Errori giudiziari, rimborsi record: costano 28 milioni l’anno di Michela Allegri Il Messaggero, 26 ottobre 2020 Le cifre sono da capogiro: dal 1991 al 31 dicembre 2019 ci sono stati 28.893 casi di errore giudiziario in Italia, considerando sia le ingiuste detenzioni, sia le assoluzioni a seguito di un processo di revisione. Quasi mille all’anno. E la spesa per lo Stato, tra risarcimenti e indennizzi, è stata altissima: 823.691.326 euro, circa 28 milioni e 400mila euro ogni dodici mesi. Ma quali sono le città dove la giustizia sbaglia di più? Per quanto riguarda il periodo che va da gennaio a dicembre 2019, la Capitale è sul podio: considerando i dati dei ministeri dell’Economia e della Giustizia - analizzati e diffusi dall’associazione Errorigiudiziari.com - emerge che Roma è al terzo posto della classifica per le ingiuste detenzioni, che sono state in tutto 105. Mentre sale al secondo posto se si considera la spesa in risarcimenti: 4.897.010 euro. La classifica - Sul gradino più alto, per le custodie cautelari in carcere o ai domiciliari seguite da un’assoluzione, c’è la città di Napoli - con 129 casi -, che da otto anni si trova stabilmente nelle prime tre postazioni della classifica: nel 2017, per esempio, era al terzo posto, con 117 casi, mentre nei dati diffusi nel 2013 era già “maglia nera” con 192 casi e 4.425.370 euro risarciti. La seconda classificata per il periodo che va dal primo gennaio al 31 dicembre del 2019 è Reggio Calabria, che sale in prima postazione per quanto riguarda i risarcimenti: parliamo di 9.836.865 euro. Palermo è al decimo posto nell’elenco per i casi - sono stati solo 39 - ma sale al quinto per le cifre pagate: 3.217.001 euro in un anno. Roma era sul secondo gradino del podio per quanto riguarda i risarcimenti anche nel 2017 - erano stati spesi 3.924.672 euro - ed era nella stessa postazione della classifica anche per le carcerazioni: 137 in tutto. Il 1992 è l’anno da cui parte la contabilità ufficiale delle riparazioni per ingiusta detenzione nei registri del ministero dell’Economia. Dall’analisi dell’associazione fondata da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, che da più di 20 anni si occupa di malagiustizia, emerge che in tutto, arrivando al 31 dicembre 2019, si sono registrati 28.702 casi. Significa che nel nostro Paese 1.025 persone ogni anno sono state sottoposte a custodia cautelare pur essendo innocenti. Un dato che si traduce in una spesa a sei zeri per le casse pubbliche: circa 757 milioni di euro utilizzati per pagare indennizzi. Poco più di 27 milioni di euro ogni anno. Le ingiuste detenzioni - Dall’inizio di gennaio alla fine di dicembre 2019 i casi di ingiusta detenzione in tutta l’Italia sono stati 1.000 e il ministero dell’Economia ha dovuto pagare 44.894.510 euro. Dall’analisi comparata dei dati emerge che rispetto all’anno precedente i casi sono saliti di 105 unità, mentre la spesa è schizzata a +33 per cento. Va fatta una precisazione: i casi di ingiusta detenzione che ogni anno si verificano potrebbero essere molti di più rispetto a quelli che risultano dalla contabilità ufficiale, dove vengono menzionati solo quelli in cui ci sia stato un effettivo risarcimento per i giorni ingiustamente trascorsi in carcere o agli arresti domiciliari. Delle domande di riparazione presentate alle corti d’appello, infatti, molte vengono respinte: almeno un terzo. Le assoluzioni - Per quanto riguarda gli errori giudiziari veri e propri, cioè le assoluzioni dopo un processo di revisione, il totale dal 1991 è di 191 e la spesa in risarcimenti è di 65.878.424 euro, circa 2 milioni l’anno. Da gennaio a dicembre del 2019 i casi sono stati in tutto 20, due in più rispetto all’anno precedente. Italia agli ultimi posti in Europa per indipendenza del sistema giudiziario di Paolo Ganzerli Il Mattino, 26 ottobre 2020 In occasione della Giornata Europea della Giustizia, l’Ispi fa il punto sullo stato dell’indipendenza della giustizia in Europa: Italia agli ultimi posti dopo Grecia, Cipro e Repubblica Ceca. Il 25 ottobre di ogni anno si celebra l’European Day of Justice (Giornata Europea della Giustizia). Istituito nel 2003 dalla Commissione Europea e dal Consiglio d’Europa, l’evento ha l’obiettivo di informare adeguatamente i cittadini sui loro diritti e sulle modalità di funzionamento della giustizia civile, in modo da contribuire al loro avvicinamento alla giustizia e, quindi, a migliorare l’accesso al servizio giudiziario. In occasione di questa giornata, l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) ha fatto il punto sulla situazione dell’indipendenza della giustizia in Europa. E per l’Italia non ci sono buone notizie. Per quest’analisi, Ispi ha utilizzato i dati dell’Istituto internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale (IDEA), che ogni anno calcola il Global State of Democracy, un indice che offre la fotografia dello stato di salute della democrazia nei vari Paesi del mondo. Tra gli indicatori utilizzati vi è quello relativo all’indipendenza della giustizia, calcolato utilizzando attributi relativi all’indipendenza delle alte corti, l’indipendenza delle corti di giustizia, sottomissione della magistratura (i dataset utilizzati sono del centro di ricerca indipendente V-Dem). E proprio i dati dell’ultimo Global State of Democracy 2020 relativi a questo indicatore sono stati utilizzati per fare una fotografia dello scenario europeo. Lo stato dell’indipendenza della giustizia nei vari Paesi europei non restituisce buone notizie per l’Italia. Il Belpaese, infatti, viene classificato tra quelli con un “medio livello di performance”, con un valore di indipendenza pari a 0,63 (su 1). Considerando che all’interno dell’UE non vi sono Stati a “basso livello di performance”, l’Italia si attesta nella parte bassa di questa classifica, dietro a nazioni come Repubblica Ceca, Grecia e Cipro. L’Italia, però, è in buona compagnia in mezzo al guado. Tra i Paesi con performance medie, infatti, vi sono Francia (0,69), Germania (0,70) e Regno Unito (0,70), realtà spesso identificate come più virtuose in molti ambiti. A guidare la classifica, invece, sono Irlanda e Danimarca con un punteggio di 0,93, mentre l’ultimo posto è occupato dalla Romania (0,45). Dati molto positivi per Portogallo, Spagna, Paesi Bassi, Svezia, Lettonia e Lituania, con punteggi tutti superiori allo 0,80. Infine, situazione in stand-by per la Polonia. Ad oggi, il Paese registra un pur negativo 0,51, ma i cui dati sono in aggiornamento in virtù degli ultimi sviluppi relativi alla compressione dei diritti civili. Per la nazione guidata dal conservatore Andrzej Duda si prevede un drastico calo di tutti i valori relativi alla stabilità democratica. Il Cnf: “Udienze in presenza, ma non si rinunci al remoto” di Davide Varì Il Dubbio, 26 ottobre 2020 L’intervento del Consiglio nazionale forense in occasione della Giornata europea della giustizia civile di oggi. “I giudizi continuino a svolgersi secondo le modalità più appropriate all’oggetto e alla fase processuale e, dunque, si prediliga la celebrazione dell’udienza in presenza in tutte le ipotesi in cui il confronto immediato e contestuale sia necessario per la delicatezza degli interessi in gioco o per le attività da svolgere”, ma, nello stesso tempo, “giudici e avvocati non rinuncino a utilizzare le forme alternative della celebrazione da remoto o in forma scritta le quali, se concordate o comunque rimesse a valutazioni condivise e se disposte nel rispetto dei presupposti oggettivi e soggettivi prescritti per legge, appaiono sicuramente idonee allo scopo di evitare situazioni di rischio per la salute e, più in generale, ad alleggerire i tempi di processi spesso troppo lunghi e farraginosi”. È la posizione del Consiglio nazionale forense che richiama, in occasione della Giornata europea della giustizia civile di oggi, l’attenzione sulle “difficoltà che gli avvocati stanno affrontando e i cittadini subendo a causa del limitato funzionamento della giurisdizione nel difficile momento che il Paese attraversa dallo scorso mese di marzo: il senso di responsabilità di tutti gli operatori del settore, in particolare di avvocati e magistrati, dovrà orientarne i comportamenti e l’operato in modo da assicurare, in maniera sempre più piena, la garanzia costituzionale ad un processo equo nel necessario rispetto delle prescrizioni in materia di contenimento del contagio”. Secondo il Cnf, inoltre, “è opportuno che le disposizioni normative in materia di lavoro agile tengano presente l’assoluta necessità che, l’accesso agli uffici giudiziari sia garantito nella misura più ampia e costante possibile e che le disposizioni organizzative rimesse ai singoli capi degli uffici giudiziari assicurino una disciplina il più possibile uniforme sul territorio nazionale, che non giustifica regimi differenziati soprattutto se lesivi dei principi indefettibili del giusto processo”, ed è “indispensabile che si implementi la digitalizzazione e l’informatizzazione dei processi di competenza delle procure, degli uffici del giudice di pace e di tutti gli uffici di cancelleria e che si adottino interventi normativi che agevolino l’accesso alle procedure di giustizia complementare (negoziazione assistita, mediazione, conciliazione), quali, ad esempio, il beneficio del patrocinio a spese dello Stato e la previsione di incentivi fiscali più ampi di quelli finora previsti”. Il Consiglio nazionale forense, infine, auspica ed “è in tal senso impegnato a dare un contributo” affinché “il Recovery Plan possa costituire l’occasione per una riforma strutturale del sistema della giustizia civile che ponga finalmente al centro la persona e il suo bisogno di tutela”. Processo hi-tech in Cassazione. Disco verde dal 26 ottobre al rito civile telematico di Dario Ferrara Italia Oggi, 26 ottobre 2020 È l’effetto del protocollo d’intesa firmato al Ministero della giustizia. Prima fase a due binari. Sbarca anche in Cassazione il processo civile telematico. Nei giorni scorsi al ministero della Giustizia la firma del protocollo d’intesa ad hoc fra tutte i soggetti protagonisti, avvocati compresi. Da lunedì 26 ottobre parte la sperimentazione ufficiale del deposito degli atti di parte per testare la funzionalità del sistema fino quando il Pct di legittimità non andrà a regime. La prima fase è a doppio binario, in formato cartaceo e telematico, in cui tuttavia solo il primo avrà valore legale; in un secondo momento si perverrà al deposito telematico facoltativo ma a valore legale per gli atti introduttivi. Si conta di arrivare al valore legale entro il 15 gennaio 2021. Il deposito online degli atti introduttivi di parte diverrà obbligatorio il 17 aprile 2021 dopo l’agognato decreto ministeriale di Via Arenula previsto già dall’articolo 16 bis dal decreto sviluppo bis, che sarà pubblicato entro dicembre. “Un passo importante nel percorso di modernizzazione della Giustizia”, ha commentato il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Alla ripresa della sperimentazione prima dell’estate la Cassazione e il sito Pst Giustizia hanno indicato come schemi da utilizzare quelli rilasciati in beta release il 3 aprile scorso, che poi hanno avuto un nuovo aggiornamento il 27 luglio. All’inizio sarà un gruppo di cassazionisti-referenti a trasmettere ricorsi, controricorsi e atti successivi secondo le specifiche tecniche di Pst Giustizia fino a quando il decreto ministeriale renderà superfluo il deposito cartaceo ai fini dalla validità dell’atto: alla Suprema corte ci sarà uno sportello ad hoc per ricevere il formato analogico degli atti già inviati in modalità telematica. Gli avvocati-pionieri sono individuati dal Consiglio nazionale forense con l’aiuto della Fiif, la sua fondazione informatica. Altrettanto fa l’Avvocatura dello Stato con un team che si occuperà di trasmettere gli atti di competenza. La road map prevede il deposito facoltativo degli atti introduttivi di parte fra il 16 gennaio e il 16 aprile 2021, che dal giorno successivo diverrà obbligatorio grazie alla modifica normativa. Per centrare l’obiettivo il patto fra Ministero, Cassazione e avvocati fissa un cronoprogramma a tappe forzate. Entro ottobre le cancellerie della Suprema corte devono avere l’applicativo per gestire i procedimenti telematici e gli atti depositati in digitale dagli avvocati. E fin dall’inizio Via Arenula s’impegna a fornire il desk del consigliere per consentire ai componenti i collegi di consultare i fascicoli telematici. Alla sesta sezione civile, quella che filtra i ricorsi inammissibili, le novità arriveranno soltanto il 15 gennaio mentre sarà disponibile solo dal 31 maggio l’aggiornamento al desk del consigliere per gestire in via telematica il flusso di provvedimenti, davvero abnorme. È insomma il 15 gennaio, infatti, il vero d-day tecnologico: dopo il dm previsto a dicembre entro quella data dovrà essere tutto pronto per gli utenti esterni e interni e quindi per il deposito via web e la pubblicazione automatizzata dei provvedimenti. E all’inizio di giugno la Procura generale di piazza Cavour dovrà coinvolta in pieno nel Pct. Al momento le cancellerie del Palazzaccio già inviano comunicazioni via posta elettronica certificata ma con il passaggio al digitale per gli atti degli avvocati e dei magistrati gli uffici potranno gestire tutto il fascicolo processuale in modalità telematica. “La qualità e la durata dei processi di lavoro ne avranno un miglioramento, come già avvenuto in primo e secondo grado”, assicurano da via Arenula. A sottoscrivere l’accordo con il guardasigilli Bonafede sono stati Pietro Curzio (primo presidente della Cassazione), Giovanni Salvi (procuratore generale della Cassazione), Gabriella Palmieri Sandulli (avvocato generale dello Stato), Maria Masi (presidente facente funzioni del Cnf) e Giovanni Malinconico (coordinatore dell’Organismo congressuale forense). Non c’è dubbio che la pandemia Covid-19 abbia impresso un’accelerazione: “La tecnologia a supporto del processo telematico ha consentito nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria di garantire lo svolgimento di un servizio essenziale come quello giudiziario”, spiega il ministro. Il Pct in Cassazione migliorerà “la qualità del servizio giustizia e del lavoro di tutti”, promette il presidente Curzio, mentre il procuratore Salvi si augura che “presto si possa avviare anche il processo penale telematico”. Cacciata di Davigo: Di Matteo non è stato un traditore ma l’unico serio di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 26 ottobre 2020 Ospite di Piazza Pulita su LA 7, l’ormai ex magistrato Piercamillo Davigo ha detto una cosa che non può non colpire: se solo avessi avuto un cenno (dal presidente del Csm Mattarella, si intende) circa l’orientamento del Comitato di Presidenza in senso contrario alla mia permanenza, mi sarei immediatamente dimesso. Dico subito che credo senza riserve a quanto dice il dott. Davigo, del quale avverso con tutte le forze le idee sulla giurisdizione e sul processo penale, ma la cui esemplare integrità morale davvero nessuno può mettere in dubbio. Ed anzi confesso di aver provato empatia verso il servitore dello Stato, di stampo antico, che dice: avrei obbedito, perché non risparmiarmi questa umiliazione? Senonché, sono portato a pensare che nessun cenno gli è stato fatto per la semplice ragione che fino all’ultimo si è cercato di salvare, più che il soldato Davigo, l’assetto politico del Csm che aveva appena giudicato e rimosso dalla magistratura, con molta fretta, il dott. Luca Palamara. Se e fino a qual punto il dott. Davigo avesse fatto affidamento proprio su questa inerzia, lo sa solo lui; ma la partita si è giocata su questo tavolo, non certo su quello della controversia tecnico-giuridica, come si vorrebbe farci credere; e nemmeno sul piano, come dire, personale nei confronti del magistrato simbolo della stagione di Mani Pulite. Ma quando poi, con malcelata amarezza, egli lamenta che quel silenzio ingannevole dei vertici del Csm lo abbia ingenerosamente esposto ad un danno di immagine, come di un magistrato “attaccato alla poltrona”, qui il Nostro scivola nella retorica populistica un po’ troppo facile, ancorché a lui assai congeniale. Qui il dott. Davigo (che peraltro avrebbe avviato, stando a notizie di stampa, altra controversia per veder retroattivamente rivalutata la sua sconfitta nella corsa a Primo Presidente della Corte) deve prendersela solo con sé stesso. Il quadro dei principi era ed è chiarissimo, il Consiglio di Stato si era già pronunciato esattamente in termini quando egli ha deciso di ingaggiare questa battaglia. Ed anzi, egli aveva avuto altre due eccellenti occasioni per buttare dignitosamente la spugna: il giudizio negativo della Commissione che di norma lui stesso presiedeva; ed il parere drasticamente negativo della Avvocatura dello Stato (incredibilmente secretato: il che la dice lunga su quanto il Consiglio o gran parte di esso stesse cercando di sostenerlo). Ha voluto tenere il punto, non ha che da recriminare con sé stesso. Ma una riflessione a parte merita il voto finale espresso dal Csm, che conferma una volta di più la deriva davvero incontrollabile della crisi di autorevolezza e credibilità che attanaglia la magistratura italiana ed il suo vertice istituzionale. Ancora una volta, su una questione del tutto tecnica, si è votato per schieramenti, e per dosimetrie correntizie. Il tema era se il magistrato in pensione potesse rimanere in carica: cosa c’entra qui la corrente di appartenenza? Ogni commento è superfluo. E merita invece plauso il voto libero ed “imprevisto” del dott. Nino di Matteo. Per Travaglio -che incarna l’idea platonica della faziosità più incontinente e spregiudicata- si tratta di un voto “inspiegabile”; per molti, anche all’interno della stessa magistratura, sarebbe stata addirittura una ritorsione contro il silenzio di Davigo sulla nota vicenda della mancata nomina al Dap. Che si debba essere proprio noi avvocati a presumere, almeno presumere, un gesto di onestà intellettuale e di libertà morale da parte di un magistrato pur assai lontano da noi, la dice lunga - per parafrasare Gadda - su quanto sia grave “quel pasticciaccio brutto di piazza Indipendenza”. Davigo esalta la giustizia delle toghe: ritardi e difesa menomata sono primati? di Errico Novi Il Dubbio, 26 ottobre 2020 L’ex consigliere del Csm difende se stesso e anche la magistratura, la capacità di controllo e sanzione dell’ordine giudiziario. Davigo si difende. E ne ha diritto. Ma nel suo intervento a Piazzapulita di quattro sere fa difende anche la magistratura, la capacità di controllo e sanzione dell’ordine giudiziario. E su questo secondo versante è più esposto a critiche. Dice che sul “caso Procure” i magistrati, a differenza della politica, hanno offerto una risposta esemplare e tempestiva: “I componenti del Csm che erano stati coinvolti in quella vicenda si sono dimessi, e come magistrati sono sottoposti a procedimento disciplinare. C’erano due politici, non mi consta che i loro partiti abbiano detto alcunché”. Un momento. A parte il fatto che quanto a tempestività siamo messi così male da vedere ora il processo disciplinare ai 5 ex togati messo a serio rischio annullamento. Dopodiché dovremmo riproporre, come ogni tanto si è costretti a fare, un’intervista che Giovanni Maria Flick ha concesso al nostro giornale. È davvero incredibile, ha detto il presidente emerito della Consulta, la lentezza con cui sia l’Anm sia il Csm si sono ricordate che esistono un accertamento deontologico e uno disciplinare. Davigo fa vanto al Csm della meravigliosa macchina sanzionatoria abbattutasi sul Palamara. Ma certo non ci si può rallegrare del solo vero primato stabilito da quel procedimento: l’incredibile compressione del diritto di difesa. Neppure un teste ammesso su 133 richiesti, tranne i 5 su cui l’accusa era concorde. Motivo: non si è ritenuto opportuno processare l’intero sistema, ci si doveva limitare alla cena con Cosimo Ferri. Sarebbe questa la grande capacità di autocritica della magistratura? Davigo non è componente del Csm, almeno per ora. Con la sua intelligenza può permettersi di essere molto più obiettivo. Patteggiamento, accordo più forte sulle confische di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2020 Sì al ricorso per cassazione per vizio di motivazione sulle misure di sicurezza non concordate tra le parti. Il diritto di difendersi negoziando con l’accusa un patteggiamento che non riguardi solo la pena principale ma anche le misure di sicurezza e le sanzioni amministrative accessorie è al centro delle sentenze 21368 e 21369 delle Sezioni Unite della Cassazione, depositate il 17 luglio scorso. In particolare, con la sentenza 21368, la Corte ha spiegato che le misure di sicurezza personali e patrimoniali - tra cui rientra la confisca del prezzo, del profitto e del prodotto del reato, che caratterizza praticamente tutti i reati a connotazione economica - possono essere oggetto di accordo tra accusa e difesa, che però non vincola il giudice: se egli lo ratifica, continua la Corte, può farlo con motivazione sintetica; se invece applica una misura diversa da quella concordata dalle parti, ha un onere di motivazione rafforzato e la sentenza di patteggiamento può essere oggetto di ricorso per Cassazione non solo, come stabilisce l’articolo 448, comma 2-bis, del Codice di procedura penale, in caso di illegalità della misura, intesa come sua totale estraneità al sistema penale, ma anche per vizio di motivazione. Si tratta di un principio dettato con la finalità di espandere la logica negoziale del patteggiamento. La sentenza 21369, invece, muove dall’ostacolo costituito dal divieto, nel nostro ordinamento, di estendere l’accordo tra accusa e difesa alle sanzioni amministrative accessorie. Tuttavia, poiché riguardano un numero significativo di reati - tra i quali, in particolare, quelli stradali, urbanistici e ambientali - la Corte sancisce la ricorribilità per Cassazione delle relative statuizioni della sentenza di patteggiamento, altrimenti precluso dalla formulazione testuale dell’articolo 448 comma 2-bis. Il controllo di legittimità, spiega la Cassazione, è necessario per evitare che l’ampia discrezionalità che la legge attribuisce al giudice nell’applicazione e nella determinazione delle sanzioni amministrative accessorie possa causare conseguenze troppo afflittive sulle esigenze di vita dell’imputato senza la sua preventiva interlocuzione. Sono pronunce di notevole attualità, dato che la Commissione Giustizia della Camera sta esaminando il disegno di legge delega al Governo per la riforma del processo penale (atto Camera 2435). Il testo in discussione, approvato dal Consiglio dei ministri a febbraio con l’obiettivo di rendere più efficiente il processo penale anche incentivando il ricorso ai riti alternativi, prevede un innalzamento del tetto della pena che può essere concordata fino a 8 anni, dagli attuali 5, per accedere al patteggiamento. Non è però prevista una disciplina che consenta l’inclusione nell’accordo delle misure di sicurezza e delle sanzioni amministrative accessorie. Eppure sono un inevitabile corollario della maggior parte dei reati, che spesso scoraggiano l’imputato a optare per il patteggiamento, proprio perché non negoziabili con il pubblico ministero in modo vincolante per il giudice (le misure di sicurezza), oppure espressamente escluse dalla possibilità di accordo (le sanzioni amministrative dipendenti da reato). Sono limiti che frustrano le potenzialità deflattive del patteggiamento. E ora la giurisprudenza sembra indicare che sono maturi i tempi per superarli. Tra esercizio arbitrario ed estorsione pesa l’elemento psicologico di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2020 Le sezioni Unite con la decisione 29541 del 23 ottobre chiariscono le differenze tra le due fattispecie. Il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ha natura di reato proprio non esclusivo e si differenzia da quello di estorsione solo sulla base dell’elemento psicologico. Infine, il concorso del terzo nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone si configura solo quando il terzo stesso apporta un proprio contributo alla pretesa del ceditore, senza tuttavia ricavarne un proprio utile. A queste conclusioni approdano le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza n. 29541 del 23 ottobre che ha risolto un contrasto interno alle Sezioni semplici. Il dato psicologico - La valorizzazione dell’elemento psicologico, rispetto a un dato materiale che i giudici ritengono comunque non esattamente sovrapponibile perché solo per la fattispecie tipica di estorsione è richiesto il verificarsi di un effetto di costrizione della vittima conseguente a violenza o minaccia, porta a ritenere che nel reato di esercizio arbitrario “l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione non meramente astratta e arbitraria, ma ragionevole, anche se in concreto infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria”; nel reato di estorsione, invece, l’agente va alla ricerca di un profitto nella piena consapevolezza della sua ingiustizia. L’elemento psicologico inoltre andrà accertato secondo le ordinarie regole probatorie: la speciale intensità del comportamento violento o minaccioso potrà così essere ritenuta sintomo significativo del dolo dell’estorsione. Il concorso - Quanto al concorso è la natura dell’interesse a fare la differenza. Nel caso il terzo o i terzi abbiano perseguito un interesse proprio il concorso sarà nel reato di estorsione; quando invece l’interesse esclusivo perseguito è quello del creditore, nei limiti in cui questo sarebbe stato tutelabile in via giudiziale, allora il concorso sarà con il reato di esercizio arbitrario. Roma. Regina Coeli, protestano i detenuti: grida e utensili battuti sulle inferriate di Flaminia Savelli Il Messaggero, 26 ottobre 2020 Grida e proteste nel carcere di Regina Coeli a Roma. Come è ben avvertibile anche dall’esterno, da due sere i detenuti “battono” sulle sbarre delle celle con gli utensili da cucina anche se ancora non sono noti i motivi della protesta nell’istituto penitenziario dove si contano però 387 reclusi oltre la capienza. Le prime proteste nelle carceri romane si erano accese a marzo, con le misure restrittive anti-contagio che avevano portato alla sospensione dei colloqui con i familiari. La situazione era tornata alla normalità con l’attivazione degli incontri via Skype e i triage allestiti nei piazzali. L’ultimo focolaio registrato è dello scorso 8 ottobre nella sezione femminile di Rebibbia, quando cinque detenute sono risultate positive al Covid. Roma. Madri e figli piccoli in carcere in tempi di pandemia primonumero.it, 26 ottobre 2020 A Rebibbia, pochi giorni fa, è stato inaugurato il primo Modulo per l’Affettività e la Maternità progettato all’interno di un carcere. Ma ella stessa settimana in cui si inaugura il modulo per l’affettività, è arrivata la circolare che - causa l’aggravarsi della situazione sanitaria - si sospendono ufficialmente le uscite per i bambini. Fino a data da destinarsi. A Roma, pochi giorni fa, è stato inaugurato il M.A.MA. L’acronimo può ricordare il MomA di New York e, in effetti, è stato realizzato dall’equipe di Renzo Piano, ma non è un museo né un polo espositivo. È, piuttosto, il primo Modulo per l’Affettività e la Maternità progettato all’interno di un carcere. Lo spazio di 28 mq sorge nell’istituto penitenziario femminile di Rebibbia, il più grande dei quattro istituti per detenute presenti in Italia. Sul sito della Polizia Penitenziaria si legge che sarà “un luogo - non appena l’emergenza si sarà placata -, dove le detenute potranno riunirsi con i propri familiari beneficiando di un ambiente domestico, intimo, accogliente e rassicurante, molto diverso dalle tradizionali, affollate e fredde, aule per i colloqui”. A corredo del testo, poi, appaiono foto e video che raccontano come la costruzione di questo “ambiente domestico” sia stato possibile grazie al supporto delle stesse detenute. Non troppo lontano da dove ora sorge il M.A.MA. c’è la sezione nido di Rebibbia. La struttura ricorda un chiostro di monache di clausura; ci sono aiuole, fiori e persino farfalle. All’interno c’è una sala comune e una serie di “camere di pernottamento”, dove vivono le detenute con i loro figli. Per lo Stato italiano, infatti, fino al terzo anno di età al bambino è consentito vivere all’interno di un carcere. In Italia, secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione pubblicato da Antigone, le donne detenute rappresentano appena il 4% dell’intera popolazione carceraria, ossia 2.702, su un totale di 61.230. Di queste, 36 hanno con sé i loro figli. Dal rapporto emerge come “la tipologia di reati per cui le detenute vengono ristrette in carcere - reati contro il patrimonio, reati contro la persona e reati legati alle droghe - sono un chiaro indicatore di una popolazione che, anche prima del periodo di carcerazione, vive in condizioni di marginalità e in contesti segnati da violenza”. La gran parte delle detenute sconta, considerata la tipologia di reato, un periodo di detenzione inferiore ai 6 mesi. Ovvero un periodo che permetterebbe l’accesso alle misure alternative alla detenzione. Da tutto questo, di conseguenza, deriva che la custodia penale per le madri e per i figli dovrebbe essere il più possibile limitata. A seguito della prima ondata di emergenza da Covid-19, per evitare che il virus dilagasse all’interno delle carceri (come è successo in America o in Iran), sono state adottate una serie di misure di contenimento, come il ricorso alla detenzione domiciliare e la sospensione della pena. Le stesse sezioni nido delle carceri si erano praticamente svuotate, troppo alto era il rischio per i bambini e le loro madri, troppo basso era il livello di guardia all’interno delle strutture. Caso esemplare è stato quello di una madre e un bimbo che, fra aprile e maggio, erano rimasti gli unici a scontare la pena all’interno della sezione nido di Rebibbia. Ma, se fuori dal carcere si era deciso, quasi a tavolino, che la pandemia fosse finita a luglio, anche dentro agli istituti penitenziari si è fatto un veloce rewind. I famosi “boss” scarcerati (non 300 come si era detto, ma 3 - sì, tre), son rientrati e i numeri dei reclusi hanno ricominciato a lievitare. E a fine settembre le madri detenute nel nido di Rebibbia erano di nuovo 10, con altrettanti bambini. A fronte di tutto questo, è chiaro come ben prima della pandemia lo Stato si sarebbe dovuto far carico di evitare che un bambino varcasse la soglia di un carcere. A questo riguardo, numerose sono le proposte di legge depositate in Parlamento da associazioni ed enti no profit che da anni lottano affinché vengano costruite case famiglia alternative alla detenzione. Nonostante questo, prima, durante e dopo la pandemia il quadro rimane invariato. Anzi, è peggiorato. Prima dell’emergenza, infatti, una volta a settimana i bambini potevano uscire. Ogni sabato mattina, i volontari di A Roma Insieme, da più di vent’anni si caricavano i marmocchi nel pullman e li portavano lontano dalle mura del carcere. Nella stessa settimana in cui si inaugura il modulo per l’affettività, è arrivata la circolare che - causa l’aggravarsi della situazione sanitaria - si sospendono ufficialmente le uscite per i bambini. Fino a data da destinarsi. C’è un principio cardine al quale si rifà il sistema penitenziario danese. Si chiama “normalisation” e implica una cosa molto semplice: le condizioni nelle quali viene scontata la pena deve corrispondere agli standard offerti dallo stato alla comunità in generale. Fra questi vi è il diritto alla salute e, ovviamente, il diritto all’affettività. Costruire moduli per la maternità, rendere le celle - camere di pernottamento - più accoglienti e riscaldate, ridipingere le pareti di una sala comune, è utile e anche necessario ma non mitiga l’immagine di una madre terrorizzata perché, durante una pandemia mondiale, è costretta a crescere il figlio in galera. Napoli. Nel carcere di Poggioreale è tornato il Covid di Viviana Lanza Il Riformista, 26 ottobre 2020 L’antica struttura penitenziaria, posizionata nel cuore della città, aveva resistito alla pandemia riuscendo a contenere la situazione sanitaria durante i mesi della diffusione del Covid-19, anche durante la prima e più critica fase. Ora i riflessi della situazione attuale esterna, con la seconda ondata che ha spinto il presidente della Regione Vincenzo De Luca a varare il coprifuoco e valutare la necessità di un nuovo lockdown, si sono manifestati anche oltre le mura di Poggioreale. All’interno del carcere cittadino ci sono nuovi casi di positività al Covid: riguardano tre detenuti risultati positivi al tampone effettuato, come da prassi, prima del loro ingresso in carcere e una quindicina fra agenti della polizia penitenziaria, infermieri e paramedici in servizio nell’istituto di pena. La notizia dei contagi, tuttavia, non è tale da alimentare allarmismi ma induce a riflettere sulle misure più opportune da adottare per gestire al meglio la situazione. Ieri pomeriggio i rappresentanti dell’Ordine degli avvocati e i penalisti Sabina Coppola e Sergio Schlitzer della Camera Penale di Napoli hanno partecipato a un tavolo tecnico con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone e con il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. Proseguendo una linea già adottata nei mesi scorsi e in un’ottica di trasparenza che vale a evitare allarmi e trovare soluzioni, avvocati, garante e vertici dell’amministrazione penitenziaria si sono confrontati sulla situazione. Una situazione che al momento è sotto controllo ma che spinge i penalisti a chiedere formalmente ai vertici degli uffici giudiziari napoletani di ripristinare le misure adottate durante la prima fase della pandemia per decongestionare il flusso di presenze in carcere e limitare di riflesso i rischi di ulteriori contagi. Quali misure? Sospendere l’esecuzione degli ordini di carcerazione e consentire ai detenuti in semilibertà di rimanere nelle loro case senza il quotidiano viavai dal carcere. Meno carcere e più misure alternative, quindi, volendo comprimere il concetto in poche parole. Una richiesta su cui concordano gli avvocati della onlus Carcere Possibile e il garante Ciambriello. E ciò in linea anche con le misure che intanto si stanno valutando nel mondo fuori, tenuto conto del numero crescente dei contagi in tutta la regione e della necessità di contenere i rischi. Inoltre, nel grande penitenziario cittadino il numero dei detenuti è vertiginosamente salito negli ultimi mesi, passando dai 1.700 reclusi durante il lockdown della scorsa primavera ai 2.173 di adesso. Numeri su cui molto ha influito proprio la ripresa dell’esecuzione degli ordini di carcerazione dopo la sospensione durante la prima fase della pandemia. In pratica, a parte quelli relativi a qualche arresto in flagrante, i più recenti ingressi a Poggioreale sono stati quelli dei destinatari di ordini di carcerazione risalenti al periodo tra marzo e maggio che si sono aggiunti ai provvedimenti scaturiti da indagini e sentenze di questi ultimi mesi. Il risultato è stato il ritorno dell’incubo sovraffollamento. Per i tre nuovi detenuti risultati positivi sono subito scattate le procedure di sicurezza e di isolamento. Quanto al personale paramedico e agli agenti della polizia penitenziaria positivi al Covid, sembrerebbero casi isolati, che non hanno riguardato intere sezioni e più che a un possibile focolaio fanno pensare a contagi avvenuti al di fuori del carcere. In ogni caso la situazione è costantemente monitorata. Intanto i penalisti sono pronti a scrivere al presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia, al Procuratore generale Luigi Riello e al procuratore Giovanni Melillo affinché decidano di ripristinare le misure per contenere gli ingressi in carcere. Quando iniziò la pandemia, i presidenti dei Tribunali di Sorveglianza di Napoli e Salerno intervennero con tempismo con una circolare in cui si stabiliva che i semiliberi potevano restare nelle proprie case per evitare continui contatti tra il mondo fuori e quello interno al carcere e i capi di Procura e Procura generale adottarono provvedimenti per sospendere gli ordini di carcerazione e valutare l’applicazione di misure cautelari. Una nuova scala di priorità si delinea adesso, per contenere un’emergenza che in carcere deve fare i conti con le già croniche carenze di risorse per spazi e tutela della salute. Napoli. Tribunale, è boom di positivi. Non lasciamo che il virus uccida il diritto alla difesa di Francesca Sabella Il Riformista, 26 ottobre 2020 “La situazione nel Palazzo di Giustizia è critica, a questo punto credo sarebbe meglio chiuderlo, anziché continuare a lavorare in queste condizioni, e rivedere tutta l’organizzazione dell’attività forense”. Ne è convinto l’avvocato Gennaro De Falco che non ha dubbi sul da farsi dopo l’impennata di contagi registrata tra le aule del Tribunale e della Procura di Napoli. Il Coronavirus dilaga tra magistrati e cancellieri, il foro napoletano è in tilt, ogni misura adottata finora sembra essere inutile: è delle scorse ore la notizia di cinque pm, una stenotipista e un amministrativo positivi al Covid-19. Di qui la decisione del procuratore Giovanni Melillo, comunicata con la circolare numero 10, di introdurre limitazioni agli accessi negli uffici e disporre l’obbligo di sottoporsi alla misurazione della temperatura. Bisognerà, in particolare, “limitare ai casi di assoluta necessità l’accesso di estranei all’ufficio, trasmettere le deleghe di indagine, le richieste di intercettazioni e quelli di proroga, come gli atti analoghi, esclusivamente tramite posta elettronica”. Gli avvocati dovranno prendere appuntamento per essere ricevuti dai magistrati, mentre gli accessi dei giornalisti “saranno consentiti soltanto previa autorizzazione del procuratore”. Infine “non si terrà alcuna riunione in presenza” se non strettamente necessaria. È saltato anche il tentativo di effettuare test rapidi all’esterno del Tribunale per bloccare l’ingresso dei positivi e tracciarne i contatti più recenti. “All’esterno del Palazzo c’è una fila immensa per fare il test - racconta De Falco - ma la cosa peggiore è che i risultati non sono attendibili. Alcuni colleghi, pur non essendosi mai sottoposti al test, sono stati contattati dai medici ed è stata comunicata loro la positività al virus. Se si scambiano i test e si alimenta un simile caos, questo servizio è completamente inutile”. Non solo: per De Falco ci sono alcune procedure che andrebbero riviste perché non fanno altro che agevolare la diffusione del virus all’interno degli uffici e delle aule. “Una cosa che trovo davvero allucinante è l’identificazione continua di noi avvocati - dice il penalista - Dobbiamo mostrare il tesserino decine di volte al giorno a persone diverse che lo maneggiano e poi ce lo restituiscono: non credo sia l’ideale con una pandemia in atto. E poi non ho mai visto nessuno disinfettare i banchi delle aule o l’ascensore”. A questo si aggiunge il sistema di organizzazione delle attività forensi messo in crisi dal Covid. “È allucinante - conclude De Falco - che gli avvocati possano presentare le richieste di impugnazione delle sentenze solo personalmente: bisognerebbe ritenere valide solo quelle presentate tramite pec in modo tale da evitare assembramenti inutili. Allo stesso modo servirebbero calendari di udienza precisi e invece no, gli orari sono sbagliati e puntualmente scattano i rinvii”. Anche Ermanno Carnevale, presidente della Camera Penale di Napoli, sente l’esigenza di riorganizzare tutte le procedure e trovare una soluzione per continuare a lavorare in questo momento drammatico. “Viste le circostanze - si legge in una nota della giunta della Camera Penale - abbiamo immediatamente rivolto al presidente della Corte di Appello una sollecitazione in vista della convocazione, nel più beve tempo possibile, del tavolo tecnico del settore penale per fare il punto sulle misure volte a contrastare l’emergenza”. “Dobbiamo garantire la sicurezza di tutti - conclude Carnevale - ma dobbiamo anche trovare il modo per adempiere al mandato defensionale. Per questo dobbiamo indire subito una discussione e, alla luce degli ultimi numeri drammatici, cercare insieme una soluzione equilibrata”. Cosenza. Sit-in al carcere di Rossano: “Calpestati i diritti di Battisti e dei detenuti” di Luca Latella Corriere della Calabria, 26 ottobre 2020 Mobilitazione di attivisti per protestare contro le condizioni in cui versano i carcerati dell’istituto penitenziario della città. Esposto uno striscione: “Dignità per tutti i detenuti”. D’Amico: “Il carcere non educa più”. A difesa dei diritti dei detenuti. È stato questo il senso di un sit-in che si è tenuto domenica mattina davanti al carcere di Corigliano Rossano. Una manifestazione per evidenziare le condizioni in cui versa Cesare Battisti - “e non solo” - l’ex terrorista trasferito nel carcere rossanese lo scorso settembre. L’iniziativa è stata promossa dall’avvocato Adriano D’Amico, consigliere comunale di San Demetrio Corone e membro del Comitato politico provinciale Rifondazione Comunista Cosenza, e Francesco Saccomanno, segretario provinciale Rifondazione Comunista di Cosenza. I manifestanti hanno esposto un’eloquente striscione e intonato cori come “dignità per tutti i detenuti”, giunto fino alle celle, da dove sono partiti anche ringraziamenti e applausi. Al momento di protesta ha partecipato anche Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha Onlus, nata a Cosenza nel 2006, che si occupa della tutela dei diritti umani, in particolare di quelli delle persone private della libertà personale. “Il presidio di solidarietà - ha spiegato la presidente - vuole mettere in evidenza le condizioni in cui stanno vivendo i detenuti di Rossano ed in Italia, in questa fase di emergenza sanitaria. Cesare Battisti vuole essere un pretesto, perché ha eco mediatica, per denunciare le condizioni interne”. È accaduto, racconta Sandra Berardi, che un detenuto positivo al coronavirus “sia stato messo in isolamento nella stessa sezione di Battisti, il che contrasta con le indicazioni fornite dalle istituzioni sanitarie. Da quando il Covid-19 si è affacciato nelle carceri - denuncia Berardi - la popolazione è di oltre 61mila detenuti a fronte di una capienza di 47 mila”. “Siamo qui oggi con associazioni che si occupano tutto l’anno dei diritti dei detenuti - ha aggiunto Adriano D’Amico -. Battisti è la giustificazione ma è riuscito a far arrivare all’esterno ciò che accade all’interno del penitenziario. Ad esempio, lamenta un trattamento alimentare non consono alle sue condizioni di salute, vorrebbe del riso in bianco ed invece gli servono pasta al sugo. Ha chiesto un computer per poter lavorare e scrivere un libro, ma gli è stato risposto che non è uno scrittore e che, quindi, non ha bisogno di queste suppellettili. Oggi abbiamo portato con noi dei suoli libri per dimostrare che stanno sbagliando”. L’avvocato D’Amico taglia corto sulle polemiche scaturite dopo l’annuncio del sit-in. “Siamo qui per dire ad una certa politica che non siamo la controparte delle vittime e che gli anni 70 sono finiti da un pezzo. Qui nessuno vuole riaprire quel pentolone se non per chiuderlo definitivamente”. “L’ultimo dei reati di Battisti - ha sottolineato ancora D’Amico - risale al 1979, 41 anni fa e se e vero com’è vero che il carcere deve essere uno strumento educativo e riabilitativo del reo per come sosteneva Cesare Beccaria, allora quel reo deve riabilitarsi, può scrivere e leggere. Ma se ozia tutto il giorno può solo morire. Ed allora mi piacerebbe sapere se la negazione dei diritti di Battisti, così come di tanti altri detenuti, vuole essere una vendetta dello Stato nei loro confronti. Sono tanti quelli che chiedono aiuto tutti i giorni - conclude Adriano D’Amico - e vogliono vivere la loro condizione di fine pena in modo dignitoso. Il carcere oggi, non svolge più il ruolo di educatore”. Bologna. All’ufficio Immigrazione della Questura gli avvocati non sono ammessi Il Dubbio, 26 ottobre 2020 Immigrati senza avvocati e senza interpreti. È caos all’ufficio Immigrazione della Questura di Bologna, dove da lunedì, per evitare il contagio, non è più consentito l’accesso agli avvocati, ma soltanto ai loro assistiti. Una situazione complicatissima per gli stranieri che hanno problemi con la lingua, i quali non riescono a confrontarsi con i funzionari, rendendo il percorso per portare a termine rinnovi o richieste di permesso di soggiorno, di asilo, oppure ricongiungimenti familiari in salita. “Oggi - secondo quanto ha raccontato ieri all’Ansa un avvocato - la mia assistita non ha capito bene cosa fare ed è stata rimandata a casa. Se fossi andato io probabilmente avremmo risolto. Ora invece dovrò fare una nuova richiesta di appuntamento e può passare molto tempo”. L’ordine degli avvocati di Bologna, presieduto da Elisabetta D’Errico, ha avviato nei giorni scorsi un confronto coi vertici dell’ufficio e giovedì c’è stato un incontro con la responsabile, Maria Santoli, a cui sono state espresse le perplessità, anche su altre problematiche che, secondo i legali, vanno avanti da mesi. Dopo tale confronto, in attesa di ulteriori misure, l’accesso degli avvocati agli uffici è stato consentito per le pratiche più complesse. Roma. Il teatro in carcere è diverso se in scena vanno le donne di Pietro Piovani Il Messaggero, 26 ottobre 2020 Nel penitenziario di Rebibbia il teatro si fa ormai da molto tempo, ma per anni le messe in scena sono state solo maschili. Solo dal 2013 si sono cominciati a fare gli spettacoli con le donne. “Mi dicevano tutti: lascia stare, con le donne è complicato” racconta Francesca Tricarico, la regista e coordinatrice dell’attività teatrale nella Rebibbia femminile. “Le detenute vivono il carcere con un’emotività diversa, spesso devono sopportare l’allontanamento dai figli, hanno forti sbalzi di umore, conquistare la loro fiducia è più difficile. Però - prosegue la Tricarico - quando riesci a entrare nel mondo di una detenuta, la sua partecipazione è totale”. I mesi del Covid hanno stravolto le regole del carcere, per mesi tutto si è interrotto, ma poi sono ripartite. Il progetto teatrale della Rebibbia femminile (che ha il nome “Le donne del muro alto”) si è sdoppiato in due compagnie: quella di chi è ancora in carcere e quella di chi, per le misure anti-covid, ha ottenuto i domiciliati o l’affidamento. La compagnia “esterna” sta lavorando a un audiolibro dello spettacolo “Ramona e Giulietta”, versione omosessuale di “Romeo e Giulietta” ambientata nel carcere femminile. “Con noi c’è una signora di 73 anni, ha passato nove anni in cella e ora è ai domiciliari. Per venire alle prove si fa tre ore di viaggio con i mezzi, con la mascherina. L’ho detto: se le riesci a conquistare, l’adesione è totale”. Gli errori e i sacrifici di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 26 ottobre 2020 Il rischio è che la nuova stretta aumenti la forbice tra garantiti e non garantiti, tra chi può lavorare da casa e ricevere lo stesso lo stipendio e chi no, tra chi nell’attesa che passi la nottata accumula risparmi e chi non ha i soldi per vivere. Questa forbice va chiusa il più possibile; anche per prevenire le rivolte, e per isolare e punire i violenti Gli errori e i sacrifici - Diciamolo con chiarezza: questo decreto non è un piano per il futuro, è una dichiarazione di fallimento per il passato. Sancisce l’incapacità di prevenire la seconda, annunciatissima ondata della pandemia. Le conseguenze sono gravi, sia sul fronte sanitario sia su quello economico. Il tracciamento è saltato, i tempi di attesa per fare i tamponi e riceverne l’esito sono inaccettabili, il sistema sanitario è già sotto pressione. I baristi, i ristoratori, i proprietari di palestre e piscine che avevano speso per attrezzare i locali, i lavoratori che avevano riaperto cinema e teatri in sicurezza vedono tutto vanificato; e anche gli insegnanti, i bidelli e gli studenti delle superiori si chiedono a cosa siano serviti i sacrifici che avevano accettato per far ripartire le loro scuole. Le responsabilità del governo e delle Regioni sono sotto gli occhi di chiunque non sia accecato dal pregiudizio. C’è però un’altra cosa da dire, con altrettanta chiarezza. Il fatto che la seconda ondata non sia stata prevenuta non ci esime dal dovere di rispettare le regole per evitare che il contagio cresca ancora, e mieta ancora più vittime. Non soltanto le norme del Dpcm andranno ovviamente applicate; dev’essere chiaro che non si tratta di una concessione a un governo o a una Regione o a una parte politica, ma di un atto dovuto a noi stessi, ai nostri cari, a medici e infermieri, alla comunità di cui facciamo parte. Certo, il sacrificio che ci viene chiesto è grande. Rinunciare di fatto alla vita sociale, proprio nella stagione che precede il Natale e che è decisiva per l’andamento di molti comparti del consumo, è doloroso e dannoso. Si tratterà di trovare un equilibrio tra sicurezza e socialità, senza ricorrere alla brusca e impossibile misura di chiudere tutto e tutti. Attenzione però a evitare errori di valutazione che potrebbero avere conseguenze altrettanto gravi. Le rivolte di Napoli e Roma non vanno confuse con la sofferenza di chi non può lavorare. È evidente una matrice ideologica e criminale, che sfrutta la giusta preoccupazione e la legittima insofferenza popolare per dare addosso alle forze dell’ordine. E questo non è assolutamente accettabile. L’opposizione dovrebbe prenderne apertamente le distanze; anche perché il gioco di invocare le chiusure quando il governo apre, e invocare le riaperture quando il governo chiude, significa non avere un piano diverso dal lucrare sull’inadeguatezza altrui. Non si possono però trattare lavoratori autonomi, artigiani, piccoli imprenditori che esprimono il proprio disagio come se fossero massa di manovra della criminalità. I danni causati da questo nuovo lockdown parziale vanno risarciti; ma per davvero, e subito. Non basta annunciarlo; occorre farlo. A dispetto delle promesse, lo Stato italiano resta un cattivo pagatore, e la nostra Pubblica amministrazione fatica nella fase attuativa; questo però non può accadere adesso, non in questa emergenza. Allo stesso modo, l’Europa deve rendersi conto che i piani per la prossima generazione sono fondamentali, che la digitalizzazione e la transizione ecologica rappresentano il nostro futuro, ma una parte delle risorse del Recovery Fund vanno spese qui e ora per ristorare i danni di chi vorrebbe lavorare e non può farlo. Il rischio è che la nuova stretta aumenti la forbice tra garantiti e non garantiti, tra chi può lavorare da casa e ricevere lo stesso lo stipendio e chi no, tra chi nell’attesa che passi la nottata accumula risparmi e chi non ha i soldi per vivere. Questa forbice va chiusa il più possibile; anche per prevenire le rivolte, e per isolare e punire i violenti. Molto è affidato alla nostra responsabilità. Siamo tutti chiamati alla prova più dura della nostra vita. E la prova più dura non è il punto basso; deve essere il nostro punto alto. Dall’emergenza può nascere nuova civiltà di Luigi Manconi e Chiara Tamburello La Repubblica, 26 ottobre 2020 Quando l’Italia approvò la legge Basaglia e quella sull’aborto era sotto l’attacco del terrorismo e travolta dal caso Moro. Fu uno slancio riformatore senza precedenti. E oggi? A quarant’anni dalla morte di Franco Basaglia (29 agosto 1980), quello che appariva come un pensiero eretico, o comunque irregolare, rivela oggi la forza di un classico, che offre costantemente nuove scoperte e spunti inediti. Nella prefazione alla nuova edizione del volume “Franco Basaglia”, di Pierangelo Di Vittorio e Mario Colucci (Alpha & Beta, 2020), lo psichiatra Eugenio Borgna, a proposito dell’approvazione della legge 180 nel maggio del 1978, si dice ancora “stupefatto dinanzi alla rapidità con cui si è giunti” a quel provvedimento. Tanto più che si era in un momento particolarmente drammatico della vita nazionale: l’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e degli uomini della scorta. L’attacco terroristico più efferato contro lo Stato e la società italiana, avvenuto durante il governo di solidarietà nazionale guidato da Giulio Andreotti, non impedì - ecco il punto - di varare due tra le più importanti riforme della storia repubblicana. Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, la Commissione sanità del Senato approvava in sede deliberante il testo della legge 180 sulle “Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, di cui era relatore il democristiano Bruno Orsini, che disponeva la chiusura dei manicomi. Appena una settimana dopo, il Senato licenziava in via definitiva la legge 194 sulla “Tutela sociale della maternità e interruzione volontaria della gravidanza”. Siamo in quella che si può definire una condizione di emergenza, quando un attentato così feroce per le vittime e tanto insidioso per le conseguenze civili e sociali si sovrappone alla crisi politica, determinando uno stato di acuta instabilità. Ebbene, è proprio allora che vengono approvate due leggi di altissima qualità democratica che avrebbero avuto riflessi assai significativi sulle esistenze individuali dei cittadini e sulla mentalità collettiva. In altre parole, nel corso della più pesante condizione di emergenza conosciuta dall’Italia in questo dopoguerra, il sistema istituzionale rivelò la più efficace capacità riformatrice. E oggi? È di questi giorni la proroga dello stato di emergenza dovuto alla pandemia, e quali ne siano le implicazioni, è materia di intenso dibattito. Assai interessanti, in proposito, i contributi di Antonio d’Aloia nella rivista Bio Law Journal - Rivista di Bio Diritto. Ma c’è un tema che rimane ancora sullo sfondo, ed è così riassumibile: lo stato di emergenza può rivelarsi, per le più diverse ragioni, un incentivo all’innovazione politica e istituzionale, oppure è destinato, fatalmente, a bloccare qualunque istanza riformatrice? A differenza di quanto accadde negli anni Settanta, la seconda ipotesi sembra la più attendibile. L’esperienza ci dice che una qualsiasi crisi politica, uno stato di emergenza vero o presunto o totalmente falso, un tragico fatto di cronaca o una crudele azione criminale, l’evasione di un recluso o, come si vedrà, la paura di una sconfitta elettorale o un qualunque altro motivo di angoscia sociale, sono in grado bloccare il più timido slancio di rinnovamento. Un esempio tra i mille possibili: alla fine del 2017, riprese la discussione parlamentare sulla riforma della legge per la cittadinanza. Molta parte della sinistra si opponeva, temendo l’impatto che quella normativa avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica in vista delle successive elezioni. La legge fu lasciata cadere e, tuttavia, le elezioni del 4 marzo 2018 sancirono la sconfitta del centrosinistra e anche di quei suoi esponenti che, sul tema, avevano assunto posizioni particolarmente moderate. Certo, le ragioni che rallentano i processi di riforma sono tante e più complesse, ma qui interessa evidenziare quel sentimento politico, una vera e propria inibizione che impedisce di pensare il cambiamento quando si manifestano stati di ansia. Prevale, cioè, l’idea che non ci si possa permettere un atto di libertà a causa delle conseguenze che potrebbero prodursi in una opinione pubblica frustrata o fiaccata da un forte stress. Il tentativo di rassicurare l’inquietudine collettiva, determinata da un cambiamento non previsto, se non subìto, costituisce il pretesto emotivo che spiega molte cose. E che contribuisce a una generalizzata crisi della fiducia. Proprio sotto questa luce, il confronto tra ieri e oggi risulta sconfortante. Si pensi a quella particolare condizione di emergenza in cui dovettero precipitare Franco Basaglia e la sua equipe quando, nel 1968, un paziente dell’ospedale psichiatrico di Gorizia uccise la moglie a colpi d’ascia nelle ore di “temporanea uscita” dalla struttura. Le polemiche furono feroci, eppure, la dolorosa coscienza di quella tragedia - si immagini quale catastrofe anche personale rappresentò per Basaglia - non dissuase dalla volontà di ripensare radicalmente l’ambiente manicomiale. Ciò aiuta a spiegare come nel cuore del rinnovamento basagliano vi fosse la pratica, il fare, un richiamo ostinato alla sperimentazione che non può escludere preventivamente passi falsi, errori di valutazione e nemmeno scelte azzardate. Ma torniamo alla questione della velocità della riforma legislativa: la ragione della prontezza con la quale si lavorò a una nuova legge in materia di assistenza psichiatrica risiede anche nella proposta del Partito radicale di calendarizzare un referendum relativo all’abrogazione di alcuni articoli della legge n. 36 del 1904, già parzialmente integrata dalla riforma Mariotti del 1968. Un eventuale voto referendario, che respingesse la proposta abolizionista, avrebbe reso impossibile la modifica della normativa prevista dal progetto di riforma. Per evitare che l’eccezionalità delle circostanze e il diffuso smarrimento sociale potessero vanificare l’impegno a riformare l’istituto manicomiale si arrivò al varo della legge in meno di tre settimane dalla sua presentazione (ministro della Sanità era Tina Anselmi). Vennero definitivamente aboliti gli ospedali psichiatrici e istituiti i trattamenti sanitari obbligatori e i servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali civili. La 180, poi, incontrò molti ostacoli e le critiche di una composita corrente di pensiero che riteneva la legge, per un verso, troppo limitata, e, per l’altro, velleitaria in quanto difficilmente applicabile e, in ultima istanza, responsabile di aver consegnato alle famiglie il peso materiale e umano dei malati. In realtà, a ostacolare la corretta applicazione della normativa furono altre cause: le resistenze istituzionali, il ritardo nell’attivazione dei servizi e la debolezza di alcuni apparati pubblici (vedi Daniele Piccione, “Il pensiero lungo, Franco Basaglia e la Costituzione”, Aplha & Beta Verlag, 2013). Ma questa è tutta un’altra storia. Ciò che qui preme ribadire è che la condizione di emergenza, nell’Italia sgomenta, non ostacolò, anzi, persino agevolò, l’approvazione di una legge di civiltà. Infine, non c’entra nulla con la chiusura dei manicomi, ma c’entra molto con la psichiatria. Ed è per questo che rinunciare a richiamarlo ci spiacerebbe. La Bompiani ha appena ripubblicato “Il campo di concentrazione”, di Ottiero Ottieri, dove si racconta l’esperienza del ricovero volontario dello scrittore in un ospedale svizzero nel 1970, a seguito di una fortissima nevrosi depressiva. E dove Ottieri si descrive come un “impiegato dell’infelicità”, nel luogo in cui “il mestiere è la sofferenza”. La privacy non è un ostacolo alla gestione della pandemia di Pasquale Stanzione Il Domani, 26 ottobre 2020 Il contesto pandemico dimostra come la privacy si sia dimostrata uno dei principali fattori in grado di garantire un’azione di contrasto della pandemia. I pareri del Garante hanno supportato la scelta legislativa in favore di un sistema di contact tracing fondato su dati di prossimità dei dispositivi anziché sulla ben più invasiva geolocalizzazione. La soluzione è un efficace tracciamento digitale dei contatti senza condannare ciascuno di noi a forme di biosorveglianza il cui impatto sulla libertà è assai più invasivo di quanto possa apparire. Caro Direttore, l’articolo di Vincenzo Visco “La strana idea di privacy che ci lascia in balia della pandemia” (Domani, 25 ottobre), reca alcune inesattezze che è bene chiarire, se non altro per fornire ai lettori un’informazione veritiera e completa. L’idea di fondo sottesa all’articolo è che la tutela della privacy rappresenti un ostacolo al perseguimento di esigenze collettive le più varie: dalla sanità pubblica al contrasto dell’evasione fiscale, dalla ricerca scientifica alla pubblicità dell’esercizio della giurisdizione. È una valutazione smentita dai fatti e dalla costante, assoluta conformità dell’azione del garante alla legge, nel bilanciamento che essa (e non l’Autorità) sancisce tra libertà individuali ed esigenze collettive, non sempre peraltro alle prime antitetiche. Basterebbe, a dimostrazione di questo, analizzare la pressoché costante conferma, in sede giurisdizionale, dei provvedimenti dell’Autorità eventualmente impugnati. Ma non volendo limitarmi a questo dato, cercherò di fare un po’ di chiarezza su alcuni dei punti toccati dall’articolo da voi pubblicato. Anzitutto, proprio il contesto pandemico dimostra come la privacy, tutt’altro che ostativa alle esigenze collettive, si sia invece dimostrata uno dei principali fattori in grado di garantire un’azione di contrasto della pandemia tale, tuttavia, da non rinnegare il carattere liberale del nostro ordinamento e da coniugare istanze solidaristiche e libertà individuali. I pareri del garante hanno infatti supportato la scelta legislativa in favore di un sistema di contact tracing fondato su dati di prossimità dei dispositivi anziché sulla ben più invasiva geolocalizzazione. Si è così pervenuti a una soluzione di efficace tracciamento digitale dei contatti senza, per questo, condannare ciascuno di noi a forme di biosorveglianza il cui impatto sulla libertà è assai più invasivo di quanto possa apparire. Tutt’altro che di ostacolo all’interesse pubblico, il nostro contributo è servito semmai ad essere contemporaneamente più efficaci, ma non meno liberi; a non cedere alle sirene del modello coreano (se non addirittura cinese), senza per questo rinunciare alle opportunità offerte, anche in questo campo, dalla tecnologia. Circa il sistema di data mining istituito dall’Inps per il controllo delle assenze dei lavoratori, le gravi carenze riscontrate dal garante (con i conseguenti rischi per la riservatezza dei dipendenti, anche rispetto ai dati meritevoli della massima tutela, quali quelli sulla salute) sono state confermate il 3 marzo scorso dal Tribunale di Roma. L’Autorità non ha, dunque, ostacolato in alcun modo il contrasto dell’assenteismo in sé, ma le modalità (lesive dei diritti dei lavoratori) con le quali esso era proposto, con il rischio di profilazioni illegittime e persino potenzialmente erronee. Rispetto all’attività dell’Istat, i nostri interventi hanno contribuito in linea generale a un sensibile miglioramento della correttezza delle indagini statistiche, suggerendo anche modalità di utilizzo degli algoritmi tali da ridurre il rischio di bias e le possibilità di reidentificazione dei singoli. Analogo tenore hanno avuto i nostri interventi in ambito fiscale, incentrati soprattutto sull’esigenza di garantire un uso corretto degli algoritmi, tale da impedire rischi di distorsione nella rappresentazione della capacità contributiva dei singoli, a detrimento della stessa efficacia dell’azione amministrativa. Quanto alle sentenze on-line, abbiamo chiesto di disporre, ove mancasse, il dovuto oscuramento delle pronunce in materia di violenza sessuale o minori, per impedire la vittimizzazione secondaria di soggetti particolarmente vulnerabili. Palesemente erronea è, infine, l’attribuzione di un preteso minore rigore nel contrasto dell’illecito trattamento dei dati da parte delle piattaforme: limitandosi a casi recenti e senza citare la quotidiana attività su profilazione e diritto all’oblio, basti pensare alle sanzioni irrogate a Facebook per il caso Cambridge Analytica. Esigendo il rispetto della legge, e ad essa, esso stesso conformandosi, il garante ha dunque, in ogni suo singolo intervento, promosso l’interesse pubblico e, ad un tempo, le libertà individuali. La privacy, al pari della Costituzione, non è un certo un patto suicida, secondo la nota espressione attribuita a Lincoln, ma un presupposto di libertà sempre più prezioso nella complessità dell’oggi. De-moralizzati di Alessandro D’Avenia Corriere della Sera, 26 ottobre 2020 “Sono colpevole di omicidio!”. Ora fu lei a guardarlo adirata: “Perché dici certe stupidaggini?”. “Ma è la verità”. “Non esiste la parola colpevole! Lo sai benissimo anche tu. Sono sempre le circostanze che determinano le azioni”. Erano proprio le parole che temeva. Sentiva migliaia di psicologi, pedagoghi e sociologi parlare attraverso la bocca di lei e percepì con estrema chiarezza la sua convinzione di vivere nel migliore dei mondi possibili”. Siamo a Copenaghen, a parlare sono Torben e un’amica, nel libro di Henrik Stangerup: “L’uomo che voleva essere colpevole” (1973). Torben, durante un litigio ha ucciso la moglie ma, nonostante la sua confessione spontanea, nessuno vuole riconoscerlo colpevole. Il romanzo immagina una società “perfetta”, in cui il bene e il male sono stati superati: l’omicidio è un incidente e il male un mancato adattamento sociale che si cura con la psicologia e i tranquillanti. Non esistono azioni malvagie ma comportamenti non ancora “adattati”. Eppure il protagonista, benché giuridicamente sollevato dalla colpa, non è felice: non gli basta che un giudice o uno psicologo lo dicano innocente per sentirsi tale, perché non può eliminare quella voce interiore, detta coscienza, che distingue il bene e il male. Dal male si esce solo prendendone le distanze nei fatti, non auto-assolvendosi o fingendo che non esista. Spesso incontro ragazzi demoralizzati: la loro tristezza non è però sintomo di un disagio psichico o mancanza di speranza, ma semplice mancanza di “carattere”, cioè di scelte. Demoralizzato vuol dire infatti privato (de-) di morale (dal termine latino che indicava sia il carattere di una persona sia le leggi che ne guidano l’agire libero, perché sono inscindibili: io divento ciò che scelgo e faccio). I ragazzi si demoralizzano quando non sono allenati a scegliere, perché non li abbiamo messi in condizione di farsi carico della realtà, di risponderle. Rispondere e responsabilità hanno la stessa radice: irresponsabile è infatti chi non sente la realtà e ciò accade se la cultura dominante la nasconde. Torben, un tempo scrittore di successo, lavora all’Istituto statale per la Semplificazione della Lingua, dove non si eliminano le parole come in 1984 di Orwell, ma si coniano “eufemismi”, parole seducenti utili a sostituire quelle ancora intrise di bene e male. Pensiamo oggi a espressioni come “droghe leggere” che, a prescindere dagli effetti, fa passare l’idea che esistano droghe innocue, “gestazione per altri” per “affittare una donna”, “baby squillo” per “prostituta minorenne”, “lavoro flessibile” per “precariato”. L’eufemismo nega alla realtà il suo peso, ma qualcosa in noi resiste, come accade a Torben: non può liberarsi di ciò che ha fatto con parole e pensieri auto-assolutori. Anzi si aggrappa al suo delitto per non smettere di essere se stesso: se il peso dei nostri atti diventa indifferente, e mangiare o uccidere hanno lo stesso valore, smettiamo di essere liberi. È infatti il limite a renderci liberi perché impone di scegliere, cioè di indirizzare la libertà in una direzione. Noi diventiamo ciò che scegliamo: se rubo divento ladro, se uccido assassino, se amo amante, se non scelgo demoralizzato. Non si può essere felici facendo finta di non avere la coscienza, possiamo farla tacere, ma anche questa è una scelta. Essere homo sapiens, ci piaccia o no, comporta essere liberi, cioè non solo sapere di esistere ma dovere/potere scegliere “come” esistere. Nessun animale si pente di aver ucciso, perché nessun animale, tranne l’uomo, distingue il bene e il male, non agisce secondo coscienza ma per istinto. Infatti per gli irriducibili della coscienza come Torben si apre il “Parco della felicità”, dove lo Stato costringe a essere felici i più riottosi... ma il nostro protagonista, pur imbottito di tranquillanti e psicoterapia, continua a piangere sua moglie e l’impossibilità di redimersi, cioè di poter prendere le distanze da ciò che ha fatto, accettandone le conseguenze. Molti ragazzi sono de-moralizzati perché abbiamo sostituito parole come carattere, coscienza, limite, scelta... con eufemismi che riducono la morale all’emozione del momento e la realtà a un “like” senza conseguenze. I limiti non sono privazione di libertà ma il campo del suo esercizio, il perimetro della vita reale, come la gravità per i corpi: sulla Luna non siamo più liberi... Quando non scegliamo la vita si spegne perché smettiamo di rispondere alla realtà, non siamo più padroni dei nostri atti ma prigionieri delle circostanze o delle aspettative altrui. Torniamo a educare il carattere, cioè l’esercizio della libertà: le scelte. Quali responsabilità diamo ai ragazzi? Chi o cosa dipende da loro? Quali incarichi hanno a casa o fuori? Spesso sembrano apatici, ma semplicemente non abbiamo mostrato loro cosa è bene e cosa male, cosa è reale e cosa no, per cosa vale la pena vivere. Migranti. Permessi umanitari, la stretta fa aumentare gli irregolari di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2020 L’analisi del dossier statistico immigrazione 2020, realizzato dal Centro studi e ricerche Idos con Confronti. Meno stranieri extra Ue presenti in Italia con un regolare permesso e più irregolari. È quel che è successo nel 2019, secondo il dossier statistico immigrazione 2020, realizzato dal Centro studi e ricerche Idos in partenariato con Confronti, che verrà presentato mercoledì 28 ottobre. Secondo il rapporto, che giunge quest’anno alla 30esima edizione, gli stranieri non comunitari regolarmente soggiornanti in Italia nel 2019 erano 3,6 milioni, 100mila in meno del 2018. Un dato in controtendenza perché gli stranieri regolari, negli ultimi dieci anni, sono sempre aumentati; fa eccezione solo il 2016, a causa del numero eccezionale delle acquisizioni di cittadinanza da parte di stranieri (201mila), situazione che però non si è ripetuta l’anno scorso (gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza sono stati 127mila). Se gli stranieri extra Ue regolari sono diminuiti, a essere aumentati sarebbero invece gli stranieri non comunitari scivolati nell’irregolarità: stimati in 562mila a fine 2018, sarebbero arrivati a 610mila a fine 2019, fino a sfiorare i 700mila a fine 2020, se non fosse intervenuta nel frattempo la sanatoria della scorsa estate, che ha raccolto circa 220.500 domande. Sono gli effetti, secondo il dossier Idos, del decreto sicurezza del 2018, voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, che ha abolito la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Una restrizione che si è innestata in un contesto in cui manca, da anni, la programmazione degli ingressi di lavoratori stranieri. Il dossier rileva che, da un lato, sono calati nettamente gli ospiti dei centri di accoglienza, passati dai 183.800 del 2017 agli 84.400 dello scorso giugno: è prevedibile che molti degli espulsi, spesso proprio per l’abrogazione del permesso per motivi umanitari, siano divenuti irregolari. Dall’altro lato, è diminuita anche la percentuale di riconoscimento delle domande di protezione presentate in Italia. Si tratta di circostanze che, secondo il rapporto, concorrono a ingrossare le fila degli immigrati irregolari presenti in Italia. Una situazione complessa, che potrebbe ora essere “leggermente migliorata dal decreto sicurezza”, entrato in vigore la scorsa settimana, che attenua le restrizioni introdotte nel 2018, osserva Luca Di Sciullo, presidente Idos. “Ma non basterà a risolvere i problemi di fondo, che dipendono dal fatto che la materia dell’immigrazione è regolata da norme non più attuali: il Testo unico risale al 1998, 22 anni fa”. Inoltre, senza la programmazione triennale dei flussi di ingresso, prosegue Di Sciullo, “è bloccato il canale regolare per l’ingresso in Italia. Così, i migranti economici si mischiano a quelli forzati e chiedono la protezione, che spesso viene negata perché non hanno i requisiti”. In questo quadro “non sono sufficienti provvedimenti una tantum come le regolarizzazioni: servirebbe una riforma strutturale”. Migranti. Scende a tre anni il termine per definire le richieste di cittadinanza di Marco Noci Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2020 È in vigore dal 22 ottobre il nuovo decreto legge sicurezza che attenua le restrizioni introdotte due anni fa. L’attesa per la concessione della cittadinanza italiana scende da quattro a tre anni. Ma non torna ai due anni previsti prima del decreto Salvini del 2018. E rimane obbligatorio il test di lingua italiano, da superare prima dell’invio telematico della domanda. La novità è una delle tante contenute nel decreto legge 130/2020, pubblicato in Gazzetta ufficiale il 21 ottobre e in vigore dal giorno successivo. Il decreto legge rivede in più punti il sistema messo in piedi dal decreto sicurezza 113/2018 voluto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, a partire dalla discussa abrogazione della protezione umanitaria. Il decreto legge 130/2020 ripristina ora il permesso di soggiorno per motivi umanitari sotto l’alias “protezione speciale”. In passato la protezione umanitaria aveva consentito allo straniero di vedersi riconosciuto uno status e un permesso di soggiorno riconducibile alla protezione internazionale. Il decreto legge 113/2018 aveva però cancellato questa possibilità, abrogando l’articolo 5, comma 6, del Testo unico immigrazione e introducendo nuove forme di permessi di soggiorno “speciali” con motivi di rilascio tipizzati, mentre era stata eliminata la possibilità di concedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari in presenza di seri motivi risultanti da obblighi costituzionali o internazionali, che sovente i giudici richiamavano per valutare i fenomeni migratori (anche economici) e decidere sulla richiesta del cittadino straniero di continuare a soggiornare in Italia. Con l’attuale riforma, il permesso di protezione speciale sarà concesso agli stranieri che presentano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. La protezione durerà due anni e non sarà una mera estensione dei permessi per casi speciali introdotti dal decreto Salvini. Inoltre, il decreto legge 130/2020 introduce un nuovo principio di non respingimento o rimpatrio verso uno Stato in cui i diritti umani siano violati in maniera sistematica e impedisce di rimpatriare chi ha una vita consolidata in Italia; al divieto di espulsione e respingimento nel caso in cui il rimpatrio determini, per l’interessato, il rischio di tortura è aggiunta l’ipotesi del rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti. Il decreto amplia poi le competenze delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale: sono ora chiamate a decidere anche su situazioni diverse da quelle della protezione internazionale, come, ad esempio, i casi di divieto di espulsione per stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità. Viene inoltre eliminato il divieto di registrazione alle anagrafi comunali dei richiedenti asilo, a cui sarà rilasciata la carta di identità valida per tre anni. In proposito, la Consulta, con la sentenza 186/2020, ha dichiarato incostituzionale la norma che vietava l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, che dal 6 agosto 2020 possono iscriversi all’anagrafe comunale, ottenere la residenza e il documento di identità. Le nuove norme ampliano anche le possibilità di convertire i titoli di soggiorno in permessi per motivi di lavoro. La conversione è ora consentita, ove ne ricorrano i requisiti, per i permessi di soggiorno per protezione speciale, per calamità, per residenza elettiva, per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide, per attività sportiva, per lavoro di tipo artistico, per motivi religiosi, per assistenza minori. L’accesso al lavoro è consentito anche a chi è titolare di un permesso di soggiorno per cure mediche. Infatti, all’articolo 36 del Testo unico immigrazione, che disciplina l’ingresso e il soggiorno dello straniero per cure mediche, è inserito il seguente terzo comma: “Il permesso di soggiorno per cure mediche ha una durata pari alla durata presunta del trattamento terapeutico, è rinnovabile finché durano le necessità terapeutiche documentate e consente lo svolgimento di attività lavorativa”. Le modifiche introdotte mirano quindi a eliminare i divieti che, finora, hanno impedito allo straniero titolare di un determinato permesso di soggiorno, di svolgere regolare attività lavorativa subordinata o autonoma, con la conseguente stabilizzazione. La protezione speciale - Se la domanda di protezione internazionale viene respinta, gli stranieri possono ottenere un permesso per protezione speciale di due anni se nel Paese di provenienza rischiano torture o trattamenti inumani o degradanti, se lo Stato viola sistematicamente i diritti umani, o se allontanandoli dall’Italia si violerebbe il diritto al rispetto della loro vita privata e familiare. La cittadinanza - Il decreto legge 130/2020 riduce da quattro a tre anni il termine per definire i procedimenti per il riconoscimento della cittadinanza. Non si torna però al tetto di due anni fissato prima del 2018 e modificato dal decreto Salvini. Il nuovo termine sarà applicabile alle richieste di cittadinanza presentate dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge. La registrazione in anagrafe - Chi ha presentato la domanda di protezione internazionale può ottenere l’i scrizione nell’anagrafe della popolazione residente e la carta di identità valida per tre anni. Viene così cancellato il divieto previsto dal decreto Salvini che è già stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta con la sentenza 186/2020. I permessi per motivi di lavoro - Possono essere convertiti in permessi per motivi di lavoro, se si possiedono i requisiti, i permessi di soggiorno per protezione speciale, per calamità, per residenza elettiva, per acquisto della cittadinanza o dello stato di apolide, per attività sportiva, per lavoro di tipo artistico, per motivi religiosi, per assistenza minori. I permessi per cure mediche - Il decreto legge 130/2020 consente lo svolgimento di un’attività lavorativa anche agli stranieri che, intendendo ricevere cure mediche in Italia, ottengono uno specifico visto di ingresso e il relativo permesso di soggiorno previsto dall’articolo 36 del Testo unico sull’immigrazione, che dura quanto il trattamento terapeutico. Disarmo, in vigore il trattato Onu che vieta le armi nucleari Il Dubbio, 26 ottobre 2020 L’Italia non ha firmato il Trattato, ignorato anche dai Paesi detentori dell’atomica. Grazie alla cinquantesima ratifica nazionale (da parte dell’Honduras), il trattato Onu che vieta le armi nucleari entrerà in vigore entro i prossimi 90 giorni. Lo ha annunciato la notte scorsa il segretario generale dell’organizzazione, Antonio Guterres, in una nota in cui sottolinea che si tratta di un “impegno importante verso l’eliminazione totale delle armi nucleari, che rimane la principale priorità delle Nazioni Unite in materia di disarmo”. Il testo non è stato firmato dai principali detentori dell’arma atomica, ma i promotori del trattato auspicano ugualmente che la sua entrata in vigore non sarà solo simbolica. Solo 6 dei 49 stati europei hanno approvato e ratificato il trattato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino, Liechtenstein e lo Stato del Vaticano. L’Italia non ha firmato né ratificato il Trattato e non ha partecipato alla negoziazione del trattato. Il nostro Paese è attualmente uno dei cinque stati europei che ospitano testate nucleari statunitensi nell’ambito di accordi Nato. Si tratta di circa 40 bombe nucleari B61 presso le basi aeree di Aviano e di Ghedi. Nel 2019 l’Italia ha votato contro una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che invitava ad aderire al trattato. Il Trattato è stato adottato il 7 luglio 2017 dalla Conferenza delle Nazioni Unite per negoziare uno strumento legalmente vincolante per vietare le armi nucleari, che ha portato alla loro totale eliminazione. In conformità con il suo articolo 13, il Trattato è stato aperto alla firma di tutti gli Stati presso la sede delle Nazioni Unite a New York a partire dal 20 settembre 2017. Secondo l’articolo 1 del trattato, ciascuno Stato parte si impegna, in qualsiasi circostanza, a non: a) Sviluppare, testare, produrre, produrre, oppure acquisire, possedere o possedere riserve di armi nucleari o altri dispositivi esplosivi nucleari; b) Trasferire a qualsiasi destinatario qualunque arma nucleare o altri dispositivi esplosivi nucleari o il controllo su tali armi o dispositivi esplosivi, direttamente o indirettamente; c) Ricevere il trasferimento o il controllo delle armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari, direttamente o indirettamente; d) Utilizzare o minacciare l’uso di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari; e) Assistere, incoraggiare o indurre, in qualsiasi modo, qualcuno ad impegnarsi in una qualsiasi attività che sia vietata a uno Stato Parte del presente Trattato; f) Ricercare o ricevere assistenza, in qualsiasi modo, da chiunque per commettere qualsiasi attività che sia vietata a uno Stato parte del presente Trattato; g) Consentire qualsiasi dislocazione, installazione o diffusione di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari sul proprio territorio o in qualsiasi luogo sotto la propria giurisdizione o controllo. “Sono trascorsi 75 anni dagli orribili attacchi a Hiroshima e Nagasaki e la fondazione dell’Onu che ha reso il disarmo nucleare una pietra angolare - ha dichiarato Beatrice Fihn, direttrice esecutiva della Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, la coalizione vincitrice del Premio Nobel per la pace 2017 il cui lavoro ha contribuito a guidare il trattato per il divieto nucleare -. I 50 paesi che ratificano questo trattato stanno dimostrando una vera leadership nella definizione di una nuova norma internazionale, secondo cui le armi nucleari non sono solo immorali ma illegali”. La 50a ratifica è avvenuta nel 75esimo anniversario della ratifica della Carta delle Nazioni Unite che ha istituito ufficialmente le Nazioni Unite. Una volta entrato in vigore, tutti i paesi che l’hanno ratificato saranno vincolati dai requisiti previsti dal trattato. Gli Stati Uniti hanno scritto ai firmatari del trattato definendo la sua sottoscrizione “un errore strategico” ed esortandoli a revocare la loro ratifica. La lettera degli Stati Uniti, ottenuta dall’Associated Press, diceva che le cinque potenze nucleari originali - Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia - e gli alleati della Nato dell’America “sono uniti nella nostra opposizione alle potenziali ripercussioni” del trattato. Che, secondo l’amministrazione Trump, “è e rimarrà divisivo nella comunità internazionale e rischierà di radicare ulteriormente le divisioni nelle sedi esistenti di non proliferazione e disarmo che offrono l’unica prospettiva realistica per un progresso basato sul consenso”, afferma la lettera. “Sarebbe un peccato se al Tpan fosse permesso di far deragliare la nostra capacità di lavorare insieme per affrontare la pressante proliferazione”. Fihn ha sottolineato che “il Trattato di non proliferazione riguarda la prevenzione della diffusione delle armi nucleari e l’eliminazione delle armi nucleari e questo trattato lo implementa. Non c’è modo di minare il Trattato di non proliferazione vietando le armi nucleari. È l’obiettivo finale del Trattato di non proliferazione”. Stati Uniti. Oltre 500 i bimbi migranti separati dai loro genitori di Sara Volandri Il Dubbio, 26 ottobre 2020 La denuncia dell’ong “American civil liberties union”. A tre anni dalla stretta dell’amministrazione Trump sull’immigrazione clandestina, sono ancora 545 i bambini rimasti soli negli Usa dopo il rimpatrio dei loro genitori, in seguito al tentativo di varcare la frontiera tra Messico e Stati Uniti. Bambini separati a forza e affidati alla poco accurata custodia delle autorità. È quanto emerge da una denuncia depositata dall’, una delle Ong che sta cercando di ricongiungere i minori alle loro famiglie, che non hanno più loro notizie da due o tre anni. Nella fretta di applicare la nuova politica di tolleranza zero inaugurata ufficialmente nell’aprile 2018 (ma di fatto avviata l’anno prima con un progetto pilota riservato), molti adulti erano stati respinti in Messico senza che le loro generalità fossero registrate. Nel frattempo, i loro figli erano rimasti nei centri di detenzione in territorio statunitense. E, in mancanza di elementi per localizzare i loro genitori, a centinaia restano ancora negli Stati Uniti, presso famiglie affidatarie o lontani parenti. La politica di separazione dei bambini dalle famiglie era stata interrotta da Donald Trump con un ordine esecutivo nel giugno 2018 in seguito all’ondata di indignazione internazionale (e - pare - le pressioni della first lady). Nel frattempo, ricostruì il quotidiano britannico Guardian, in un’inchiesta, 2.300 minori di età inferiore ai 12 anni erano stati allontanati dai loro genitori, senza sapere se e quando li avrebbero mai rivisti. Iran. Nasrin Sotoudeh, l’appello del marito: “Papa e governo chiedano la sua liberazione” Il Dubbio, 26 ottobre 2020 L’attivista Khandan: “Lunedì processeranno nostra figlia Mehraveh: vogliono aumentare la pressione su mia moglie”. Papa Francesco e il governo italiano si mobilitino per la liberazione di Nasrin Sotoudeh, la più nota prigioniera politica oggi in Iran, da tempo in gravi condizioni di salute. A lanciare l’appello in un’intervista ad Aki-Adnkronos International è suo marito Reza Khandan, che nei giorni scorsi ha annunciato il trasferimento improvviso della moglie dal famigerato carcere di Evin, a Teheran, a quello di Qarchak, penitenziario altrettanto famigerato dove le condizioni sono anche peggiori. Ieri, inoltre, Khandan ha annunciato che la figlia ventenne Mehraveh è stata convocata in tribunale. Secondo la citazione, Mehraveh deve comparire davanti all’edificio giudiziario di Quds, filiale numero 1175, lunedì 26 ottobre. “Ad agosto, diverse forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella nostra casa per arrestare Mehraveh - spiega l’uomo. Con gli sforzi di amici e familiari, è stata rilasciata su cauzione. D’altra parte, dall’arresto di Mehraveh, e a causa della mancanza di sicurezza nell’area di visita per i membri della famiglia, in particolare i nostri bambini, Nasrin ha rinunciato alle visite con i membri della famiglia”. “Il Papa lanci un appello” - “Se ci fosse un appello del Papa per la liberazione di Nasrin e degli altri prigionieri politici naturalmente lo accoglieremmo a braccia aperte”, spiega ancora Khandan da Teheran nel corso dell’intervista organizzata con l’aiuto dell’associazione “Neda Day” di Pordenone. Secondo Khandan, che a sua volta è stato condannato a sei anni di carcere e in ogni istante può essere trasferito in prigione, anche il governo italiano può favorire il rilascio di Nasrin perché “sa come premere su quello iraniano”. Ma un ruolo importante, sottolinea, ce l’ha l’opinione pubblica italiana che deve mobilitarsi. L’odissea della vincitrice del Premio Sakharov è iniziata nel 2018 con l’arresto per aver difeso una donna che aveva violato la legge sull’obbligo del velo. Nei mesi scorsi l’avvocatessa ha iniziato un lungo sciopero della fame per protesta contro la detenzione dei prigionieri politici in Iran, interrotto a metà settembre per problemi cardiaci. Le autorità, insiste il marito di Nasrin, le hanno “mentito” sui motivi del trasferimento da Evin a Qarchak, facendole credere che l’avrebbero portata in ospedale ed ora la moglie “per protesta ha smesso di prendere i farmaci”. “Nasrin non sta bene” - “La legge prevede che abbia un permesso al mese ma non le è mai stato concesso”, prosegue Khandan, che denuncia poi come il trasferimento dal carcere di Evin a quello di Qarchak “vada contro la legge iraniana, secondo la quale la pena va scontata dove si è stati condannati”. Inoltre la prigione di Qarchak è un “inferno” dal punto di vista sanitario, essendo un ex allevamento di bovini trasformato in penitenziario e ospitando 3mila detenute, molte con il Covid. Una situazione che rischia di aggravare le già precarie condizioni di salute di Nasrin Sotoudeh. Nasrin “non sta bene, anche se vuole farci credere il contrario per rassicurarci”, aggiunge Khandan che le ha potuto parlare anche poche ore fa. “Le hanno bloccato i conti correnti - aggiunge - e ancora più grave è arrivata una lettera del tribunale secondo la quale lunedì processeranno nostra figlia Mehraveh, che ha 21 anni e non si occupa di politica”. Il reato che le è contestato è di aver picchiato un agente, ma il motivo reale di questo processo è “aumentare la pressione su mia moglie”, conclude Khandan. Lavoro e riscatto, le virtù del carcere giapponese di Pio D’Emilia Il Messaggero, 26 ottobre 2020 Non solo piccoli oggetti di artigianato, pupazzetti e soprammobili: ora anche indumenti, scarpe, biscotti fatti “in casa”, ortaggi freschi e persino i prelibatissimi shitake, sorta di porcini locali. Il tutto ordinato on line, a prezzi stracciati, su una piattaforma semplice ed efficace, che prevede la consegna a domicilio entro pochi giorni. Direttamente dal carcere. Il sito si chiama “Capic” ed è gestito direttamente dal ministero della Giustizia giapponese, sezione Amministrazione carceraria. Una iniziativa nata su base sperimentale qualche anno fa ma che quest’anno, con la pandemia che ha fatto esplodere il commercio on-line, sembra raccogliere molto successo: un modo per “sfruttare” meglio il lavoro dei detenuti (in Giappone chiunque venga condannato ad una sentenza di oltre sei mesi è obbligato a lavorare, in cambio di un salario nominale di circa 30 euro al mese) e al tempo stesso dar loro l’impressione di essere in qualche modo ancora parte del tessuto sociale. Come in tutte le cose, ci sono i pro e i contro: ma alcuni dati sembrano dare ragione a questo sistema. Le carceri giapponesi sono tra le più pulite, “organizzate” e sicure del mondo. Ampiamente sotto-occupate (66% della capienza, contro il 136% in Italia) ed il tasso di recidività è bassissimo: 17%. In Italia è del 68%. In compenso, la disciplina al loro interno è ferrea: ai detenuti è vietato parlare tra di loro nei luoghi “pubblici” e sul lavoro e persino guardare in faccia, diritto negli occhi, le guardie. Vietato, sempre e comunque, fumare, usare telefoni e/o tablet e computer personali, niente tv e giornali, colloqui ridotti al minimo (una volta al mese, 15 minuti, in genere). In compenso, la pena viene vissuta come è previsto che lo sia dalla maggior parte delle moderne Costituzioni: come strumento di riabilitazione in vista del reinserimento sociale del condannato. Il bassissimo tasso di recidività, come abbiamo visto, mostra che il sistema funziona. In Giappone il Natale non si festeggia: è un giorno lavorativo qualsiasi. Ma a fine dicembre scatta la stagione dello shogatsu, il lungo ponte di Capodanno che tradizionalmente blocca il Paese e che quest’anno durerà probabilmente qualche giorno di più, per via del Covid (neanche la pandemia è riuscita sinora a convincere i giapponesi a godersi tutte le ferie che gli spettano), mentre lo smart-working ha provocato un’esplosione di separazioni e divorzi. Lo shogatsu è una delle due occasioni ufficiali per scambiarsi auguri, “pensieri” e veri e propri regali (l’altra è il solstizio d’estate, il chugen). Un’occasione ghiotta per i grandi magazzini e i megastore-online che tradizionalmente danno fondo all’invenduto offrendo strenne speciali da ordinare “al buio”, in base alla cifra che volete spendere. Una volta scelta la cifra (operazione molto delicata: a seconda di chi sia il destinatario, non bisogna mai esagerare né in generosità né in tirchieria) l’ordine viene preso in consegna da esperti kakarimono (addetti alle vendite) e ai vostri genitori, parenti, amici e/o (soprattutto) colleghi e superiori arriverà un pacco “sorpresa”. Dentro può esserci davvero di tutto, e a volte anche mischiato in ordine sparso. Una cravatta firmata, una lattina di olio tartufato, un chilo di preziosissima uva, un melone muschiato, un buono per un soggiorno in qualche albergo prestigioso: quello che conta, si sa, è il pensiero. Tant’è che molti di questi pacchi vengono riciclati direttamente, senza essere nemmeno aperti, esattamente come facciamo noi, a volte, con i doni di nozze. Una usanza che negli ultimi tempi ha letteralmente salvato le catene di grandi magazzini e che ora si arricchisce di una nuova, ancorché decisamente limitata, “piattaforma”. Dicevamo dei pro e i contro del sistema carcerario. Di estremamente crudele c’è il trattamento dei condannati a morte. Giappone e Usa sono gli unici Paesi del G7 a prevedere ancora questo tipo di pena, ed in Giappone attualmente sono un centinaio i detenuti in attesa di essere “giustiziati” (per impiccagione). Per loro, non essendoci possibilità alcuna di riabilitazione e reinserimento, le condizioni di detenzione sono particolarmente crudeli. Una di queste è il divieto - proprio così, il divieto - di lavorare, considerato un privilegio. Una crudeltà nella crudeltà. Arabia Saudita. Gare di golf femminile per cancellare l’immagine di oppressori La Repubblica, 26 ottobre 2020 È l’accusa degli attivisti che invocano il boicottaggio di un torneo. La competizione, prevista a marzo e rimandata per la pandemia, si terrà a novembre a Jeddah. Attivisti e organizzazioni pro diritti umani di primo piano hanno lanciato una campagna, per il boicottaggio di un importante torneo di golf femminile in programma in Arabia Saudita il mese prossimo. In una lettera aperta i critici attaccano i vertici di Riyadh, accusandoli di usare le competizioni sportive per “ripulire” la propria immagine e fornire al mondo una nuova condizione dei rapporti con il mondo femminile. “Bloccate quell’evento sportivo”. Diversi movimenti attivisti come Mena Rights Group, il saudita Alqst e Code Pink sono fra le 19 realtà che hanno sottoscritto la lettera aperta, invitando gli organizzatori, i partecipanti e gli sponsor della Saudi Ladies International di golf a bloccare l’evento. La competizione si dovrebbe svolgere fra il 12 e il 19 novembre Royal Greens Golf and Country Club, in un’area commerciale 120 km a nord di Jeddah, sebbene in origine fosse prevista a marzo. La diffusione della pandemia di nuovo coronavirus aveva costretto gli organizzatori a congelare l’evento. La denuncia al regno wahhabita. Nel documento pubblicato il 22 ottobre scorso gli attivisti chiedono di riconsiderare il coinvolgimento e denunciare la violazione dei diritti umani nel regno wahhabita. “Gli spettatori locali e internazionali di 55 nazioni del mondo - si legge - ammireranno le giocatrici competere per un ricco bottino” di 1,5 milioni di dollari. Tutto questo mentre le donne che si battono “a difesa dei diritti umani nel regno languiscono in prigione, senza nemmeno beneficiare del diritto alla difesa”. Le donne in carcere perché alla guida di un’auto. Pur sapendo che questo torneo rappresenta una pietra miliare nel golf femminile, prosegue la lettera, “siamo preoccupati che l’Arabia Saudita usi gli eventi sportivi come arma di pubbliche relazioni per ripulire i dati spaventosi in tema di diritti umani”. Inclusa, aggiungono, “la discriminazione delle donne o la repressione di quanti le difendono”. Fra gli esempi ricordati vi sono le donne finite in carcere per rivendicare il diritto alla guida, e ancora agli arresti, come Loujain al-Hathloul, Samar Badawi, Nassima al-Sadah, Nouf Abdulaziz e Mayaa al-Zahrani. I Tribunali segreti e altre vicende. Nel regno saudita vige una monarchia assoluta sunnita, retta da una visione wahhabita e fondamentalista dell’islam. Le riforme introdotte negli ultimi due anni da Mohammad bin Salman (Mbs) nel contesto del programma “Vision 2030” hanno toccato la sfera sociale e i diritti, fra cui il via libera per la guida alle donne e l’accesso (controllato e in apposti settori) agli stadi. Tuttavia, gli arresti di alti funzionati e imprenditori, la repressione di attivisti e voci critiche, la vicenda Khashoggi e la scoperta di tribunali segreti per dissidenti gettano un’ombra sul cambiamento. “Sport ed eventi non rappresentano un progresso”. Ines Osman, direttore e co-fondatore di Mena, sottolinea a Middle East Eye che “sport ed eventi non rappresentano un progresso se non sono accompagnati da riforme significative” nella sfera dei diritti, anzi rappresentano “un mezzo per ripulirsi la coscienza”. “È vergognoso - conclude - che non si vedano sempre più atleti di alto profilo che si rifiutano di competere in Arabia Saudita”.