Lavoro per i detenuti: l’assurdo attacco di Nando Dalla Chiesa al Garante dei detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 27 ottobre 2020 Stefano Anastasìa risponde all’accusa pubblicata dal “Fatto quotidiano” di voler impedire l’occupazione dei carcerati. Secondo Il Fatto di ieri il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, vorrebbe impedire ai detenuti di svolgere lavori di pubblica utilità. Peccato che non sia andata proprio così. Oggetto dello scandalo è il Protocollo d’intesa “Mi riscatto per il futuro”, per la promozione di lavori di pubblica utilità sottoscritto, il 5 agosto scorso, dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria con l’Azienda di Edilizia residenziale pubblica di Roma e la Regione Lazio. Nando Dalla Chiesa sul Fatto quotidiano critica una lettera inviata dal Garante al Dap e scrive: “Il colpo di scena sta nel suo contenuto: ossia il rifiuto di accettare che i detenuti possano essere impiegati in lavori esterni di pubblica utilità, con corsi di formazione, piccola diaria giornaliera e abbattimento del loro debito economico con lo Stato [...] si rischia di regredire la cultura giuridica del Paese”. Ma Anastasìa non ci sta. L’obiettivo di quella lettera non è vietare ai detenuti di svolgere, anche a titolo gratuito, lavori di pubblica utilità ma di evitare che gli enti pubblici e le aziende private possano sfruttare le persone, approfittandosi dunque di questa possibilità per evitare di dar loro un giusto compenso. In origine questa possibilità fu ipotizzata nel 2012, a seguito della richiesta da parte di numerosi detenuti di partecipare gratuitamente alla rimozione delle macerie dopo il terremoto che colpì l’Emilia-Romagna. L’ex Ministro della Giustizia Cancellieri, nel 2013 accettò che i detenuti svolgessero lavori di pubblica utilità, colmando una lacuna dell’ordinamento che non permetteva ai detenuti di lavorare a titolo gratuito. Vale allora la pena anche raccontare quello che è successo dopo la lettera: una riunione fra il Garante, il Segretario generale della Regione Lazio, il Presidente dell’Ater Roma e il delegato Dap ai lavori di pubblica utilità. Cosa ne è emerso? Tutti d’accordo con il Garante che questo protocollo può essere “rinforzato” sia con percorsi di tirocinio, sia di inserimento lavorativo retribuito. “L’operato del Garante non è indirizzato a non far fare, ma a fare meglio, nell’esclusivo interesse dei detenuti e delle altre persone private della libertà” conclude Anastasìa. Anastasìa: “Non sono contrario al lavoro dei detenuti, se volontario e limitato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2020 Nando dalla Chiesa critica il fatto che il Garante si sarebbe rifiutato di accettare che i detenuti possano essere impiegati in lavori di pubblica utilità. Dopo la polemica lessicale sul fatto che a detta sua è assurdo che il Garante sia definito “delle persone private della libertà” invece “dei detenuti”, il sociologo Nando dalla Chiesa questa volta si scaglia contro una lettera di Stefano Anastasìa, nella veste di garante della regione Lazio delle persone private della libertà. Di cosa parliamo? Di una nota con cui il professore Anastasìa ha espresso la propria opinione su un Protocollo d’intesa per la promozione di lavori di pubblica utilità sottoscritto dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria con l’Azienda di Edilizia residenziale pubblica di Roma e la Regione Lazio. Nando dalla Chiesa, in sostanza, critica il fatto che il Garante si sarebbe rifiutato di accettare che i detenuti possano essere impiegati in lavori di pubblica utilità. In realtà, le cose non sono esattamente come ha capito dalla Chiesa. Non solo. Ha anche scritto che i garanti si sarebbero occupati solo di Dell’Utri nel carcere di Rebibbia, disinteressandosi delle altre persone sconosciute come i migranti. Anche questo ovviamente non è vero. Il Garante monitora i diritti umani di tutti: dal colletto bianco a l’ultimo dannato della terra. Nessuno escluso. Tutto qui? No, ha aggiunto che ci si concentra solo sul 41 bis, “pensato e richiesto dal noto torturatore di Stato di nome Paolo Borsellino”. A parte che a pensare di ripristinare un regime differenziato per i mafiosi in realtà è stato Giovanni Falcone, si dimentica di dire che, ad esempio, il giudice stritolato dal tritolo a Capaci ha anche ideato l’introduzione del 4 bis (reato ostativo) molto più morbido rispetto a quello introdotto dopo la sua morte. Ma per fortuna ci ha pensato la Consulta a farlo ritornare alle origini. Sì, proprio quelle pensate da Falcone: non era un noto “torturatore”, proprio perché molto attento al rispetto del dettato costituzionale. Ma ritorniamo alla lettera incriminata. Il garante Anastasìa l’ha resa pubblica sul suo sito istituzionale in maniera tale che tutti la possano leggere. “Si evince - scrive il garante regionale del Lazio per rispondere alla polemica avanzata da Dalla Chiesa - non solo che non sono contrario a quell’impiego dei detenuti, anche a titolo gratuito, quando esso sia effettivamente volontario e circoscritto nel tempo e nelle cause (come definito originariamente dal legislatore), ma vorrei anzi che gli enti pubblici e le aziende da essi dipendenti facessero di più, facilitando percorsi di inserimento lavorativo retribuito alle condizioni di vantaggio economico e fiscale garantite dalla legislazione in materia di lavoro penitenziario”. Sempre Anastasìa, rimarcando tra le cose che il professor dalla Chiesa evidentemente non sa, rivela che c’è anche il seguito di quella lettera: una riunione con il Segretario generale della Regione Lazio, il Presidente dell’Ater Roma e il delegato Dap ai lavori di pubblica utilità in cui si è convenuto di verificare la possibilità di “rinforzare” il protocollo con percorsi di tirocinio e di inserimento lavorativo nelle forme previste dalla ordinaria legislazione nazionale e regionale in materia. “Segno evidente - conclude Anastasìa - che l’operato del Garante non è indirizzato a non far fare, ma a fare meglio, nell’esclusivo interesse dei detenuti e delle altre persone private della libertà”. Bonafede ci dica chi ha messo il veto su Nino Di Matteo a capo del Dap di Giulia Sorrentino Libero, 27 ottobre 2020 Un tema caldo, che ancora non ha una risposta, quello del capo del Dap. Un posto fondamentale, un ruolo che in Italia negli ultimi mesi ha fatto discutere e non poco. La domanda è: perché lì non c’è Nino Di Matteo? Magistrato con la M maiuscola, nonché l’uomo più scortato d’Italia. Ma Bonafede ancora non ha risposto, per quanto in realtà dica già di averlo fatto. Ma la risposta purtroppo può darcela solo lui, perché è stato proprio lui a chiamare Di Matteo chiedendogli di ricoprire quel ruolo o, in alternativa, quello di direttore generale degli affari penali (posto peraltro all’epoca già occupato, quindi teoricamente non disponibile), che corrisponderebbe al posto che al tempo occupava Giovanni Falcone. Ma ai tempi di Falcone quel ruolo aveva un peso specifico completamente diverso rispetto ad oggi, basti vedere la gerarchia. Di Matteo aveva 48 ore per decidere, ma il ministro si è tirato indietro, proprio quando Di Matteo andò da lui dicendo che avrebbe accettato. Ma prontamente Bonafede risponde con una frase agghiacciante: “Accetti il posto agli affari penali perché vedrà che lì non ci saranno né dinieghi né mancati gradimenti”. Chi è che non gradisce Nino Di Matteo? Ci risponda ministro, perché da giovane che deve ancora farsi le ossa in questo Paese che grida vendetta ho paura, e tanta, nel sapere che le decisioni vengano prese in un certo qual modo molto opinabile. Lei ha il dovere di dirci perché, se è stato a causa delle rivolte scoppiate nelle carceri o perché il mattino dopo si era svegliato sul fianco sbagliato. Ma qualunque sia la motivazione deve venire a galla, per rispetto verso la nostra intelligenza, e soprattutto perché la trasparenza è sempre stato il motto del movimento Cinque Stelle, anche se ultimamente mi sembrate un po’ confusi, ma questo è un altro discorso. Vorrei inoltre porre l’accento su un altro compagno di merende di Bonafede (presumo), ovvero Gaetano Pedullà, che si è permesso di dire: “Lei Giletti sta aiutando le cosche”: una frase che andrebbe punita severamente, perché una leggerezza simile in diretta nazionale non può passare in sordina. Il favoreggiamento personale è punito dall’articolo 378 del codice penale, con reclusione fino a quattro anni. Direi che ha parlato non a sproposito, ma di più. Giletti può starle antipatico, e questo se lo tenga per sé o meno, non sta a me deciderlo, ma dire che proprio lui sta favorendo la mafia credo sia negazionismo storico nonché un tentativo spregevole di rivendere Bonafede. Sono una delle tante, ma non mi fermerò, che chiede a Bonafede una risposta, perché vi dimenticate di noi giovani che ci battiamo per tematiche sociali e politiche che non chineremo la testa davanti al silenzio. “Destini incrociati” rinviato ma il teatro in carcere diffonde i suoi lavori attraverso la Rete di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 ottobre 2020 “Siamo dispiaciuti di dover rinviare la Rassegna nazionale di teatro in carcere Destini Incrociati 2020 ma anche attenti a quello che sta succedendo. Peraltro gli iscritti all’evento quest’anno sono stati davvero molti e riteniamo giusto non mettere a rischio la salute di nessuno”. Con queste parole Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, annuncia la sospensione, a seguito nelle nuove misure anti Covid-19 adottate dal Governo, dell’importante rassegna annuale sul teatro in carcere di cui è direttore. Realizzata con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo e patrocinata dal Ministero della Giustizia, la manifestazione si sarebbe dovuta tenere il 16 novembre al Teatro Palladium dell’Università Roma Tre. Il denso programma dell’edizione 2020 (proiezioni di video su spettacoli realizzati nelle carceri italiane, performance teatrali, laboratori, presentazioni editoriali e assegnazione di un premio) non sarà, tuttavia, annullato ma solo rinviato a un momento più propizio: “Ci auguriamo che la rassegna possa svolgersi nella primavera prossima - precisa Minoia - in modo da costituire un evento-ponte con l’edizione successiva da realizzare entro novembre 2021”. Avrà corso invece, sia pure in modalità streaming, il convegno Teatri delle diversità “Dialoghi tra pedagogia, teatro e carcere”, iniziativa che integra la kermesse di “Destini incrociati”, in programma a Urbania da giovedì a sabato prossimi (29-31 ottobre 2020). È possibile iscriversi gratuitamente all’ evento tramite il sito www.teatridellediversita.it dove a breve saranno pubblicati sei filmati girati negli istituti penitenziari del Provveditorato Emilia Romagna e Marche. Le quattro opere, che avrebbero dovuto essere proiettate a Urbania il 30 ottobre, realizzate negli istituti di Milano Bollate (opera audio dell’Associazione Teatroinbolla), San Gimignano (video della Compagnia Empatheatre), Potenza e Matera (video della Compagnia teatrale Petra), Spoleto (video della Compagnia SineNOmine) andranno invece a integrare il programma della rassegna nell’edizione primaverile. “In questi giorni ci stiamo organizzando per assicurare la traduzione in inglese dei lavori del Convegno. Il collegamento a distanza - conclude Minoia - pur con i suoi limiti, ci permette però di essere seguiti anche dagli appartenenti al Network Internazionale di Teatro in Carcere (Intip - Organismo partner dell’International Thea tre Institute (Iti-Unesco)”. Giustizia e Covid, decreto in arrivo di Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2020 Il guardasigilli consulta avvocati e Anm: l’ipotesi dei processi in remoto. Salgono i contagi negli uffici giudiziari: protesta dei dipendenti a Roma. Evitare un nuovo blocco dell’attività giudiziaria e, allo stesso tempo, salvaguardare la salute di tutti. È quanto sta cercando di fare il ministro Alfonso Bonafede, che già questa sera potrebbe presentare in Cdm un “pacchetto giustizia”, a partire dalle misure di deposito telematico degli atti per gli avvocati. Bonafede ha già analizzato - nel corso di diverse riunioni - le questioni sul tavolo e ieri ha incontrato il presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, Aiga, Ocf, Unione delle Camere penali e Unione delle Camere civili, nonché l’Anm per raccogliere le informazioni necessarie e stabilire “d’accordo con tutti” il da farsi. L’obiettivo è contenere la curva epidemiologica, digitalizzando quanto possibile ed evitando, dunque, i rischi connessi alla presenza fisica negli uffici giudiziari. Così come già in parte avviene in Cassazione, dove ieri è partita la sperimentazione del processo civile telematico. Il decreto dovrebbe vedere la luce in tempi molto brevi. Tra le ipotesi attualmente allo studio anche la possibilità di ripristinare il processo penale da remoto, un’ipotesi sulla quale si sta lavorando “ad ampio spettro”, mentre come annunciato nei giorni scorsi dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, si ragiona anche per l’apertura, “nei limiti del possibile”, dei registri penali, il deposito telematico di atti con valore legale, l’ampliamento dell’utilizzo della posta certificata da parte del difensore e la previsione del compimento di atti processuali a distanza. L’avvocatura, dal canto suo, la semplificazione e l’implementazione delle udienze civili a trattazione scritta, l’obbligo di fissazione di orari scaglionati per le udienze in presenza, l’implementazione del deposito a mezzo pec di atti penali e per i procedimenti davanti al Giudice di Pace, la previsione di deposito di atti presso l’Unep a mezzo pec, con pagamento telematico e la previsione di un legittimo impedimento del difensore causa covid (anche in caso di avvocato in quarantena o in isolamento fiduciario), per tutti i tipi di procedimenti. A via Arenula si starebbe anche valutando la possibilità di ripristinare le misure previste dall’articolo 83 del dl 18/ 2020, in particolare per quanto riguarda i poteri di organizzazione degli uffici e delle attività processuali. L’opposizione di avvocati e magistrati - Una sorta di “federalismo giudiziario” al quale il presidente dell’Aiga, Antonio De Angelis, si dice fermamente contrario, portando come esempio il caos della fase di chiusura dei tribunali, causato dal “proliferare di protocolli e conseguente notevoli difficoltà e incertezze per gli avvocati”. Per tale motivo, De Angelis chiede a Bonafede regole “chiare e uguali in tutti i Tribunali italiani”. Una richiesta avanzata anche dall’Organismo congressuale forense, che chiede maggiore coinvolgimento nel processo decisionale, anche alla luce del fatto che tutti i provvedimenti finora presi nei vari tribunali - così come gli accordi coi sindacati dei dipendenti degli uffici giudiziari sullo smart working - non sono passati dall’ascolto “delle serie e profonde consapevolezze che l’avvocatura Italiana ha in ragione della sua presenza costante e attenta nelle aule di Giustizia”. La richiesta avanzata dal coordinatore Giovanni Malinconico è anche “un uso consapevole, ponderato e integrato delle modalità alternative di svolgimento delle attività di udienza - quali l’udienza da remoto e lo scambio di scritti difensivi in parziale sostituzione dell’udienza in compresenza fisica, nella piena salvaguardia del contraddittorio e delle prerogative della difesa”. Non nasconde i propri timori nemmeno l’Associazione nazionale magistrati, che accusa le istituzioni di rimanere in silenzio. Le critiche riguardano gli applicativi utilizzati per celebrare le udienze, definiti “inadatti” dalla Giunta esecutiva centrale del sindacato delle toghe, con reti di connessione “inefficaci”, mentre la trattazione scritta è consentita solo fino al 31 dicembre, con un procedimento “macchinoso”. Il tutto mentre mancano le dotazioni informatiche per lo smart working del personale giudiziario e si continua a lavorare in aule e spazi “inadatti a ospitare le udienze in presenza”. Insomma, nonostante il lockdown, nulla, secondo l’Anm, sarebbe stato programmato per anticipare la seconda ondata e consentire al servizio giudiziario di non fermarsi. “I magistrati italiani continuano a rendere tale servizio - conclude la nota dell’Anm - senza timore di esporsi in prima persona pur di dare risposta alla domanda di giustizia. Non intendono tuttavia essere identificati come responsabili delle carenze diffuse nonché dei rischi cui vengono esposti gli operatori e gli utenti a causa dell’assenza delle Istituzioni cui la Costituzione affida l’organizzazione del sistema giustizia”. Dipendenti in protesta a Roma - Intanto aumentano, da nord a sud, i contagi nei tribunali, mentre a Milano è stato avviato lo screening sui magistrati e i dipendenti, dopo i casi di contagio dei giorni scorsi, che hanno spinto il procuratore Francesco Greco a limitare gli accessi al Palazzo di Giustizia. Il tutto mentre ieri a Roma, poco dopo le 13, il suono di decine di campanelli si è alzato nell’aria del cortile di Piazzale Clodio. A protestare i dipendenti del Tribunale, sia civile che penale, che attraverso un flash mob hanno manifestato contro la mancata convocazione al vertice sulla sicurezza, in corso in quegli stessi minuti. Il tutto mentre nel Palazzo di Giustizia le misure fondamentali risultano disattese, con mascherine non disponibili, controlli con i termo-scanner non presenti in tutti gli ingressi, regole di distanziamento spesso disattese e spazi inadatti. Parlamento spaccato - “Il ministro non ha mai smesso di monitorare e preoccuparsi, ininterrottamente dall’inizio della pandemia”, assicura il grillino Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera. Ma a insorgere contro Bonafede non sono solo le opposizioni, ma anche una parte di maggioranza. Ovvero Italia Viva, che attraverso Ettore Rosato si dice stupita di essere stata tenuta all’oscuro sul “pacchetto giustizia” annunciato da via Arenula. Per Forza Italia si tratta, invece, di fumo negli occhi. A schierarsi contro il ministro sono due avvocati, il deputato Francesco Paolo Sisto e la senatrice Fiammetta Modena. “La cronica mancanza di programmazione “Made in Bonafede” sta producendo un altro disastro”, sottolinea Sisto, responsabile Giustizia e Affari costituzionali di Forza Italia, che accusa il ministro di non aver “predisposto per tempo un serio piano di prevenzione, nonostante i ripetuti allarmi di questi mesi”. Mentre per Modena “lo stato della giustizia in Italia è al collasso”. Avvocati e studi legali bloccati dal virus e dalla burocrazia, denuncia la componente della Commissione Giustizia, che si associa alla protesta dei penalisti italiani e, in particolare, alle richieste avanzate dal presidente dell’Ucpi Giandomenico Caiazza in merito ai depositi telematici. “Faremo di tutto perché il Governo accetti i suggerimenti che oggi vengono al ministro Bonafede dai vertici delle Camere Penali. In questi mesi - conclude la senatrice Modena - abbiamo continuamente invocato la digitalizzazione dei procedimenti, incremento di personale e una nuova e più efficace cultura della organizzazione. Ma nulla è accaduto e nulla è cambiato. Gli uffici giudiziari, abbandonati a sé stessi, rischiano ora la paralisi. Ministro Bonafede batta un colpo”. “La pandemia avanza nei palazzi di giustizia e le istituzioni mute”, la denuncia dell’Anm Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2020 “I magistrati italiani - lamenta la giunta uscente dell’associazione delle toghe - continuano a disporre di applicativi inadatti per celebrare udienze a distanza, con reti di connessione inefficaci; mancano le annunciate dotazioni informatiche per lo smart working del personale giudiziario; magistrati, avvocati, personale e utenti continuano a utilizzare aule e spazi inadatti a ospitare le udienze in presenza”. Il virus dilaga anche nei Tribunali come racconta la cronaca ogni giorno ma la macchina-giustizia non si può fermare o almeno non lo può fare totalmente. È in questo contesto che arriva la denuncia dell’Associazione nazionale magistrati che parla di “ carenze diffuse” e “ rischi cui vengono esposti gli operatori e gli utenti”. “Mentre i dirigenti degli uffici giudiziari sono impegnati nella redazione dei progetti organizzativi triennali e per i carichi esigibili, la pandemia avanza nei palazzi di giustizia e le Istituzioni competenti sono a oggi silenti”. “I magistrati italiani - lamenta la giunta uscente dell’Anm- continuano a disporre di applicativi inadatti per celebrare udienze a distanza, con reti di connessione inefficaci; la trattazione scritta è consentita solo fino al 31 dicembre, con un procedimento per di più macchinoso; mancano le annunciate dotazioni informatiche per lo smart working del personale giudiziario; magistrati, avvocati, personale amministrativo e utenti continuano a utilizzare aule e spazi inadatti a ospitare le udienze in presenza”. Non solo: “Resta irrisolta la disciplina giuridica delle assenze per quarantena di chi potrebbe efficacemente lavorare da casa”. La conclusione del sindacato delle toghe: “Pare in definitiva che l’esperienza della prima ondata di contagi non sia servita a programmare il futuro immediato e a immaginare misure adatte a un servizio essenziale qual è quello giudiziario”. I magistrati italiani “continuano a rendere tale servizio, senza timore di esporsi in prima persona pur di dare risposta alla domanda di giustizia”. Ma “non intendono essere identificati come responsabili delle carenze diffuse nonché dei rischi cui vengono esposti gli operatori e gli utenti a causa dell’assenza delle Istituzioni cui la Costituzione affida l’organizzazione del sistema giustizia”. Intanto parte oggi il piano di screening di massa con tamponi rapidi negli uffici giudiziari milanesi, gestito dal personale di Ats e organizzato in collaborazione con Regione Lombardia, e che coinvolgerà tutti i lavoratori, magistrati e non solo, del Palazzo di Giustizia, dove ormai da giorni con l’acuirsi dell’emergenza Covid si contano sempre più casi di contagi. I primi test rapidi saranno effettuati in spazi del Palazzo a partire dal primo pomeriggio e riguarderanno oggi una quarantina di persone, tra pm e personale di sei uffici della Procura e poi nel corso di questa settimana lo screening, su base volontaria, proseguirà coinvolgendo tutti gli altri pm e i lavoratori degli uffici del quarto piano. Un piano di tamponi che mano a mano dovrebbe arrivare a coprire le migliaia di persone che lavorano nel Palagiustizia. Solo in Procura ce ne sono circa 1000 e la scorsa settimana soltanto tra i pm si sono contati 6 positivi. Altri casi hanno riguardato, però, anche magistrati del Palazzo, personale di polizia giudiziaria e tirocinanti. Intanto, nelle aule del Palagiustizia e della sezione distaccata di via san Barnaba si è deciso di dare una stretta sulle presenze in aula e di potenziare i processi da remoto laddove ci sia il consenso delle parti. Sta ritornando, infine, ad essere privilegiato lo smart-working. I vertici degli uffici giudiziari stanno muovendosi per evitare sia la diffusione del Covid e sia il blocco dell’attività che ha subito già un notevole rallentamento per l’ondata della scorsa primavera e che ha creato parecchi arretrati. Lo smart working mette a rischio la Giustizia: la denuncia dei magistrati di Isabella Policarpio money.it, 27 ottobre 2020 I tribunali devono fare i conti con strumenti inadeguati e reti Wi-fi inefficienti. Mancano le dotazioni necessarie per lavorare in sicurezza e sostenere lo smart working. I punti critici secondo Anm. Il comparto Giustizia è alle prese con un lento ritorno alla normalità dopo lo stop dovuto all’emergenza sanitaria. Tuttavia l’implementazione dello smart working, ribadito nell’ultimo Dpcm 25 ottobre, rischia di rallentare il lavoro di magistrati e cancellerie a causa dell’inadeguatezza degli strumenti a disposizione. Operatori e utenti nei tribunali, avvocati, magistrati e personale di cancelleria, subiscono “carenze diffuse” e, talvolta, gravi violazioni delle misure di sicurezza anti-Covid: mancata sanificazione degli ambienti e spazi inadeguati a garantire il distanziamento. Queste e altre lamentele in una nota dell’Associazione nazionale magistrati nella quale si evince un’amara conclusione: poco (o nulla) è cambiato dalla prima ondata, restano gravi carenze strutturali e, in alcuni tribunali, il mancato rispetto delle più basilari regole di prevenzione. La nota - durissima - dell’Anm apre gli occhi sui rischi che si profilano nei prossimi mesi per il settore Giustizia; rischi non soltanto legati alla salute di chi frequenta le aule di tribunale ma anche di una possibile “nuova paralisi” a causa della mancanza di strumenti adeguati per proseguire in smart working. “I magistrati italiani - si legge nel comunicato - continuano a disporre di applicativi inadatti per celebrare udienze a distanza, con reti di connessione inefficaci; la trattazione scritta è consentita solo fino al 31 dicembre, con un procedimento per di più macchinoso”. In poche parole, il personale giudiziario non ha le dotazioni informatiche di base per lavorare da casa e gli spazi messi a disposizione sono inadatti ad ospitare le udienze in presenza nel rispetto del distanziamento interpersonale. Vi è poi un altro nodo cruciale: la disciplina giuridica delle assenze per quaranta/isolamento domiciliare. Dunque, almeno per il momento, sembra che i tribunali italiani non siano affatto pronti ad affrontare la ormai conclamata “seconda ondata” e il rischio è paralizzare l’intero apparato della Giustizia come è avvenuto nei mesi passati. Amare le parole con cui si chiude la nota dell’Anm. “Pare in definitiva che l’esperienza della prima ondata di contagi non sia servita a programmare il futuro immediato e a immaginare misure adatte a un servizio essenziale qual è quello giudiziario”. Parole che vogliono denunciare l’assenza delle Istituzioni nonostante le continue sollecitazioni da parte di avvocati e magistrati, i quali, ogni giorno in prima persona rischiano di essere contagiati durante lo svolgimento del lavoro e delle attività connesse. Stesso atteggiamento condannato anche dai praticanti avvocato che dovranno sostenere l’esame di abilitazione il prossimo dicembre; ad oggi, infatti, non è stata ancora pubblicata la circolare contenente le misure di prevenzione da attuare durante le prove scritte. L’attacco di Giulia Bongiorno: “Bonafede è sparito. E il Covid blocca la giustizia” di Liana Milella La Repubblica, 27 ottobre 2020 L’avvocato penalista e senatrice della Lega a Repubblica: “Il Guardasigilli ha fatto passare inutilmente otto mesi senza fare nulla per affrontare l’emergenza coronavirus”. Va in tribunale, da avvocato penalista qual è da sempre, e si arrabbia. Ecco lo sfogo contro il Guardasigilli Alfonso Bonafede di Giulia Bongiorno, senatrice e responsabile Giustizia della Lega. Per una volta lei è d’accordo con l’Anm. E questa, dopo anni di contrasti, è già una notizia. I suoi tweet di oggi vanno a braccetto con l’odierna protesta del sindacato delle toghe. Loro scrivono che “la prima ondata di contagi non è servita a programmare e immaginare misure adatte per un revisionista essenziale come quello giudiziario”. Lei twitta “cos’ha fatto Bonafede in questi mesi per garantire la sicurezza dei tribunali?”. “Bonafede ha gestito malissimo la prima ondata della pandemia: anziché farci lavorare in sicurezza, ha trovato più facile bloccare quasi tutto. Ammesso che fosse impossibile creare misure nell’immediato, adesso sono passati otto mesi ed è tutto come prima. Dalla scorsa primavera avrebbe potuto e dovuto dedicarsi con tutti i mezzi e le risorse a disposizione per garantire la sicurezza dei tribunali. Non lo ha fatto. E oggi ci troviamo in una situazione surreale: si creano assembramenti per adempimenti che ciascun avvocato potrebbe fare tranquillamente dal proprio studio, le aule e gli spazi sono inadeguati e, in assenza di turni e orari ben definiti, nei corridoi dei tribunali o davanti agli ingressi si creano inaccettabili capannelli di avvocati, testimoni e imputati. Sia onesta, il suo attacco al Guardasigilli è la sua prima mossa da responsabile Giustizia della Lega? “Chi segue le vicende politiche sa che quando eravamo al governo ho cercato di collaborare con Bonafede: ho firmato con lui il Codice rosso, una legge che riduce i tempi di intervento in favore delle donne vittime di violenza, ideata da me e da Michelle Hunziker e diventata una delle proposte della Lega. Gli ho anche proposto numerose idee per abbreviare i tempi dei processi senza eliminare le garanzie della difesa, ma sotto questo profilo ha ignorato ogni suggerimento. Ero pronta a sottoporgli proposte anche dai banchi dell’opposizione, purtroppo è inutile: il ministro non c’è, si è inabissato. In questi otto mesi, avvocati, magistrati e personale giudiziario sono stati abbandonati”. La sua affermazione è pesante. Ironicamente, nei tweet, lei si chiede se Bonafede “si augurasse che non sarebbe arrivata la seconda ondata”, adesso sostiene che non ha fatto nulla. Dal canto suo l’Anm parla di “istituzioni oggi silenti”. “Si parla di tanti settori, ma non della giustizia. Come mai? Forse perché negli altri settori esiste la possibilità di fare lo scaricabarile e accusare le Regioni. Ma la totale disorganizzazione della giustizia ha come unico responsabile Bonafede”. Lei scrive ancora: “Ci raccomandano di stare distanti e aerare i locali: ma in tribunale spesso ci sono aule piccole e senza finestre”. Parla per sua esperienza? È stata in tribunale e ha visto tutto questo? “Ho discusso di recente nel processo per il drammatico omicidio di corso Francia. Il gup ha cercato disperatamente un’aula grande, ma non l’ha trovata: avremmo voluto spalancare le finestre, ma in molte aule - quando le finestre ci sono - si possono aprire solo spiragli. Giustamente, il giudice ha chiesto di stare fuori ai giovani praticanti che avrebbero dovuto assistere. Ma simili accorgimenti non bastano quando ci sono molte parti, non si possono garantire un distanziamento e una circolazione d’aria adeguati”. Un solo episodio non basta però... “Pochi giorni fa mi sono ritrovata in un’aula minuscola e senza finestre. È ormai a tutti noto che se in una stanza c’è un positivo, il distanziamento e le mascherine non sono una protezione sufficiente: in assenza di ricambio d’aria, il virus si trasmette comunque. Dunque, se in quell’aula c’era un positivo, è molto probabile che siamo stati contagiati tutti. Dobbiamo solo sperare di non incrociare positivi. A noi che lavoriamo nei palazzi di giustizia si chiede un’implicita accettazione del rischio di ammalarsi: non è più tollerabile”. Ha letto che l’Anm denuncia l’impossibilità di celebrare le udienze a distanza perché mancano reti di connessione efficaci? “Manca tutto. I dipendenti che fanno smart working non sono collegati con i registri quotidiani di lavoro per il personale amministrativo del settore penale (Tiap e Sicp). Quindi possono svolgere pochissime attività. Gli avvocati vengono rimbalzati da un ufficio all’altro e devono districarsi tra divieti e cancellerie chiuse senza preavviso. Ogni Tribunale, poi, ha regole diverse. Fino all’ultimo momento non sappiamo quando sarà chiamata la causa, come si deposita, come si può parlare con un magistrato, se si può far partecipare all’udienza un praticante, a che ora si farà un determinato adempimento. Con un minimo di attenzione e lungimiranza, questi problemi sarebbero stati evitati”. Lei consiglia al ministro Speranza di scrivere a Bonafede dicendogli che esiste la posta elettronica per spedire gli atti ed evitare spostamenti inutili? Solo una battuta ironica o davvero è dovuta andare in tribunale per fare questo? “In ogni apparizione tv, il ministro Speranza chiede di evitare spostamenti inutili: eppure, per depositare qualsiasi atto gli avvocati devono spostarsi, ogni giorno, e spesso prendere aerei e treni per raggiungere il tribunale competente. Questi spostamenti non sono forse inutili, oltre che pericolosi? Perché Bonafede non autorizza a mandare gli atti con la posta elettronica certificata?”. L’Anm oggi fa una denuncia pesante: “Non intendiamo essere identificati come responsabili delle carenze diffuse nonché dei rischi cui vengono esposti gli operatori e gli utenti a causa dell’assenza delle istituzioni cui la Costituzione affida l’organizzazione del sistema giustizia”. Lei sottoscrive questa analisi? “Qui non c’è differenza tra avvocati e magistrati: siamo stati abbandonati tutti, e ne siamo tutti consapevoli”. Nel governo gialloverde lei è stata ministro della Pubblica amministrazione, se in questi mesi lo fosse stata della Giustizia cosa avrebbe fatto? Perché con i palazzi di giustizia che ci sono, poco personale, nonché pochi soldi, non è facile inventare soluzioni brillanti che vadano oltre il lockdown pure dei tribunali. “In otto mesi si sarebbe potuto e dovuto organizzare un sistema per metterci nelle condizioni di lavorare senza correre rischi. Era assolutamente possibile evitare le masse di persone che oggi affollano i tribunali: laddove possibile, con uno smart working effettivo per gli adempimenti degli avvocati o per alcune attività di giudici e cancellieri. In questo modo si sarebbero liberati i palazzi e per le attività che davvero richiedono la presenza si sarebbero potute utilizzare le aule grandi e dotate di finestre... Magari permettendo di accendere i riscaldamenti...”. Ma lei però sa molto bene che la coperta economica della giustizia è molto corta... “Ripeto, in otto mesi, potevano essere individuate anche fuori dai tribunali aule dove celebrare i processi con molte parti. Ad esempio a Milano in occasione di un processo con numerosi imputati è stata individuata un’aula molto spaziosa in zona fiera. Ma è tutto affidato ad iniziative dei singoli uffici. E nessuno parla delle carceri: cosa sta facendo Bonafede al riguardo? Se il virus dovesse diffondersi di nuovo nelle prigioni, ci sarà di nuovo una direttiva del suo ministero per scarcerare i boss? Bonafede è assente. Sparito”. Giudici onorari: la riforma per un giusto riconoscimento corre verso l’approvazione di Valeria Valente* Il Dubbio, 27 ottobre 2020 Sono questi, in commissione Giustizia al Senato, giorni di discussione intensa sulla riforma della magistratura onoraria. Un provvedimento che ha avuto una gestazione lunga in questi anni, dovuta principalmente all’esigenza di ascoltare le associazioni dei magistrati onorari e interloquire poi con Governo e Ministero di Giustizia. Ora che si è arrivati ad un testo base, su cui nei prossimi giorni saranno votati gli emendamenti, sento l’esigenza, per aver seguito direttamente questo percorso, di chiarire le premesse e gli obiettivi di un intervento che giudico decisamente migliorativo per la categoria. Serva questo anche per evitare che polemiche strumentali, fomentate da alcune forze politiche in cerca di visibilità, possano annebbiare il dato di realtà. Oggi qualcuno dice fantasiosamente che il Partito democratico volta le spalle alla magistratura onoraria. È vero esattamente il contrario; non è stato così in passato, non lo è oggi. È stato il Partito democratico, non altri, nel 2017 con il ministro Orlando, dopo anni di proroghe e incertezze subite da tutta la categoria e una procedura d’infrazione aperta in sede europea, ad assumersi la responsabilità di fornire un quadro organico che chiarisse ruolo, tipo di impegno e funzioni dei magistrati onorari. Anche le migliori riforme sul campo possono poi mostrare criticità, e così è stato in questo caso soprattutto in relazione ai magistrati in servizio, problematicità che ora noi vogliamo superare con le misure all’esame del Parlamento. Questi magistrati, lo ricordo, oggi sono complessivamente oltre 5 mila, più della metà dei togati. A tutti loro, nell’ultimo quarto di secolo, sono state affidate funzioni sempre più ampie e impegnative, facendo di fatto crescere una componente magistratuale semiprofessionale e semi-stabilizzata che gestisce al momento una buona fetta del contenzioso di primo grado presso gli uffici del giudice di pace e nei tribunali, garantendo tra l’altro tempi accettabili e l’aggressione dell’arretrato, che altrimenti sarebbe molto più difficile. Alla luce di questa condizione, è chiaro che oggi l’apporto della magistratura onoraria sia irrinunciabile; così come nessuno può realisticamente pensare che non lo sarà anche in futuro. Non per questo c’è bisogno però di sovvertire il dettato dell’art. 106 della Costituzione, prevedendo un reclutamento senza concorso, parallelo a quella della magistratura ordinaria. Intendo dire che temporaneità delle funzioni giudiziarie e natura non esclusiva dell’incarico restano due cardini fondamentali del sistema. All’interno di questi paletti, però, è oggi necessario muoversi per calibrare meglio l’impatto della nuova disciplina, soprattutto su giudici di pace, giudici e viceprocuratori onorari già in servizio. Per questo, dal 2018 il Partito Democratico, prima dall’opposizione poi entrando nella maggioranza di Governo, ha sempre sostenuto la necessità di dare maggiori garanzie, anche economiche, ai magistrati onorari che più avrebbero pagato la fase transitoria disegnata dalla riforma Orlando. Il testo che oggi è all’esame del Senato credo risponda in buona parte a queste esigenze e sia in grado di raggiungere l’obiettivo di non precarizzare ulteriormente un’intera categoria che da oltre vent’anni offre un contributo significativo al nostro servizio giustizia. Va in questo senso la ridefinizione delle incompatibilità e la rimodulazione più equilibrata delle sanzioni disciplinari. Ma soprattutto, per i magistrati in servizio, si prevede da un lato il prolungamento dell’incarico fino a settant’anni e dall’altro la possibilità di scegliere tra l’attuale regime “a cottimo”, oggi in vigore tanto per i giudici di pace quanto per got e vpo e l’indennità fissa, che può arrivare fino a 38 mila euro per chi sceglierà il massimo impiego giornaliero, dando un contributo anche nell’ufficio per il processo o collaborando con il procuratore della Repubblica. Sono poi al vaglio, ma sono fiduciosa che vadano in porto, misure per delineare al meglio il limite massimo delle otto ore giornaliere, anche in presenza di incarico presso l’ufficio del processo o del procuratore. E per allineare l’entrata in vigore del fisso con quella del cottimo, in modo da non penalizzare la scelta tra i due regimi soprattutto da parte dei giudici e dei vice-procuratori onorari. Sono tutte richieste emerse nel dialogo parlamentare grazie al contributo essenziale delle associazioni e poi definite dopo un lungo confronto insieme al Ministero della Giustizia, con cui alla fine abbiamo trovato le risorse finanziarie necessarie. A dimostrazione che mai abbiamo creduto che si potesse fare una buona riforma a costo zero. Al contrario penso invece che oggi, ancora di più con l’esperienza consegnataci dall’emergenza sanitaria, sarebbe necessario investire in una rapida informatizzazione degli uffici del giudice di pace, che hanno bisogno di essere pienamente integrati nell’organizzazione complessiva della giustizia. Infine, c’è il tema che riguarda le tutele assistenziali (maternità compresa) e previdenziali di questi lavoratori. Nonostante sia per ora rimasto ancora fuori dal disegno di legge in discussione, è un tema che va affrontato e risolto. Bisogna essere consapevoli però che, per fornire un quadro di tutele forte e sostenibile, che resta il nostro obiettivo, servono da un lato un percorso chiaro con l’Inps per verificare la sostenibilità della creazione di una apposita cassa di gestione separata e dall’altro, nell’eventualità che questo fosse possibile, una mole considerevole di risorse ulteriori, che con serietà e impegno si possono trovare solo in una legge di bilancio, ragion per cui per ora il tema è stato escluso. Ma possiamo sin da ora impegnarci ad affrontarlo già nella prossima manovra. Per concludere, quello che è ora all’esame della commissione, e che dovrà poi approdare in Aula nel più breve tempo possibile, è un provvedimento che, da un lato, conferma l’impostazione della riforma del 2017 e, dall’altro, accoglie molti dei rilievi che allora vennero fatti dal Csm, oltre che dalle associazioni di magistrati onorari. Ciò dimostra che il tempo trascorso non è passato invano. È invece servito a fornire un inquadramento certo a tutta la magistratura onoraria, coerente con il perimetro disegnato dalla Costituzione e capace di riconoscerle il ruolo che essa ha avuto e avrà, migliorando sensibilmente il trattamento nei confronti dei magistrati onorari in servizio soprattutto a garanzia della loro necessaria indipendenza e autonomia. *Capogruppo Pd Senato Prima Commissione Tra gli antimafia volano gli stracci: “Mafioso sei tu!” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 27 ottobre 2020 La trattativa bis? La tesi che aleggia da sei mesi è che Bonafede abbia subito una sorta di “trattativa”, cedendo alla mafia nel momento in cui ha promesso e non dato a Di Matteo la guida del Dap. Da una parte la compagnia di giro del programma di La7 che difende il traditore di Davigo, dall’altra i soldati di Davigo e Travaglio che difendono l’ex pm e il ministro della Giustizia. I dialoghi sono esaltanti: “mafioso sei tu”, “no, mafioso sei tu”. Altro che il più puro che ti epura. Qui ormai, nel piccolo regno delle manette, si danno del mafioso l’uno con l’altro. Era inevitabile. Parte lancia in resta il giornalista “antimafia” Gaetano Pedullà che scaglia contro Massimo Giletti l’accusa più infamante: “Amico delle cosche!”. Eh sì, perché il conduttore di Non è l’Arena sta dalla parte di Nino Di Matteo, il che agli occhi della corrente davighiana-travagliesca equivale ormai a stare con la mafia. La logica è quella: se non sei con me sei un nemico, e se sei un nemico non puoi essere che un mafioso. E il pubblico ministero della Trattativa è quindi diventato una specie di Totò Riina da quando ha tradito il suo mentore Piercamillo Davigo votando per il suo pensionamento totale, cioè non solo fuoruscita dalla magistratura ma anche dal Csm? Di Matteo è uno con la memoria lunga. Ha aspettato due anni a tirar fuori dalla gola un nocciolino che non andava né su né giù. E ha dichiarato guerra ad Alfonso Bonafede. Perché Luigino Di Maio nel 2018 gli aveva promesso proprio quel ministero di giustizia che poi darà invece al proprio amico siciliano Fefé. Il quale a sua volta, dopo il giuramento da guardasigilli, prenderà in giro il magistrato più scortato d’Italia offrendogli e poi sottraendogli un bocconcino ancor più succulento. Quella presidenza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che vuol dire un impero di 191 carceri, con un bilancio di due miliardi e settecento milioni di euro, con 36.000 agenti di polizia penitenziaria da governare, oltre a quel reparto speciale di non ottima reputazione che si chiama Gom e che controlla i detenuti per reati di mafia. E vogliamo buttare quei trecentomila euro di stipendio che non hanno mai fatto arrossire nessun grillino e neanche Bonafede, mentre agitava lo scalpo di qualche vecchietto ex parlamentare con un vitalizio da quarantamila euro? E quella clausola per cui, in caso di interruzione prematura del rapporto, lo stipendio viene garantito fino alla pensione? Naturalmente non era al potere né al denaro che pensava il magistrato più coraggioso d’Italia quando aveva deciso di accettare l’incarico. Lo avrebbe fatto per spirito di servizio. Ma gli fu impedito, perché il ministro gli fece lo sgambetto preferendogli - a lui che aveva creato addirittura il processo Trattativa - l’oscuro Basentini. E proprio nei giorni in cui dalle carceri speciali i mafiosi più mafiosi di tutti bestemmiavano e imprecavano perché si era sparsa la voce, qualche giornale ne aveva parlato, dell’arrivo di Di Matteo al Dap. Ovvio che Bonafede sia finito sul banco degli imputati. E la piccola compagnia di giro di Non è l’Arena - oltre a Massimo Giletti, Luigi De Magistris, la giornalista Sandra Murri, a volte il pm napoletano Catello Maresca - è compatta al suo fianco, puntata dopo puntata. Una vera campagna elettorale al fianco del consigliere del Csm (per merito di Davigo) che l’ha giurata (“mi difenderò con il coltello tra i denti”) a Bonafede e aspetta vendetta. Gli amici del magistrato più scortato d’Italia puntano abbastanza esplicitamente a far dimettere il ministro di giustizia proprio come il suo protetto Basentini, attaccato sul fronte professionale come su quello personale. In una famosa serata del 4 maggio l’ignaro ministro aveva osato fare una telefonata alla cupa combriccola, aspettandosi quasi dei complimenti perché aveva saputo liberarsi del suo amico capo del Dap dopo tutte le gaffe sulle cosiddette scarcerazioni dei boss. Era invece caduto nella trappola del magistrato più rancoroso d’Italia, il quale gli aveva sputato in faccia il nocciolino custodito in gola per due anni. E intanto le prefiche gli facevano coro. Il povero Bonafede non avrà più pace, da quella sera, strattonato dall’antimafia e dagli agguati dei cronisti di Giletti. Quel che aleggia da sei mesi a questa parte è che il ministro di giustizia abbia subìto una sorta di Trattativa, cedendo alla mafia. L’occhiuto Di Matteo quando sente quella parola sente addosso un prurito formidabile, una sorta di intolleranza alimentare. E, quando il coretto della sua compagnia di giro dice “ci vuole chiarezza”, oppure “il ministro deve rispondere”, e “non doveva permettersi di trattarlo così”, è come se sullo sfondo del palcoscenico brillasse la parola “mafia”. Lo si legge tra le righe ogni giorno sul Fatto quotidiano. Memorabile l’editoriale dell’8 maggio a firma Marco Lillo, in cui pare quasi che i mafiosi che temevano l’arrivo di Di Matteo fossero poi gli stessi che “brindavano” al decreto “Salva Italia” del ministro per far scontare, in mezzo all’emergenza Covid, a casa gli ultimi diciotto mesi di pena. Gli stessi che esultavano per la circolare del Dap che chiedeva fossero segnalati i casi di malati nelle carceri. Aleggia intorno alla persona di Bonafede l’insulto più sanguinoso. Ma nel piccolo circo delle manette ce n’è ormai anche per lo stesso Di Matteo, da quando Marco Travaglio ha definito “sorprendente” il suo voto per la cacciata dal Csm di Piercamillo Davigo. Non pensando mai che il magistrato più coraggioso di nocciolini in gola ne avesse due. Perché l’ex pm di Mani Pulite non si era mai fatto sentire, mentre lui accusava e protestava. Perché mai (figuriamoci, il “dottor Sottile”!) aveva aperto la bocca per sostenere il suo amico. Il quale al Dap forse avrebbe potuto andarci anche nel 2020, una volta estromesso Bansentini. Meglio tardi che mai. Invece no. Ecco perché l’altra sera Gaetano Pedullà ha gridato a Giletti: “Lei sta facendo un favore alla mafia”, aggiungendo che Di Matteo, prima di poter essere difeso, prima di poter stare ancora nella famiglia dei più puri, avrebbe dovuto spiegare il suo voto contro Davigo, la sua seconda vendetta. Poi, come se le due cose fossero collegate, aveva concluso dicendo che “Basentini è una persona di elevatissima caratura”. Tiè, caro Di Matteo, quel posto lì proprio non lo meritavi. E forse, nel metterti contro Davigo, hai ceduto anche tu alla Trattativa. Così ormai sono accusati di essere “mafiosi” un po’ tutti, sia quelli che stanno con Di Matteo (il club di Giletti), che quelli che stanno con Bonafede e Davigo, il circolo di Travaglio. Arriveranno altri più puri dei puri e dei più puri? Stato-mafia secondo Riggio: la Cia, i libici, la Dia, passando per il Sappe di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2020 La versione del collaboratore di giustizia, ex agente penitenziario e poi diventato mafioso di rango. Concluso ieri il controesame da parte degli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito, difensori degli ufficiali Ros Mori e De Donno nel processo di Appello sulla trattativa. L’intrigo internazionale all’insaputa di Cosa Nostra - Se si dovesse prendere alla lettera la testimonianza del collaboratore di giustizia Pietro Riggio, un ex agente penitenziario che è poi diventato un mafioso di rango, Cosa nostra non è in realtà com’è stata dipinta da Giovanni Falcone. La mafia non solo ha ricoperto un ruolo secondario, ma addirittura è stata presa anche per i fondelli dai poliziotti e servizi segreti perfino internazionali. Il telecomando che ha azionato il tritolo a Capaci non sarebbe stato premuto da Giovanni Brusca. O meglio, quest’ultimo lo ha premuto credendo che l’esplosione sia stata merito suo, mentre invece a premere il pulsante vero sarebbero stati i poliziotti che collaboravano con i servizi. Quindi Brusca, ma addirittura Totò Riina che fino agli ultimi giorni della sua vita (pensiamo alle intercettazioni ambientali al 41 bis) ha miserabilmente osannato le sue gesta relative agli attentati di Capaci e via D’Amelio, sarebbero stati dei poveri ingenui. Tutto gestito da “zio Toni” - Ma non c’entrano solo i carabinieri e servizi italiani. A organizzare la logistica dell’attentato di Capaci sarebbero stati addirittura i servizi segreti libici composti da una donna misteriosa, il suocero dell’ex poliziotto Giovanni Peluso facente parte del complotto e un certo Nasser, un ex pugile egiziano ma che era al servizio di Gheddafi. Attenzione, sempre secondo Pietro Riggio, tutti loro (poliziotti, carabinieri della Dia e servizi libici) sarebbero stati gestiti da un certo “zio Toni”, che di nome fa Antonio Miceli, il quale però era al servizio della Cia. Sono sempre loro, in questo caso specifico la Dia, a chiedere a Riggio di fare una sorta di agente sotto copertura all’interno della mafia. Lo scopo? Reperire notizie per catturare Bernardo Provenzano. Anzi no. Riggio - come si evince dall’interrogatorio del 2018 davanti al procuratore di Caltanissetta Gabriele Paci e a quello di Firenze - percepisce un “doppio gioco” e dice di aver capito che la Dia in realtà lo usava per non catturare Provenzano. Qualcuno gli fece anche capire che era in pericolo. Ma non si capisce bene il perché. Ed è il procuratore Paci a farglielo presente con domande serrate e precise, visto che troppe cose da lui raccontante non sembrerebbero avere un filo logico. Dopo un botta e risposta per capire la logica, a pagina 88 del verbale dell’interrogatorio Paci gli chiede testualmente: “Riggio scusi, lei mi deve spiegare il senso di questa frase perché non ha senso: “tu sei un uomo morto, io t’ho salvato perché non hai capito che i carabinieri vogliono acquisire notizie ognuno dai referenti che hanno per non farlo prendere, per non prenderlo’. Allora io veramente non ne esco fuori, noi non ne usciamo fuori. È come dire: “tu stai facendo una cosa inoffensiva, che Provenzano lo sa perché sa che si parla con i carabinieri, gli va bene che li date le notizie. Queste notizie questi non le utilizzano perché non lo vogliono prendere, però io ti ho salvato in vita”. Non fila”. La narrazione prosegue, ma - almeno da quello che si evince dal verbale - si fa sempre più fatica a comprenderla. Riggio parla di tutto, dice anche di aver incontrato il poliziotto “faccia di mostro”, ovvero quello che poi lo ha riconosciuto come tale dopo aver visto le foto sui giornali. Si ricorda che lui (si faceva chiamare Filippo) era su una Bmw, accompagnato da una misteriosa donna con la mimetica. Riggio si ricorda il numero di targa a distanza di decenni. Il pm Paci gli chiede come fa a ricordarselo senza aver segnato il numero su un foglietto, e lui risponde che ha una memoria fotografica. Sempre Paci gli fa notare che tante cose che dice (apprese dal poliziotto Peluso, il presunto 007 conosciuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere) sono notizie già uscite fuori, compresa la storia della famosa telefonata dell’onorevole Rudy Maira fatta alla mafia per avvisare che Falcone sarebbe atterrato a Capaci. Da sottolineare che ci fu un processo e fu assolto, quindi innocente. Una storia, quindi, non vera. Riggio però risponde di non aver appreso della telefonata sui giornali, ma solo da Peluso. Quest’ultimo, ricordiamo, sempre secondo il pentito sarebbe il poliziotto al servizio del Sismi che avrebbe non solo azionato il telecomando per l’attentato di Capaci, ma anche organizzato un attentato - fortunatamente mai arrivato a compimento - negli anni 2000 contro il giudice Guarnotta. Il pentito ha parlato pure del caso di Antonello Montante, anche questa notizia già conosciuta. Riina, Brusca e Co.? Degli ingenui - L’ex poliziotto penitenziario poi passato alla mafia, sembra che conosca tanti segreti. Una narrazione che però - se presa alla lettera - potrebbe far percepire che la mafia sia stata quasi ingenua, come se alla fine fosse tutto organizzato dalle altre “entità”. Riggio lo hanno voluto sentire come testimone durante il processo Capaci bis proprio gli avvocati degli imputati mafiosi. E hanno tutte le ragioni per averlo fatto: se la mafia ha ricoperto un ruolo secondario, o addirittura nemmeno ha azionato il telecomando che ha creato la terribile esplosione, la loro posizione si sarebbe dovuta affievolire. Ma fortunatamente non è stato così e il 21 luglio scorso sono stati confermati gli ergastoli per tutti e quattro i boss. Vale la pena riportare un altro racconto, questa volta si parla di carceri, quando Riggio faceva l’agente di custodia. Dice di aver fatto parte del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria di cui il segretario era (ed è tuttora) Donato Capece. Il pentito, sempre nel verbale del 2018, per spiegare i presunti favori che Forza Italia avrebbe fatto alla mafia, aggiunge questo dettaglio: “La segreteria si trova, per capirci, sopra il bar Mandara a Roma, vicino piazzale Clodio, perché qui ho avuto modo di verificare dove la politica si incontrava con le richieste della mafia perché Capece in contatto con dei personaggi politici che allora facevano parte, diciamo dell’entourage di Forza Italia, cominciò a battersi per la chiusura delle carceri di Pianosa e dell’Asinara”. Ora il Sappe, a parere di chi scrive, ha tanti difetti proprio perché cavalca il populismo penale. Che abbia addirittura indirettamente favorito la mafia non è lontanamente immaginabile. Un po’ tutti i sindacati, per tutelare la qualità di vita lavorativa dei loro iscritti, hanno chiesto la chiusura di questi famigerati penitenziari. Carceri delle torture fortunatamente chiuse nel 1998 tramite decreto, ma non per merito di Forza Italia che nemmeno era al governo. Così come il discorso del non rinnovo automatico del 41 bis per circa 300 soggetti, di cui solo una minima parte erano mafiosi. Lo fece Giovanni Conso, ministro della Giustizia del governo di centrosinistra e per rispettare il dettame della Consulta. All’epoca, anno 1993, Forza Italia ancora non era nata. Anche la tesi della trattativa, d’altronde, non la inserisce in quel contesto. Tanta, troppa confusione sotto il cielo. Ma ci penseranno i giudici a valutare la sua attendibilità. Pietro Riggio, ricordiamo, è sentito come testimone al processo d’appello sulla trattativa Stato mafia. In quell’occasione ha aggiunto qualcosa in più: sarebbe stato Marcello Dell’Utri a dettare alla mafia i luoghi per gli attentati. Un Totò Riina ridotto a fare lo scendiletto dei politici e servizi? Se così fosse, allora è tutta da rifare l’analisi sulla natura della mafia, a partire da ciò che si evince dal libro “Cose di Cosa Nostra” scritto a quattro mani da Marcelle Padovani e Falcone. In realtà quest’ultimo l’aveva capita molto bene la mafia e i suoi interessi affaristico-politici, per questo era stato trucidato con una quantità impressionante di tritolo tanto da squarciare l’autostrada. Stessa sorte, 57 giorni dopo, a Paolo Borsellino. Nel frattempo ieri si è concluso il controesame a Riggio da parte dell’avvocato Basilio Milio e Francesco Romito, difensori dei Ros nel processo d’Appello Stato-mafia. Covid-19, no ai domiciliari per la difficoltà di cure e riabilitazione in carcere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 ottobre 2020 In emergenza è così per tutti i cittadini. Nessuna possibilità di sostituire la misura cautelare per il disabile iperteso se le patologie non lo rendono più vulnerabile al coronavirus e non sono incompatibili con la detenzione. Niente domiciliari per il detenuto con disabilità e iperteso se le sue patologie non lo rendono più vulnerabile al coronavirus e sono considerate compatibili con la detenzione. Neppure la difficoltà della casa circondariale, che si era espressa a favore dei domiciliari, a fare controlli diagnostici e riabilitativi, è utile per ottenere la misura alternativa: perché in tempi di massima allerta pandemica le stesse criticità hanno riguardato tutti i cittadini, anche se in misura maggiore chi è ristretto per impedire il diffondersi del contagio in un ambiente necessariamente collettivo. La raccomandazione del Pg della Cassazione - La Cassazione (sentenza 29378) ha respinto il ricorso di un detenuto, sottoposto al carcere preventivo perché indagato per reati di narcotraffico internazionale a favore di una cosca mafiosa. La difesa ha inutilmente invocato la nota del Procuratore generale della Corte di cassazione del 1 aprile 2020, con la quale si raccomandava di ridurre la presenza nelle carceri durante il coronavirus. Né è servito il parere favorevole ai domiciliari della direzione sanitaria del carcere. Per i giudici del riesame, come per la Suprema corte, né la disabilità che costringeva il ricorrente ad avvalersi dell’aiuto di un piantone per svolgere le sue funzioni quotidiane, né le altre patologie, come l’ipertensione, che rendevano certamente più gravoso il carcere, sono sufficienti a fondare la situazione di incompatibilità con il carcere. Le criticità della massima allerta - Per il Tribunale del riesame neppure il braccialetto elettronico, nel caso di allentamento della misura cautelare, sarebbe stato in grado di assicurare la tutela delle esigenze preventive. Aprire le porte del carcere voleva dire correre il rischio di collocare l’indagato di nuovo sul territorio in cui aveva stretto legami con gli esponenti della criminalità locale, amplificando così il rischio di recidiva. E non importa se lo stesso Riesame, in occasione di una precedente analoga domanda, aveva raccomandato esami clinici e riabilitazione. Perché le difficoltà riscontrate non erano dovute a carenze strutturali del carcere ma agli effetti di un’emergenza pandemica che, nel corso della massima allerta, hanno riguardato tutti i cittadini. Campania. Covid-19, situazione allarmante nelle carceri napolivillage.com, 27 ottobre 2020 Sono più di 100 i detenuti affetti da coronavirus e oltre 150 i poliziotti penitenziari nelle carceri italiane. Dati importanti, ma sicuramente sottostimati che dovrebbero indurre l’amministrazione penitenziaria a mettere in atto disposizioni che vadano ad impedire l’aggravarsi dei contagi. A dichiararlo è il segretario generale del sindacato polizia penitenziaria S.PP. Aldo Di Giacomo: “i dati sicuramente preoccupano, ma preoccupa sicuramente di più l’immobilismo da parte dell’amministrazione penitenziaria. Bisognerebbe impedire i colloqui con i familiari e l’accesso di tutte quelle persone non indispensabili per un periodo limitato ma utile a consentire l’evitarsi del diffondersi del virus all’interno delle carceri; garantendo comunque loro la possibilità di avere contatto con i loro familiari detenuti. I dati forniti dall’amministrazione penitenziaria sembrano sottostimare il problema o comunque non aggiornati in tempo reale, in quanto i dati forniti dalle nostre strutture ci dicono che i numeri dei contagi sono maggiori. Mancano, inoltre, nella maggior parte degli istituti penitenziari presidi quali mascherine, gel igienizzanti, guanti e tute, che secondo i dati forniti dall’amministrazione le carceri italiane dovrebbero produrre 500 mila mascherine al giorno”. Continua Di Giacomo: “sembra che l’amministrazione penitenziaria ed il ministro si siano già dimenticati della pesantissima situazione vissuta qualche mese fa con devastazioni e 14 morti. Le strutture carcerarie non sono in grado di poter ospitare e curare centinaia di detenuti infetti. Ci risulta, inoltre, che in molti istituti le infermerie siano in possesso di tamponi rapidi, come quella di Palermo, ma che non vengono fatti per paura di dover mettere in isolamento decine e decine di poliziotti. La maggiore preoccupazione deriva da ciò che potrebbe succedere dal propagarsi del virus in carceri come quello di Napoli Poggioreale, Secondigliano e nelle grandi carceri italiane dal punto di vista dell’ordine pubblico ossia di eventuali possibili rivolte. Le organizzazioni criminali all’interno delle carceri italiane sono ancora molto forti e pronte a fomentare nuove rivolte”. Napoli. Carceri, sos dei penalisti: “Subito misure anti Covid” Il Mattino, 27 ottobre 2020 Chiedono che vengano adottate gli stessi provvedimenti varati a marzo scorso, per scongiurare la diffusione del contagio nelle carceri del distretto. É questa la nota spedita dalla camera penale e dal consiglio dell’ordine degli avvocati di Napoli ai capi degli uffici giudiziari e al presidente del Tribunale di Sorveglianza. In particolare, si chiede di ridurre il numero dei nuovi ingressi negli istituti penitenziari, eventualmente facendo ricorso ai criteri a suo tempo indicati dal procuratore generale della Corte di cassazione con documento del primo aprile 2020; ed adottando per l’effetto ogni opportuna determinazione incidente sulla esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare e degli ordini di carcerazione”; ma anche di “consentire ai detenuti in regime di semilibertà di pernottare presso le loro abitazioni fino alla fine del periodo dell’emergenza sanitaria in atto; di ricorrere con la massima estensione possibile alle misure alternative alla detenzione previste dalle leggi in vigore”. Un documento frutto del lavoro di monitoraggio condotto dai penalisti Sabina Coppola e Sergio Schlitzer, in forza al direttivo guidato da Ermanno Carnevale, condiviso dal presidente del consiglio dell’ordine Antonio Tafuri, per abbattere il rischio contagio nelle carceri napoletane. Brindisi. Carceri, è ora di cambiare di Vito Totire* e Maurizio Portaluri** brindisitime.it, 27 ottobre 2020 Chi non si è sintonizzato giovedì sera, 22 ottobre, su Radiocarcere (trasmissione radiofonica di Radio Radicale, min. 31,50?) ha perso una opportunità di aggiornarsi sullo stato di degrado della situazione in Italia; situazione di degrado a cui Brindisi non sembrerebbe fare eccezione; avevamo richiamato l’attenzione su questo carcere, ancora una volta, il 20.12.2019 recependo una ennesima segnalazione proveniente da persone qui “ristrette”. Una fotografia del carcere di Brindisi è contenuta nel rapporto di Antigone aggiornato al 2019; uno dei dati più lampanti è costituito dalla condizione di sovraffollamento che risultava essere al 171% della capienza dichiarata dall’istituzione; in questa sede non vogliamo né possiamo mettere a fuoco tutti i problemi del carcere di Brindisi; già qualche anno fa, sempre sull’onda di una denuncia dall’interno, abbiamo registrato una reazione istituzionale del tipo “tutto va bene madama la marchesa…” ma forse non era allora e forse non è così neppure oggi. Peraltro a nessuno sfugge una semplice constatazione: se il sovraffollamento era un grave problema nel 2019, le attuali esigenze di prevenzione e di distanziamento potrebbero aver reso la situazione ancora più rischiosa. Torniamo dunque alla denuncia/sfogo di Radiocarcere di giovedì sera: le persone detenute hanno denunciato di sentirsi trattate “peggio dei maiali”; parole grosse certamente riferite alla questione degli spazi disponibili per persona che - troppo spesso - nelle carceri italiane non rispettano gli standard ritenuti in Europa inaccettabili per gli animali; a prescindere dalla meticolosa conta dei metri e centimetri quadrati disponibili, a prescindere dalla pur importante discussione tra magistrati sul fatto che i metri quadrati per persona debbano essere contati al netto dei mobili (a noi pare chiaro di sì) o meno, dalla denuncia delle persone detenute emerge una situazione oppressiva e intollerabile di costrittività: eccesso di ore di clausura in cella, impraticabilità di spazi esterni per attività sportive, una impraticabilità che ha come surrogato la disponibilità di qualche cyclette negli spazi per la socialità interna, spazi nei quali - dicono le persone detenute - non c’è però neanche protezione contro il fumo passivo. Da 17 anni ci chiediamo infatti se la legge 3/2003 (protezione contro il fumo passivo) sia stata abrogata nelle carceri e perché nei penitenziari (secondo una rara indagine epidemiologica il 71% delle persone detenute fuma) non esistano salette per fumatori con estrazione attiva dell’aria; forse si aspetta una denuncia penale per danni alla salute da fumo passivo per “scoprire il problema”? Ma per finire e andare al nocciolo della questione: anni fa intervenimmo perché la persona detenuta denunciante parlando a Radiocarcere denunciava un clima di paura all’interno; in questo caso il vissuto delle persone che sono intervenute alla radio è di essere trattate “peggio dei maiali”; fosse anche “solo” una percezione soggettiva sarebbe comunque la spia di una situazione molto grave: gli studi di psicologia sociale e gli studi comportamentali dimostrano che se la persona detenuta percepisce un trattamento equo, è questo più di ogni altro evento o punizione che modifica positivamente la sua condotta sociale (ammesso che la persona detenuta sia davvero responsabile di quello che le viene addebitato, vista la non trascurabile percentuale di persone ristrette in custodia cautelare o vittime di errori giudiziari). Vorremmo poi comprendere se e come la Asl di Brindisi sia intenzionata a, anche con interventi ispettivi, a rilevare gli elementi di criticità e a proporre azioni di miglioramento considerato che una qualunque altra struttura ricettiva “civile”, nelle condizioni di sovraffollamento di un carcere, sarebbe stata già chiusa; certo è necessaria pure una politica di decarcerizzazione che, al momento, non è nell’agenda del governo in carica; ma la incapacità del ceto politico non deve essere avallata dalle istituzioni sanitarie. Costrittività e sovraffollamento, secondo gli studi di prossemica, inducono aggressività e conflitti; anche la possibilità di dormire in maniera adeguata è stata studiata rivelando la possibilità di ripercussioni negative sul tono dell’umore e sui comportamenti violenti. Non aderendo al penoso partito del “buttare la chiave” chiediamo “soltanto” il rispetto della Costituzione repubblicana che vieta trattamenti disumani e degradanti e l’abuso dei mezzi di correzione. Carcere e società sono vasi comunicanti; una condizione di coesione sociale svuota le carceri e viceversa (M. Marmot); il nostro dunque non è un appello “a favore” delle persone ristrette: un trattamento socialmente equo è nell’interesse di tutta la società. Chiediamo a chi vuole sostenere il cambiamento (operatori della prevenzione, lavoratori, volontari) di cooperare e di dare vita a tutte le sinergie possibili. *Medico psichiatra, portavoce circolo “Chico” Mendes per l’ecologia sociale *Medico ospedaliero, rivista telematica salutepubblica.net Palermo. Detenuti positivi al rientro in carcere e c’è chi rinuncia ai permessi di Riccardo Lo Verso livesicilia.it, 27 ottobre 2020 Nove detenuti in questi giorni sono risultati positivi al Covid al carcere Pagliarelli di Palermo. Il virus arriva dall’esterno, ma nella struttura hanno adottato le misure necessarie per evitare che il contagio si diffonda. Alcuni detenuti hanno persino rinunciato ai permessi premio. Tra i positivi al Covid, infatti, ci sono coloro che sono tornati in carcere dopo avere trascorso alcune ore fuori in compagnia dei parenti. Parenti che da asintomatici si sono ritrovati in quarantena. Al Pagliarelli, intitolato ad Antonio Lorusso, viene applicato un rigido protocollo. Chiunque arrivi da un altro penitenziario o sia stato momentaneamente all’esterno - ad esempio per un permesso o per sottoporsi a una visita medica specialistica - una volta tornato in carcere viene sottoposto al tampone e isolato in apposite celle. Solo quando si ha la certezza dell’esito negativo del test il detenuto può rientrare nell’abituale circuito carcerario (si tratta di detenuti che non si trovano in regime di alta sicurezza). Altrimenti resta in isolamento oppure viene trasferito in altre strutture dove viene piantonato giorno e notte. Il Covid, dunque, in carcere entra dall’esterno. Stessa cosa è avvenuta nelle scorse settimane per gli agenti della Polizia penitenziaria del Nucleo traduzione che accompagnano i detenuti nei Tribunali per le udienze. Il Nucleo era stato decimato dal Covid, ma l’emergenza via via sta rientrando. L’Aquila. Cresce la paura nel carcere, diversi poliziotti penitenziari positivi al Covid ilnuovoonline.it, 27 ottobre 2020 “Si stanno registrando, ormai da giorni, diverse positività da contagio Covid presso la Casa Circondariale dell’Aquila”. A darne rammarica notizia sono Francesco Marrelli Segretario Generale della Camera del Lavoro Cgil L’Aquila e Giuseppe Merola della Fp Cgil Abruzzo Molise che, già in data 20 ottobre, inviarono una “diffida agli Organi sanitari ed istituzionali, affinché venissero effettuate attività di screening a favore dei lavoratori e delle lavoratrici, visto che altrettanto venti sono in isolamento fiduciario”. “Nonostante le rassicurazioni pervenute dall’Assessorato alla Salute della Regione Abruzzo - continuano i sindacalisti - non sono stati avviati ancora protocolli di prevenzione, anzi i lavoratori stanno effettuando, in autotutela, tamponi a pagamento presso centri convenzionati. È del tutto inaccettabile e fuori luogo - chiosano senza mezzi termini Marrelli e Merola - e noi daremo battaglia a questo scempio. Pur apprezzando gli interventi e le interlocuzioni con la Direzione e Comando dell’Istituto Penitenziario aquilano, i nostri lavoratori rivendicano un senso di abbandono da parte delle Autorità Sanitarie locali e noi presenteremo, a mezzo Uffici Legali, un esposto alla Procura della Repubblica”. “In questo periodo storico così preoccupante, vista anche l’escalation delle positività accertate in Abruzzo e nell’intero Paese, i nostri lavoratori e le nostre lavoratrici hanno diritto ad una sacrosanta tutela, considerata anche le già ataviche precarietà oggettive ed ambientali delle carceri - concludono con un forte grido di allarme - e pertanto il Direttore Generale ASL Roberto Testa avvii un impellente intervento accertativo”. Piacenza. Lotta alle dipendenze, corretti stili di vita e salute dei detenuti piacenza24.eu, 27 ottobre 2020 All’Ausl oltre 540 mila euro. Promuovere e facilitare l’adozione di stili di vita sani in ogni età della vita, dall’infanzia alla terza età; prevenire patologie croniche (malattie cardiovascolari, tumori, diabete, malattie respiratorie croniche, problemi di salute mentale), anche attraverso un’alimentazione sana e sicura; contrastare fattori di rischio modificabili, quali il fumo, l’abuso di alcol e la sedentarietà. Guardano a questi obiettivi i progetti finanziati dalla Regione con 3,5 milioni di euro. Azioni e interventi previsti dalla specifica legge regionale sulla “promozione della salute e prevenzione primaria” (n. 19 del 2018). 542 mila euro all’Azienda Usl di Piacenza. I fondi saranno mirano a consentire la realizzazione di azioni di prevenzione e contrasto delle dipendenze da alcol e sostanze stupefacenti. Non solo, l’Azienda potrà anche utilizzare tali contributi per progettare interventi finalizzati a migliorare lo stato di salute dei detenuti, intervenendo sulle abitudini alimentari e sul rischio di diffusione delle malattie infettive. Gli interventi finanziati - La maggior parte delle risorse - 2 milioni di euro - andranno alle Aziende sanitarie dell’Emilia-Romagna; fondi per coprire le spese di realizzazione dei programmi regionali per la promozione della salute, benessere della persona e della comunità e prevenzione primaria, suddivisi in base al numero di residenti per Ausl. Il 20% delle risorse è destinato ad azioni e interventi in partnership con gli istituti scolastici. Un milione di euro viene poi assegnato alle Aziende Usl in base al numero di residenti di età compresa tra 15 e 64 anni. Si parla interventi socio-sanitari di prevenzione, contrasto delle dipendenze, promozione del benessere psicofisico e della salute mentale delle persone con problematiche d’abuso e dipendenza. La ripartizione delle risorse - Le risorse sono così ripartite: 754 mila euro all’Azienda Usl della Romagna; 626 mila all’ Azienda Usl di Modena; 594 mila euro all’Azienda Usl di Bologna; 542 mila euro all’Azienda Usl di Piacenza; 359 all’Azienda Usl di Reggio Emilia,306 mila euro all’Azienda Usl di Parma; 229 mila euro all’Azienda Usl di Ferrara e 89 mila euro all’Azienda Usl di Imola. Pisa. Detenuto in attesa di trapianto cardiaco, presoto decisione del magistrato di sorveglianza La Nazione, 27 ottobre 2020 Nuova udienza, pochi giorni fa, davanti il magistrato di sorveglianza sul caso di Mohamed Fersi, 55 anni, detenuto nel centro clinico del carcere di Pisa. Si tratta di un detenuto - assistito dall’avvocato Roberto Nocent - che ha necessità di un trapianto di cuore e “la detenzione è un freno all’ingresso nelle liste d’attesa”. Il legale rileva come il caso - passato anche da un pronunciamento della Cassazione - sia già stato al centro di ripetuti tentativi davanti la soverglianza alla quale ora si chiede che il 55enne venga portato in una casa di cura. Nel 2009 i medici gli dettero dieci anni di vita. Fersi ha un fine pena al 2024, grazie ad un cumulo alimentato da due condanne definitive per spaccio. L’uomo in carcere nel 2015. A nulla era valso, appunto, neanche il ricorso agli ermellini. La nuova decisione è attesa nei prossimi giorni. Bari. “Qui e altrove” si presenta il corto dei ragazzi dell’Ipm Fornelli puglialive.net, 27 ottobre 2020 Evento conclusivo del progetto per detenuti “Caffè Ristretto”. Istituto Penale per i Minorenni di Bari, via Giulio Petroni 90, 28 ottobre 2020, ore 14. Di Teresa Petruzzelli, con Mariangela Taccogna. La possibilità di immaginarsi in nuovo spazio, di esplorare nuovi settori della conoscenza, di ripensare o pensare per la prima volta al proprio benessere attraverso l’alimentazione. “Qui e altrove” è il titolo del corto realizzato dai ragazzi del Fornelli - Istituto Penale per i Minorenni di Bari, nell’ambito del progetto Caffè Ristretto di Teresa Petruzzelli e Mariangela Taccogna. Il corto sarà presentato il 28 ottobre alle ore 14 all’interno del Fornelli come evento conclusivo della settima edizione di Caffè Ristretto dedicata ai temi della natura e del benessere. Ogni ragazzo ha scritto un suo elaborato che ha ispirato il corto accompagnato dalle musiche originali di Mr. Saxtronic. Alla proiezione saranno presenti i ragazzi detenuti, Paola Romano, assessore alle Politiche giovanili e Pubblica Istruzione del Comune di Bari, Nicola Petruzzelli, direttore del carcere, Giulio Piliero dirigente del CiPa 1 di Bari e le responsabili del progetto Teresa Petruzzelli e Mariangela Taccogna. Caffè Ristretto, il caffè letterario nel carcere di Bari, uno dei primi a livello nazionale, ha inaugurato questa settima edizione a settembre. Nel corso degli incontri otto detenuti sono stati coinvolti per tre giorni a settimana in attività laboratoriali di scrittura creativa, di lettura, incontri informativi e formativi con personaggi del mondo della cultura e dello sport, imprenditori e giornalisti. Tra gli ospiti di questa edizione di Caffè Ristretto ci sono Manlio Epifania della Masseria dei Monelli, Angelo Santoro della cooperativa Semi di vita, Mariella Lippo di Artemisia, Piero Schepisi presidente della cooperativa Unsolomondo, Francesco Giannico dell’associazione Musica e Natura, Sebastiano Loseto di Barproject-Ass Splash, Gianni Macina di In.Con.Tra e Dino Bartoli istruttore federale di Judo. Il progetto da sempre finanziato e sostenuto dall’Assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Bari e dall’Assessorato al Diritto allo studio e alla Formazione della Regione Puglia, con il patrocinio dell’ufficio Garante dei diritti dei detenuti, è ormai un punto di riferimento culturale non solo per i detenuti e i docenti della scuola carceraria, ma per tutta la cittadinanza. Gli ospiti e interlocutori dei laboratori di scrittura e lettura (giornalisti, critici, editori, artisti, scrittori, testate giornalistiche, studenti, politici, associazioni di volontariato e culturali) sono diventati parte attiva del processo relazionale e del dibattito con i detenuti della casa circondariale. La seconda volta tra rabbia e frustrazione di Antonio Polito Corriere della Sera, 27 ottobre 2020 Agli italiani ormai appare chiaro che non è stato fatto abbastanza per gestire la nuova ondata, per questo si stanno diffondendo stati d’animo negativi. “Quando un Paese è grande una volta - ha detto il presidente Conte - deve essere grande sempre”. Non è chiaro se quel “deve” equivale a un pronostico o è invece una “raccomandazione”, come le altre impropriamente inserite nel testo normativo del Dpcm. Se è una previsione, non pare però fondata su dati di fatto. Prima di tutto perché la storia è purtroppo piena di “seconde volte” andate peggio della prima: dalla seconda ondata di influenza “spagnola” alla Seconda guerra mondiale. Poi perché il pessimismo della ragione ci ricorda che se una cosa può andare male, se cioè non si è fatto tutto il possibile perché andasse bene, è probabile che andrà male. E infine perché il Paese è stanco di sentirsi chiamato a essere di nuovo “grande”, visto che l’altra volta, in primavera, abbiamo pianto 35 mila morti, e tanto bene non ci era davvero andata. Del resto, fuor di retorica, è stato lo stesso capo del governo, nella stessa conferenza stampa, a dire che cosa provano davvero gli italiani in queste ore: “stanchezza, ansia, rabbia, frustrazione, sofferenza”. Per ognuno di questi sentimenti c’è una ragione. Vorrei soffermarmi su “rabbia” e “frustrazione”, perché sono due stati d’animo che chiamano in causa l’operato dei poteri pubblici. La rabbia deriva dalla convinzione che gran parte di ciò che era stato promesso, garantito, programmato, non è stato fatto. Prendiamo i “tracciatori”, la prima linea che ormai tutti dichiarano già travolta. Ce ne sono 9.241 in Italia (fonte Sole 24 Ore). Nessuno può essere stato colto alla sprovvista dalla necessità di averne di più. Eppure dopo più di tre mesi sono aumentati di appena 275 unità. Nell’area metropolitana di Milano, tre milioni di abitanti, ci sono solo 25 medici delle Usca, le “unità speciali” che dovrebbero controllare i positivi nelle loro case invece di intasare gli ospedali: era stato previsto un fabbisogno di 130. Anche senza studiare le statistiche (ne vengono del resto fornite troppo poche e troppo generiche) gli italiani hanno capito che non si è fatto abbastanza per “gestire” questa seconda ondata. Non danno certo a chi li governa la colpa della diffusione del virus, anzi spesso sembra accadere piuttosto il contrario; ma si rendono conto se devono fare un tampone, se hanno un malato in casa, se sono in auto di notte davanti all’ospedale con un familiare in crisi respiratoria che muore in attesa di un letto (è successo ad Avezzano), che si doveva fare di più e meglio. Poi c’è la “frustrazione”, per tornare all’elenco del presidente Conte. Questo stato d’animo ha almeno due ragioni. La prima è la perdita di reddito che sta subendo una parte importante dell’economia italiana specialmente urbana, quella dei servizi di prossimità, dei ristoranti, dei bar, delle palestre. A differenza del lockdown di primavera, e anzi proprio nel lodevole intento di evitarlo, stavolta il governo ha dovuto scegliere che cosa chiudere e che cosa lasciare aperto. Era dunque forse inevitabile che le “vittime” avvertissero di subire una “ingiustizia”. Anche perché si tratta spesso di aziende familiari che, oltre alle spese fisse, avevano investito nella sicurezza, acquistando sistemi di sanificazione, riordinando gli spazi, allestendo dehors, per ottemperare ai protocolli emanati dal governo. Questo malessere anima la maggior parte delle proteste e rischia di determinare la più pericolosa delle fratture: tra i garantiti e i non garantiti, tra chi ha il “buono pasto” e chi no. Bisogna porvi rimedio il più urgentemente possibile, e non con la pachidermica lentezza burocratica di primavera. Ma la “frustrazione” ha un’origine forse anche più profonda: e cioè il dubbio che questi sacrifici siano quelli giusti e servano davvero. Siamo infatti al terzo Dpcm in pochi giorni. E dunque - come ha notato Vitalba Azzollini sul Domani - noi non possiamo sapere se le misure precedenti abbiano funzionato, semplicemente perché non è passato abbastanza tempo per verificarlo. Di quanto ha ridotto la circolazione del virus la chiusura dei ristoranti alle 23? Non lo sappiamo. Dunque non sappiamo neanche che effetti produrrà la chiusura alle 18. È lecito pensare che in realtà si tratti solo di una marcia di avvicinamento alla chiusura totale? Le palestre sono forse un potenziale focolaio di infezione, anche se finora non ne sono tanti segnalati di rilevanti (un vagone di metropolitana affollato lo è sicuramente di più). Ma se sono pericolose, perché non sono state chiuse una settimana fa, quando invece si decise di lasciarle aperte? Queste contraddizioni, e l’accavallarsi di decisioni e annunci tra Governo e Regioni, ci stanno facendo perdere fiducia nella capacità del guidatore di tenere la strada. Che poi non è uno solo, ma un’affollata assemblea di ministri, capi delegazione, governatori, membri del comitato tecnico-scientifico. Il malessere, o la rabbia, o la frustrazione, hanno dunque una loro ragion d’essere. Il ricorso all’agitazione e alla violenza di gruppi organizzati con una loro agenda criminale o politica (a proposito, perché teatri e cinema chiudono e i centri sociali restano aperti?) era anch’esso prevedibile. E, come il virus, merita di essere combattuto con la forza dello Stato, che deve saper proteggere i cittadini, anche quelli che protestano, dai mestatori di torbidi, piaga antica che ha spesso infettato la nazione dal 1919 a oggi. Tanto più lo Stato lo potrà fare se saprà distinguere tra la sedizione di piazza, alla quale deve dare una risposta di ordine pubblico, e il malessere giustificato, al quale deve dare una risposta politica e sociale. L’argomento che le cose non vanno meglio in altri Paesi europei (anche se in qualcuno sì), non può infatti bastare a renderci più sereni. L’Italia sa stringersi intorno alle sue istituzioni, ma pretende di più. Il nostro, ha ragione il presidente Conte, è un grande Paese. Merita di essere trattato come tale. La maggioranza si spacca sulle chiusure anti-Covid. Conte sotto attacco di Carlo Bertini La Stampa, 27 ottobre 2020 Renzi si smarca e invoca modifiche su teatri, cinema e ristoranti. Zingaretti: “Così non funziona”. Ma chiede di coinvolgere le opposizioni. Il Covid dilaga e infetta politicamente anche la maggioranza che sostiene Giuseppe Conte. Il quale è costretto a ricevere gli scontenti, dagli organizzatori delle sagre di paese ai gestori di cinema e ristoranti, per provare a tacitarne le proteste. Ma anche a fare i conti con i suoi “dante causa” politici: che non gli risparmiano colpi sulla ratio di queste misure, come fa Matteo Renzi, subito rintuzzato da Nicola Zingaretti. Il quale però chiede al premier anche uno scatto, la capacità di fare sintesi e un tavolo bipartisan per coinvolgere le opposizioni. “Non puoi pensare di chiamarli 5 minuti prima e leggergli il Dpcm, così non funziona”, dice dopo aver chiuso la Direzione il leader del Pd. Che dà a Conte 30 giorni per far giungere i ristori delle categorie e per decidere i progetti sul Recovery fund e sulle riforme. “Gli italiani sono stanchi, noi dobbiamo raccogliere queste paure”, è il suo monito. Orlando cita Prodi e Bertinotti - Insomma, se la rabbia nelle piazze da Torino a Catania, e l’insofferenza diffusa verso le nuove misure mostrano che la gente sia meno incline alla muta disciplina come in primavera, lo spettacolo di assalto al premier subito dopo le decisioni prese per contenere il contagio è un inedito: e dimostra la maggior debolezza del governo in questa seconda fase. “Con i ministri in piazza non finisce bene...”, dice Andrea Orlando rivolto a Renzi, ricordando la fine del governo Prodi, quando Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti giocava due parti in commedia, di lotta e di governo. La fiammata di Renzi - “Chiederò di cambiare il Dpcm”, annuncia il leader di Iv. “Vogliamo essere coinvolti nelle decisioni”, spiega Ettore Rosato. “Mentre si chiedono sacrifici - scrive Renzi nella sua enews - sarebbe molto utile che il governo ci spiegasse quali sono i dati scientifici e le analisi sui quali si prendono le decisioni: i dati scientifici, non le emozioni di un singolo ministro”. Che sarebbe nella fattispecie Dario Franceschini, reo di aver sdoganato queste chiusure per una sorta di paura incontrollata, spiega Renzi nei suoi conversari. “Ho l’impressione che non si sia percepita la gravità della crisi”, si irrita ovviamente il ministro della Cultura. Ma Renzi non solo se la prende con lo stop ai cinema e ai teatri accettato da Franceschini malgrado i dati confortanti sui contagi in quei luoghi (“e allora perché non lo stop delle messe?”). Ma pure con lo stop dei ristoranti alle 18, “tecnicamente inspiegabile, tanto che sembra un provvedimento preso senza alcuna base scientifica”. Per questo chiederà a Conte di tenerli aperti fino alle 22. Un tavolo con le opposizioni - “Non si può chiedere all’opposizione solo di sottoscrivere le decisioni prese dalla maggioranza. Serve un punto di equilibrio”, chiede a Conte il segretario Dem. “Non è serio stare nel governo e fare l’opposizione, è eticamente intollerabile stare con un piede in due staffe”, è l’avvertimento a Renzi; ma anche ai 5stelle, per le veline di questi giorni contro Franceschini e la De Micheli e per le uscite contro corrente di personaggi di governo come il viceministro Sileri. Si fa interprete del pensiero dei vertici Dem Dario Stefano, quando nota che “Ricciardi, consigliere del Ministro della Salute, afferma che le restrizioni sono insufficienti. Sileri, vice di Speranza, dice non condividere il Dpcm anti Covid e nemmeno la chiusura di bar e ristoranti alle 18. Che giostra è questa?”. Irritazione diffusa tra i Dem, dunque, che porta il viceministro Sileri a chiarire che le misure sono proporzionate, dopo aver detto che ci saranno chiusure delle città o delle regioni se il virus aumenterà la sua carica. La giostra della maggioranza è impazzita, i partiti di governo nel timore di perdere i consensi vogliono condividere con le opposizioni le decisioni. “Così anche Conte si blinderebbe”, è il ragionamento di Renzi. Proteste nelle piazze di tutta Italia, “infiltrati” di estrema destra e di estrema sinistra di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 27 ottobre 2020 L’invito dopo gli scontri di Milano, Torino e altre città contro le misure per contenere il Covid è di separare “chi protesta legittimamente da chi invece coglie l’occasione per creare disordine”. Formazioni di destra, centri sociali, tifosi ultrà che approfittano della protesta dei lavoratori e innescano gli scontri: è la tensione sociale che già dalla scorsa primavera la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il capo della polizia Franco Gabrielli temevano potesse esplodere. E che adesso, dopo il Dpcm del governo che chiude numerose attività, si manifesta nelle piazze delle città italiane con lanci di molotov e assalti contro le forze dell’ordine. Una rabbia che si trasforma in violenza e incendia un clima già incandescente. Per questo già da giorni dal Viminale è partita un’allerta forte - ribadita ieri - per prefetti e questori. Un richiamo a vigilare su quelle manifestazioni che “rischiano di degenerare” per l’infiltrazione di gruppi “professionisti dello scontro”. Tre giorni fa, in un’intervista al Corriere, era stata proprio la ministra Lamorgese a garantire che “il governo è impegnato per assicurare risorse adeguate alle famiglie e imprese più esposte in questa grave situazione economica”. Aveva assicurato che “la rete delle prefetture è da tempo allertata per intercettare eventuali segnali di malessere e tensioni dovuti alle difficoltà di un intero tessuto economico e sociale”. E ieri dal Viminale è partita una nuova direttiva affinché si cerchi di “separare chi protesta in maniera legittima da chi invece coglie l’occasione per creare disordine”. È la ricerca del consenso che le formazioni politiche estreme di destra e di sinistra cercano cavalcando il malessere dei cittadini. Era già accaduto a Roma - appena un anno fa - quando Forza Nuova e CasaPound si insinuarono tra la gente che nelle periferie manifestava contro la concessione delle case agli extracomunitari fomentando la rivolta. Accade adesso che la rabbia di negozianti e gestori di bar e ristoranti si scatena contro le chiusure serali decise dal governo. La scorsa settimana, quando i sindaci chiedevano l’impiego dei reparti mobili solitamente impegnati negli stadi per controllare che nelle strade e piazze della movida i cittadini indossassero la mascherina ed evitassero gli assembramenti, il prefetto Gabrielli ha chiarito che quelle forze servono per essere schierate e spostate sui territori a seconda di singole e non preventivabili esigenze. Considerazione che adesso diventa profetica visto quanto sta accadendo. Nel luglio scorso, di fronte al Parlamento, Lamorgese era stata chiara: “C’è un rischio concreto che la crisi economica legata al Covid produca tensioni sociali in autunno”. L’autunno è adesso e con questo il Viminale si trova a fare i conti. “I manifestanti respingano gli infiltrati: purtroppo chi provoca danni non paga” di Cristana Mangani Il Messaggero, 27 ottobre 2020 C’è un diritto a manifestare che deve fare i conti con qualcosa di più elevato e importante, il diritto alla sicurezza e alla salute. Cesare Mirabelli, ex presidente della Corte Costituzionale, riconosce il valore di entrambi, anche se sottolinea: “Le diversità di opinioni rientrano nella normale logica dei rapporti. Ma non si possono giustificare le proteste, se è a rischio la salute”. Il nuovo Dpcm ammette unicamente riunioni statiche: sit in o piccoli cortei, dove deve essere rispettato il distanziamento previsto dalla legge. “La storia ci insegna - considera ancora il giurista - che in situazioni di disagio si tende a slabbrare il tessuto sociale. Non è una novità, poi, che ci sia chi tenti di infiltrarsi per creare disordini. Già in passato è accaduto e si ripeterà di nuovo”. Come limitare le tensioni? In che modo punire chi soffia sul fuoco della crisi? Far pagare i danni a chi distrugge le città potrebbe essere un buon sistema, “ma difficilmente - sottolinea l’ex presidente della Consulta - si riesce a identificare queste persone. Meglio sarebbe se gli stessi manifestanti pacifici tenessero fuori dalla loro protesta gli infiltrati, se non gli dessero la possibilità di provocare distruzione e caos. Se riuscissero ad arginarli, anche le loro istanze potrebbero raggiungere più facilmente” i palazzi del potere. Perché la violenza offusca tutto il resto, e anche la sofferenza di chi chiede di lavorare viene puntualmente schiacciata dai raid e dagli estremismi. Secondo Mirabelli - pur senza critica - una delle cause per questa situazione potrebbe trovarsi nella carenza di dibattito. “Vanno sempre valutate le riserve che vengono espresse - spiega - prima di poterle escludere. Forse se ci fosse stato un maggiore e più chiaro dibattito parlamentare, si sarebbero potute contenere, almeno in parte, le tensioni. Se, a esempio, si fosse istituita una Commissione bicamerale con il compito di controllare gli atti del governo, i temi ora contestati avrebbero potuto essere analizzati più a fondo. E mi illudo - aggiunge il giurista - che questo avrebbe potuto limitare il dissenso”. In ogni caso - a suo dire - le violenze, tutte, vanno contrastate: “La violenza non è mai ammessa, va sempre combattuta ed esclusa”. Da esperto di legge, poi, non può non rilevare che in questo scenario qualcosa è mancata: “La pubblica amministrazione avrebbe dovuto essere più pronta a registrare l’emergenza. Penso ai trasporti, assolutamente insufficienti. E penso alla scuola: perché non fare i doppi turni? Sarebbero possibili e certamente non andrebbero a urtare l’organizzazione scolastica”. “Nella prima fase del lockdown - sottolinea ancora - gli italiani si sono comportati in modo veramente responsabile. Di recente una cittadina svizzera ha dichiarato di voler venire in Italia perché qui si sentiva più garantita vista la condotta tenuta dai cittadini e le regole imposte per contenere il virus. Ora, certamente, la situazione è molto più complicata. Sono convinto che vadano bene i bonus e i ristori per chi si sta trovando in difficoltà, ma ritengo soprattutto che le persone stiano manifestando il loro malessere, perché quello che vogliono veramente è soltanto poter vivere del loro lavoro”. Non è un Paese per vecchi: gli anziani e il bisogno di cura, oltre il Covid di Pier Luigi Vercesi Corriere della Sera, 27 ottobre 2020 L’85% dei decessi per il virus ha colpito gli over 70, ma tenerli segregati ha forti implicazioni psicofisiche. Le Rsa hanno attrezzato spazi protetti per le visite, ora però i decreti sono tornati restrittivi. Più costi per le strutture e perdite: lo Stato intervenga. Non escono dai nostri occhi le file di bare collocate in piazzali anonimi, le cerimonie senza il conforto dei parenti, la disperazione dei figli che non riescono ad avere notizie dei loro genitori ospitati nelle residenze per anziani. Non si attenua l’angoscia di chi si sente abbandonato, pur involontariamente, perché un virus sta attentando alla vita di tutti e alla loro in particolare. Ciò che è accaduto nella scorsa primavera, per qualche mese è parso un incubo dal quale ci si era svegliati. Ora si ripresenta nonostante tutte le precauzioni. E l’angoscia sale con la sensazione che la luce in fondo al tunnel si stia allontanando. Non è bello a dirsi, ma il virus siamo noi: il Covid-19 si trasmette alle persone attraverso altre persone. Tutti possiamo essere contagiati, poi sono le fasce più deboli che corrono i rischi maggiori. I dati Istat indicano che l’85 per cento dei decessi per coronavirus ha colpito la popolazione con più di 70 anni. Oggi i prototipi delle vittime sono l’uomo di 79 e la donna di 84 anni con due patologie. Allora occorre capire come affrontare il problema: come garantire sicurezza evitando la solitudine? E, più in generale, come organizzare la gestione di una fascia di popolazione sempre più ampia con servizi e politiche adeguate ai bisogni? Negli scorsi mesi, ci si è posti il problema se tenere “segregati” gli anziani non peggiorasse la loro condizione psico-fisica. Il professor Marco Trabucchi, direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia, non nasconde che, di fronte alla richiusura delle residenze, l’anziano “si trovi malissimo: le persone che non vedono più i loro parenti stanno peggio, non dormono, tendono ad essere agitati, mangiano poco, hanno problemi di digestione e a livello intestinale, sono ansiosi, anche perché l’operatore deve tenere le distanze, porta la mascherina, non sono ammesse le carezze... Ma non c’è alternativa. Non vorrei trovarmi nei panni di chi deve prendere le decisioni: qualsiasi cosa succeda è colpa sua. Sarebbe bello se le comunità attorno alle case di riposo si assumessero la responsabilità collettiva delle scelte, ma non è possibile. Anzi, chi si è accollato il peso delle decisioni non ha avuto la minima testimonianza di solidarietà”. Gli stessi problemi psicologici e di salute si presentano anche negli anziani che restano in casa propria, forse addirittura peggio? “No - spiega Trabucchi -, perché in questo caso, con tutte le precauzioni necessarie, possono vedere persone. Certo, se nessuno si occupa di loro è un dramma. Contrastare la solitudine, però, è più semplice di quanto si immagini. Vuole un’idea? Se un vigile si presentasse, con tutte le precauzioni, a casa di un anziano con un sacchetto di caramelle e dicesse: “Queste gliele manda il sindaco”, non ha idea di quali effetti positivi sortirebbe. O ricevere ogni tanto la visita di un sacerdote con una parola di conforto”. Nelle residenze per anziani l’esperienza dei mesi scorsi ha consentito di attrezzare aree dove ricevere i congiunti a distanza attraverso un vetro, anche se i decreti impongono misure sempre più restrittive. “Fino a poche settimane fa - spiega Franco Massi, presidente di Uneba, l’associazione nazionale che riunisce le istituzioni e le iniziative di assistenza sociale - consentivamo le visite nei giardini delle strutture, ora abbiamo attrezzato spazi riscaldati, con percorsi separati, dove i parenti si possano parlare e vedere, intrattenersi senza però avere contatti. Ma qui continuano le restrizioni”. Anche perché il 35% degli ospiti delle residenze fatica a familiarizzare con il tablet. In alcune case, proprio per ovviare al problema, una fondazione che fa capo a un grande operatore telefonico e una società del settore tecnologico hanno messo a disposizione gratuitamente grandi schermi per facilitare il dialogo a distanza. I risultati sembrano molto incoraggianti. Nei giorni scorsi, nonostante i sistemi di prevenzione adottati nelle case per anziani, sono scattati allarmi in alcune residenze. “Non dimentichiamo - precisa Massi - che l’anziano è la vittima, non il trasmettitore del virus. A marzo i decessi erano sul territorio, la maggioranza delle morti dentro le residenze sono avvenute ad aprile. Ciò significa che il virus è stato portato da parenti, operatori o fornitori. Ora tutte le precauzioni sono state prese, il personale è dotato di dispositivi di protezione, fa periodicamente tamponi sierologici, se manifesta un minimo problema di salute rimane a casa, però è impossibile azzerare il rischio, perché chi lavora nelle strutture ha una vita propria, una famiglia, figli che vanno a scuola, contatti esterni”. In molti casi gli anziani necessitano di un’assistenza che non può prescindere dal contatto fisico, seppure protetto: alcuni sono incontinenti, devono essere lavati, hanno piaghe da decubito che vanno medicate. “Nelle residenze abbiamo medici, anche se non specializzati, c’è l’ossigeno, tutto ciò che serve per un pronto intervento. L’anziano che si ammala può essere curato”, insiste Massi. L’avvocato Luca Degani, specializzato in legislazione socio-sanitaria e non profit oltre a essere presidente di Uneba Lombardia, fa però notare che le residenze per anziani sono “destinate alla cronicità, a un servizio integrato e non dovrebbero prendersi carico di malattie infettive in momenti pandemici”. In altre parole, qualora si verifichi un caso di Covid-19 in una struttura, il paziente dovrebbe essere immediatamente trasferito in ospedali specializzati, anche per evitare che il focolaio infettivo si propaghi a macchia d’olio. Cosa che nella primavera scorsa era impossibile ma che oggi dovrebbe essere una prassi. Intanto si pone un altro problema: la sostenibilità delle strutture. Le perdite accumulate dall’inizio dell’anno assommano a 200 milioni di euro. Il contributo pubblico in media (cambia a seconda della regione) è di circa il 40 per cento dei bilanci. Il 60 per cento è coperto con le rette. “Nonostante ci sia stata la riapertura, i posti a disposizione non sono tutti coperti perché le procedure d’ingresso che abbiamo previsto sono molto lunghe e restrittive: quarantena a casa, doppio tampone, sorveglianza all’interno della struttura - continua Massi - e i costi, anche solo per le mascherine e i guanti, sono aumentati a dismisura. Incidono poi l’aumento del personale e le maggiori spese per i farmaci destinati ai malati che non vengono presi in carico dagli ospedali”. Nella sostanza, per poter continuare la loro attività, le residenze per anziani necessitano di un maggior contributo statale. “Ci si ostina a non considerare il sistema socio-sanitario parte integrante del sistema sanitario nazionale - insiste Massi - ma i numeri parlano chiaro. In Italia ci sono più posti letto nelle Rsa che in ospedale: 215 mila più 40 mila per riabilitazione in questi ultimi, contro 285 mila più 40 mila per le persone con disabilità nelle residenze”. Il Covid-19 ha dunque dimostrato che ospedali e residenze per anziani non possono essere mondi separati, anche per tutelarsi a vicenda. C’è poi un ulteriore tema che purtroppo si continua a sottovalutare: quello del servizio a domicilio, non necessariamente legato al Covid-19, per le persone anziane e disabili. “Mai come in questo momento - sostiene Degani - dovrebbero essere implementati. Eppure lo Stato ha finanziato esclusivamente l’assistenza domiciliare fornita dalle strutture pubbliche, sapendo benissimo che, ad esempio in Lombardia, il 90 per cento dei servizi domiciliari è gestito da enti privati non profit che, non avendo più risorse, non possono fornire il servizio”. Nei mesi di emergenza spesso il volontariato ha sopperito alle carenze organizzative, pur comprensibili, di chi era preposto ad affrontare i problemi della pandemia, ma ora c’è stata un’estate di mezzo, i problemi si conoscono, altre nazioni stanno svolgendo il ruolo di apripista che era spettato all’Italia nella scorsa primavera. Il problema degli anziani è prioritario e non può essere lasciato alla buona volontà di donne e uomini e ragazzi. Nel maggio scorso, la Comunità di Sant’Egidio lanciò, dalle pagine del Corriere della Sera, un appello internazionale a cui hanno aderito migliaia di personalità anche del mondo culturale e politico: “Senza anziani non c’è futuro”. Il suo presidente, Marco Impagliazzo, citò il cardinale Carlo Maria Martini: “Sulla dignità della vita offerta agli anziani si misura il profilo etico di ogni società”. Anche perché tutti siamo destinati a diventare anziani e pure così si prepara il futuro dei giovani. Omotransfobia, arriva in Aula la legge Zan: “Testo esteso anche alla disabilità” di Viola Giannoli La Repubblica, 27 ottobre 2020 Riparte la discussione alla Camera. Dall’opposizione sollevate pregiudiziali di costituzionalità e presentati 800 emendamenti. Riparte l’accidentato cammino della legge contro omolesbobitransfobia e misoginia. Stamattina in Aula alla Camera riprende infatti la discussione sulla proposta che porta come primo firmatario il nome del deputato Pd Alessandro Zan. Era stato il presidente della Camera, Roberto Fico, a rassicurare venerdì sulla calendarizzazione del provvedimento dopo l’ennesimo rinvio e le polemiche delle opposizioni e degli ultra-cattolici riaccesesi per le parole del Papa sulle unioni civili. La proposta di legge, nella sua nuova formulazione, porta però delle novità: anzitutto l’estensione del testo anche ai reati legati alla disabilità della vittima. Ad annunciarle ieri lo stesso Zan: “Come maggioranza abbiamo formulato e presentato sette emendamenti, per mantenere pienamente efficace tutto l’impianto del provvedimento approvato in commissione Giustizia. Anche in questo passaggio abbiamo lavorato tenendo presente l’obiettivo della proposta di legge: il contrasto alle discriminazioni, all’odio e alle violenze; per questo abbiamo deciso di accogliere la richiesta proveniente da molte associazioni di persone con disabilità di estendere le previsioni degli articoli 604 bis e ter del codice penale anche ai delitti commessi per ragioni legate alla disabilità della vittima”. Quanto agli input arrivati dalla commissione Affari costituzionali e quelli del Comitato per la legislazione, “abbiamo recepito - prosegue il deputato dem - le richieste di modifica definendo in modo più rigoroso le nozioni utilizzate (sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale) e ribadendo esplicitamente che la punibilità scatta quando vi sia ‘il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti’. “Inoltre - prosegue Zan - l’emendamento precisa che le opinioni non istigatorie ‘restano salve’, in quanto già discendenti direttamente dall’articolo 21 della Costituzione. Con questo emendamento smascheriamo anche tutte le fake news costruite ad arte nel corso di questi mesi su presunti intenti ‘liberticidi’ di questa legge”. I proponenti puntano all’approvazione entro pochi giorni, prima della sezione di bilancio, per poi passare il testo al vaglio del Senato dove i numeri sono più incerti. Ma gli ostacoli ci sono anche alla Camera: Lega e FdI hanno chiesto per il provvedimento le pregiudiziali di costituzionalità, un tentativo di bloccare la legge dichiarandola da subito incostituzionale. E hanno presentato 800 emendamenti. “Sapete di cosa di occupa martedì la Camera? - ha detto sprezzante in diretta streaming Matteo Salvini - Della legge contro la omotransfobia, il ddl Zan. In commissione si parla di legge elettorale, in un’altra commissione di cancellare i decreti sicurezza. Cercheremo di costringere il Parlamento e il governo a occuparsi di vita vera, di virus, di economia, di lavoro...”. Sono oltre 30 anni che l’Italia attende una legge contro l’omofobia. Il ddl Zan è stato approvato il 29 luglio 2020 in commissione Giustizia alla Camera. Il 3 agosto è iniziata la discussione generale in Aula poi interrotta dalla pausa estiva. Ora un altro step. “Se verrà approvato il testo con i nostri emendamenti - conclude Zan - daremo finalmente al Paese una legge avanzata di vasta efficacia contro i crimini d’odio. Il ritardo rispetto agli altri grandi paesi occidentali potrà finalmente essere colmato”. Migranti. Il buon esempio di una campagna. Avanti con la legge di Emma Bonino Il Manifesto, 27 ottobre 2020 Ero straniero. Creiamo un nuovo sistema di ingressi per lavoro in Italia, mettiamo in contatto i datori di lavoro italiani con i lavoratori stranieri in base alle esigenze del nostro mondo produttivo, consentiamo a chi è disposto a partire per cercare una vita migliore di farlo in sicurezza e piena legalità. Il 27 ottobre 2017 ero a Montecitorio, insieme agli altri promotori della campagna Ero straniero, per depositare la proposta di legge di iniziativa popolare di riforma della gestione dell’immigrazione in Italia. Eravamo circondati da scatole piene dei moduli sottoscritti da oltre 90.000 cittadini e dai tantissimi attivisti, militanti, volontari, sindaci che quelle firme una per una avevano raccolto in tutta Italia. Oggi la proposta di legge è all’esame della prima commissione della Camera - ne è relatore Riccardo Magi - e aspetta di essere approvata. Quella campagna è stata e continua a essere la prova di come organizzazioni e movimenti con storie diverse - radicali, organizzazioni religiose, sindacati, realtà impegnate nell’accoglienza e nel sociale - possano avere la forza di proporre i cambiamenti necessari a garantire al paese più diritti, più legalità e più sicurezza, quei cambiamenti che una politica sempre più ostaggio del consenso non ha avuto il coraggio di fare. Da quasi vent’anni, dall’approvazione della famigerata Bossi-Fini, abbiamo assistito a una gestione del fenomeno migratorio irrazionale e miope, spesso vittima della propaganda, in difficoltà di fronte all’aumento dei flussi negli anni più recenti, senza che vi sia stato il coraggio, da parte dei diversi governi che si sono succeduti, di cambiare il sistema fallimentare introdotto nel 2002. Tanto che da allora molti di quei governi, alle prese con numeri sempre più alti di persone rimaste senza documenti e costrette al lavoro nero, con sempre maggiore marginalità a livello sociale, non hanno potuto fare altro che ricorrere a sanatorie periodiche. E con un certo successo, visto che centinaia di migliaia di persone vi hanno ogni volta aderito, rimanendo successivamente a vivere e lavorare dignitosamente nel nostro paese, contribuendo in maniera importante al nostro Pil, versando contributi indispensabili alla tenuta del nostro sistema pensionistico, facendosi carico dei nostri anziani o diventando manodopera indispensabile per tanti comparti produttivi. Ma si è tornati ogni volta, dopo poco tempo, alla situazione di partenza, senza una programmazione efficace degli ingressi per lavoro e senza puntare sull’integrazione. Negli ultimi mesi qualcosa si sta muovendo: la regolarizzazione straordinaria del maggio scorso, seppur molto limitata e dettata dall’emergenza sanitaria, e il decreto immigrazione da poco pubblicato, pensato per riparare ad alcuni dei danni più pesanti causati dai decreti sicurezza, potrebbero rappresentare i primi passaggi di un disegno più ampio e più coraggioso. Creiamo un nuovo sistema di ingressi per lavoro in Italia, mettiamo in contatto i datori di lavoro italiani con i lavoratori stranieri in base alle esigenze del nostro mondo produttivo, consentiamo a chi è disposto a partire per cercare una vita migliore di farlo in sicurezza e piena legalità. E investiamo nell’integrazione di chi in Italia già si trova, coinvolgendo i territori e spegnendo il fuoco della paura. Per tutto ciò la palla dovrebbe passare ora al Parlamento che ha a disposizione uno strumento prezioso, la nostra proposta di iniziativa popolare. Non resta che andare avanti coi lavori, discuterla e approvarla. Come in questi tre anni, noi non smetteremo di impegnarci. Migranti. La storia di Kofi nel limbo della sanatoria di Alessanda Ziniti La Repubblica, 27 ottobre 2020 “Ho presentato tutti i documenti ma nessuno mi ha mai chiamato”. La macchina della regolarizzazione si muove con estrema lentezza e dei 220.000 che hanno fatto richiesta la maggior parte non ha mai ricevuto alcuna risposta. La denuncia delle associazioni della campagna “Ero straniero”. Sono passati quasi tre mesi e Kofi aspetta ancora. Nel frattempo continua a spaccarsi la schiena nei campi del foggiano raccogliendo frutta a 5 euro l’ora. “Ho presentato tutti i documenti per la regolarizzazione insieme con il mio datore di lavoro. Speravo di poter finalmente avere dei documenti e un contratto di lavoro ma non è successo nulla. Nessuno mi ha chiamato e nessuno sa darmi spiegazioni”. Kofi, 33 anni, senegalese per lo Stato italiano è ancora un fantasma. Nonostante sia uno dei 220.000 stranieri e lavoratori irregolari che sono riusciti (o forse sarebbe meglio dire sarebbero) ad approfittare del provvedimento di emersione dal lavoro nero varato nei mesi scorsi dal governo per i settori del lavoro domestico, agricoltura, pesca. Come lui altre decine di migliaia di stranieri irregolari che hanno presentato tutta la documentazione facendo i salti mortali tra le procedure difficilmente comprensibili soprattutto a loro non hanno mai ricevuto alcuna risposta. E continuano a vivere ai margini nei ghetti da irregolari e a lavorare in nero sfruttati. Ecco la storia di Kofi, raccolta da Oxfam, una delle associazioni del cartello che ha sottoscritto la proposta di iniziativa popolare “Ero straniero” approdata dopo tre anni in commissione alla Camera. “Sono arrivato in Italia dal Senegal sette anni fa - racconta - mi hanno ospitato prima in un centro di accoglienza in Calabria e da lì a Verona, ma la mia richiesta di asilo è stata sempre respinta. Ho fatto ricorso, mi sono affidato ad un avvocato che mi ha chiesto 1.000 euro assicurandomi che in appello sarebbe stata accettata e che, in ogni caso, mi avrebbe fatto avere il permesso di soggiorno con la sanatoria. Non ho mangiato per mesi per mettere da parte quei soldi e sono stato truffato”. Nel frattempo, dal nord Italia Kofi decide di andare a Napoli dove c’è una forte comunità senegalese e da lì viene indirizzato al ghetto di Borgo Mezzanone. Il lavoro lo trova, bracciante agricolo, sette giorni su sette a cinque euro l’ora. A lui, che al suo paese faceva il muratore, va bene così visto che non ha altra alternativa e che in Italia ormai è un irregolare a tutti gli effetti. I caporali lo costringono pure a guidare il pullmino che all’alba porta gli altri lavoratori come lui nei campi, ma Kofi non ha neanche la patente, viene fermato dai carabinieri e finisce pure in carcere. “Il mio desiderio era solo quello di non essere più un fantasma, potere avere dei documenti e lavorare e vivere in modo dignitoso - dice - così quando il mio datore di lavoro mi ha detto che c’era la possibilità di regolarizzare tutto e farmi un contratto e avere i documenti non mi è parso vero. Ad agosto abbiamo concluso tutto ma adesso sta finendo ottobre e non è successo nulla. Cosa devo fare?”. “Sono moltissimi i casi come quello di Kofi - dice Giulia Capitani di Oxfam - migliaia di lavoratori che pure ne avrebbero avuto diritto alla fine hanno rinunciato per una serie di ostacoli burocratici insuperabili, come ad esempio la richiesta di un passaporto che con tutta evidenza chi è arrivato in Italia da irregolare fuggendo dal suo paese non ha né ha possibilità di andare a chiedere in ambasciata. E moltissimi sono stati pure truffati da intermediari senza scrupoli”. E’ anche per questo che il cartello di associazioni che ha promosso la proposta di legge di iniziativa popolare “Ero straniero” (tra cui anche Centro Astalli, Arci, Asgi, Federazione chiese evangeliche, Action aid), nel terzo anniversario dell’iniziativa torna a chiedere “un atto coraggioso da parte del Parlamento perché approvi una riforma profonda della normativa vigente con l’introduzione di canali di ingresso per lavoro”. La proposta di legge, depositata tre anni fa con oltre 90.000 firme, è ora all’esame della commissione affari costituzionali della Camera. Brasile. Non tutti sanno cos’è un penitenziario di Francesco Ricupero L’Osservatore Romano, 27 ottobre 2020 Una serie di video per spiegare alla gente cos’è, davvero, il carcere: è l’iniziativa intrapresa, nei giorni scorsi, dalla pastorale carceraria della Conferenza episcopale brasiliana che ha come missione “la ricerca di un mondo senza carceri attraverso l’evangelizzazione e la promozione della dignità umana con la presenza della Chiesa negli istituti penitenziari”. Il mondo carcerario - spiega a “L’Osservatore Romano” padre Gianfranco Graziola, missionario della Consolata, membro del Coordinamento nazionale della pastorale carceraria brasiliana - “è un luogo insalubre per eccellenza e in tutti i sensi, sia dal punto di vista fisico che mentale che sociale. La prima causa di tutto questo è il sovraffollamento, la cui radice è la detenzione di massa e sistematica come soluzione e controllo delle povertà strutturali. Il carcere per lo Stato è diventato il principio base di investimento senza alcun risultato per il bene della collettività”. A fronte di ciò, la pastorale carceraria ha pensato di realizzare dei filmati visibili sul sito web dell’episcopato, sul canale YouTube e sui social. Il primo video spiega l’origine del servizio di pastorale carceraria, in cosa consiste e illustra l’opera di evangelizzazione che svolge con i detenuti, poiché l’assistenza religiosa “è un diritto delle persone che sono private della loro libertà”. In questo primo appuntamento, l’arcivescovo di Belo Horizonte, Walmor Oliveira de Azevedo, presidente dell’episcopato, parla della missione della pastorale carceraria: “Portare nei cuori dei detenuti e delle detenute la forza di trasformare tutte le persone, cioè il Vangelo di Gesù Cristo”. Il presule si dice convinto che occorre promuovere ogni azione possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle tristi e difficili condizioni nelle quali vivono i detenuti e anche i loro familiari. Da quando è scoppiata la pandemia, infatti, la situazione negli istituti di pena è ulteriormente peggiorata. Solo a giugno nei penitenziari i contagi sono cresciuti dell’800 per cento. “Il Coordinamento nazionale della pastorale carceraria - sottolinea padre Graziola - si è trovato a reinventare tutto a causa del coronavirus. L’utilizzo delle piattaforme mediatiche ci ha fatto capire che avevamo una grande opportunità di raggiungere più persone nella costruzione del progetto del “mondo senza carceri”. Da qui - spiega il nostro interlocutore - è nata l’idea di produrre una serie di video che parlassero agli agenti pastorali, alla società civile, alle comunità cristiane e alle istituzioni, sia religiose che statali, dei principi che animano lo spirito della pastorale”. Quindi, “partendo dalla realtà carceraria brasiliana e avendo come base il principio pastorale dell’evangelizzazione e della promozione umana, tema fondamentale dell’Evangelii nuntiandi, delle Conferenze di Medellín, Puebla, Aparecida e ora del magistero di Papa Francesco, si è pensato a una serie di video-documento il cui tema abbracciasse le grandi linee che alimentano la pastorale carceraria”. Nei mesi scorsi è stato lanciato un sondaggio anonimo, rivolto agli operatori penitenziari, per capire le criticità del sistema. La pastorale brasiliana è molto differente da altre nazioni, poiché non esiste la figura del cappellano penitenziario, ma operano all’interno degli istituti di pena laici e laiche, consacrati e consacrate, religiosi e religiose, sacerdoti e vescovi che visitano le carceri nei ventisette stati del Brasile e nel distretto federale dove si trova la capitale Brasília. Il primo filmato, dunque, è una sorta di introduzione a quello che è il concetto di pastorale carceraria come presenza cristiana e di Chiesa cattolica “in un mondo disumano come quello delle prigioni - aggiunge Graziola - che vìola e disprezza la vita, dove la punizione, la vendetta, la violenza, la tortura rappresentano l’espressione primaria e barbara di un sistema penale al servizio di un’economia che favorisce la disuguaglianza”. La serie di video, osserva suor Petra Pfaller, coordinatrice nazionale della pastorale carceraria, “affronterà temi fondamentali per la comprensione del sistema detentivo e della nostra missione come strumento di formazione per gli agenti pastorali penitenziari e altre persone interessate”. La religiosa anticipa anche i temi dei prossimi video che riguarderanno la mistica e la spiritualità della pastorale carceraria, le difficoltà delle donne detenute e dei loro figli, la salute in carcere, la prevenzione e la lotta alla tortura, le pratiche di giustizia riparativa. Ai video prendono parte non solo i componenti del coordinamento nazionale o esperti, ma anche alcune persone che operano nella pastorale in forme diverse o che condividono il progetto del “mondo senza carceri”. Nonostante le molteplici iniziative promosse, quello che preoccupa maggiormente la Chiesa in Brasile è il contagio da coronavirus all’interno degli istituti di pena e sono numerosi gli appelli rivolti alle autorità affinché vengano prese con urgenza decisioni che pongano fine alle indicibili sofferenze. Padre Graziola punta il dito sui governanti che hanno sottovalutato la gravità della situazione e “ignorato la risoluzione n. 62 del Consiglio nazionale di giustizia che chiedeva ai giudici dei vari stati di concedere gli arresti domiciliari a quelle che sono considerate “categorie a rischio. La proposta - sottolinea il responsabile - prevedeva di anticipare e velocizzare i processi di quanti stavano per concludere la pena o erano in regime di semi libertà in maniera che diminuisse la popolazione carceraria e anche la possibilità di contagio”. Nonostante la richiesta di una moratoria sociale dovuta alla pandemia - spiega il missionario - “la “fabbrica” della prigione di massa non ha mai smesso di funzionare e, quel che è ancora più machiavellico, senza nessuna misura di sicurezza sanitaria, collocando dentro il sistema carcerario persone provenienti dal mondo della strada, mettendole a rischio e infettando gli altri”. Il sacerdote denuncia in particolare la carenza totale di igiene, la mancanza di assistenza medica e farmacologica e la scarsa attenzione all’alimentazione. “Per questa ragione la pastorale carceraria e anche varie altre organizzazioni della società civile affermano con convinzione che il sistema carcerario non serve perché non recupera e non reinserisce nessuno nella società; al contrario è fonte di violenza e scuola del crimine. Siamo consapevoli che la pastorale carceraria rappresenta una piccola goccia nell’oceano di fronte al mostro che è il sistema penitenziario. Come ripeteva spesso il cardinale Paulo Evaristo Arns: “Di speranza in speranza, continuiamo il nostro servizio ecclesiale”. A conferma di ciò, in questo tempo di pandemia, gli agenti pastorali hanno inventato le forme più diverse per continuare a essere vicini ai fratelli e alle sorelle privati della libertà e in modo particolare ai loro familiari, con lettere, gesti di solidarietà concreta, l’invio di pen drive con la registrazione di preghiere, canti, la fornitura di cibo, prodotti per l’igiene e con una presenza costante, presso le direzioni degli istituti penitenziari, di assistenti sociali e difensori civici, “vigilando sulla vita di tanti fratelli e sorelle abbandonati al loro destino e condannati all’oblio”. Per questa ragione - conclude padre Graziola - mi pare pertinente ricordare quello che Papa Francesco scrive nella Laudato si’ (139): “Quando parliamo di “ambiente” facciamo riferimento anche a una particolare relazione: quella tra la natura e la società che la abita. Questo ci impedisce di considerare la natura come qualcosa di separato da noi o come una mera cornice della nostra vita. Siamo inclusi in essa, siamo parte di essa e ne siamo compenetrati [...]. È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura”. Malawi. Laboratori di istruzione professionale: il dono di Sant’Egidio al carcere di Mulanje santegidio.org, 27 ottobre 2020 Un nuovo edificio - vasto e luminoso - destinato a laboratori per l’istruzione professionale (vi si insegneranno alcuni mestieri come il falegname, il sarto e l’idraulico) è stato donato dalla Comunità di Sant’Egidio al carcere malawiano di Mulanjie. L’addestramento e l’avviamento al lavoro, permetterà ai detenuti di lavorare ed avere una fonte di sostentamento, sia durante la detenzione, sia a fine pena, quando sarà necessario reintegrarsi nella società e provvedere alle loro famiglie. La costruzione è parte di un progetto di riabilitazione dei detenuti per il quale Sant’Egidio è impegnata da tempo nelle carceri del paese, lottando per la difesa della dignità di chi è prigioniero e per la garanzia del rispetto dei loro diritti umani. Sant’Egidio è presente nel carcere di Mulanje da molti anni, tanto che l’amicizia con i prigionieri si è trasformata in un legame di fraternità: all’interno della prigione è nata una Comunità di Sant’Egidio, formata da detenuti e agenti di custodia, che si riuniscono due volte a settimana attorno alla Parola di DIo, per pregare in unità con tutte le comunità nel mondo. Le Comunità di Sant’Egidio del Malawi, da molti anni visitano i detenuti in 14 delle principali carceri del Paese, raggiungendo circa 10.000 reclusi, alleviando la vita di tanti con distribuzioni di cibo e altri beni e creando legami di amicizia con molti di loro. Da alcuni anni inoltre si è attivata una Law Clinic, con la collaborazione di un gruppo di avvocati che aiutano ad avere un processo regolare. Un progetto che ha permesso nell’arco di due anni il rilascio di 50 detenuti. Inoltre Sant’Egidio - con un progetto totalmente autofinanziato ed erogato gratuitamente - ha realizzato, nelle principali carceri del paese, cisterne per l’acqua potabile, pompe idriche e pozzi per garantire il diritto alla salute e per impedire che la detenzione, si trasformi - come purtroppo ancora accade - in una condanna a morte per malattie e infezioni, causate dall’uso di acqua impura o dalla sua totale assenza. L’insorgenza del Covid 19 lo scorso marzo ha reso ancora più difficile le condizioni dei detenuti, costretti ad un isolamento totale per mesi, in luoghi sovraffollati e con scarsità di cibo. Durante il lockdown, Sant’Egidio non ha fatto mancare la propria vicinanza: non potendo effettuare visite, ha fatto arrivare loro mascherine, disinfettanti, saponi, cibo e tante lettere. Iraq. La protesta anti corruzione compie un anno. Scontri e feriti nelle città di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 27 ottobre 2020 Il premier chiede ai manifestanti di evitare la violenza, e ordina alla polizia di non usare pallottole vere. Sono seicento le vittime dall’inizio delle contestazioni. E’ passato un anno e la rabbia degli iracheni non è ancora sfumata, anche se è forse un po’ meno accesa, e fiaccata dalla pandemia. Ieri era il primo anniversario della contestazione contro l’aumento dei prezzi e la corruzione, e centinaia di giovani si sono riversati a piazza Tahrir, nella capitale, cantando e ballando. Le tv proponevano immagini di un manifestante su sedia a rotelle issato a braccia fra la folla, in un’atmosfera a metà fra la festa e la protesta. Molti ragazzi brandivano cartelli con su scritto Vulcano 25 ottobre, a sottolineare che la loro marcia è inarrestabile. Anche in altre città, fra cui Najaf, Nassiriya e Bassora, la gente è scesa in strada, superando la prudenza legata alla diffusione del coronavirus. A Bagdad una parte dei contestatori ha cercato di sfondare i blocchi delle forze dell’ordine per raggiungere la zona Verde, con i palazzi governativi e le ambasciate. La polizia è intervenuta con gas lacrimogeni e idranti. Secondo i media locali sono almeno una sessantina i feriti fra poliziotti e civili. Il nucleo della protesta è il centro-sud sciita, che contesta il governo, considerato troppo filo-americano, ma sembra ostile anche verso i gruppi di influenza iraniana. Al centro delle richieste c’è soprattutto quella di giustizia per le vittime della repressione governativa. In un anno circa 600 persone sono rimaste uccise, mentre i feriti sono circa 300mila: gran parte delle vittime sono manifestanti e attivisti, morti nelle proteste. Il primo ministro Mustafa al Khadimi ha dato ordini rigorosi alle forze dell’ordine, perché si astengano dall’usare proiettili veri, e ha invitato i manifestanti a evitare la violenza. Il portavoce degli Stati maggiori Yahya Rasool ha confermato che le forze impegnate a fermare i cortei non avevano con sé armi da fuoco. Elezioni politiche sono previste per il prossimo giugno. Nigeria. La rivincita delle ragazze rapite da Boko Haram di Chiara Mariani Corriere della Sera, 27 ottobre 2020 Alcune sono riuscite a fuggire, altre sono state rilasciate dai terroristi che le sequestrarono in Nigeria sei anni fa: oggi sono 119 le giovani donne che vogliono studiare all’università. Delle più sfortunate, oltre 100, non sappiamo più nulla. Nel 2014, la notte del 14 aprile, 276 studentesse della scuola superiore di Chibok, Nigeria, vengono rapite da un’organizzazione terroristica nota come Boko Haram. Le autorità nigeriane erano state avvertite quattro ore prima, un lasso di tempo che, dicono, non permette loro di prevenire il delitto. Molte delle ragazze sono condotte nei vicini Paesi del Camerun e Ciad, costrette a unirsi in matrimonio con i terroristi e le non musulmane a convertirsi all’Islam. Alcune riescono a liberarsi subito, ma gli abitanti dei villaggi vicini le restituiscono ai rapitori, condannandole alla frusta. Le famiglie delle vittime sono angosciate e furiose contro le autorità. Un avvocato di Abuja, la capitale della Nigeria, promuove l’hashtag #BringBackOurGirls che in pochi giorni diventa uno dei più twittati: sei milioni di volte. Le ragazze di queste pagine, ritratte dalla francese Bénédicte Kurzen, sono le involontarie protagoniste di quella sciagurata avventura. Si trovano nel campus della American University of Nigeria (a Yola nello Adamawa State) sotto la supervisione della New Foundation School, fondata nel 2014 per permettere loro di completare gli studi. All’inizio sono 11. Nella primavera del 2019 le studentesse scappate o rilasciate che accedono ai corsi sono già 119. Ma le più sfortunate, più di cento, mancano all’appello. Siria. Abbiamo un problema con i detenuti dell’Isis nelle carceri curde di Rodolfo Casadei Tempi, 27 ottobre 2020 I curdi vogliono rilasciare i detenuti e solo gli Usa si sono impegnati in un programma di de-radicalizzazione. Una situazione complessa. Resta innescata la bomba dei detenuti dell’Isis nelle prigioni sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est (Aasne), l’interfaccia civile delle Forze democratiche siriane (Fds) egemonizzate dai curdi delle Ypg (Unità di protezione popolare) anche se un portavoce del Dipartimento di Stato americano ha fatto sapere attraverso la radio Voice of America che gli Usa sono d’accordo con la decisione curda di rilasciare 631 detenuti fiancheggiatori dell’Isis che non avrebbero commesso delitti di sangue e 289 civili dal campo di internamento di al-Hol per familiari dei detenuti. L’amnistia decisa il 12 ottobre scorso dalle autorità della cosiddetta Rojava riguarda tutti i detenuti nelle strutture penitenziarie della regione autonoma. Essa comporta il rilascio di tutti i carcerati per reati minori, gli ultra75enni e i malati terminali; commuta le condanne all’ergastolo in 20 anni di carcere e dimezza tutte le altre pene detentive. Sono esclusi dall’amnistia i condannati per spionaggio, tradimento, delitti d’onore, violenze carnali, traffico di droga e gli alti gradi delle organizzazioni terroristiche, come pure i responsabili dell’addestramento e tutti i combattenti che hanno ucciso cittadini siriani. Gli effetti dell’amnistia sui detenuti dell’Isis sono, oltre all’immediato rilascio di 631 di essi, quello imminente di altri 253 che hanno avuto la sentenza dimezzata. Sette giorni prima l’Aasne aveva annunciato il graduale rilascio di 25 mila donne e bambini di nazionalità siriana dal campo di internamento di al-Hol, dove si trovano da un anno e mezzo 68 mila familiari dei detenuti dell’Isis. Rispedire a casa i jihadisti - La situazione resta esplosiva perché nelle carceri curde si trovano migliaia di terroristi dell’Isis che hanno già tentato più volte evasioni di massa, e perché non ci sono garanzie sul reinserimento sociale sia dei detenuti fin qui rilasciati che dei loro familiari. Le stime sul numero dei combattenti jihadisti sparsi in una dozzina di carceri dell’Aasne variano da fonte a fonte. Le più attendibili parlano di 19 mila prigionieri Isis, 12 mila dei quali siriani; gli iracheni sarebbero 5 mila e gli altri stranieri, appartenenti a 55 diverse nazionalità, 2 mila circa. Le autorità curde hanno fatto presente più volte alla comunità internazionale che non sono in grado di garantire la sicurezza e la vivibilità delle carceri nel lungo periodo, e hanno visto respinte le loro richieste ai paesi di appartenenza dei jihadisti non-siriani di poter rispedire questi ultimi nella patria di origine. Solo gli Usa hanno impegnato una parte dei 200 milioni del loro programma anti-Isis nella Siria nord-orientale per migliorare il sistema carcerario e per il mantenimento delle famiglie dei terroristi nei campi per gli sfollati. Come reinserirli - Americani e curdi ora rassicurano che esistono programmi di de-radicalizzazione sia nei centri di detenzione che presso le comunità dove i civili rilasciati dal campo di al-Hol rientreranno. Un certo numero di osservatori rimane scettico. Secondo Eva Kahan dell’Institute for the Study of War “molto probabilmente l’Isis ha reclutato aggressivamente all’interno dei centri di internamento a causa dell’incapacità delle Fds di tenere separati gli elementi radicali dal resto della popolazione. Questi iniziali rilasci forniranno decine o anche centinaia di potenziali combattenti Isis o fiancheggiatori alle cellule sia dormienti che attive di insorti nella media valle dell’Eufrate e potrebbero rappresentare benzina gettata sulle fiamme dell’insurrezione”. Secondo le statistiche disponibili, donne e bambini rappresentano il 94 per cento dei residenti del campo di al-Hol, ma è noto che molte donne hanno avuto e hanno un ruolo di rilievo nel sistema di militanza organizzata dell’Isis e che i “bambini” comprendono tutti i minorenni, e anche in questo caso è tristemente famosa la capacità di condizionamento psicologico di ragazzi e persino bambini da parte dell’Isis al fine di farli entrare nelle file dei suoi combattenti. Inoltre i 10 mila stranieri non iracheni e non siriani presenti nel campo - che solo in rari casi vengono riaccolti nei paesi d’origine - rappresentano la componente più radicalizzata di tutti gli internati. Secondo Mona Yacoubian dell’Institute of Peace di Washington “molto dipenderà dalle condizioni che ritroveranno nelle loro comunità d’origine, e se queste condizioni saranno favorevoli o no al loro reinserimento. Nella misura in cui gli internati si ritroveranno nel genere di condizioni che hanno alimentato le recriminazioni che spesso hanno potuto condurre all’ingresso nei ranghi dell’Isis, il loro rinvio ai luoghi di origine è motivo di preoccupazione”. Migliaia di combattenti - A insistere per il rilascio dei civili internati nei campi per sfollati (quelli ufficiali sono una dozzina) sono state soprattutto le autorità tribali delle comunità beduine, che in alcuni casi hanno pagato con la vita la loro incapacità di convincere i curdi a fare in fretta, ma resta forte l’interrogativo sulla possibilità di vita normale in comunità che sono state duramente colpite dalla guerra e ora dalla crisi economica, e presso le quali le entrate erano assicurate soprattutto dagli uomini che erano andati a combattere con l’Isis. D’altra parte ad al-Hol e negli altri campi per sfollati le condizioni di vita sono in graduale peggioramento, con un costante aumento dei tentativi di fuga e dei delitti all’interno delle strutture. Fra agosto e metà ottobre si sono registrati 16 omicidi. E le autorità curde hanno fatto sapere che “l’Aasne non intende pagare somme esorbitanti per procurare a queste persone cibo e altri generi. Inoltre i problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente comprendono omicidi, stupri e così via”. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari fa presente che i cinque enti Onu che si occupano dei bisogni del campo di al-Hol hanno finora ricevuto soltanto 19,6 dei 53,2 milioni di dollari di cui hanno bisogno per la gestione delle attività umanitarie quest’anno. In Siria l’Isis non controlla più nessun territorio dal marzo 2019, ma resta attivo con attacchi e attentati nella regione di Der Ezzor. l’Aasna ha annunciato che fra gennaio e febbraio dell’anno prossimo verranno portati in giudizio “migliaia” di combattenti dell’Isis attualmente detenuti.