positivi. Nel caso dei detenuti sono stati posti in isolamento e sottoposti a doppio tampone che ha dato esito positivo solo per un soggetto”, ha spiegato la dirigente aggiungendo che “tutte le misure adottate sono state prese in base alle linee guida”. In una Circolare del 14 ottobre 2020 il ministero della Giustizia ha reso noto documenti e comportamenti da seguire da parte dell’amministrazione penitenziaria per la gestione di casi Covid all’interno delle carceri, specificando i periodi di isolamento e quarantena a seconda dei casi Alessandria. Emergenza Covid: al carcere Don Soria la protesta dei detenuti radiogold.it, 28 ottobre 2020 Ieri sera i detenuti del Carcere Cantiello e Gaeta di Alessandria hanno dato vita a una rumorosa forma di protesta: in molti hanno infatti sbattuto oggetti contro le grate delle celle. “Una manifestazione sintomo di malessere e preoccupazione per l’emergenza coronavirus in atto e le sue inevitabili conseguenze sulla vita carceraria” ha spiegato a Radio Gold la direttrice Elena Lombardi Vallauri “nei giorni scorsi avevamo percepito che tutto ciò sarebbe potuto accadere. Voglio precisare che tutto questo non sta però degenerando né in forme di violenza o in atti di vandalismo”. Saluzzo (Cn). Allarme contagi per il personale e i detenuti: “Estendere i tamponi” cuneocronaca.it, 28 ottobre 2020 Riceviamo dalla Segreteria provinciale Fp-Cgil e pubblichiamo: “Quando si parla di realtà carceraria e del suo sovraffollamento, che riguarda una buona parte degli istituti di pena italiani, si pensa quasi sempre ad un problema di giustizia civile che dovrebbe intervenire per dare risposte allo stato della detenzione nel nostro paese. Si realizza quanto significhi la convivenza fisicamente ravvicinata, per questioni di mancanza di spazi interpersonali, solo quando sopraggiungono fattori esterni importanti come quello pandemico. Durante il precedente lockdown già il problema si era posto in modo allarmante, oggi, con l’esplosione della seconda ondata, il mondo carcerario che, sottolineiamo, è composto da carcerati e personale addetto, sta rischiando l’effetto a catena dei contagi a causa dell’impossibilità nel raggiungere il tanto evocato distanziamento fisico. Nel carcere di Saluzzo, per avvicinare lo sguardo alla realtà della nostra provincia, la situazione pare sfuggire di mano di giorno in giorno. Oltre ai carcerati il numero di agenti e personale civile già in stato di positività conclamata è preoccupante, senza tenere conto dei dipendenti che sono attualmente in autoisolamento con sintomi. È evidente che nel microcosmo carcerario, che rappresenta in piccolo la realtà più estesa e complessa dell’intero paese, sarebbe essenziale, in tempi stringenti e in modo sistematico, un tracciamento dei contatti e relativi tamponi per determinare i contagi esistenti e limitarne i danni. Lo affermiamo da mesi, lo abbiamo nuovamente ribadito a settembre quando, in prospettiva alla seconda ondata che si avvicinava, abbiamo richiesto con insistenza che venissero sottoposti tutti i dipendenti, non solo i carcerati, al test sierologico, ben consapevoli di quanto la costrizione in spazi limitati potesse nuovamente precipitare la popolazione carceraria, tutta, in un girone infernale di contagi e malattia. La seconda ondata di Covid-19 dovrebbe trovarci, lo auspichiamo fortemente, un poco più preparati. Come Fp-Cgil chiediamo che la sanità pubblica si faccia carico urgentemente di estendere i tamponi a tutto il personale di servizio, permettendo, in questo modo, il monitoraggio e la tutela nei confronti delle rispettive famiglie e, in prospettiva, di tutta la popolazione”. Firenze. L’appello per il carcere: “Vaccinare i detenuti contro l’influenza” redattoresociale.it, 28 ottobre 2020 A lanciare la proposta i consiglieri di Sinistra Progetto Comune Dmitrij Palagi e Antonella Bundu con Massimo Lensi dell’Associazione Progetto Firenze e l’Osservatorio carcere Camera Penale di Firenze. “L’aumento dei contagi del virus è una condizione che le persone libere possono contrastare con responsabilità e con la piena consapevolezza dei rischi, avendo a disposizione un sistema sanitario che, seppur sotto pressione, riesce a garantire risposte e un’informazione capillare. Nelle istituzioni totali non è così, in particolare negli istituti penitenziari. In questi luoghi - spiegano i consiglieri di Sinistra Progetto Comune Dmitrij Palagi e Antonella Bundu con Massimo Lensi dell’Associazione Progetto Firenze e l’Osservatorio carcere Camera Penale di Firenze - vigono paura e senso di abbandono. La stessa edilizia penitenziaria, strutturata in celle dove la promiscuità è regola, unita al sovraffollamento cronico degli istituti inducono a temere il peggio. Il distanziamento è utopia e le condizioni igieniche sono pessime. Nonostante molti istituti stiano predisponendo misure adeguate di isolamento preventivo per i casi sospetti, tutto ciò potrebbe non bastare nel malaugurato caso di una diffusione dei contagi. Occorre quindi alzare rapidamente il livello dell’attenzione e facilitare la rapidità diagnostica, ad esempio promuovendo la vaccinazione anti-influenzale, come si sta facendo fuori dalle carceri” “Perciò - continuano - pur sperando che si sta già provvedendo, ci sentiamo ugualmente in dovere di rivolgere un pressante appello ai nuovi assessori regionali alla sanità, Simone Bezzini, e alle politiche sul carcere, Serena Spinelli, affinché i 3.247 detenuti negli istituti toscani (dati del 30 settembre scorso) siano inclusi nelle categorie considerate a rischio e sia offerta loro la vaccinazione anti-influenzale, attraverso una campagna interna agli istituti penitenziari da attuare in collaborazione con il Prap (Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria). E infine: “L’assistenza sanitaria alla popolazione detenuta è di competenza del Servizio sanitario regionale. Riteniamo importante - concludono Palagi, Bundu e Lensi - che la Regione attivi velocemente, anche attraverso una corretta e documentata informazione, una campagna che illustri i comportamenti a rischio e raccomandi l’impiego della vaccinazione anti-influenzale in carcere. Bisogna, però, far presto. Il tempo della burocrazia è molto più lento di quello che l’emergenza sanitaria in atto consente. E oggi il vaccino anti-influenzale può ragionevolmente aiutare a distinguere i sintomi del più pericoloso Covid-19”. Viterbo. Detenuto ucciso dal compagno di cella, parziale vizio di mente dell’imputato Il Messaggero, 28 ottobre 2020 Omicidio di Mammagialla, il vizio di mente dell’imputato è parziale. La perizia psichiatrica di Giovanni Battista e Simona Traverso sull’assassino di Giovanni Delfino è stata illustrata ieri, davanti alla Corte d’Assise. Secondo i due psichiatri Sing Khajan, l’indiano 35enne che la notte del 29 marzo 2019 colpì a morte il compagno di cella, non sarebbe totalmente incapace di intendere e volere. Il verdetto dei due professionisti, che hanno accertato che l’imputato è affetto da patologia di natura psichiatrica e lo hanno dichiarato socialmente pericoloso, non escluderebbe però la condanna. La parzialità del vizio mentale potrebbe portare al trentenne solo uno sconto di pena. I periti durante l’udienza hanno infatti affermato che Sing non sarebbe incompatibile con una Rems (residenza per l’esecuzione della misura di sicurezza). Al momento l’imputato, proprio per i diversi episodi di squilibrio, è rinchiuso in una cella di Mammagialla del reparto detenuti psichiatrici, ed è guardato a vista. L’omicidio di cui è imputato si è consumato in carcere; vittima il compagno di cella. Futili i motivi: il litigio tra i due sarebbe legato alla scelta del canale televisivo da vedere o da un accendino non trovato. Il 61enne viterbese era in carcere da agosto. Detenuto per un cumulo di piccole pene, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale, avrebbe dovuto scontare un anno e 9 mesi. Alla libertà mancava poco più di un anno, ma la mano di Khajan gli ha tolto la vita. Sul corpo di Delfino è stata eseguita l’autopsia dal professor Massimo Lancia, che ha confermato una morte violenta. Sing arrivò a Mammagialla dopo aver tentato di uccidere un detenuto nel carcere di Civitavecchia e prima ancora un uomo a Cerveteri. Un comportamento che le autorità carcerarie avrebbero sottovalutato, lasciando il detenuto nel braccio dei comuni senza un’adeguata sorveglianza. Proprio per questo il pm Franco Pacifici ha aperto un altro fascicolo. La prossima udienza, fissata per domani, sarà l’ultima. Alle 10,30 è prevista la discussione con la richiesta di pena da parte dell’accusa. Al termine la sentenza. Santa Maria Capua Vetere. Rischia la vita in cella e l’Italia non rispetta l’ordine della Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2020 “Violato l’articolo 34 della Convenzione”: nuovo ricorso alla Cedu degli avvocati del detenuto che denunciano il Dap per omissione d’atti di ufficio. Succede raramente che la Corte Europea di Strasburgo (Cedu) emetta un ordine specifico (scaturito dalla procedura 39) nei confronti del governo italiano. Ma quest’ultimo non solo non ha rispettato ciò che la Corte ha richiesto, ma secondo i legali Michele Passione, Claudio Solazzo e Marina Silvia Mori avrebbe anche peggiorato la situazione del detenuto (a rischio suicidario a causa della sua condizione psichica) che vi ha fatto ricorso. Ciò potrebbe comportare la violazione dell’articolo 34 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Cedu, come reso pubblico da Il Dubbio, ha intimato lo Stato Italiano di proteggere il detenuto e curarlo in attesa della decisione sull’istanza della detenzione domiciliare. Traferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - Un uomo di 38 anni che durante la sua carcerazione in alta sicurezza, ha tentato ben quattro volte il suicidio nel momento del ricorso alla Cedu. Ma nel frattempo ha compiuto altri due tentativi di impiccagione in un ambiente carcerario incompatibile con la sua problematica psichica. Non solo. Invece di mandarlo in una comunità, o almeno in una articolazione psichiatrica, è stato trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Più precisamente nella famigerata sezione AS, reparto “Tamigi”, teatro di recenti presunti abusi da parte degli agenti penitenziari. Quindi, non solo si è ritornati al punto di partenza, ma c’è stato anche un peggioramento perché - in barba al rispetto della territorialità della pena - si trova recluso in una zona distante dal luogo dei familiari. Sì, perché ciò impedisce il mantenimento dei frequenti rapporti con i propri cari raccomandati dalla relazione sanitaria del carcere di Spoleto (dove era recluso tempo fa) proprio per la loro valenza terapeutica. A ciò si aggiunge il fatto che non effettua più i colloqui giornalieri con lo psichiatra. Altro elemento che costituisce la violazione della decisione assunta dalla Cedu. Non finisce qui. Il Dap ritarda l’invio della documentazione richiesta al Tribunale di Sorveglianza - Come detto, si è in attesa di una decisione da parte del tribunale di sorveglianza di Bari in merito alla “scarcerazione” del recluso per motivi di salute psichica (di recente la Consulta l’ha equiparata a quella di salute). Ma cosa è accaduto? Per ben due volte il Tribunale di sorveglianza barese ha dovuto rinviare il procedimento a causa del Dap che ritarda nel mandare la documentazione richiesta. Quale? In particolare non è ancora giunta la nota nella quale la direzione sanitaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere riferisca se il detenuto sia attualmente ristretto in una sezione “ordinaria” o meno e le eventuali ragioni di tale scelta. Oltre a ciò ancora non hanno pervenuto il programma trattamentale approntato nei riguardi del detenuto. Questo ritardo nel mandare la documentazione ha comportato ben due rinvii di una decisione che si attende ormai da oltre un anno. “Stupisce - scrivono nella memoria gli avvocati Michele Passione e Marina Silvia Mori - che alla immediata comunicazione tra il tribunale di sorveglianza e il Governo non corrisponda una collaborazione altrettanto efficiente tra il Dap (che fornisce documenti al governo) e il Tribunale, nonostante le formali richieste dell’organo giurisdizionale, specie in presenza di una misura provvisoria emessa dalla Corte e temporaneamente connessa alla pronuncia da parte della Sorveglianza”. Per questo motivo l’avvocato Passione del foro di Firenze è passato all’azione depositando una denuncia nei confronti del Dap per omissione d’atti d’ufficio. Contemporaneamente l’avvocata Mori ha richiesto una nuova procedura urgente alla Cedu, per metterla anche al corrente della palese violazione dell’articolo 34 della convenzione. Il caso, grazie a una interlocuzione avviata dagli avvocati, potrebbe approdare in parlamento tramite una interrogazione rivolta al ministro della Giustizia. Bari. L’ex boss malato finisce in coma, il figlio presenta una denuncia di Luca Natile Gazzetta del Mezzogiorno, 28 ottobre 2020 Paolo Abbrescia si è presentato in carcere per il colloquio quando ha saputo del ricovero del padre in Rianimazione. “Non è possibile, suo padre sta male”, si è sentito rispondere e ha depositato una denuncia sui fatti accaduti. “Mio padre aveva quasi completamente pagato il suo conto alla giustizia. Tempo un anno e mezzo, calcolando le possibili riduzioni derivanti dalla buona condotta ma soprattutto dall’aggravamento delle sue malattie, probabilmente sarebbe uscito dal carcere e avrei potuto riabbracciarlo. È malato da molto, molto tempo. Sono rimasto da solo a prendermi cura di lui. Ho chiesto due volte negli ultimi mesi, considerato il rapido aggravamento delle sue condizioni, soprattutto a causa dell’Alzheimer e poi in seguito ad un intervento di ernioplastica alla colonna vertebrale, che gli venisse concessa la detenzione domiciliare a casa mia. Ma nessuna delle istanze è stata accolta. Venerdì 16 sono andato in carcere per il colloquio ma mi hanno detto che non era possibile vederlo e parlargli perché non si sentiva bene. Il giorno dopo mi hanno telefonata dicendomi che le sue condizioni si erano aggravate e che era stato ricoverato in coma al Policlinico. È stato un colpo al cuore. Ora è in Rianimazione, gli hanno messo un tubicino nella gola per farlo respirare. Mi hanno detto che è immobile, quasi fosse un vegetale. Ho paura che non lo vedrò più”. Paolo, 45 anni, non riesce a darsi pace. È il figlio di Francesco Abbrescia, 66 anni, un nome un tempo legato agli ambienti della malavita, considerato vicino al gruppo Fiore. Sta scontando una condanna a 12 anni carcere emessa del Tribunale di Brindisi per reati di droga. “Ha trascorso quasi metà della sua esistenza in carcere mio padre - spiega il figlio - ma non è mai stato un mafioso. Era cambiato, era un uomo solo e malato, due semi paresi facciali quasi gli impedivano di parlare. Aveva perso la lucidità e anche i colloqui in carcere o quelli in videoconferenza erano diventati un supplizio. Sperava di poter tornare a casa. Io lo avrei aiutato a curarsi”. Dopo aver saputo del coma, Paolo Abbrescia si è presentato nell’ufficio denunce della Questura ed ha depositato una denuncia/querela di tre pagine più 10 pagine di allegato in cui ricostruisce la “storia clinica” del genitore, la tempistica e le ragioni delle istanze con le quali, nonostante non il genitore non avesse raggiunto complessivamente la pena per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare, ne chiedeva comunque il riconoscimento in quanto il suo stato di salute avrebbe potuto essere incompatibile “con il regime inframurario in carcere”. “Dopo tanti anni che cercavo di portarlo a casa, per le sue malattie che non possono essere guarite ora è in coma. Diabete ad uno stadio molto avanzato, Alzheimer, calcoli renali, ernie. Soffriva. Ritengo ingiusto che sia rimasto in carcere nonostante il suo stato. Non era più lucido al punto che sono stato io a firmare per lui l’autorizzazione ultima perché venisse sottoposto ad un intervento alla colonna vertebrale. Le ultime richieste per i domiciliari le abbiamo presentate quando abbiamo capito che la sua salute stava precipitando ossia il 5 maggio e poi il 19 settembre. Sono state entrambe rigettate. Non ce l’ho con i giudici, e neppure con i medici ma temo che qualche cosa non abbia funzionato nello scambio di informazioni sul suo stato di salute”. Napoli. Dopo quasi 3 anni ai domiciliari deve andare in carcere per un cavillo di Viviana Lanza Il Riformista, 28 ottobre 2020 Misure alternative alla detenzione. Se ne parla da tempo. Se ne parla come l’unica soluzione possibile a carceri che scoppiano e strutture penitenziarie dove si vive in condizioni inumane e degradanti. Se ne parla ultimamente anche come misura per decongestionare le carceri e contenere i contagi che cominciano ormai a moltiplicarsi nei vari istituti di pena del Paese. Si parte dal principio che la pena deve avere quella funzione rieducativa sancita dalla Costituzione e dal dato di fatto che nelle carceri non si riescono più a garantire condizioni di vivibilità e attività formative adeguate. Eppure accedere alle misure alternative alla detenzione non è sempre facile. Il più delle volte richiede iter procedurali molto complessi. Per ottenere una decisione sulle istanze bisogna passare per la lunga trafila dei documenti da richiedere e produrre e per i Tribunali di Sorveglianza che a Napoli, nonostante gli sforzi di molti magistrati, sono l’imbuto della giustizia perché ci sono vuoti in organico che sembrano voragini e il numero delle istanze è tale da determinare arretrati, attese e ritardi con la conseguenza che si rischia di lasciare in cella persone che potrebbero scontare altrove la loro pena. Uno dei casi più recenti è quello di un giovane napoletano, finito in carcere ormai da 20 giorni per scontare un residuo di pochi mesi dopo aver espiato gran parte della condanna ai domiciliari e senza mai violarli. E tutto a causa di una rigida burocrazia in base alla quale, con la sentenza divenuta definitiva, si finisce in galera senza se e senza ma, salvo poi fare istanza e sottoporre al giudice la valutazione del singolo caso. Possibile? Sì. Il protagonista della storia lo chiameremo Gaetano. Aveva 23 anni nel 2018 quando fu arrestato per rapina. Incensurato, studente e lavoratore, si prestò a fare da complice ad un amico in due rapine. Gaetano aveva l’auto, e la guidò mentre l’altro avvicinò fulmineo le vittime in strada. Presero di mira due donne, una dopo l’altra, e si impossessarono di due cellulari e poco più di cento euro. Gaetano capì subito di aver fatto una cosa sbagliata, ma ormai era troppo tardi. Fu identificato e arrestato nove mesi dopo le rapine. In quei mesi non commise altri reati. Il pm che coordinò le indagini e il gip che firmò la misura cautelare capirono che il ragazzo non faceva parte di certi contesti delinquenziali e optarono per gli arresti domiciliari, evitando che quel giovane potesse entrare in carcere. Gaetano, quindi, affrontò il processo restando ai domiciliari e adottò sin da subito un atteggiamento collaborativo, risarcendo il danno a entrambe le parti lese. Oggi la storia di Gaetano diventa un caso che spinge l’avvocato Paolo Cerruti, suo difensore, a chiedere una riforma del sistema giudiziario e subito la scarcerazione del suo assistito. Ed ecco perché. Gaetano è finito in carcere ormai 20 giorni fa, è stato rinchiuso a Poggioreale quando la condanna è sì divenuta definitiva ma è anche in gran parte già espiata. “Chiedo che a questo giovane venga concessa la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale - sottolinea l’avvocato Cerruti - Lo chiedo per evitare che l’intelligente scelta di politica criminale adottata dal pm titolare delle indagini e dal gip che emise la misura e finalizzata a impedire la criminalizzazione di un giovanissimo e incensurato lavoratore, venga vanificata con una ingiusta e lunga detenzione inframuraria, sia pure solo per il tempo strettamente necessario ad ottenere i benefici penitenziari”. Sulla storia di Gaetano pesa la rigidità di una burocrazia che non riesce a guardare all’uomo, al singolo caso. Non subito almeno. Gaetano ha già espiato due anni e otto mesi di reclusione ai domiciliari con l’autorizzazione a recarsi ogni giorno a lavoro e in quel tempo non ha mai violato alcuna prescrizione. Eppure è finito in carcere. Da quasi tre settimane è in cella a Poggioreale nonostante un residuo di pena di sette mesi e 15 giorni. E chissà quanto dovrà aspettare perché tutti i documenti che lo riguardano completino il farraginoso iter burocratico e la sua istanza sia valutata dal magistrato di sorveglianza. A ciò si aggiunga che siamo in periodo di emergenza Covid e i tempi della giustizia sono ancora più dilatati. È proprio di ieri una circolare del presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Adriana Pangia, che prolunga fino al 31 gennaio 2021 le misure per scaglionare accessi negli uffici e udienze. Roma. A Rebibbia picchiano una detenuta, due agenti penitenziari sospesi Il Messaggero, 28 ottobre 2020 “Personalità del tutto spregiudicate”. É quanto scrive il giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza con cui ha disposto la sospensione dalle funzioni per un anno dei poliziotti. Una storia di omissioni, falsi ma soprattutto di violenza avvenuta nel carcere femminile di Rebibbia. I fatti risalgono allo scorso luglio e ora per due agenti della penitenziaria, una sovrintendente e un assistente capo coordinatore in servizio nell’istituto, è arrivata la sospensione dalle funzioni per un anno. Per i due, dopo le indagini del sostituto procuratore Giulia Guccione, l’accusa è di concorso in falso ideologico e di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La misura cautelare interdittiva è stata disposta dal gip di Roma: gli agenti come documentato anche dal sistema delle telecamere per la sorveglianza interna, hanno fatto uso della forza nei confronti di una detenuta, attestando in maniera falsa quanto avvenuto nella notte tra il 21 e il 22 luglio scorso, riportando nella successiva relazione di servizio fatti risultati non veritieri, come l’aggressione della detenuta nei confronti della poliziotta in realtà mai avvenuta, e omettendone altri. “Dalla valutazione del materiale probatorio acquisito emerge un quadro allarmante di condotte poste in essere dagli indagati - scrive il giudice dell’indagine preliminare nell’ordinanza - nei confronti di una detenuta con problemi psichici. In particolare, le specifiche modalità di realizzazione dei fatti contestati tenuto conto che gli indagati risultano avere avuto diverse segnalazioni e condanne disciplinari, appaiono indicative di personalità del tutto spregiudicate che giungono fino a predisporre false relazioni per coprire le proprie condotte, e portano a ritenere per tutti gli indagati un elevato, concreto ed attuale pericolo di recidivanza”. Per il giudice sussiste anche l’elevata probabilità che gli indagati possano determinare un inquinamento probatorio “considerata la realistica possibilità da parte dei due agenti, tenuto conto del contesto ambientale in cui sono maturati i fatti, di ostacolare le indagini - scrive ancora il gip - predisponendo testimonianze di comodo, o avvicinare ulteriori soggetti ancora da interrogare, oppure occultando elementi comprovanti le loro responsabilità”. Brindisi. Polemiche sul carcere, interviene il Garante dei detenuti di Nando Benigno* brindisitime.it, 28 ottobre 2020 Sig. Arena, su segnalazione, ho avuto modo di ascoltare, in differita, la sua trasmissione “Radio carcere”, andata in onda giovedì 22 ottobre 2020. La gravità di alcune affermazioni contenute in una lettera inviata da un gruppo di detenuti della Casa Circondariale di Brindisi” ci trattano peggio dei maiali” e alcuni suoi commenti circa la struttura carceraria di Brindisi definita vecchia, fatiscente e vergognosa, mi hanno convinto a ritornare, in qualità di garante provinciale dei diritti delle persone prive di libertà, dopo un paio di settimane, nella Casa Circondariale di Brindisi per verificare la fondatezza della denuncia e dei relativi commenti. Lunedi mattina 26 ottobre 2020, preannunciato telefonicamente, dalle ore 12,00 alle ore 14,50, ho avuto modo di visitare, accompagnato dal Commissario Capo della polizia penitenziaria, parte cospicua della struttura carceraria: sala colloqui in presenza, sala video-chiamate, almeno 10 ambienti in presenza dei detenuti ivi presenti, colloquiando sulla loro situazione, condizione, problematiche, relazioni, cibo. Ho avuto modo di visitare le stanze contenenti non più di quattro posti letto, angolo cucina, servizi igienici con doccia, tavolo multiuso, armadi, armadietti, sedie ed altro. Nessuno, nessuno su 40 detenuti ascoltati ha rappresentato lontanamente il feroce commento contenuto nella lettera “ci trattano peggio dei maiali” o commenti sulla struttura fatiscente e vergognosa. Le celle erano ben tenute e i presenti ostentavano con orgoglio l’ordine e la pulizia regnante. Ho osservato i luoghi adibiti a passeggiate, socialità, le aule scolastiche con banchi distanziati, gli ambulatori medici e mi sono soffermato a parlare con personale medico ed infermieristico che hanno rappresentato non pochi problemi con la Direzione dell’Asl competente. Alla luce di quanto verificato di persona, la lettera inviata da alcuni detenuti della casa circondariale di Brindisi necessita di alcune considerazioni. Il testo della lettera conteneva alcune richieste - campetto di calcio, celle aperte, tutela dal fumo passivo - ed invocavano un’ispezione del Dap, visto che venivano trattati peggio dei maiali. A tale lettera lei, commentando, ha aggiunto considerazioni ironiche, beffarde e poco rispettose del lavoro altrui. Chiunque è libero di scrivere, fare richieste, esprimere desideri, commentare, irridere al limite dell’offesa. Le richieste dei detenuti devono fare i conti con l’habitat in cui vivono. Se il campetto dove stazionano è fatto di cemento, non può essere adibito a campo da gioco, pena il rischio concreto di forti contusioni, abrasioni, infortuni. La salute prima di tutto è un principio sempre valido o viene invocato a seconda delle circostanze? Se le celle non sono aperte per poter girovagare e stazionare da una stanza all’altra, ci saranno delle valide ragioni per non soddisfare questa richiesta. Nei luoghi chiusi non si dovrebbe mai fumare, a prescindere. il rispetto interpersonale, anche tra detenuti, è la base minima per una convivenza decente. Le ispezioni, i sopralluoghi, ci sono sempre stati e sempre ci saranno, fanno bene a tutti, Direzione, Amministrazione e detenuti. Sono fatti per verificare gli standard dei servizi erogati, del rispetto di regole e diritti di tutti, detenuti, polizia penitenziaria, personale amministrativo, direzione. Serve a verificare la fondatezza di dichiarazioni e denunce, da parte di qualche detenuto. La lettera inviata contiene un’affermazione offensiva e denigrante: “Siamo trattati peggio dei maiali”. Affermazione grave, denigrante e lesiva del lavoro di addetti e volontari; la dedizione di centinaia di persone mortificata da chi si nasconde dietro l’anonimato. Troppo facile lanciare il sasso e nascondere la mano. Tali affermazioni, sul piano giornalistico, andrebbero verificate prima di darle come verità assolute ed inconfutabili. In caso contrario, ogni affermazione proveniente dal carcere sarà di per sé vera. *Garante dei diritti delle persone prive di libertà della Provincia di Brindisi Siracusa. Un immobile confiscato alla mafia diventerà una sartoria per ex detenuti blogsicilia.it, 28 ottobre 2020 Un tempo, un immobile in via Bainsizza, nel quartiere della Borgata, a Siracusa, ospitava i summit mafiosi ma dopo la confisca il Comune ha deciso di riconvertirlo. Diventerà una sartoria dove lavoreranno ex detenuti per favorirne il reinserimento sociale ed economico. La struttura, vasta 100 metri quadrati, sarà suddivisa in tre aree: l’ufficio stile, nel quale i progetti prendono forma e vita; la sartoria, che realizza praticamente tutto ciò che viene progettato ed infine lo showroom, nel quale ogni pezzo realizzato verrà esposto per la vendita al dettaglio. “All’interno dell’immobile sarà realizzato un soppalco in modo da doppiare gli spazi a disposizione - ha spiegato Gaetano Bex, Rup del Comune di Siracusa - Saranno, inoltre, abbattute tutte le barriere architettoniche nell’ottica di un’inclusione sociale maggiore”. “Si tratta di un progetto che mi riempie di orgoglio perché questa - ha detto il sindaco Francesco Italia è la prima volta in cui l’Amministrazione comunale riesce a portare a casa un progetto così ampio e qualificato all’interno del programma di riqualificazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata”. La riconversione dell’immobile è stata possibile grazie al progetto “Le tele di Aracne”, redatto dal Comune di Siracusa, che ha ricevuto il finanziamento ministeriale “Pon Legalità 2014-2020” per favorire “L’inclusione sociale attraverso il recupero di beni confiscati alle mafie”, per un importo di oltre 800 mila euro, di cui il 100% a fondo perduto. “Un esempio virtuoso di un Comune che spende fondi ricevuti nell’ottica della trasparenza” - ha sottolineato Valentina D’Urso, responsabile ufficio gestione e attuazione del Pon legalità. “Un progetto che mira a dare una seconda possibilità ai più giovani - ha affermato Stefano Papa, ministero di Giustizia - L’idea è quella di fare capire che la vita è altra cosa, ben lontana dall’illegalità e che una seconda strada è possibile”. Uno strappo con la società civile che, tramite ago e filo, si vuole ricucire per dare un nuovo futuro. Bari. Si chiude nel carcere minorile il progetto “Caffè ristretto” Gazzetta del Mezzogiorno, 28 ottobre 2020 L’appuntamento oggi alle 14 la proiezione del cortometraggio realizzato con i giovani detenuti. “Quando uscirò dovrò imparare nuovamente a camminare”. Sono le parole di uno dei detenuti dell’istituto penale minorile “Fornelli” la cui testimonianza è contenuta nel cortometraggio “Qui e altrove”. Un lavoro molto intenso che sarà presentato oggi alle 14 all’interno dell’istituto. Si tratta dell’evento conclusivo del progetto per detenuti “Caffè Ristretto” di Teresa Petruzzelli con Mariangela Taccogna. “La possibilità di immaginarsi in nuovo spazio, di esplorare nuovi settori della conoscenza, di ripensare o pensare per la prima volta al proprio benessere attraverso l’alimentazione”: questa l’ispirazione del lavoro che ha quindi dato vita al corto “Qui e altrove”. Ogni ragazzo detenuto nel “Fornelli” ha scritto un suo elaborato che ha ispirato il corto accompagnato dalle musiche originali di Mr. Saxtronic. Alla proiezione, non aperta al pubblico, saranno presenti gli stessi ragazzi, Paola Romano, assessore comunale alle Politiche giovanili e Pubblica Istruzione, Nicola Petruzzelli, direttore del carcere, Giulio Piliero dirigente del Cpia 1 di Bari, le responsabili del progetto Teresa Petruzzelli e Mariangela Taccogna e la polizia penitenziaria. “Caffè Ristretto”, il caffè letterario nel carcere di Bari, uno dei primi a livello nazionale, ha inaugurato questa settima edizione a settembre. Nel corso degli incontri otto detenuti sono stati coinvolti per tre giorni a settimana in attività laboratoriali di scrittura creativa, di lettura, incontri informativi e formativi con personaggi del mondo della cultura e dello sport, imprenditori e giornalisti. Tra gli ospiti di questa edizione di Caffè Ristretto ci sono Manlio Epifania della Masseria dei Monelli, Angelo Santoro della cooperativa Semi di vita, Mariella Lippo di Artemisia, Piero Schepisi presidente della cooperativa Unsolomondo, Francesco Giannico dell’associazione Musica e Natura, Sebastiano Loseto di Barproject-Ass Splash, Gianni Macina di In.Con.Tra e Dino Bartoli istruttore federale di Judo. Il progetto finanziato dall’assessorato alle Politiche giovanili del Comune e dall’assessorato al Diritto allo studio e alla Formazione della Regione, con il patrocinio dell’ufficio Garante dei diritti dei detenuti, è ormai un punto di riferimento culturale non solo per i detenuti e i docenti della scuola carceraria, ma per tutta la cittadinanza. Gli ospiti e interlocutori dei laboratori di scrittura e lettura (giornalisti, critici, editori, artisti, scrittori, testate giornalistiche, studenti, politici, associazioni di volontariato e culturali) sono diventati parte attiva del processo relazionale e del dibattito con i detenuti della casa circondariale. Una forma diversa di giustizia e di società recensione di Niccolò Nisivoccia Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2020 “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”, di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti. Esiste un’altra forma di giustizia, che non si accontenta delle sentenze dei tribunali, della parola del giudice, della chiusura dei torti e delle ragioni in una formula di condanna o di assoluzione: ed è la giustizia riparativa, la cui espressione più tipica è la mediazione penale - praticata in Italia da più di vent’anni ormai, ma ancora priva di una legge che la istituzionalizzi. Secondo la più classica delle definizioni, la mediazione è un procedimento attraverso il quale un terzo imparziale tenta, mediante scambi fra le parti, di permettere loro di confrontare i rispettivi punti di vista per cercare una soluzione, o meglio una gestione, del conflitto che le oppone. Nella mediazione il reato non viene guardato tanto come un’offesa a un bene giuridico protetto dall’ordinamento, come la semplice violazione di una norma penale, quanto come un’esperienza di ingiustizia che frattura il “patto di cittadinanza” implicito fra gli abitanti di una qualsiasi comunità, nella reciproca attesa gli uni dagli altri di fiducia e riconoscimento. La mediazione ha l’ambizione di offrire qualcosa di più, alle vittime dei reati ma anche ai loro autori, rispetto a ciò che può essere offerto dalle sentenze: un luogo e un tempo per superare insieme, aldilà dei ruoli processuali, le conseguenze generate dal reato. Al centro dell’interesse è la realtà soggettivamente vissuta e non quella fenomenicamente accaduta: è la realtà che viene alla luce attraverso il confronto fra le parti, intese non più solo come una “vittima” e un “autore di reato” ma come due soggetti che portano sulle spalle dei pesi, seppur diversi: le vittime il peso di una ferita o di una mancanza (perché sono vittime, naturalmente, anche coloro che sopravvivono alla morte di un familiare, di un amico); gli autori di reato, il peso di un passato con il quale occorre fare i conti. La mediazione non va in cerca del perdono a tutti i costi: non è richiesto agli autori di reato di ottenerlo, né alle vittime di concederlo. Il perdono appartiene semmai alla coscienza del singolo individuo, nella quale la giustizia non può e non deve entrare; la punizione spetta invece ai tribunali, sulla base della verità processuale accertata. Ma la punizione, quale retribuzione del male compiuto, non cancellale conseguenze lasciate dal reato: ed è appunto su queste che si concentra la mediazione. Negli incontri di mediazione, vittime e autori di reato recuperano una possibilità che il processo non contempla, per come è strutturato: quella di guardarsi negli occhi e di parlarsi, o anche solo di stare le une di fronte agli altri in silenzio. Ecco: in un incontro di mediazione, il silenzio è altrettanto importante delle parole. Nel dialogo, le parole assumono una vita nuova; e così accade anche al silenzio, che nel confronto si dilata, assume a sua volta significati diversi da quelli che può avere nella solitudine e nel soliloquio. Ed è talora proprio nel silenzio, o comunque in gesti privi di parole, che può sciogliersi il senso più profondo di un incontro, come dimostra ad esempio - sul piano letterario - lo straordinario “Patria” di Fernando Aramburu (Guanda), un romanzo sulla fine della guerra dell’Eta, in Spagna, che ha molto a che vedere con i temi della giustizia riparativa. Quando, alla fine del romanzo, le due protagoniste finalmente si ritrovano, dopo essere state a lungo divise dai lutti e dal dolore, si limitano ad abbracciarsi. “Un abbraccio breve”, specifica Aramburu, il quale aggiunge: “Le due si guardarono un istante negli occhi. Si dissero qualcosa? Nientè. Non si dissero niente”. Come si capisce, la giustizia riparativa contiene l’idea di una forma diversa di società, oltre che di giustizia: e la figura di Carlo Maria Martini ne rappresenta un’incarnazione potentissima - perché le idee hanno sempre bisogno di volti e di corpi, di persone in carne e ossa, di destini. Ce lo spiega e dimostra ora un piccolo, memorabile libro appena uscito da Bompiani, “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”, di Marta Cartabia e Adolfo Ceretti. Il libro è un viaggio in quella che Ceretti definisce la “poetica” di Martini: un viaggio nelle sue parole e nelle sue opere, attraverso il suo pensiero e le sue azioni. La Commissione per la verità istituita in Colombia dopo l’Accordo di pace del 2016, la lotta armata, il viaggio dei giudici della Corte costituzionale nelle carceri italiane fra il 2018 e il 2019, la funzione della pena, il senso della detenzione, i limiti della giustizia umana: sono i temi evocati, universali oltre qualunque contingenza storica. Marta Cartabia cita due versi di David Maria Turoldo, “perché ogni uomo/è una infinita possibilità”, che esprimono benissimo la visione del mondo anche di Martini, per la quale nessuno si esaurisce mai in un gesto compiuto, fosse anche il più efferato. Il libro è anche un’occasione, al tempo stesso, per riflettere su un’idea, la giustizia riparativa, nelle sue molteplici declinazioni, e su un uomo, Carlo Maria Martini, sul suo itinerario e sull’eredità che ci ha lasciato. “Mio figlio mi ha insegnato”, di Dino Scaldaferri di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 28 ottobre 2020 Nel nome del figlio: “Mi chiese di salvare gli amici dalla droga”. Dino ha lasciato il lavoro e ha aiutato decine di giovani. Ora ha scritto la propria storia. Ha 82 anni e le suole delle scarpe consumate. Non per trasandatezza, ma perché di chilometri ne ha fatti tanti. Il suo nome è Dino e lo chiamano “Il tenente Colombo”. A dispetto dell’età è sveglio, attento, veloce. Nel 1986 perse il figlio Fabio di 24 anni: a fatica era riuscito a tirarlo fuori dalla droga e per beffa del destino fu mortalmente contagiato dall’Aids. Nei tre mesi finali fu ricoverato in ospedale. Una minuscola stanza. Il padre andava a trovarlo ogni mattina. “Non avevo mai insistito per conoscerlo davvero, non eravamo mai riusciti a parlare apertamente dell’eroina, che era stata al centro della sua vita per così tanto tempo”, si rammarica Dino Scaldaferri. La droga era un tabù, come succede in moltissime case funestate dalla dipendenza: c’erano gli scontri per i soldi, i tentativi di inserimento in comunità. Non il dialogo. In quella stanzetta d’ospedale fu diverso. “Ci aprimmo l’uno con l’altro, finalmente. E io mi incamminai verso quella che chiamo “la mia università” con un maestro d’eccezione, mio figlio. Quei tre mesi mi cambiarono per sempre”, dice. Fabio gli spiegò con parole lucide cosa spinge i ragazzi verso le sostanze, e verso l’eroina in particolare. Come ci si può porre con loro, come aiutarli. Le responsabilità sono condivise, tra genitori e figli. Uno degli ultimi giorni, Fabio gli fece prendere nota di alcuni nomi: erano suoi amici che, come lui, erano caduti nel pozzo della dipendenza. Gli chiese di andare a riacciuffarli nelle piazze dove si facevano con le siringhe, e prendersi cura di loro. È il 5 luglio 1986, quando Fabio se ne va. Dino aveva quasi cinquant’anni e un buon posto come rappresentante per una ditta. Non ci pensa due volte. Rinuncia all’impiego. Mette mano ai pochi risparmi che ha. Partendo dagli amici di Fabio comincia a dedicarsi solo ed esclusivamente ai ragazzi, che con il passaparola diventano sempre di più. Il suo unico obiettivo diventa liberarli dalla droga. Scende nelle strade, scopre le abitudini che annota su un taccuino, come una specie di educatore va nelle carceri e nelle famiglie, nei tribunali e nelle comunità. Li aiuta a reinserirsi e spesso mette a disposizione la sua casa (un ragazzo gli è stato affidato dal Tribunale per un anno intero). “Vado a trovarli nelle comunità di mezza Italia, sanno che con me possono parlare. Cerco di essere presente, cosa che con mio figlio non sono riuscito a fare”. Ma la cosa incredibile è che si è formata una piccola squadra, con lui: alcuni sono ragazzi che ha salvato e adesso a loro volta aiutano, altri sono studenti che hanno ascoltato la sua testimonianza nelle scuole. Uno, in particolare, Alessandro Muliari, oggi ha 27 anni, e lo ha convinto a scrivere un’autobiografia: esce tra poco e si intitola “Mio figlio mi ha insegnato”. Nel libro intervengono anche assistenti sociali, educatori e avvocati. Ormai stanno tutti dalla sua parte. Dicono che ha un modo particolare di agganciare i giovani, di risolvere le situazioni. Ironico e intelligente, come il tenente Colombo. Consulta, il presidente Morelli: “Possibile ridurre i diritti, ma nel giusto equilibrio” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 28 ottobre 2020 “È l’ora della solidarietà anche tra le istituzioni: necessaria la leale collaborazione tra i poteri dello Stato. Nell’emergenza la Corte Costituzionale non si ferma”. “L’allarme per il virus si percepisce pure qui, ma la funzione di un’istituzione di garanzia è ancor più fondamentale in una fase di emergenza; che richiede però una responsabilità collettiva, come ha ricordato il presidente Mattarella”. Nel palazzo della Consulta - la “casa dei diritti” e della loro salvaguardia - il presidente della Corte costituzionale Mario Rosario Morelli sottolinea l’importanza della solidarietà - “valore apicale scolpito nella Costituzione”, dice - per traghettare l’Italia oltre l’emergenza sanitaria. “Dalla solidarietà discende il dovere di evitare comportamenti egoistici e di perseguire sempre l’interesse comune”, spiega il presidente, aggiungendo che “ciò vale sia per le istituzioni che per ciascun cittadino”. Poi ricorda quali sono i parametri applicati dal “giudice delle leggi” nelle sue decisioni, a cominciare dal “bilanciamento dei diritti in gioco”. Questo bilanciamento è una regola che vale sempre, anche durante l’emergenza sanitaria, economica e sociale che vive l’Italia del Covid? “Certo, e comporta un piccolo sacrificio di tutti i valori in campo, perché non esistono “diritti tiranni”. La Corte lo ha scritto, tra l’altro, nella sentenza sull’Ilva di Taranto, quando bisognava trovare un equilibrio tra il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto d’impresa: non ce n’è uno da tutelare in maniera integrale a discapito di altri, ma, in una situazione di conflitto, ciascuno può essere sacrificato, sia pure nella misura minima possibile, per consentire la tutela degli altri. Ciò vale anche nella difficilissima stagione che stiamo vivendo”. Il principio della solidarietà deve tradursi anche in una reale “leale collaborazione” tra poteri dello Stato? “Assolutamente sì. La leale collaborazione non è che il modo di declinare la solidarietà tra le istituzioni. È un principio immanente, e in momenti come quello attuale diventa ancora più pressante la necessità di praticarlo”. Capita spesso, però, che alcuni vostri inviti o moniti al Parlamento, per fare o modificare alcune leggi, restino inascoltati. È mancanza di leale collaborazione? “Ci sono due tipi di inviti: di opportunità, quand’è auspicabile che il legislatore completi una certa disciplina, e di necessità, quando c’è un vuoto normativo e va trovata una soluzione. In quest’ultimo caso, se l’invito non viene raccolto si crea un corto circuito. La Corte, fin quando è possibile, lascia spazio e tempo al legislatore. Nel noto “caso Cappato” sul cosiddetto suicidio assistito, ad esempio, proprio per spirito di leale collaborazione, la Corte ha invitato il legislatore a intervenire ma, affinché quell’invito non apparisse una fuga dalla decisione, ha fissato un termine entro cui legiferare. Purtroppo ciò non è avvenuto e quindi la Corte è intervenuta, ma negli stretti limiti del caso concreto, lasciando comunque al Parlamento il compito di completare la delicata disciplina della materia. Un esempio virtuoso di leale collaborazione si è avuto, invece, con il ricalcolo delle pensioni di inabilità totale, disposto dal Parlamento addirittura a ridosso, e in esecuzione, della deliberazione della Corte”. La scorsa settimana avete deciso di non decidere sulla vicenda di due madri, unite civilmente e con un figlio concepito mediante fecondazione eterologa all’estero ma nato in Italia, che chiedevano l’iscrizione della doppia maternità... “Si tratta di uno di quei temi etici nei quali la Corte si muove tra “Scilla e Cariddi”, come ha detto efficacemente Giuliano Amato in uno dei podcast della “Libreria della Corte”. Si muove, cioè, tra l’obbligo di attuare i diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione e quello di non invadere il terreno di competenza del Parlamento. Ma i diritti da tutelare non sono solo quelli scritti nella Carta. Maestri come Augusto Barbera e Franco Modugno, che abbiamo il privilegio di avere nel collegio, ci hanno insegnato che sono diritti fondamentali anche quelli percepiti come tali nell’evoluzione della coscienza sociale, soprattutto sui temi etici. Sulla doppia genitorialità omosessuale, però, la Corte ha ritenuto che non vi sia ancora nella collettività un idem sentire e quindi ha lasciato il passo al legislatore”. Qualcuno vi ha definiti meno coraggiosi del Papa, che nelle stesse ore della vostra decisione faceva sapere di non essere contrario alle unioni civili omosessuali... “Non è questione di coraggio. La Corte opera nell’ottica della Costituzione, il Papa in quella del Vangelo, che non sempre coincidono”. In un’altra recente decisione molto attesa, avete salvato il contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate, ma solo per un triennio. Vi siete fatti carico di non pesare troppo sul bilancio statale? “Certo, perché anche l’equilibrio di bilancio dello Stato è un valore costituzionale, da bilanciare con la tutela dell’affidamento dei pensionati. Nel comunicato stampa si spiega che il contributo è stato dichiarato legittimo solo per il triennio in quanto questo è l’orizzonte temporale del bilancio di previsione dello Stato. La sentenza chiarirà ulteriormente i motivi della decisione”. Durante l’emergenza Covid la giustizia costituzionale non si è fermata. Siete preparati anche alla seconda fase? “La Corte non si è fermata mai, neppure a Ferragosto. Di recente, è stata prevista una modalità “mista” di partecipazione alle udienze pubbliche: singoli giudici o avvocati eventualmente impossibilitati ad essere presenti, ma solo per motivi legati al Covid, possono partecipare collegandosi da remoto”. Lei è presidente da poco più di un mese e terminerà la sua esperienza a dicembre. È ancora convinto che il criterio dell’anzianità sia preferibile ad altri? “Sì, perché scelte basate su criteri diversi dall’anzianità hanno l’inconveniente di accreditare l’idea di una leadership personale, che può mettere in ombra la collegialità. La rotazione dei “presidenti anziani” garantisce meglio il lavoro collettivo. La Corte si muove sempre collegialmente: nell’approvazione delle decisioni, nella stesura delle sentenze, nelle camere di consiglio giurisdizionali e amministrative, e anche nelle commissioni attraverso la rotazione di tutti i giudici”. Però spunta sempre la polemica sui privilegi di cui godono i presidenti e la lunga schiera degli ex presidenti… “Polemica infondata. L’antica prassi della macchina con autista lasciata non solo ai presidenti ma anche agli ex giudici è stata opportunamente cancellata molti anni fa. I presidenti percepiscono un’indennità di rappresentanza pari a 1/5 della retribuzione, che però entra nel calcolo della pensione solo quando la presidenza supera 10 mesi nell’arco dello stesso anno solare. Quindi, io non la prenderò, come non l’hanno presa altri prima di me. Tuttavia, vuole sapere quanto incide questo presunto privilegio sulla pensione di chi è stato presidente per più di dieci mesi in un anno? Meno di 12 euro lordi al mese, cioè 6 o 7 netti. Temo che chi coltiva l’idea di una corsa alla presidenza per beneficiare di questo “privilegio”, si dovrà proprio ricredere”. Errori e ritardi che ora pesano di Massimo Franco Corriere della Sera, 28 ottobre 2020 Conte si è lasciato irretire dai veti di un grillismo compatto soltanto nei pregiudizi più irresponsabili. Ha una strana eco, la parola “ristoro” applicata all’ennesimo decreto di Palazzo Chigi. Non si capisce se vada declinata come sinonimo di sollievo, o possa diventare un toccasana per le attività delle quali il governo ha deciso la chiusura parziale o totale. È forte il sospetto che si tratti di una misura riparatrice, almeno nelle intenzioni, per errori e ritardi accumulati in questi mesi. Il decreto rischia dunque di rivelarsi una fonte di ulteriore confusione, e dunque di scontento e di protesta in un’Italia ormai non solo scettica ma sconcertata. Sarebbe inopportuno ironizzare sul lessico utilizzato dagli uffici del premier Giuseppe Conte per comunicare provvedimenti giustificati dall’emergenza del coronavirus: la questione è tremendamente seria. Riesce difficile, tuttavia, non osservare che a sottovalutarla da luglio a oggi è stato proprio l’esecutivo. Registrare l’ennesimo cortocircuito nella maggioranza e gli smarcamenti strumentali di questo o quell’alleato serve a poco: anche perché sono mosse delle quali è difficile vedere uno sbocco politico. Sono segnali di frustrazione, non strategie alternative. Ma la novità è che fotografano, per quanto goffamente, uno sfilacciamento del tessuto sociale sempre più accentuato. Il vero allarme al quale Conte e il suo governo dovrebbero prestare attenzione sono non tanto la fine della luna di miele con l’opinione pubblica segnalata dai sondaggi, o gli strappi alleati, quanto i conati di rivolta in molte, troppe città italiane. Sono le avanguardie arrabbiate, confuse e probabilmente infiltrate da estremisti e criminali, di un Paese che si è sacrificato; e di colpo è colto dal dubbio di averlo fatto inutilmente. Le tentazioni dell’opposizione di cavalcare la rabbia delle “piazze” e i distinguo alleati vanno inquadrati in uno sfondo di tensioni difficili da arginare. Si sta diffondendo nel Paese la sensazione di avere buttato via mesi nei quali sarebbe stato opportuno prepararsi alla nuova ondata di contagi: in primo luogo negli ospedali, nelle scuole, nei trasporti pubblici. Invece, Palazzo Chigi si è cullato a lungo nell’autocompiacimento di un “modello italiano” senz’altro non peggiore di altri, ma oggi segnato dall’imprevidenza e dalla mancanza di decisioni degne di questo nome. Avere ritardato un “sì” o un “no” chiari sul prestito europeo del Mes per rafforzare il sistema sanitario sta producendo frutti avvelenati. Conte si è lasciato irretire dai veti di un grillismo compatto solo nei pregiudizi più irresponsabili. Così, il reticolo degli ambulatori sul territorio è rimasto sguarnito e a corto di risorse e di personale. Ci si ritrova di nuovo con gli ospedali investiti da un’ondata di malati spaventati e disorientati. Mancano i vaccini antinfluenzali promessi. Per fare i tamponi si è assistito allo spettacolo umiliante, in primo luogo per le istituzioni nazionali e locali che dovevano garantirli, di file di ore. La parola d’ordine della convivenza con il virus si sta trasformando in un incubo. Ma non si può pensare di esorcizzarlo ricorrendo di nuovo a una chiusura dell’Italia che farebbe precipitare la crisi economica. Sarebbe solo un alibi per coprire la mancanza di strategia di un esecutivo che si è vantato a lungo di avere visione e idee chiare. L’incontro di ieri a Palazzo Chigi tra Conte e le categorie colpite dalle nuove restrizioni arriva opportunamente. Ma c’è da chiedersi perché non ci sia stato prima. Vale per le parti sociali, come per le opposizioni parlamentari. A questo punto, l’unico dovere è di far dimenticare quanto prima la presuntuosa pretesa di autosufficienza degli ultimi mesi. Si ha il diritto di pretendere decisioni serie, rapide e più condivise. E un bagno di umiltà che non nasconda solo il calcolo furbesco di sopravvivere invece di salvare il Paese. Marco Revelli: “Piazze tragiche, ma non si tratta solo di criminali” intervista di Stefano Caselli Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2020 “Sono piazze tragiche, nel senso letterario del termine, perché sono espressione di situazioni nelle quali non si può scegliere tra un bene e un male, tra una soluzione positiva e una negativa. Nelle tragedie, purtroppo, si sceglie sempre tra due mali”. Marco Revelli, torinese, sociologo, di piazze ne ha viste tante, ma mai (o quasi) come quelle andate in scena lunedì sera: “Possiamo dire - sospira - di essere definitivamente fuori dal Novecento”. Professor Revelli, cosa ci dicono queste “rivolte”? Sono manifestazioni abbastanza diverse a seconda delle città, ma emergono due protagonisti: i primi, chiamiamoli esercenti, sono espressione di un’estrema fragilità sociale che ormai colpisce anche categorie apparentemente benestanti e che ha forse un precedente nel movimento dei Forconi del 2013. Non sono state manifestazioni di poveri, semmai di impoveriti, colpiti dalla prima ondata del virus e atterriti dall’idea di precipitare definitivamente con la seconda. Il nostro sistema economico e sociale era già gravemente malato prima, la pandemia ha solo portato in superficie il morbo. Poi ci sono gli altri, i protagonisti dei disordini, per certi versi simili ai Gilet gialli francesi, generalmente provenienti dalle periferie, ragazzotti che normalmente nel weekend fanno lo struscio di fronte alle vetrine degli oggetti del desiderio, scesi in piazza con una logica da riot americani, da una parte per esprimere rabbia, dall’altra per soddisfare desideri, come le immagini dell’assalto all’atelier Gucci dimostrano. Perché parla di uscita definitiva dal XX secolo? Siamo di fronte al prodotto di classi sociali in decomposizione, attraversate da un forte risentimento e invidia sociale: la pancia della nostra società è un serbatoio esplosivo di rancore e mancanza di speranza. La logica è da guerra di tutti contro tutti. Con quale obiettivo? Ogni protagonista di queste proteste vede solo le proprie ragioni - anche valide per carità - ma la mediazione tra le proprie sofferenze e le sofferenze generali non compare mai. È una caduta di orizzonte. Sono piazze di destra? Sono molto esposte a tentativi egemonici di destra, che nel tutti-contro-tutti sguazza molto meglio di chi ragiona in termini di giustizia sociale ed eguaglianza, ma attenzione a liquidare il tutto come fascisteria delinquenziale, sarebbe un inutile esorcismo. Certo, ci sono gli ultras delle curve, ma preoccupiamoci del fatto che queste persone avvertano con chiarezza che esistono momenti di rabbia generalizzata in cui sanno di avere campo libero e molte orecchie pronte ad ascoltarli. Qual è il nemico numero uno? Il cosiddetto decisore pubblico, come se chi governa avesse ora a disposizione decisioni in grado di risolverei loro problemi. Ma purtroppo non ce li ha. Siamo in una condizione tragica, e nella tragedia c’è sempre un fatto che si compie rispetto al quale il comportamento degli uomini è destinato alla sconfitta. Si paga per propria colpa e di colpe ne abbiamo tante - alcuni di più, altri di meno -. Il nemico dovrebbe essere il modello di vita e di organizzazione economica che abbiamo costruito negli ultimi 30 anni, ma con il virus alle calcagna sono inutili elucubrazioni. È possibile un dialogo? Il dialogo richiederebbe di condurre a ragione le questioni, ma non mi pare sia questo il caso. La decisione politica in situazioni come queste (riaprire per non danneggiare, ma rischiare di aggravare l’epidemia) è destinata a sbagliare sempre e comunque. Covid: scienziati e politici, ecco chi ha chiuso gli occhi sulla seconda ondata di Concetto Vecchio La Repubblica, 28 ottobre 2020 Dal premier Conte agli esperti del governo in tanti assicuravano che non avrebbe avuto lo stesso impatto della prima. È il 31 maggio quando Michele Bocci intervista per Repubblica Silvio Brusaferro, il presidente dell’Istituto superiore di Sanità, un professore che abbiamo imparato a stimare per il suo equilibrio. Lei teme una seconda ondata?, gli chiede Bocci. “No, una seconda ondata non è scontata e non si può escludere, ma non si possono fare paragoni con quanto abbiamo vissuto. Comunque non avrà lo stesso impatto della prima”. Lo stesso giorno il Corriere della Sera interpella un altro scienziato consultato spesso in questi mesi: Francesco Le Foche, responsabile del Day Hospital di Immunoinfettivologia del Policlinico Umberto I di Roma. Professore, è possibile una seconda ondata in autunno? “La sposterei più in là, a dicembre, col freddo. Il virus deve avere il tempo di rialzare la testa dopo essere stato fermato dal lockdown. Non credo che a settembre-ottobre l’epidemia sarebbe già in grado di riprendersi proprio per il limitato spazio temporale”. Il ritorno sarebbe feroce come la prima fase? “Non credo che torneremo a vivere un’esperienza tanto tragica. Penso più a un’ondata paragonabile a quella prodotta da una forte influenza”. L’ultimo bollettino di ieri del Ministero della Salute registra 21.994 nuovi contagi da Covid19. Negli ospedali i malati ricoverati sono ormai 13.955, quelli in terapia intensiva 1411. I 221 morti sembrano prefigurare il peggio. Cinque mesi dopo le previsioni dei due professori la “seconda ondata” è arrivata davvero, come una valanga. Ci facciamo tutti tante domande. Si poteva evitare? Cosa sta succedendo? Perché sta succedendo? Non ci avevano ripetuto per mesi che saremmo arrivati preparati alla fase 2? A fine maggio il peggio sembra passato. Il Paese sta per uscire da un durissimo lockdown, tre giorni dopo apriranno le frontiere. “Venite in Italia”, è l’invito del governo ai turisti. Il 31 maggio si registrano 416 nuovi positivi, di cui la metà in Lombardia. Nel Lazio i casi sono appena sei. Ci sono 450 persone nelle terapie intensive, erano dieci volte tanto ai primi di aprile. L’estate è alle porte, la gente ha voglia di mare, prevale un’euforia liberatoria. L’11 giugno Franco Locatelli, il presidente del Consiglio superiore di Sanità, membro del Comitato tecnico scientifico che da febbraio collabora stabilmente col governo, è ospite di Agorà. Dice: “Dobbiamo farci trovare preparati a gestire una seconda ondata di contagi che comunque, se dovesse mai esserci, non ritengo avrà le dimensioni e la portata della prima”. Locatelli, un medico dai toni prudenti, il 20 agosto, al Meeting di Rimini ribadirà questa sua convinzione: “Non sappiamo se ci sarà una seconda ondata Covid, né di che portata sarà, ma non sarà della stessa portata che abbiamo dovuto affrontare a fine febbraio, marzo, aprile perché il Paese è decisamente in grado di individuare e circoscrivere i focolai epidemici e produrre dispositivi individuali per prevenire la diffusione del contagio”. Il 10 luglio, anche Agostino Miozzo, il direttore generale della Protezione civile, sentito dal Corriere della Sera, aveva confermato questa impressione: “Un secondo ondata non possiamo escluderla, ma adesso siamo più preparati. Il sistema di tracciamento è attivo in tutta Italia”. “Siamo più preparati”. “Siamo pronti”. “Non sarà come a marzo”. Sono concetti che il premier Giuseppe Conte ripeterà in molteplici occasioni pubbliche a proposito della “seconda ondata”. “Siamo tutti impegnati a prevenire una seconda ondata” (Conte al Senato, 17 giugno). “Con il piano di controllo territorialmente articolato siamo in condizione di affrontare con relativa tranquillità anche i prossimi mesi” (Conte a un passante incontrato nel centro di Roma, 2 luglio). “Se ci dovesse essere una nuova ondata l’Italia è attrezzata per mantenerla sotto controllo”. (Conte al canale spagnolo Nius, 9 luglio). “L’importante è essere preparati e noi lo siamo. Siamo certi di sapere come limitare un nuovo contagio” (Conte al canale spagnolo Sexta, 9 luglio) La “seconda ondata”, insomma, non ci fa così paura. In quelle settimane emerge una nuova corrente di scienziato, quello che dà il virus addirittura per “clinicamente morto”. Il suo esponente più noto è il medico di Silvio Berlusconi, Alberto Zangrillo, primario dell’Unità operativa di anestesia e rianimazione e terapia intensiva del San Raffaele. Dice: “Tutti dicono che siamo alla fine della prima ondata e attendono l’arrivo della seconda ondata, io credo invece che il virus si possa fermare qua, e da inguaribile ottimista penso che abbiamo un 50 per cento di possibilità che il coronavirus se ne vada”. È il 4 luglio. Quanti italiani partono, forti di un simile viatico, per le vacanze? Eppure altri avvertono in quelle stesse ore dei rischi che tutta l’Europa può ancora correre in autunno se non si attrezza. Una seconda ondata di contagi in Europa, non è questione di se, ma di quando, spiega a fine maggio la dottoressa tedesca Andrea Ammon, consulente scientifico dell’Unione europea. Dice al Guardian: “La questione del secondo picco è quando e quanto grande sarà. Guardando alle caratteristiche del virus, e ai dati sull’immunità nella popolazione dei diversi Paesi, tutt’altro che esaltante fra il 2 e il 14 per cento e quindi con un 85 -90 per cento di persone esposte, la conclusione è che il virus è ancora tra noi e circola molto più che a gennaio e febbraio. Non voglio dare un quadro apocalittico, ma dobbiamo essere realisti”. Anche Anthony Fauci, il direttore del National Institute of allergy and infectious diseases, ha ripetutamente messo in guardia dai pericoli di una seconda ondata e in un’intervista alla Stampa preannuncia: “Non torneremo alla normalità prima di un anno”. E in Italia? I governatori litigano con il governo, e tra loro. Vincenzo De Luca si fa beffa dei lombardi e giura che giammai la sua Campania farà quella fine: “Non succederà mai quello che è successo in Lombardia e in altre parti del Nord dove gli anziani, i malati di Covid, erano per terra perché non c’era un buco dove ricoverarli. Noi ovviamente guardiamo con fiducia alla ripresa. Non è inevitabile ci sia un ritorno dell’epidemia. Poi c’è qualcuno che lavora per portare seccia (jella in napoletano, ndr), tipo quell’esponente politico che conoscete e che lavora perché ci sia una epidemia, ma noi contiamo di scansarla con comportamenti responsabili e una programmazione calibrata sulle ipotesi più pessimistiche”. Oggi la Campania, con 7,3 posti letto in terapia intensiva per 100 mila abitanti, ha il dato più basso di tutte. E nel governo? Il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, un medico eletto senatore nei Cinquestelle, è tra quelli che non ha mai creduto alla forza della seconda ondata: “È possibile che il virus rialzi la testa, ma la vedo molto difficile che ci possa essere una seconda ondata come a febbraio e a marzo Se le cose dovessero andare così dovrebbe andare tutto bene” assicura il 27 luglio. “Dobbiamo tenere alta la guardia, ma pensare a una seconda ondata è difficile”, ripete il 1° agosto, quando gli italiani si contagiano nelle discoteche. E il 5 settembre, le avvisaglie di una ripresa potente del virus sono ormai sotto gli occhi di tutti, dopo l’estate dei bagordi, definisce “la situazione non critica”, perché “il sistema sanitario è in grado di fare fronte alle crescita dei casi”. Il ministro della Salute Roberto Speranza ha sempre mantenuto una posizione prudente e responsabile. Il 27 maggio annuncia 300 posti in terapia intensiva mobili e oltre 4000 in terapia sub intensiva, “perché - preciserà il 2 luglio in Parlamento - non è esclusa una seconda ondata e dobbiamo rafforzare il sistema sanitario”. In un’intervista al Messaggero dice: “Abbiamo stanziato 3,25 miliardi di euro per non contenere una seconda ondata, si sono potenziate la sanità di territorio, la prevenzione, ci sono molti più posti in terapia intensiva e in tre mesi abbiamo assunto 28.182 tra medici e e infermieri”. Prima dello scoppio del Covid c’erano in Italia 5179 posti in terapia intensiva. Il decreto Rilancio, a fine maggio, ne ha previsti altri 3553, per un totale di 8732 posti. Oggi sono 6.628, il 19 per cento dei quali è occupato da pazienti Covid. Ai primi di settembre la situazione nei paesi a noi vicini, specie in Francia e Spagna, è così drammatica che il virologo Lorenzo Pregliasco comincia a temere pubblicamente un autunno caldo. Tuttavia in un’intervista, rilasciata l’11 settembre ad Annalisa Cuzzocrea di Repubblica, il ministro Speranza professa ottimismo: “Io vedo la luce in fondo al tunnel, penso che da qui a un po’ di mesi avremo notizie incoraggianti dal mondo scientifico”. Il 17 settembre Hans Kluge, il capo responsabile dell’Oms, giudica Francia e Spagna “fuori controllo”. Dipinge un quadro allarmante in Europa. In Gran Bretagna ci sono due milioni di cittadini in lockdown. Uno studio americano, pubblicato da Repubblica il 30 settembre, pronostica ventimila contagi in Italia a Natale. Il tir ci sta arrivando addosso, ma Giuseppe Conte continua a fare raffronti con il recente passato, invece che rafforzare gli argini: “Siamo in una situazione diversa da marzo. Allora non avevamo strumenti diagnostici, oggi siamo più pronti grazie al sacrificio di tutti”. Il 6 ottobre Speranza parla alla Camera e dice: “L’Italia sta reagendo meglio in questa seconda ondata, ma non dobbiamo farci illusioni e sarebbe sbagliato pensare di esserne fuori sulla base dei numeri”. Il commissario straordinario Domenico Arcuri, l’uomo delle mascherine, ritiene che “siamo attrezzati a contenere la forza di una seconda ondata”. È il 7 ottobre, e lo afferma al convegno della Federazione dei medici di famiglia a Villasimius. Quel giorno i contagi toccano quota 3678. I malati in terapia intensiva sono già 337. Due giorni, il 9 ottobre, il presidente degli anestesisti italiani, Alessandro Vergallo, suona la sveglia: “Quella che stiamo vivendo in questi giorni potrebbe essere l’inizio della seconda ondata della pandemia: siamo nella fase iniziale di un aumento esponenziale”. I contagi sono schizzati a 5372 casi. Ammetterà Walter Ricciardi, il consulente di Speranza: “È stato sottovalutato il fatto storico che tutte le pandemie hanno una seconda ondata più pericolosa della prima. Bisognava rafforzare il sistema di testing allargandolo a tutte le strutture sia pubbliche private che sono in grado di farlo”. O forse bastava leggere il libro della giornalista scientifica Laura Spinney, che in 1918. L’influenza spagnola racconta come “la seconda ondata” si propagò molto più violenta della prima. Per migliaia e migliaia di italiani “la seconda ondata” è anche la fila ai drive in. Ogni mattina, davanti a quelli del Lazio, dove da ieri bisogna prenotarsi, si formano code chilometriche di automobilisti in attesa di fare i tamponi. Famiglie intere che si svegliano nel cuore della notte per poi incolonnarsi alle cinque del mattino al Labaro o a Santa Maria della Pietà, e una volta qui si armano di pazienza mentre fuori albeggia. Il loro turno al gazebo arriverà sei-otto ore dopo. L’attesa per la risposta al test molecolare, nel Paese che si diceva pronto alla “seconda ondata”, può durare anche cinque giorni. L’immigrazione oltre gli slogan. Fatti e numeri nel Dossier statistico 2020 di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 ottobre 2020 Lo studio. Smentiti i luoghi comuni sull’invasione che non c’è. Crollano gli sbarchi. Aumentano gli irregolari e le persone espulse dal circuito di accoglienza a causa dei decreti Salvini. Migranti più esposti al Covid-19 per le occupazioni che svolgono, il Dossier: “Rappresentano parte della risposta alla pandemia poiché sono loro a lavorare nei settori più critici”. Chi pensa che sia in corso un’invasione di immigrati neri, maschi e musulmani dovrebbe leggere con attenzione il Dossier statistico immigrazione 2020. Si accorgerebbe che molte sue credenze sono slogan che si infrangono di fronte a fatti e numeri. È la “divaricazione tra realtà e rappresentazione” descritta dal sociologo Maurizio Ambrosini. Nel suo insieme il Dossier rappresenta un materiale composito, denso, capace di affrontare molti aspetti di un fenomeno epocale. Dentro si combinano opinioni qualificate e analisi rigorose dei numeri. L’inquadratura allarga e stringe il campo di volta in volta. Così - oltre a mostrare che l’immigrazione in Italia è europea al 49,6%, femminile al 51,8% e da paesi di tradizione cristiana al 51,8% - il rapporto aiuta a inquadrare nel tempo e nello spazio dinamiche importanti e strumenti giuridici corrispondenti. Flussi e presenze. Lo scorso anno gli stranieri in Italia erano 5.306.500. In termini assoluti avevano superato i 5 milioni già nel 2018, in relazione al resto della popolazione sono passati dall’8,2% del 2014 all’8,8% del 2019. Dentro il numero complessivo è inserito un dato preoccupante. Riguarda i cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale. Tra il 2018 e il 2019 sono diminuiti di 101.600 unità, arrivando a 3.615.000. Si tratta in gran parte di un effetto dei decreti sicurezza voluti dall’ex ministro Matteo Salvini che, secondo le stime dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), avrebbero fatto aumentare il numero di clandestini di 120-140.000 unità. Le proiezioni dicono che alla fine di quest’anno sarebbero stati 700mila se non fosse sopraggiunta la sanatoria. La regolarizzazione è stata chiesta da 207.542 lavoratori in nero e 12.986 persone in cerca di occupazione. Meno di un terzo del totale di chi non ha documenti. Accoglienza e sbarchi. Dal combinato delle disposizioni di decreti Salvini e crollo degli sbarchi emerge un altro dato rilevante: i migranti in accoglienza sono scesi da 183.700 nel 2017 a 84.400 a fine giugno 2020. Circa 100.000 persone sono state espulse dai centri in appena 2 anni e mezzo: molte disperse sul territorio tra le fila degli irregolari. Intanto lo scorso anno circa 260mila persone si sono iscritte dall’estero nel nostro paese. Interessante che nello stesso periodo ne siano sbarcate solo 11.471 (dato del Viminale). Lo scarto, scrive nel dossier Angela Silvestrini dell’Istat, “indica come la modalità di arrivo in Italia via mare sia una modalità residua, sebbene gonfiata mediaticamente e politicamente da chi vorrebbe far credere che chiudendo i porti si possano fermare i flussi migratori”. Cittadinanza. I dati sui “nuovi italiani”, poi, mostrano l’inadeguatezza dell’attuale legge che disciplina l’accesso alla cittadinanza. L’anno scorso 227mila persone hanno conquistato il passaporto tricolore. 100mila sono nate e/o vivono all’estero (9mila possono vantare un avo del bel paese, 91mila sono figli di concittadini residenti oltreconfine). 127.001, invece, sono i residenti nello stivale che da stranieri sono diventati italiani. Per loro il percorso a ostacoli è molto più complesso di chi ha un parente italiano, “persino precedente all’Unità”. Covid-19. Nonostante le fake news sui migranti che portano il virus sembrino per il momento arenate, c’è un aspetto importante che il Dossier rileva e va sottolineato: “i migranti, essendo con alta probabilità una fascia giovane, rappresentano parte della risposta alla pandemia poiché sono loro a lavorare nei settori più critici. Ma sono anche più esposti al rischio di contagio, lavorando in settori in cui il lavoro da casa normalmente non è possibile”. Su tutti quello della cura, preso in carico principalmente dalle donne. “Intolleranza e razzismo hanno costretto mio figlio a scappare” testo raccolto da Giusi Fasano Corriere della Sera, 28 ottobre 2020 Lo sfogo del padre di un 19enne: “Ora studia negli Stati Uniti e mi manca molto. Da certa Italia se n’è andato con il dispiacere nel cuore quando il colore della sua pelle è diventato un problema” “Intolleranza e razzismo hanno costretto mio figlio a scappare”. Mi chiamo Giovanni, ho 57 anni, vivo a Milano e sono un padre preoccupato. Ho parlato con mio figlio al telefono, ieri. È negli Stati Uniti a studiare e mi manca molto. Un ragazzo fortunato, penseranno tanti di voi, e per molti versi sì, è un ragazzo fortunato. Perché può contare sulla sua famiglia che lo adora, perché non gli è mai mancato niente, perché è intelligente, generoso, disponibile, e perché è stato cresciuto amorevolmente. Per altri versi invece no, non è un ragazzo fortunato. Per esempio perché ogni tanto ha nostalgia dei suoi amici italiani, dei suoi genitori, del suo fratello più piccolo... Dell’Italia, semplicemente. E allora perché non torna? chiederete voi. Perché mio figlio - che ha 19 anni - qui da noi è stato aggredito da un virus che stava consumando la sua allegria e la sua voglia di vivere. Quel virus si chiama razzismo. Mio figlio è un ragazzo di colore e dall’Italia - da certa Italia, sia chiaro - se n’è andato con il dispiacere nel cuore quando la sua pelle è diventata un problema. Un copione che si è ripetuto poi anche per suo fratello, che però è troppo piccolo per vivere lontano da casa. E io prego il cielo ogni santo giorno che non torni da scuola o da qualunque altro posto con un’umiliazione da raccontare. Lo so bene, di questi tempi l’attenzione di tutti è per l’altro virus, quello che ruba il respiro. Lo so che nei pensieri della gente non c’è molto spazio per tutto quel che non è covid. Lo capisco. Ma mi permetto di dire che anche in un tempo così segnato da paure e malattia è necessario non abbassare la guardia né la testa davanti all’altro virus, il razzismo. Lo dico in particolare al mondo della scuola, perché è lì dentro che si formano gli uomini e le donne di domani e poi perché nel caso dei miei figli è dalla scuola che mi sarei aspettato un po’ di attenzione e di buonsenso in più. Dire “sporco negro” e “negro di m..”, “black immigrant”, “nigger” a ripetizione, aver preteso che uno di loro si spostasse dalla panchina o dal posto tal dei tali perché “negro”, averlo preso a pugni in testa, avergli detto cose come “il colore della vostra pelle è come la m...”: credo che tutto questo non sarebbe tollerabile nemmeno per un adulto strutturato e paziente. Figuriamoci per un ragazzino! Un giorno la professoressa ha chiamato d’urgenza me e mia moglie: voleva dirci che mio figlio - quello che ora è in America - le aveva confidato di patire tutte quelle vessazioni fino a sentirsi una persona inutile al mondo. “Ho pensato anche al suicidio”, le aveva confessato. Per quello lei ci aveva convocati in fretta, spaventata. Era troppo. Avevamo resistito un bel po’ all’idea di spostare lui e suo fratello perché gli psicologi ci avevano detto che non erano loro a dover cambiare scuola, era la scuola a dover cambiare nei loro confronti. Sto parlando di una scuola internazionale prestigiosa, la quale non nega niente ma giura in mille modi di aver fatto il possibile per rimediare e provare a prevenire gli episodi di razzismo subiti dai miei figli. Peccato che non ci sia stata concessa la sola cosa che noi chiedevamo. Non la luna. A quella scuola avevamo chiesto con insistenza un solo passaggio: discutere di ciò che stava succedendo con tutti i genitori. Far arrivare a loro l’errore dei figli. Non per chiedere punizioni esemplari o per umiliarli, ma perché le famiglie non possono essere estranee a un argomento così importante che riguarda i loro ragazzi. Per dirci di no ci hanno obiettato perfino la questione della privacy. E intanto i miei figli per alcuni dei loro coetanei sono rimasti “sporchi negri”, magari senza che le loro famiglie ne sapessero nulla. “Sporchi negri” dal 2013, quando tutto è cominciato, fino al 2018, quando sono avvenuti gli ultimi episodi contro il minore dei due. Quando il più grande è partito ho provato perfino a non pagare la retta del più piccolo per dar voce alla mia protesta. Risultato: ha dovuto cambiare, oggi frequenta una scuola pubblica e mi sembra felice. Attenzione, però: non ne faccio una questione di pubblico/privato e se con i miei figli qualcuno ha sbagliato lo diranno i magistrati, che devono decidere sia dal punto di vista penale sia civile. Quello che però oggi mi preoccupa, nel mio Paese adorato, è sapere che ci sono persone - ragazzini o adulti poco importa - che possono fare a pezzi la vita di altre persone per il colore della loro pelle. Ma davvero siamo ancora a questo punto? Io ho conosciuto mia moglie a New York, dove ho vissuto per anni. Eravamo lì per lavoro, io direttore artistico e fotografo, lei manager del mondo della moda. Lei è nata ai Caraibi e di madrelingua inglese. I nostri figli sono biologici, il primo è nato a new York e ha il doppio passaporto. Sono entrambi bilingue. La scuola privata costava moltissimo. Tutto questo lo sottolineo per dire che non è una questione di povertà, di ambienti degradati e famiglie disagiate, come si dice. Il razzismo ha radici più profonde, è nella cultura, nell’educazione, nella testa, nell’ignoranza. È un virus potente. Tocca a noi tutti essere vaccino, far sentire la nostra voce, non voltarci dall’altra parte. Proprio come sto facendo io ora, perché ho capito che uscire allo scoperto è un dovere, lo devo prima di tutto ai miei figli. Cannabis, il diritto alla salute senza Speranza di Antonella Soldo Il Manifesto, 28 ottobre 2020 Walter De Benedetto ha 49 anni e da 35 soffre di artrite reumatoide. Ma a definirlo, più della sua malattia, è il suo coraggio, perché Walter ha fatto ciò che nessuno dovrebbe mai essere costretto a fare: rendere pubblica e mostrare la propria sofferenza. Per farne uno strumento di lotta, per il proprio diritto alle cure e per quello di migliaia di altri pazienti. La sua è una malattia infiammatoria cronica autoimmune che colpisce le articolazioni portando progressivamente a una perdita della mobilità e causando dolori continui e lancinanti. Per lenire i quali, dopo aver tentato varie terapie, Walter ha cominciato ad usare la cannabis. Il suo medico gliela prescriveva, ma come accade per molti pazienti, la burocrazia, la mancanza di informazioni e una disponibilità limitata, hanno causato ripetute interruzioni alla terapia. Nel momento in cui è stato necessario aumentare il dosaggio, il Servizio sanitario pubblico non è stato più in grado di soddisfare il bisogno e Walter ha deciso, come fanno molti, di provvedere da sé avviando una coltivazione nel giardino di casa. Dal suo letto ha cominciato a fare ricerche con il cellulare, per capire quali fossero le genetiche più adatte ai suoi dolori, e ha cominciato a ordinare semi da varie parti del mondo. Per un certo periodo, con l’aiuto di un amico, ha estratto il thc con il burro, usandolo per fare dei biscotti. Tutto bene, fino a quando, un giorno verso la fine di settembre dello scorso anno, i Carabinieri non suonano alla sua porta e fanno irruzione in casa. Trovate e sequestrate alcune piante di cannabis alte circa 2,5 metri, Walter dichiara immediatamente sua la proprietà della coltivazione, spiegando che era necessaria per integrare la sua terapia antidolorifica a base di cannabis, questo perché la quantità fornitagli dall’ASL non era sufficiente. Una volta all’interno della sua abitazione le forze dell’ordine si sono trovate di fronte ai suoi problemi motori e si sono rese conto della gravità della situazione. Questo però non è stato sufficiente a risparmiargli l’incriminazione. Così oggi è indagato per violazione dell’articolo 73 del Testo Unico sulle droghe: coltivazione di stupefacenti ai fini di spaccio. Già un anno fa Walter, con un viaggio “faticoso ma carico di speranza” era arrivato, in ambulanza, dalla sua casa di Arezzo fino a Montecitorio. Dove era stato ricevuto dal presidente della Camera Fico. Il 20 ottobre, alla Camera dei deputati, in una conferenza stampa organizzata da Meglio Legale, Walter è tornato ad appellarsi alle istituzioni con un appello al presidente Mattarella. “La cannabis è illegale nel nostro paese e questo fa sì che ancora oggi rimangono pesanti tabù sul suo utilizzo medico. Per come la vedo io, Presidente, ad essere illegale dovrebbe essere solo il dolore. Ed è un vostro dovere istituzionale confrontarvi con questa mancanza”. Accogliere queste parole dovrebbe essere ragionevole e umano da parte delle istituzioni, ma lo scenario è davvero sconfortante. Solo pochi giorni fa, infatti, con un decreto il Ministro della Salute Speranza ha inserito il cannabidiolo, una molecola del Thc senza effetti psicotropi, all’interno della tabella dei medicinali ricavati da sostanze stupefacenti. In altre parole, ha inserito una sostanza non stupefacente nel regime delle stupefacenti. Questa decisione ha avuto un impatto su tutto il mercato degli oli, degli estratti di Cbd che in Italia sono prodotti e venduti da numerosissime aziende e utilizzati da migliaia di persone, per scopi terapeutici e non. Un atto antiscientifico e fortemente lesivo degli interessi legittimi di un intero settore. E responsabile di una grande confusione e che fa temere gravi ripercussioni per i pazienti. L’Afghanistan resta il posto più letale al mondo per i civili di Giuliano Battiston Il Manifesto, 28 ottobre 2020 Rapporto Unama. I Talebani uccidono di più dopo gli accordi con gli Stati uniti. I dati della missione Onu: oltre 2000 i morti da gennaio, meno 30% rispetto al 2019, ma un terzo sono bambinim Kabul, 25 ottobre, funerali di una delle vittime dell’attacco suicida in una scuola della capitale afghana. I Talebani uccidono di più, i bombardamenti afghani sostituiscono quelli americani e il conflitto cambia geografia. Si potrebbe sintetizzare così il rapporto della missione dell’Onu a Kabul (Unama) sulle vittime civili nei primi 9 mesi del 2020, dall’1 gennaio a fine settembre. I morti sono 2.117, 3.822 i feriti. Complessivamente, una diminuzione del 30% rispetto allo stesso periodo del 2019. Ma i dati sono ambivalenti e il confronto con l’anno scorso - uno dei più sanguinosi del conflitto - rischia di restituire un’immagine troppo rassicurante. Il 2020 si è aperto con l’accordo, a febbraio, tra Talebani e Usa sul ritiro delle truppe straniere, è proseguito con l’inizio, il 12 settembre, del negoziato tra Talebani e Kabul, ma la violenza continua. E in alcune province - Balkh, Samangan, Jawzjan, Badakhshan, Ghor, Kapisa, Logar, Khost e Bamyan - è perfino aumentata rispetto al passato. Nonostante i colloqui in corso a Doha, il Paese “rimane uno dei posti più letali al mondo in cui essere un civile”, come certificato pochi mesi fa anche dal Global Peace Index 2020 dello Institute for Economics & Peace, secondo il quale l’Afghanistan è il Paese meno pacifico al mondo (su 163 esaminati) per il secondo anno consecutivo, seguito da Siria, Iraq, Sud Sudan e Yemen. Per il rapporto di Unama reso pubblico ieri, tra le vittime civili più di 4 su 10 sono donne o bambini. I bambini costituiscono il 31% di tutti i morti e feriti, le donne il 13%. Nel caso dei bambini la diminuzione è del 47% rispetto al 2019, ma il bombardamento aereo di una settimana fa sulla madrasa del distretto di Baharak, nella provincia di Takhar, e l’uccisione di 13 bambini, mostra quanto il pericolo sia persistente. E come il conflitto stia cambiando. La missione dell’Onu esprime preoccupazione per l’aumento del 70% delle vittime causate dai bombardamenti aerei delle forze afghane, che oggi causano l’8% delle vittime totali. L’aumento va ricondotto all’accordo tra Washington e i Talebani: da marzo, gli americani non bombardano più, o quasi. Per questo aumentano le vittime delle bombe sganciate dagli afghani, ma nel complesso diminuiscono del 34% quelle riconducibili alle forze governative - sono il 28% oggi -, tra le quali Unama annovera anche gli stranieri, quest’anno responsabili del 2% delle vittime (83 morti, 30 feriti). Senza i bombardamenti americani, il bilancio delle vittime appare più “rassicurante”. Le forze anti-governative - Talebani, Provincia del Khorasan (branca locale dello Stato islamico) e “anonimi” - sono responsabili del 58% delle vittime (1,278 morti e 2,172 feriti). Nel caso dello Stato islamico, nel 7% dei casi: la riduzione è del 61% rispetto al 2019. Qui sta un’altra ragione per i numeri “rassicuranti”: lo Stato islamico colpisce meno. Ai Talebani va attribuito il 45% delle vittime. E dopo l’accordo con gli americani, uccidono di più rispetto al 2019 (6%), a dispetto dei tre periodi di tregua - una delle quali durata 8 giorni - legati al negoziato. Nel complesso causano il 32% in meno di feriti e morti, perché ci sono meno scontri sul terreno (che causano comunque il 38% delle vittime) e attacchi suicidi. La diminuzione potrebbe essere attribuita anche a un altro fattore, la crescita del 51% degli attentati senza paternità: il 7% del totale, cui corrisponde un aumento degli omicidi mirati. I ricercatori di Unama non lo dicono, ma a Kabul non sono pochi a pensare che i Talebani stiano facendo piazza pulita di oppositori presunti o reali - dai mullah dissenzienti ai leader tribali poco ossequiosi - senza alzare troppo la voce. Mentre a Doha, dove è in corso il negoziato con i rappresentanti del governo, rifiutano di accettare il cessate il fuoco umanitario.