Contro le recidive un lavoro per oltre 13 mila detenuti di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 25 ottobre 2020 Dalla formazione professionale agli alloggi, i progetti (e i fondi) di Cassa delle Ammende e Regioni. Certo che alla società costa insegnare un lavoro a un detenuto in carcere. Ma alla collettività costa di più lasciare che la pena sia solo un intervallo di reclusione tra una delinquenza e la successiva recidiva di delinquenza, così come avviene per 3 detenuti su 4 che scontano la pena tutta in cella. Recidiva infinitamente più bassa invece per chi ha la possibilità dal carcere di sperimentare lavoro e studio. Proprio su questo si concentra la Cassa delle Ammende, l’ente con personalità giuridica di diritto pubblico del ministero della Giustizia, che, utilizzando le somme pagate dai cittadini come sanzioni pecuniarie e i proventi dei corpi di reato non reclamati, per statuto finanzia il reinserimento dei detenuti nel solco dell’articolo 27 della Costituzione sulle pene che “devono tendere alla rieducazione del condannato”. In tandem con le Regioni (comprese quelle i cui vertici politici in pubblico amano atteggiarsi a “prigionisti”), per il 2020-21 gli interventi della Cassa presieduta dall’ex magistrato Gherardo Colombo stanno riguardando 13.725 detenuti. In 19 progetti per la formazione professionale e l’inclusione lavorativa i soldi sono venuti per 9,7 milioni da Cassa delle Ammende e per 7,2 milioni dalle Regioni delle persone in esecuzione penale; 4,5 milioni finanziano 18 progetti per trovare alloggi a detenuti che hanno tutti i requisiti ma non un domicilio per essere ammessi dai magistrati a misure alternative al carcere; 3 milioni vanno ad adeguare gli spazi fisici del cosiddetto “trattamento”, come i laboratori, all’interno delle carceri di Napoli Secondigliano e Poggioreale, Bologna, Torino, Catania, Messina, Busto Arsizio, Monza, Eboli, Rossano, Ariano Irpino, Viterbo, Teramo, Alessandria, Novara, Taranto, Is Arenas, Volterra, Verona, Vercelli, Verbania. Venti milioni di euro sono già in bilancio nel 2021 per formazione professionale qualificata e inserimento lavorativo, 3 per edilizia penitenziaria, 2 per giustizia riparativa, mediazione penale e rafforzamento dei servizi alle vittime di reato, quali la presa in carico degli orfani di femminicidio e delle famiglie alle quali vengono affidati. E non sono soldi gettati in un calderone indistinto: Cassa delle Ammende, con il segretario generale Sonia Specchia, ha attivato un sistema di valutazione dei programmi finanziati; pretende per tutti i progetti il ricorso alle procedure ad evidenza pubblica per individuare l’ente privato erogatore del servizio richiesto, dunque tutto con gare trasparenti; e ha reso obbligatorio il cofinanziamento da parte dell’ente territoriale per poter accedere ai fondi della Cassa, così creando una sorta di effetto moltiplicatore degli investimenti. La pena in poco spazio di Stefano Iucci collettiva.it, 25 ottobre 2020 In Italia il sovraffollamento delle carceri è a macchia di leopardo. In Puglia, Basilicata e Lombardia i dati sono allarmanti, con realtà come la casa circondariale di Taranto che ospita 246 detenuti rispetto a una capienza di 97 posti. Non solo: finito il lockdown le reclusioni hanno ricominciato a crescere Qual è la situazione dell’affollamento delle carceri italiane in questa dura fase pandemica? A giudicare dalle medie generali non sembrerebbe troppo drammatica, ma le medie, come si sa, possono ingannare. In questi giorni in stato di reclusione ci sono 54.487 detenuti, per una capienza di 47.195 persone. Il sovraffollamento sarebbe, dunque, del 15 per cento circa, un dato gravemente in difetto ma apparentemente non tragico. Le regole italiane, ricordiamo, stabiliscono 9 metri quadrati per detenuto più 5 metri quadri per ogni recluso aggiunto. In molti paesi europei le norme sono più stringenti: 7 metri quadrati più 4 per ogni recluso in più. Anche utilizzando questo parametro le carceri italiane sarebbero in ogni caso sovraffollate. Il dato generale però, come detto, vuol dire poco. E la situazione emerge in tutta la sua drammaticità, se si osserva da vicino cosa accade nelle diverse aree del paese. A fronte di regioni che se la passano meglio (Calabria, Sicilia e Sardegna, ad esempio, non arrivano a “coprire” tutti i posti disponibili), ci sono realtà in cui i dati hanno raggiunto soglie allarmanti: Puglia, Basilicata e Lombardia sono oltre il 130 per cento. E se avviciniamo ancor più la lente al territorio bisogna stigmatizzare la situazione complessiva di Taranto, che ha quasi il doppio di detenuti rispetto a quanti ne potrebbe ospitare; percentuale che si impenna ulteriormente nella casa circondariale ordinaria della stessa città pugliese dove ai 92 posti ufficialmente disponibili corrispondono nella realtà addirittura 246 persone, per un sovraffollamento del 267 per cento. Naturalmente l’affollamento non è l’unico dato da prendere a riferimento per analizzare lo stato della detenzione carceraria in Italia (si può star male anche in una cella che rispetti i parametri), tuttavia vale l’assunto che è difficile vivere in modo dignitoso se si è privi di uno spazio sufficiente. Per quanto riguarda il trend, è abbastanza scontato che nel periodo di lockdown - con meno reati e dunque meno arresti - il numero di detenuti stesse diminuendo: a maggio erano 53.168 rispetto ai 54.487 di oggi. Si assiste dunque a una prevedibile ripresa delle detenzioni. È chiaro dunque che il tema dell’affollamento delle carceri è questione importante - anche se non unica - su cui una giustizia degna di un paese civile dovrebbe intervenire. “Sognalib(e)ro 2020”, tre scrittori online collegati con 14 carceri bologna2000.com, 25 ottobre 2020 Online detenuti dei gruppi di lettura e operatori, in rete da tutta Italia con Modena all’insegna della Cultura. Sono state 14, infatti, le carceri italiane, su 17 aderenti al progetto “Sognalib(e)ro 2020”, collegate in teleconferenza giovedì 22 ottobre per la prima iniziativa del premio letterario nazionale per le carceri, che mira a promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari e di reclusione come strumento di riabilitazione, come prevede l’articolo 27 della Costituzione. Dalle rispettive sedi, i detenuti partecipanti hanno assistito alla autopresentazione dei tre scrittori in lizza per l’edizione 2020: Gianrico Carofiglio, con “La misura del tempo” (Einaudi, 2019); Valeria Parrella, con “Almarina” (Einaudi, 2019); Maria Attanasio, con “Lo splendore del niente e altre storie” (Sellerio 2020). Ognuno di loro partecipa in videoconferenza collegandosi dalle rispettive città, attraverso il carcere di Sant’Anna di Modena, con gli altri 13 istituti penitenziari connessi. L’iniziativa è stata presentata mercoledì 21 ottobre dall’assessore alla Cultura di Modena Andrea Bortolamasi, con Bruno Ventavoli, giornalista di Tuttolibri-La Stampa presidente del premio, e in collegamento da remoto Maria Martone, direttrice del Sant’Anna di Modena, Eugenio Garavini, vice direttore generale Bper Banca, Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Quest’ultimo ha sottolineato il particolare rilievo dell’appuntamento perché si svolgerà all’interno del carcere di Modena, dove si stanno concludendo i lavori di ripristino dopo i fatti drammatici di marzo. L’Istituto infatti, dopo la rivolta dell’8 e 9 marzo, proprio in coincidenza con l’inizio dell’emergenza sanitaria da diffusione del Covid 19 anche in Italia, è stato interessato da un complesso intervento di ristrutturazione dopo le devastazioni causate dalla rivolta e “in tempi davvero da record si può dire che possa riprendere la vita quotidiana della struttura penitenziaria dove hanno avuto avvio le attività scolastiche e buona parte delle attività trattamentali”. Quest’anno quindi il premio letterario, giunto alla terza edizione, ha un duplice significato, ha dichiarato l’assessore Bortolamasi “avendo al fianco del valore della promozione della lettura, quello di svolgersi all’interno del carcere di Modena e in collegamento non solo con i gruppi di lettura costituitosi in 17 Istituti penitenziari del territorio nazionale, ma con gli stessi autori, con il Comune di Modena e Bper, sponsor dell’iniziativa, come a dire ancora una volta che la società civile entra come parte attiva in carcere, nonostante le limitazioni imposte dall’emergenza sanitaria e con tutte le cautele imposte dai protocolli di prevenzione, per partecipare al mandato di risocializzazione indicato dalla Carta Costituzionale”. Il vice direttore generale di Bper Banca, Eugenio Garavini, ha affermato: “Nell’ambito dei progetti di responsabilità sociale, Bper ha maturato un’attenzione particolare verso il mondo carcerario, sostenendo progetti educativi come questo. volti a incrementare la responsabilità dei detenuti per un loro reinserimento consapevole nella società”. A svolgere il ruolo di tele-moderatore dell’evento ci sarà Giordano Bruno Ventavoli di “Tuttolibri - La Stampa”, ideatore e presidente del Premio. Con lui la direttrice dell’Istituto Maria Martone, gli assessori Andrea Bortolamasi (Cultura) e Roberta Pinelli (Politiche sociali) con Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, e Eugenio Garavini, vice direttore generale di Bper Banca. Nel frattempo, i detenuti delle 17 carceri in rete con Sognalib(e)ro stanno iniziando a leggere i tre testi in concomitanza con l’avvio dell’anno scolastico. Al termine sceglieranno il “migliore” romanzo, con un voto e con un’apposita scheda guida che permette, con l’aiuto degli educatori, di esprimere giudizi e osservazioni dettagliate sul testo e sull’esperienza di lettura. “Sognalib(e)ro” è promosso da Comune di Modena - assessorato alla Cultura, in collaborazione con ministero della Giustizia - Dipartimento amministrazione penitenziaria, e con sostegno e partnership di Bper Banca. Premio letterario nazionale nelle carceri - Di particolare rilievo umano, sociale e culturale, il progetto “Sognalib(e)ro” consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi, uno a un’opera letteraria valutata e votata dai detenuti, il cui autore indicherà poi i tre o quattro titoli dei libri che hanno segnato la sua vita, che gli organizzatori doneranno alle biblioteche delle strutture carcerarie partecipanti al Premio; l’altro a un elaborato prodotto dai detenuti stessi, che potrà essere pubblicato, da solo o in antologia con altri, in ebook dal Dondolo, la casa civica editrice digitale del Comune di Modena. Per l’edizione 2020 sono stati individuati dal ministero 17 istituti, dove sono attivi laboratori di lettura o scrittura creativi: la Casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, le Case di reclusione Milano Opera, e Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza, Saluzzo, Pescara, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna, e Castelfranco Emilia; e quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Il concorso s’articola in due sezioni: in “Narrativa italiana” (che comprende il Premio speciale Bper Banca), la giuria composta dagli aderenti ai gruppi di lettura delle carceri valuta il migliore di una rosa di tre romanzi: “Almarina”, di Valeria Parrella (Einaudi, 2019); “La misura del tempo” di Gianrico Carofiglio (Einaudi, 2019); “Lo splendore del niente e altre storie” di Maria Attanasio (Sellerio, 2020). Ciascun componente dovrà esprimere la preferenza attribuendo 3 punti al libro migliore, 2 al secondo e 1 punto al terzo. Ogni gruppo è seguito da un operatore incaricato che raccoglierà i voti della giuria interna e li trasmetterà al Comune. Tutti i voti trasmessi riferiti alla stessa opera, una volta sommati, determineranno il romanzo vincitore. Il premio, che sarà formalmente assegnato in un evento serale che si svolgerà a Modena in primavera, consiste nell’invio di titoli scelti dall’autore a tutti gli istituti partecipanti, accrescendo così il patrimonio librario delle strutture. Inoltre, lo scrittore vincitore, al quale Bper Banca destinerà un riconoscimento speciale, potrà presentare il proprio libro nelle carceri partecipanti. Autori e libri in gara nell’edizione 2020 - Gianrico Carofiglio, con “La misura del tempo”; Valeria Parrella, con “Almarina”; Maria Attanasio, con i racconti “Lo splendore del niente e altre storie”. Sono gli autori e i romanzi in lizza per l’edizione 2020 del premio letterario per le carceri “Sognalib(e)ro”, che giovedì 22 ottobre si sono autopresentati in videoconferenza ai detenuti di 14 delle 17 carceri italiane aderenti al progetto nato a Modena. “Almarina”, (Einaudi, 2019) è il romanzo di Valeria Parrella. È la storia dell’incontro nel carcere minorile di Nisida fra Elisabetta, insegnante di matematica cinquantenne che ha perso da poco il marito, e Almarina, ragazza romena di sedici anni con alle spalle una storia di violenza familiare. Fra le due donne nasce un legame fortissimo, che si accompagna per entrambe alla speranza di poter ricominciare una nuova vita. Un romanzo certamente femminile, ma molto vicino all’esperienza del carcere (la Parrella ci va ad insegnare). Gianrico Carofiglio è in concorso con “La misura del tempo” (Einaudi, 2019). L’avvocato Guerrieri, personaggio seriale di Carofiglio, riceve in studio la visita di Lorenza, che conosce da tantissimi anni. Una volta era bella e insopportabile, ora è opaca, vinta dalla vita, e afflitta dal dolore per il figlio, chiuso in carcere con l’accusa di omicidio volontario. Guerrieri non è convinto ma accetta lo stesso il caso, per inseguire i fantasmi della giovinezza. Inizia così un viaggio nei meandri della malagiustizia. Il romanzo è stato finalista al Premio Strega 2020. Con “Lo splendore del niente e altre storie” (Sellerio 2020) è in gara Maria Attanasio. Una raccolta di racconti di donne ribelli, coraggiose resistenti, nella Sicilia del passato che dalla Spagna passa ai Savoia, poi agli Asburgo e quindi ai Borbone di Spagna. Le storie sono ambientate nell’immaginaria Calacte e raccontano personaggi forse storici o forse di fantasia. Dalla contadina vedova che non si arrende e lavora come un maschio nei campi all’aristocratica che preferisce dedicarsi alla contemplazione del nulla, piuttosto che sottomettersi al dominio maschile. Minacce, pestaggi, droga. I boss delle baby gang reclutano tra i banchi di scuola di Pietro Mecarozzi L’Espresso, 25 ottobre 2020 Si ispirano alle organizzazioni dell’America Latina. Mettono le loro gesta su Instagram. Nella banda trovano famiglia, fedeltà, casa e lavoro. Come Francesco, già capo a 18 anni appena compiuti. Un nome falso e un giro nei parchi dei quartieri più difficili di Firenze. Non occorre altro per entrare a far parte di una baby gang, una delle tante sparse per l’Italia. Come quella di cui si è parlato dopo il pestaggio di Lanciano, dove un diciottenne è finito in corna. È la via più veloce per raccogliere le storie dei ragazzi che ne fanno parte e vivere con loro una quotidianità inquinata da furti, violenze e droga. Da parte del branco c’è subito piena accoglienza: la considerano un’opportunità per legittimare il proprio potere. Un palcoscenico superiore a quello dei social network, dove con stories e post sfidano le autorità e raccontano parte dei crimini commessi. Si sentono invincibili e si atteggiano come i protagonisti della serie tv “Gomorra”. Sono tutti ragazzi minorenni o appena maggiorenni, con brufoli e volti imberbi. Ma nelle loro persone c’è qualcosa di diverso, di invalicabile. Il compito di quel primo gruppetto di ragazzi, però, comincia e finisce nel parchetto rionale: sono gli ultimi arrivati e gli spetta ancora la gavetta fatta di piccoli spacci e furtarelli. Dopo alcune telefonate ci spostiamo quindi in un altro quartiere del capoluogo toscano, dove si trova il “covo” della gang. Al portone di un palazzo costruito da poco ci attendono altri tre ragazzi, i “soldati” che difendono il territorio. I modi cambiano con rapidità: alla strafottenza subentrano paranoia e diffidenza, così prima di farmi proseguire chiedono il permesso al capobranco. C’è un andirivieni di ragazzi e di scooter. Ma pochi istanti dopo arriva il via libera dall’alto, in pieno stile malavitoso. L’appartamento è spazioso ma spoglio. Francesco, il baby boss, appena compiuti 18 anni se lo è fatto comprare dai suoi genitori e ben presto è diventato il quartier generale del gruppo. All’interno una decina di giovani con le braccia tatuate, quasi tutti vestono abiti e indossano accessori costosi. Fumano spinelli seduti intorno a un tavolo sul quale, al centro, riposa una bilancia di precisione e alcune bustine di quella che sembra cocaina. Altri due giocano al videogioco Grand Theft Auto (Gta), in sottofondo una traccia di musica trap. Il tutto viene documentato con selfie e stories Instagram. “C’è una grossa differenza tra noi e i nostri coetanei: abbiamo fatto una scelta, giurato fedeltà alla gang. È diventata come una famiglia, quella che a molti di noi è mancata per tutta la vita”, dice Francesco, il ventunenne indicato come leader dell’organizzazione criminale, che usa un tono algido ma ha un volto ancora infantile. “Per alcuni la gang è diventata un lavoro con il quale portano a casa un po’ di soldi. Altri come me non hanno bisogno di denaro, ma lo fanno per divertimento”, aggiunge. Gli animi si distendono e la gang si rivela per ciò che è realmente: giovani, cresciuti troppo in fretta e tra mille difficoltà. Nel frattempo Francesco descrivere la spartizione degli incarichi, tra chi gestisce il denaro dei proventi e chi si occupa dello spaccio in strada. Colpisce sentirli ammettere che per svago vandalizzano la città e bullizzano anziani e coetanei, ma ci tengono subito a chiarire che per loro è una questione seria. “Abbiamo il nostro giro di clienti fedeli cui vendiamo hashish, marijuana e cocaina. Clienti giovani ma anche più grandi di noi, che sono in grado di sborsare centinaia di euro. E per chi non paga, iniziamo con le minacce e poi passiamo alle botte”, spiega Francesco. Delle famiglie parlano poco: troppe cicatrici per chi viene da contesti indigenti, pochi ricordi impressi nella memoria per coloro che invece hanno avuto tutto senza avere mai le attenzioni richieste. L’argomento scuola passa con una scrollata di spalle: i ragazzi del branco ancora iscritti sono pochi e bocciati più volte, a dimostrazione di come l’abbandono degli studi rimanga una ferita nazionale sempre aperta. Non può mancare invece il supporto della tecnologia. La ricerca intenzionale di popolarità sui social “ci fa sentire ancora più potenti di quanto già siamo”, continua Francesco, che sembra essere la mente del gruppo. Si filma tutto: dalla droga ai pestaggi, ma non sempre “condividendoli nelle chat o sui profili social, visto che due dei nostri sono stati segnalati a causa di alcune storie Instagram. Perciò quando si tratta di affari più grossi è vietata la pubblicazione. Usiamo però le chat per trattare e smerciare le dosi”, continua il ragazzo. Il fenomeno delle baby gang è in netta ascesa nel nostro Paese. I fatti di cronaca parlano di violenze ripetute, furti e traffico di stupefacenti messi a segno da bande di minorenni e giovani adulti (ragazzi fino ai 25 anni). Come nel caso di Francesco e la sua organizzazione criminale, tutti con alle spalle storie di disagio e devianza. L’architettura del branco emula quello delle gang latine: il reclutamento parte dai banchi di scuola o spesso sulla strada, si inizia per gioco per poi farlo diventare un mestiere e la violenza è vista come una forma di riconoscimento. Per baby gang si intende “microcriminalità organizzata”, ovvero “gruppi strutturati con un proprio modus operandi e un capo al comando”, puntualizza Maura Manca, presidentessa dell’Osservatorio nazionale dell’adolescenza, psicologa e psicoterapeuta tra le maggiori esperte dell’universo giovanile. In molti casi questi gruppi possono essere “autonomi mentre altre volte fanno parte di sistemi di macrocriminalità nazionale che li fagocitano”, continua la psicologa. Che delinea anche un identikit del giovane criminale: “Chi appartiene a una baby gang clinicamente ha una personalità ben strutturata, si riconosce con gli altri membri e per lui il gruppo diventa casa, famiglia e lavoro. In genere, molti sono giovani che purtroppo hanno la vita già segnata”. Secondo l’Osservatorio Nazionale sull’Adolescenza il 6-7 per cento degli under 18 vive esperienze di criminalità collettiva, il 16 per cento ha commesso atti vandalici e tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. I ragazzi affidati all’Ufficio di servizio sociale per i minorenni sono al 15 agosto 2020 circa 16 mila, contro i quasi 21mila totali del 2019 e del 2018. Mentre il numero dei reati commessi da minori e giovani adulti in questa prima parte dell’anno sono 47.224, tra sequestri di persona (139), omicidi volontari (81), spaccio di stupefacenti (5.059), violenze sessuali (840). Sono in maggioranza minori italiani (12 mila contro i 4 mila stranieri), con una prevalenza di genere maschile. Per quanto riguarda le città-nido per giovani criminali, seguendo il numero di minorenni e giovani adulti presi in carico dai servizi sociali, in testa su tutte c’è Roma (1.609 persone), poi Bologna (1.458), Palermo (1.137), Catania (1.063), Bari (1.020), Napoli (924), Ancona (737), Firenze (662). Ma cosa spinge questi ragazzi a intraprendere la strada del crimine? “Tanti sono bambini, ma non pensano più come tali. A otto o nove anni conoscono già droga, armi e soldi, e senza un controllo ambientale e familiare scelgono la via della sopravvivenza. Dall’altra parte c’è una condivisione dei valori: la fratellanza che unisce i ragazzi, alcuni dei quali a 16 anni percepiscono una paghetta da mille euro, è un legame che colma dei vuoti”, continua Manca. Per i “fratelli” si è quindi disposti a tutto, anche a fare del male. Come è avvenuto con gli undici ragazzini dai 16 ai 25 anni, tutti di origine pakistana, tutti abitanti alla Bolognina, che hanno accoltellato un diciannovenne romeno per rapinarlo di scarpe e t-shirt e aggredito dei connazionali con spranghe, tirapugni e un coltello, con cui una delle vittime è stata colpita al petto e per un soffio la lama non ha toccato il cuore. Stessa storia per il branco di 30 ragazzini, di un’età compresa dai 13 ai 18 anni, che ha colpito e mandato all’ospedale tre bagnini in un lido di Jesolo lo scorso 30 giugno 2019 solo per essere stati spostati da dove si erano posizionati, ovvero a ridosso della torretta. Confezionando l’aggressione in un video, fatto poi circolare, dove si vantavano del misfatto. C’è poi l’operazione “Canova regna”: dove otto spacciatori di Trento, tra i 15 e i 17 anni, sono stati accusati, grazie anche alle foto dove immortalavano le migliaia di euro guadagnati, di controllare il giro locale di droga. E la vicenda della baby gang di Vigevano arrestata per violenza sessuale, riduzione in schiavitù, pornografia minorile e violenza aggravata, grazie alle riprese video diffuse su Twitter, WhatsApp, Facebook e Telegram. Fino ad arrivare all’uccisione di Antonio Stano, il 66enne pensionato di Manduria (Taranto) morto fi 23 aprile 2019 dopo aver subito una lunga serie di aggressioni, rapine e angherie da parte di più gruppi di giovani. Senza contare tutti quei reati “minori” come furti, scassi e risse, che spesso, come nel caso dell’omicidio del giovane Willy Monteiro a Colleferro, si trasformano in tragedia. I fratelli Bianchi, infatti, sono stati autori di “comportamenti tipici di una gang, collaudata da tempo”, che non sono altro che i “comportamenti futuri dei ragazzini di oggi”, assicura la psicologa. In gergo si chiama effetto branco, in quanto “il limite del gruppo diventa il limite individuale, e la percezione è quella di poter condividere il peso morale di ogni azione, per quanto efferate esse siano”. Fino al punto della deresponsabilizzazione totale, per cui “picchiare un ragazzo a morte o, non sullo stesso piano, riprendersi sui social mentre si fuma uno spinello, diventa un atto normale”, prosegue l’esperta. Scovare le cause psicologiche precise non è facile. L’influenza del micromondo familiare è “predominante e primaria” così come non aiuta una società esterna, virtuale e fisica, fatta di “esempi devianti e violenze di ogni genere”, ripete la psicologa. Una palestra di criminalità, però, è possibile individuarla nelle carceri minorili. E la conferma arriva da un membro della gang fiorentina. “Sono stato in carcere per cinque mesi, mi hanno beccato per tre volte a rubare e non avendo un posto sicuro dove vivere sono finito dentro in custodia cautelare. All’interno mi sono fatto nuovi amici che mi hanno inserito nel loro giro di fornitori: adesso riesco a guadagnare anche 1.500 euro al mese”, dice Youssef, un diciottenne del Marocco. I minorenni e i giovani adulti presenti nelle strutture residenziali sono 1.345, divisi in quattro tipologie di strutture: le comunità private (1.008 ospiti), gli istituti penali per minorenni (319), le comunità ministeriali (17) e i centri di prima accoglienza (1). Come Youssef, secondo i dati raccolti dal V Rapporto Antigone sugli Istituti penitenziari minorili (Ipm), il 72 per cento dei ragazzi entrati in Ipm è in custodia cautelare. Solo il 17 per cento dei detenuti ha compiuto reati contro la persona, i più gravi, mentre il 62 per cento ha commesso illeciti contro il patrimonio: furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Il ricorso ai 17 istituti penali, pertanto, nonostante l’Italia si basi sul “principio della residualità”, non è così raro. Centinaia di ragazzi che alla pari di Youssef sono entrati negli Ipm per scontare la pena e rimediare agli errori commessi, si ritrovano così in una bolla corrosiva abitata fino a pochi anni fa quasi esclusivamente da “bande di figli di migranti di terza o quarta generazione, provenienti dall’America latina”, dice Corrado Sabatino, membro del sindacato della polizia penitenziaria (Uilpa) e agente in servizio per 23 anni nelle carceri minorili di tutta Italia. A Milano per esempio erano presenti, e continuano a esserlo, le “maras” salvadoregne, come la MS13 e il Barrios 18, mentre adesso le “baby gang italiane nascono, si fortificano ed evolvono all’interno degli stessi istituti penitenziari per minori”, conclude Sabatino: “Qui il giovane boss omicida, viste le dimensioni ridotte delle carceri, convive con chi è autore di furto o scasso. E così diventa in breve tempo un affiliato o un corrispondente per i traffici illeciti”. Caso procure, il processo disciplinare a carico di cinque ex togati è rinviato Il Dubbio, 25 ottobre 2020 Nuova udienza il 5 novembre: il Csm deciderà sulle istanze sollevate dai difensori. Rinvio a una nuova udienza che si terrà il 5 novembre, per decidere sulle questioni preliminari sollevate dalle difese. E quanto ha deciso il collegio della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura nel procedimento a carico di 5 ex togati Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli e Corrado Cartoni, coinvolti nel caso Palamara. Lo ha comunicato il presidente del collegio, Filippo Donati, dopo la camera di consiglio. In quella data, ha spiegato, si deciderà sulle istanze sollevate dai difensori e, se saranno risolte, si avvierà il procedimento. Anche la procura generale della Cassazione presenterà le sue osservazioni. Dei 5 ex consiglieri erano presenti in udienza solo Luigi Spina e Gianluigi Morlini. Domenico Airoma, difensore dell’ex togato del Csm Antonio Lepre, ha chiesto al “tribunale delle toghe” di sospendere il processo disciplinare e trasmettere gli atti alla Corte costituzionale. Secondo il difensore, va sollevata questione di legittimità in relazione alle norme che prevedono la facoltà del ministro della Giustizia di esercitare l’azione disciplinare nei confronti di consiglieri del Csm nell’esercizio delle loro funzioni. “Secondo me - ha detto Airoma, in apertura dell’udienza disciplinare a carico di 5 ex togati - non è consentito, ed è un grave rischio, che il ministro vada a sindacare le condotte dei componenti del Csm. Serve tutelare il Csm come organo di autogoverno”. Il difensore dell’ex togato Luigi Spina, l’avvocato Donatello Cimadomo, ha invece sottolineato la nullità della richiesta di giudizio disciplinare, per “tardività”, rispetto a uno dei capi di incolpazione, come condiviso anche dal professor Vittorio Manes, che difende l’ex togato Gianluigi Morlini davanti al “tribunale delle toghe”. I tre difensori hanno quindi accennato al tema dell’utilizzabilità delle intercettazioni. Nicoletta Dosio, oggi sono 300 giorni di detenzione poterealpopolo.org, 25 ottobre 2020 Per Nicoletta Dosio quella odierna è la trecentesima giornata di detenzione. Dallo scorso lunedì 30 dicembre, giorno del suo arresto, ha trascorso 92 notti nel carcere torinese Lorusso e Cutugno, le altre fra le mura di casa, usufruendo della possibilità di detenzione domiciliare dettata dall’emergenza Covid-19, per il suo essere soggetto fragile dal punto di vista medico, e per le precarie condizioni igieniche e sanitarie del carcere. Se da un lato, pochi giorni fa, ha ricevuto una nuova denuncia, dovuta alla sua evasione per salutare Dana Lauriola mentre la Polizia la stava trasferendo dalla sua abitazione al carcere, dall’altro sappiamo che prima di questo episodio le era stata applicata la riduzione di pena di quarantacinque giorni che usualmente spetta ai detenuti ogni sei mesi di detenzione. Questo vuol dire che salvo nuovi provvedimenti Nicoletta potrebbe essere libera fra circa tre settimane. Mancano pochi giorni, ormai, finalmente! Al di là della sua scelta di non richiedere misure alternative alla prigione, definiamo ancora una volta la sua carcerazione, e quindi la condanna che ha ricevuto (lei e altre undici persone) assurda e vigliacca, figlia di una vera e propria guerra che la procura torinese sta portando avanti da diversi anni ormai, nei confronti del Movimento No Tav (uomini e donne, valligiani e non, giovani, adulti ed anziani, nessuno ne resta esente), fatta di detenzioni, spesso preventive, di intimidazioni, di pene definitive spropositate rispetto ai fatti accaduti, di richiami orali, di sospensione della patente di guida, di divieti di dimora e di transito, di fogli di via da determinati comuni, di richieste economiche dettate da multe, di espropri di terreni. Tutto questo oltre alle violenze fisiche, e purtroppo non solo quelle, inflitte dalle forze dell’ordine, purtroppo non solo nei momenti magari più conflittuali ma anche in situazioni molto tranquille e serene. Come si è ben visto un mese fa nel deflusso del presidio dei solidali per l’arresto di Dana Lauriola. La pena subita da Nicoletta si riferisce ad una giornata di mobilitazione del Movimento No Tav di oltre otto anni fa (3 marzo 2012), in un periodo molto intenso per le attiviste e gli attivisti, che seguiva il ferimento di Luca Abbà, caduto pochi giorni prima da un traliccio dell’alta tensione inseguito da un carabiniere. Il pomeriggio di sabato 3 marzo, in risposta alle dichiarazioni dell’allora premier Monti di riconferma della volontà nel procedere coi lavori per un nuovo tracciato ferroviario Torino-Lyon, fu indetta una manifestazione di protesta, denominata “Oggi paga Monti”, che vide l’apertura delle sbarre del casello autostradale di Avigliana, sulla tratta Torino-Bardonecchia. Una protesta pacifica, di decine e decine di persone che determinarono piccoli rallentamenti distribuendo volantini informativi agli automobilisti in transito, causando alla società gestore Sitaf un danno economico per mancato pedaggio delle vetture transitate di neanche 800 €. Il lavoro scientifico della Digos torinese portò all’identificazione di dodici persone, condannate chi ad uno e chi a due anni, per un totale di 18 anni!! Di queste, lo scorso anno soltanto Nicoletta non aveva fatto richiesta di misura alternativa al carcere, e così, ormai trecento giorni fa, fu tradotta in prigione. Gli altri undici imputati però si, ma fra questi sono state respinte quelle di Dana Lauriola, altra militante No Tav di primo piano, incarcerata la mattina dello scorso 17 settembre, condannata a ben due anni (la pena minima prevista sono 15 giorni). Un altro episodio questo - perché la lista, purtroppo, è lunga - che ha chiaramente messo in luce l’atteggiamento che assume la procura torinese ma anche il Governo in carica (che conferma in pieno il trend repressivo e speculativo dei precedenti), difronte all’espressione di dissenso che riceve. Anche davanti ad una protesta simbolica e pacifica, com’è stata quella mezz’ora di quel sabato pomeriggio di otto anni fa. La storia di Dana evidenzia inoltre come queste condanne siano in realtà anche veri e propri atti politici. Fra le motivazioni del rifiuto alla sua richiesta di misure alternative, il magistrato Elena Bonu la incolpa del fatto che col tempo è diventata una figura di riferimento del Movimento No Tav, di essere una militante convinta che non solo non si è mai dissociata dagli episodi che di volta in volta l’hanno vista protagonista anche in altri processi, tra l’altro terminati tutti sempre con l’assoluzione totale, ma che anzi, in un eventuale affido in prova o al limite in una carcerazione domiciliare, continuerebbe a divulgare le ragioni del no al Tav e a vedere e comunicare con altre ed altri militanti. Soprattutto abitando a Bussoleno, considerato dal magistrato paese cuore della protesta No Tav. E un altro problema sarebbe continuare a farla lavorare dove ha fatto fin ora, in una cooperativa sociale di reinserimento di senza fissa dimora. Delle motivazioni che sembrano andare a ricercare ancora quell’impianto accusatorio presente a cavallo degli anni 70 ed 80, adottato nei processi per terrorismo, dove nelle aule di tribunale ti salvavi da dure condanne solo se ti dissociavi o facevi l’infame verso altri compagni di lotta. Già sbugiardato più di una volta l’accostamento fra terrorismo e Movimento No Tav, se non altro abbiamo la certezza che questa pratica giudiziaria non troverà sponde favorevoli in Val di Susa, dove tutto ciò che è stato fatto contro la grande opera e la distruzione che purtroppo già si sta portando con se, è sempre stato ragionato prima e rivendicato poi. Oltre alle storie di Nicoletta e Dana, o a quella di Stefano (arrestato anche lui lo scorso 17 settembre, cinque mesi di domiciliari per resistenza a pubblico ufficiale), o a quella di Luca Abbà (per dirne un altro cui hanno negato le misure alternative, ha finito tre mesi fa un anno di semilibertà), negli ultimi periodi è evidente come siano numerose le attiviste e gli attivisti che, seppur in modo diverso, hanno subito o stanno subendo forti restrizioni delle proprie libertà. Fra carcere, fogli di via e identificazioni continue, che in questi giorni sappiamo si stanno traducendo in nuove denunce per chi comunque ha violato e continua a violare i divieti. E si tratta di persone che magari hanno già anche altre pendenze o stanno già affrontando processi. Quindi dal punto di vista giudiziario sarà un periodo difficile, anzi, lo è già da un po’. La cosa che ci consola però è che in trent’anni di attivismo il Movimento No Tav ne ha vissuti di momenti più duri, neanche pochi in realtà, ma ha sempre trovato comunque una continuità di voleri e di intenti, che ha creato poi le condizioni per superarli. E la risposta migliore in questo senso non poteva che essere una grande estate di lotta e partecipazione, come quella appena passata, iniziata a metà giugno col presidio permanente dei Mulini, che alle tante e ai tanti giovani che ci son passati ha dato modo di vivere e partecipare in prima persona l’esperienza No Tav, a pochi metri dal mostro, o con i vari campeggi ambientalisti o studenteschi, nell’area del presidio di Venaus. Momenti importanti, che sicuramente fanno paura al nemico, politico o forza dell’ordine che sia, che non può che rispondere con manganellate e arresti, non avendo altri argomenti reali e validi da contrapporre. Le esperienze che si intrecciano, le soluzioni che si trovano, i rapporti che si creano, i propositi che diventano realtà, sono cose che ci fanno ben sperare, soprattutto se arrivano da quei giovani tanto demonizzati in questi giorni. Come ci dà un gran senso di serenità iniziare a vedere davvero il traguardo della liberazione di Nicoletta. Attendiamo con ansia questo prossimo 17 novembre, quando potrà di nuovo essere libera di muoversi, parlare e frequentare le persone ed i luoghi che vuole lei. Padova. Detenuto albanese di 38 anni si uccide inalando il gas di una bomboletta chiamamicitta.it, 25 ottobre 2020 Eder Marhila, 38enne albanese condannato dalla Corte d’Assise d’Appello di Bologna nel 2013 al carcere a vita per aver deliberatamente investito in un giorno di ordinaria follia (il 24 settembre 2006) cinque donne, uccidendone una, è morto nel carcere di Padova giovedì notte. Da una prima ricostruzione della Polizia penitenziaria e scientifica l’albanese avrebbe inalato gas della bomboletta usata per cucinare. Alla tesi del suicidio non crede la madre che con l’avvocato Piero Venturi ha chiesto che un perito di parte sia presente all’autopsia che sarà effettuata nei prossimi giorni. Eder Marhila era stato definito il “killer delle vecchiette” ed aveva dato battaglia legale producendo tre ricorsi in Cassazione. Tutti rigettati con conferma della sentenza di ergastolo. I fatti sono accaduti nel 2006 quando un pirata della strada, che seminò il terrore a Rimini, investendo cinque donne. Una delle cinque donne investite - Ester Melucci di 89 anni - è deceduta il 14 ottobre del 2006, per le gravi lesioni riportate. Soltanto nel 2010 l’albanese era stato arrestato. L’albanese aveva cercato anche la fuga nel 2017 quando non era più rientrato da un permesso di un giorno che il magistrato di sorveglianza gli aveva concesso da trascorrere in una comunità di recupero. Scaduto il termine però, Eder si era reso irreperibile. Ma la sua fuga però è durata poco: è stato preso nel porto di Olbia mentre cercava di imbarcarsi. Terni. Covid in carcere, “Sabbione è una bomba a orologeria” ternitoday.it, 25 ottobre 2020 Decine di contagiati, c’è anche un agente della penitenziaria. Almeno venti positivi dietro le sbarre della casa circondariale di Terni, sono tutti detenuti dell’alta sorveglianza. Il Sarap, Sindacato autonomo ruolo agenti penitenziaria, parla di “lazzaretto”. Claudio Cipollini Macrì, garante autonomo dei detenuti, invoca l’articolo 32 della Costituzione, quello che ribadisce come “fondamentale” il “diritto alla salute” dei cittadini. Sullo sfondo ci sono le sbarre del carcere di vocabolo Sabbione di Terni, contaminate dal Covid-19. Secondo il Sarap i contagiati nella casa circondariale sarebbero 22. “Radio carcere” rilancia stime ancora più alte: 40 positivi, piegati sotto la spada di Damocle che attende l’esito di circa duecento tamponi che potrebbero portare la situazione sull’orlo del baratro. “Una bomba ad orologeria”, dice il segretario nazionale del Sarap, Roberto Esposito. “Il Sarap - aggiunge Esposito - ritiene che quella di Terni è una realtà che andrebbe gestita in maniera totalmente differente da come invece avviene oggi. Riteniamo necessario che le ubicazioni dei detenuti per motivi sanitari vanno ponderate ulteriormente dal responsabile della sicurezza dell’istituto di Sabbione, considerando che oggi all’interno il virus stia circolando pesantemente. Questo riverbera il discusso Modus operandi della dirigenza del carcere di Terni, compromettendo anche la salute del personale di polizia penitenziaria, costretto a lavorare all’interno di sezioni detentive dove sono assegnati solo detenuti affetti da Covid19”. E infatti, tra gli agenti si registra un caso di contagio. Che potrebbe non essere né l’ulimo né - tantomeno - l’unico. Le voci che rimbalzano invece tra i famigliari dei detenuti - sottoposti ad un “isolamento” forzato dallo scorso mese di marzo, per cui non possono incontrare né parenti né legali - sono ancora più fosche. “È una situazione surreale - dice la moglie di un detenuto - per cui le persone non sono state neanche visitate e vengono tenute in isolamento in celle piene di umidità”. Il Sarap chiede “agli organi competenti” di “prendere in gestione l’istituto ternano visto il numero elevato di infetti rilevati e di disporre tamponi a tutto il personale che quotidianamente entra in contatto con soggetti già risultati positivi, cercando di riportare il giusto equilibrio tra gestione dell’istituto e gestione del personale, cosa che oggi è compromessa. “In tali circostanze di emergenza non si deve dimostrare a tutti i costi, anche con la mancanza di giuste regole, di poter gestire una situazione così delicata senza chiedere l’aiuto di alcuna istituzione a discapito e negando la dovuta sicurezza al lavoratore, e mostrando l’assoluta assenza di attenzione nei confronti di chi ogni giorno è in prima linea”. Genova. Detenuto positivo al Covid a Marassi, contagiato dal suo avvocato genovatoday.it, 25 ottobre 2020 Quattro detenuti e tre poliziotti penitenziari sono risultati positivi al Covid-19 nel carcere di Pontedecimo e un detenuto e tre poliziotti in quello di Marassi. A darne comunicazione è Fabio Pagani, segretario regionale della Uil polizia penitenziaria. “Dobbiamo evitare - dichiara Pagani - a questo punto che nelle carceri si rischi un’espansione del contagio da covid-19 fra i ristretti e soprattutto fra il personale di polizia penitenziaria. Occorre dichiarare il ‘coprifuoco nelle carceri’, evitare qualsiasi forma di colloqui di presenza (avvocati, familiari) attivare tutte le procedure a distanza anche per udienze in Tribunale”. “Basta pensare - prosegue Pagani - che il detenuto di Marassi risulta essere stato contagiato dal suo avvocato in udienza in tribunale nei giorni scorsi. A Pontedecimo 149 detenuti presenti, 80 uomini e 69 donne, e sono presenti circa un centinaio di poliziotti penitenziari (tra uomini e donne). A Marassi sono ben 700 i detenuti presenti e circa 300 poliziotti effettivi, non riusciamo a capire come mai ad oggi sia l’amministrazione penitenziaria, ma soprattutto l’Asl di competenza non abbia ancora provveduto a un celere intervento e per questo motivo ci rivolgiamo al capo del Dap Petralia e al presidente della Regione Toti (che ha mantenuto la delega per la Sanità) affinché si adoperi anche su una serie di ulteriori misure che riteniamo indispensabili”. Monza. Virus in carcere: 4 agenti e un infermiere contagiati, mascherine col contagocce di Marco Galvani Il Giorno, 25 ottobre 2020 Quattro agenti positivi, contagiato pure uno degli infermieri che, a turno, presidiano l’ingresso del carcere e rilevano la temperatura di chiunque debba mettere piede in istituto. “Qui si continua a lavorare con la preoccupazione di non essere abbastanza protetti”, il timore di Domenico Benemia della segreteria della Uil polizia penitenziaria. Se da una parte i detenuti sono al sicuro perché chiunque arrivi dall’esterno viene visitato e, in caso di positività, viene immediatamente isolato prima ancora di entrare nelle sezioni e poi trasferito al reparto Covid di San Vittore a Milano, pensano di non esserlo gli agenti di polizia penitenziaria. “Senza nulla togliere alle disposizioni sicuramente già emanate in merito alla tutela della sicurezza e della salute di detenuti e agenti, non è possibile nascondere la nostra preoccupazione - continua il sindacalista - anche perché non c’è una normativa di riferimento a livello regionale. Ogni istituto fa da sé e questa crea molta confusione”. Sul fronte dei dispositivi di protezione, “ogni settimana - spiega - riceviamo tre mascherine chirurgiche a testa, quindi una dobbiamo farcela durare un paio di giorni quando, invece, dovrebbe essere cambiata almeno quotidianamente, ad ogni turno. Mentre in altri istituti lombardi i colleghi ne hanno in dotazione una al giorno, in altri ancora invece anche meno di tre a settimana. È assurdo che davanti a una seconda ondata di emergenza sanitaria ampiamente prevista non si sia prevista una dotazione adeguata”. Anche perché nonostante la gestione dei colloqui dei detenuti con i loro famigliari (un incontro per un’ora al mese e con un unico parente, mentre gli altri contatti avvengono a distanza con una videochiamata), i magistrati e gli avvocati venga mantenuta sotto rigidi protocolli, comunque “c’è un continuo viavai di persone che arrivano dall’esterno. Che ne sappiamo noi dei giri e dei contatti che tutte queste persone hanno avuto prima di arrivare in carcere?”. “Non ci sembra di chiedere tanto, vorremmo soltanto essere più protetti - auspicano dal sindacato. Almeno, però, da martedì, grazie all’impegno del nostro direttore, gli agenti (circa 350, ndr) in servizio a Monza avranno la possibilità di sottoporsi su base volontaria al tampone. Una attenzione che contribuisce a portare almeno un po’ più di serenità e tranquillità tra tutto il personale”. Personale che “non si è mai tirato indietro”. Nemmeno nell’assistenza dei poliziotti risultati positivi al Covid che vivono in caserma, da soli, lontano dalle proprie famiglie: “Sono in isolamento nella camera e i colleghi, a turno, garantiscono l’assistenza ovviamente non sanitaria - l’orgoglio del sindacalista - portando da mangiare e il cambio della biancheria”. Napoli. Giornata della legalità, i notai scrivono alle scuole Corriere del Mezzogiorno, 25 ottobre 2020 La pandemia sta limitando gli studenti, oltre che nell’apprendimento e nella socializzazione, anche nel diritto di vivere esperienze importanti. I notai di Napoli cercano di invertire questa tendenza, ricorrendo al richiamo ai principi e ai valori che ispira la “Giornata europea della giustizia civile”, che dal 2003 si celebra il 25 ottobre. L’epidemia ha interrotto il ciclo annuale di incontri tra notai e studenti. Nonostante questo, però, il notariato napoletano ha voluto far giungere un messaggio, affidato ai Dirigenti scolastici, per testimoniare agli studenti i principi della legalità e della giustizia. “Coniugare l’esigenza di tutela della salute e il normale svolgersi delle attività istituzionali - scrivono i notai di Napoli non è un esercizio facile e proprio sulle giovani generazioni e i ragazzi che frequentano le scuole ricade la responsabilità di adeguarsi a queste pesanti limitazioni con un comportamento serio e affidabile. Dunque perfino la pandemia, che costringe i nostri giovani a rimanere lontani fisicamente dalle aule e li allontana da forme di socializzazione indispensabili alla loro crescita contribuisce in un certo senso a porre alla loro attenzione i temi della legalità e del dovere, concetti che il notariato, proprio con le iniziative messe in atto in occasione della Giornata, ha inteso promuovere negli ultimi anni”. Il presidente del Consiglio Notarile di Napoli, Giovanni Vitolo spiega: “Proprio per tenere vivo questo legame abbiamo inviato ai Dirigenti scolastici degli istituti coinvolti nell’iniziativa la lettera con la quale ricordiamo agli studenti la ricorrenza che serve per ribadire l’importanza dei principi di legalità e di giustizia ai quali è necessario che ispirino sempre i loro comportamenti e il loro impegno civile”. L’auspicio del presidente Vitolo è di poter programmare il consueto appuntamento quanto prima, almeno in modalità streaming, con la speranza di organizzarlo il prossimo anno nuovamente dal vivo. Segrate (Mi). Ad abbellire le aiuole saranno i fiori dei detenuti di Nicola Maselli fuoridalcomune.it, 25 ottobre 2020 Il sindaco Micheli ha portato in carcere i semi “Ogni giorno in carcere tante persone cercano di riconciliarsi con la propria vita”. Viole, begonie e gerani che crescono nelle serre del carcere per poi abbellire le aiuole di Segrate. È il progetto inserimento nel mondo del lavoro dei detenuti portato avanti dalla cooperativa Multiservizi, che si occupa della gestione del verde pubblico a Segrate, in collaborazione con il penitenziario di Monza e la Fondazione Eris. Semi che diventano opportunità - Ieri, venerdì 23 ottobre, il sindaco Paolo Micheli si è recato nella casa circondariale di Monza, accompagnato dalla direttrice della struttura Maria Pitaniello, dove ha portato 50 confezioni di semi che diventeranno piantine per la città che amministra. Un percorso di reinserimento dei detenuti, che saranno accompagnati in questo progetto dal direttore della cooperativa Multiservizi e da un educatore della fondazione Erisi di Lambrate. Durante la visita il primo cittadino ha potuto anche visitare il carcere e i vari locali dove si svolgono diverse attività “Un paese di circa mille persone tra detenuti, agenti e personale, che da fuori nessuno di noi vede e di cui poco ci curiamo tanto è lontano dalle nostre vite - ha scritto Micheli riguardo la visita -. Ho visitato i laboratori musicale e teatrale, la falegnameria che sta fabbricando l’arredamento dell’ala penitenziaria femminile chiusa per ristrutturazione, la sartoria dove realizzano fodere, tessuti e mascherine, il panificio, le aule formazione”. Attività dove il detenuto ha l’opportunità di lavorare e di sperimentare il bello, che provano a dare alla pena quel suo ruolo rieducativo previsto dalla Costituzione “Ogni giorno in carcere, nella tranquillità di un’apparente normalità che normale non è, tante persone cercano di riconciliarsi con la propria vita tornando a rispettare le regole di una comunità civile. La privazione temporanea della libertà e il carcere devono servire a questo - ha concluso Micheli -. Per favorire questo percorso la nostra città da tanti anni fa la sua parte con coraggio e grande senso civico. E di questo possiamo esserne orgogliosi”. Roma. Mirko in volo dalle sbarre al prato verde di un campo da rugby di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 25 ottobre 2020 Dalle sbarre di una cella al prato verde di un campo di rugby. Dalla vita da recluso alla linea di meta. Quella di Mirko è una storia di sport e redenzione. Lo scenario è quello dell’impianto di Tor di Quinto, quartiere nell’area nord di Roma, dove si allenano i Bisonti, società che milita in C2, il gradino più basso dei campionati della palla ovale. La presidente, Germana De Angelis, ricorda la lunga storia della sua squadra: “Nel 2012, iniziamo il nostro percorso nella struttura di Alta Sicurezza a Frosinone, dove abbiamo fatto una partita di esibizione. Successivamente, i detenuti hanno iniziato ad avvicinarsi alla disciplina e ci siamo iscritti al campionato regionale. Nel penitenziario di Rebibbia abbiamo replicato l’esperienza, con l’unica differenza che non è stato possibile partecipare al campionato, a causa degli spazi ridotti”. “Proprio grazie alla direzione di Rebibbia - continua De Angelis - abbiamo preso in squadra Mirko, che si è allenato con noi per quasi una intera stagione e ha anche partecipato alle partite, nel ruolo di ala”. Sono state molto apprezzate le sue doti atletiche e la capacità di lavorare con i compagni: “Si è integrato subito nel gruppo - sostiene la presidente - e ha preso molto sul serio l’impegno allenandosi sia dentro, sia fuori le mura del carcere. Abbiamo riscontrato che il rugby, pur essendo dotato di tantissime regole, giova molto a chi le regole le ha infrante. Insegna il rispetto anche nei confronti dell’avversario e dell’arbitro. Gli stessi detenuti hanno dato tanto a questo sport. Le squadre che ci hanno affrontato entravano con un atteggiamento e uscivano con un altro. Si rendevano conto di giocare contro altri ragazzi come loro ma, nel contempo, comprendevano che basta fare una stupidaggine per perdere la libertà”. Esperienze come quella di Mirko potrebbero moltiplicarsi: “Negli ultimi anni - conclude la De Angelis - è stato siglato un protocollo fra Coni e Ministero della Giustizia e Federazione Italiana Rugby per promuovere l’attività negli istituti di pena”. I mostri esistono solo nel cattivo giornalismo, non nella letteratura di Walter Siti Il Domani, 25 ottobre 2020 Nel suo ultimo libro, “La città dei vivi”, Nicola Lagioia racconta la violenza di Manuel Foffo e Marco Prato e anche Roma. L’identificazione coi malvagi è sempre stata una croce del romanzo, il motivo che l’ha fatto condannare per secoli. Certo, ci sono i controesempi di Moravia e Albinati (o magari Trevi, o Pecoraro), oltre a quello sublime di Belli, ma è curioso che a raccontare Roma sia stato soprattutto chi, nato altrove, vi ha abitato assorbendone lo shock: dal romagnolo Fellini al milanese Gadda, dall’abruzzese Flaiano all’emiliano-friulano Pasolini. Ora il barese Nicola Lagioia ci regala un magnifico paesaggio di Roma in nero e marciume nel romanzo ispirato alla terribile vicenda (2016) di Manuel Foffo e Marco Prato, che dopo due giorni di cocaina e fantasie convocarono a casa, torturarono e uccisero il giovane Luca Varani. Una carogna insolita - Il romanzo (La città dei vivi, Einaudi) si avvicina cautamente all’omicidio, lo nomina quasi subito ma poi lo prende alla larga: scene di ordinario degrado, il panico stupito di uno scampato alla trappola, la confessione di Foffo ai familiari in autostrada, la canzone di Dalida che ossessivamente suonata da Prato disturba i vicini di camera nell’albergo in cui, a cose fatte, intendeva suicidarsi. Il montaggio narrativo ha l’andamento di un animale che giri sospettoso intorno a una carogna insolita, o di una zattera di naufraghi attirata da un maelstrom. Una Roma piovosa dove sangue di topo imbratta i computer degli uffici; Roma senza sindaco, commissariata e col Colosseo aperto a intermittenza; Roma sepolta dalla monnezza e invasa da gabbiani voraci, Roma mutante e aliena in cui gli autobus prendono fuoco da soli e il giorno del Giudizio è già arrivato. Le prime ottanta pagine del libro sono forse la cosa più bella che Lagioia abbia scritto finora, e fanno dimenticare nella loro tensione qualche sciatteria di stile giornalistico (“la gestione dei rifiuti stava vivendo una stagione tragica”). Il coro - La tensione diminuisce un poco quando subentra il “coro”, come viene chiamato l’insieme dei conoscenti e degli inquirenti che Lagioia si premura di sentire durante il lavoro di documentazione; il brusio si fa leggermente meccanico, la tecnica di allontanamento dal momento cruciale raffredda e spezzetta il testo; anche l’idea di sceneggiare gli interrogatori dei due assassini, con tutti quei “disse”, “rispose”, “ipotizzò”, dà l’impressione di un indugio per riprendere fiato. Ma la bellezza ritorna, potente, quando finalmente ci si concentra sui due giorni che culminarono nelle torture e nell’omicidio. Nessuno splatter, nessun compiacimento: piuttosto un insopportabile conseguirsi di smemoratezze, malintesi, lapsus, noia, vanterie, ricerche fallimentari e grottesche di un “terzo”. Sembra di essere lì, in quella camera che pian piano si riempie di disordine fisico e mentale, fino alla frase indimenticabile: “Ho cominciato a baciarlo mentre lui lo strozzava”. La coerenza fortissima tra il delitto e l’ambiente in cui è avvenuto si afferma all’insegna della spossatezza, dell’imprecisione, della rimozione: spazzatura fuori e dentro, assenza d’autorità, un “non so” generalizzato. Una confusione disperata di cui il consumo abnorme di cocaina è più l’effetto che la causa. La letteratura, a differenza del cattivo giornalismo, non conosce mostri; il “mostro” è consolatorio, significa che noi umani non saremo mai così, e invece qui tutto è umano - questo mondo in cui i genitori non conoscono i figli, in cui un fresco amore romantico (quello tra Varani e la fidanzata) può basarsi sulla menzogna, in cui le ossessioni torbide funzionano con esatta geometria, questo mondo è il nostro mondo. Personaggi senza voce - Lagioia si avvicina più che può alla mente e alla psiche dei due assassini, ma c’è un ultimo diaframma davanti al quale si arresta, ed è il rischio di trasformarsi in ciò che racconta. Il sintomo stilistico è la mancanza della “voce” dei due: qualche WhatsApp piattamente referenziale, qualche fantasia esplicitata, qualche rinfaccio per non addossarsi la colpa principale, ma né Foffo né Prato li sentiamo mai parlare nella continuità della vita - un ex amante dice di Marco Prato che era “gentile, protettivo, molto dolce”, ma dobbiamo credergli sulla parola. E se di un personaggio non sentiamo la voce, è difficile identificarsi con lui. Però anche questo, che è oggettivamente un limite, deriva dall’onestà intellettuale e dalla serietà etica di Lagioia: che non eroicizza sé stesso, non vuol travestirsi né da giudice né da innamorato. Di quel “ritiro in una dimensione estatica” a cui può portare la perversione (ritiro che sospende l’identità, il tempo, la distinzione tra ragione e istinto) Lagioia non ha alcuna esperienza, beato lui; e quindi si limita a nominarlo, così come allude all’ipotesi di “possessione diabolica” avanzata da qualche esperto. Da quel delitto è ossessionato, sì, e cerca radici di coinvolgimento dentro di sé, ma non gli sfugge la sproporzione: le somiglianze che può trovare sono un personale progetto di prostituzione finito ancor prima di cominciare, uno sconsiderato lancio di bottiglie dal balcone in seguito a ubriachezza, e l’aver fatto a pezzi Il nome della rosa di Umberto Eco (invece che un ragazzo accoltellare un libro, quale miglior sigillo di un destino?). Un salto insostenibile - Il salto da fare sarebbe insostenibile; (anche) per paura di quel salto Lagioia decide addirittura di lasciare Roma per Torino. Resta l’attrazione del male in quanto tale, non ulteriormente declinata; un misterioso pedofilo olandese, che apre e chiude il romanzo, sta forse come emblema proprio di questo, di una tentazione che non si potrà capire mai (oltre che di Roma come grande accogliente ruffiana, prodromo dell’esotica Tailandia). Al posto di quell’impossibile trasmutazione, appunto con onestà, Lagioia fa l’unica cosa che può fare, cioè discute in pagine di impegno morale sul tema della responsabilità e del rapporto con “l’altro difficile”. Cita un esperimento di “giustizia riparativa” tra chi ha sparato e chi è rimasto vittima della lotta armata; va a trovare il Mosè di Michelangelo a San Pietro in Vincoli e sulla scorta della lettura freudiana si chiede come si possa rifondare la legge una volta sbollita l’emozione. “Qual era il compito dei vivi, se i morti avevano mancato il proprio?”. Insomma si fa carico delle conseguenze di una narrazione come la sua. “È facile”, dice, “identificarsi con la vittima, ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginarci carnefici?”. L’identificazione coi malvagi è sempre stata una croce del romanzo, il motivo che l’ha fatto condannare per secoli; si sa che spesso nei romanzi i cattivi sono più interessanti dei buoni, ma il grave è che a un primo sdegnato “no, io non sono certo così” del lettore segue inevitabilmente una segreta ammissione “però forse sì, è proprio così che nel mio profondo potrei o vorrei essere”. Fin che ammiro Jago passi, ma che succede se divento Raskolnikov? Nel migliore dei casi questo ha un valore catartico, nel peggiore porta all’emulazione. Dipende dalla maturità del lettore, ma anche dalla sincerità dello scrittore nel mettere le carte in tavola; e comunque è un rischio che il romanzo non può fare a meno di correre. Lagioia ha avvertito con molta urgenza questo problema (le parole di Simone Weil poste in epigrafe all’ultimo capitolo recitano “il senso di colpa si combatte solo con la pratica della virtù”) e ci ha dato il ritratto di due ragazzi incapaci di dominarsi, contorti e vili nel nominare i propri desideri, incapaci soprattutto di interpretare l’oscura alchimia scattata tra loro; uno si è suicidato in carcere e l’altro impiegherà tutta la vita per convincersi che si è trattato solo di un maledetto incidente. Da parte nostra, nient’altro che la voglia di leggere tra le righe e di inchinarci al dolore. Vite sospese tra pandemia e democrazia di Massimo Giannini La Stampa, 25 ottobre 2020 Torno a casa. Esco dal tunnel, dopo tre settimane esatte di buio. Sono ancora positivo, ma dopo 21 giorni di Covid e almeno tre senza più sintomi posso proseguire la quarantena a domicilio. C’è un drammatico bisogno di posti letto, per ricoverare i tanti, troppi pazienti gravi che arrivano in continuazione. Quando sono entrato io, solo al mio piano, eravamo in 18. Ora ce ne sono 84. Oltre la metà ha meno di 54 anni, ed è intubata e pronata. Una “procedura” terrificante, che mi sono fatto raccontare. Ti sedano, ti infilano un tubo nei polmoni, e da quel momento su di te scende la notte di un tempo infinito e un luogo indefinito. Sei sdraiato sulla pancia, in una posizione guidata da un rianimatore esperto, per sedici ore consecutive. Dopo ti rigirano supino, per otto ore. Poi si ricomincia: sedici ore prono, otto ore supino. E così via. Tutte le volte che serve a far “distendere i polmoni”, come dicono, e a sperare che intanto la malattia regredisca, e non distrugga definitivamente quel che rimane del tuo sistema respiratorio. Se questo accade, a un certo punto ti estubano, ti risvegliano e allora devi solo sperare di avere ancora un po’ di fiato in gola per gridare ce l’ho fatta. Se non accade, te ne vai senza saperlo, e senza che un familiare, un parente, un amico possano averti dato l’ultima carezza. Tutto questo mi è stato risparmiato. Lascio il mio letto a chi sta peggio di me, in attesa di un primo tampone finalmente negativo. Non so quando arriverà, e non mi importa. Tra tanti “sommersi” che ho visto in questa avventura, io sono tra i “salvati”. E tanto basta. Anche se la mia povera madre rimane ancora lì, in quella stanza, a fronteggiare il Male da sola, io sono grato. Sono grato al Fato, al Caso, a Dio, alla Natura, ognuno scelga quel che crede. Sono grato a mia moglie e ai miei figli. Sono grato alla Vita, che vuole vivere anche quando la chimica impazzita del corpo o la psiche indebolita della mente la vorrebbero solo distruggere. Soprattutto, sono grato ai medici, agli infermieri, a tutti gli operatori sanitari che ho incontrato e conosciuto, tra terapia intensiva, sub-intensiva e reparto “pulito-sporco”, come si chiama nel nuovo gergo clinico imposto dal virus. Bisognerebbe vederle “al fronte”, soffocate da tute, guanti, maschere, visiere e occhiali, per capire chi sono e cosa pensano queste persone che fanno dell’Italia un Paese migliore. La competenza, il sacrificio, la dedizione, la cura, la solidarietà: stavolta non salvano solo l’esistenza degli altri. Mettono in gioco la loro, in ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, ogni notte dei turni folli che il contagio gli impone. I grandi virologi, epidemiologi, pneumologi, abbiamo imparato a conoscerli in tv. Ma è di questo esercito silenzioso e meraviglioso di donne e di uomini che combattono per noi e per la nostra salute che non parliamo mai abbastanza. “Ne assumeremo 83 mila”, avevano promesso nell’estate dissennata della movida. Purtroppo finora ne hanno presi meno di un terzo. “Perché non si trovano dietro l’angolo”, ti spiegano: un rianimatore si forma in cinque anni, un infermiere esperto in tre. Risultato: lauree anticipate di due mesi per i dottorandi, e subito in campo anche loro. Che sono comunque pochi. E così, oggi, questi angeli in corsia sono meno della metà di quelli che servirebbero e lottano per noi a mani nude, per 1.400-1.600 euro al mese. Accolgono e assistono tutti i contagiati che affollano i pronto-soccorsi, gli ospedali, le ambulanze (ieri, quando sono stato dimesso, ferme nel piazzale del “triage” ce n’erano in attesa 56). Vecchi e giovani, bianchi e neri, poveri e benestanti: tutti hanno gli stessi diritti, in quell’irripetibile, ma ormai troppo fragile Welfare Universale che abbiamo ereditato dal glorioso ‘900. E loro, i già dimenticati “eroi in prima linea”, sono lì a garantirli. Senza una protesta, senza un lamento: “è il nostro lavoro”, ti rispondono. D’accordo, è il vostro lavoro: ma grazie per quello che fate, e per quello che siete. Poi, come al solito, dopo la Vita c’è la Politica. E qui, come al solito, i conti non tornano. Non tornano i conti del governo, che continua a rivendicare ciò che ha fatto di fronte alla prima ondata, ma ad autoassolversi su ciò che non ha fatto di fronte alla seconda, dalle terapie intensive mancate ai ventilatori polmonari scomparsi, dalla rete slabbrata della medicina di territorio alla rete sovraffollata del trasporto pubblico locale. Ho la massima stima per il ministro Speranza, ma di fronte al dramma che ci squassa lasci che a pubblicare libri inutili siano “scribacchini” da due soldi come noi giornalisti: da lui ci aspettiamo solo lavoro, lavoro e ancora lavoro. Ho il massimo rispetto per il premier Conte, ma di fronte ai numeri di questa emergenza lo stillicidio dei Dpcm a cascata e la strategia dei piccoli passi (e possibilmente uno indietro rispetto agli enti locali) non servono più a niente: da lui ci aspettiamo atti di governo, chiari e inequivoci, severi e all’altezza della sfida atroce che ci opprime, non prediche inutili e consigli da buon padre di famiglia. Ho la massima considerazione del ministro Gualtieri, ma di fronte al bilanciamento tra economia e salute non può esserci margine di equivoco sulla priorità: il lockdown è una tragedia necessaria, bar, ristoranti, negozi chiusi sono ferite profonde nella carne viva della nostra civiltà, ma si trovino e si diano fino all’ultimo centesimo le risorse che servono al sistema per reggere l’urto della chiusura. Ho il massimo riguardo per il ministro Dadone, ma bisogna riconoscere che App Immuni è stata un fallimento. E tuttavia, come cittadini, dobbiamo guardare dentro noi stessi, e guardarci negli occhi gli uni con gli altri. L’ho già scritto, ne resto convinto: non mi sfugge la portata del conflitto culturale, morale e costituzionale che il Covid ci sbatte in faccia. Ma dobbiamo cedere quote di libertà, se vogliamo difendere la nostra civiltà. Noi che in condizioni normali abbiamo già serenamente affidato le nostre vite agli algoritmi del Capitalismo della Sorveglianza, e dopo aver scambiato un Whatsapp con un amico su un’auto che ci piace o un viaggio che vorremmo fare riceviamo subito i relativi popup pubblicitari, di fronte alla gente che si ammala e che muore non possiamo agitare il feticcio vuoto della Privacy né gridare alla Dittatura, alla Deriva Fascista, al Grande Fratello. Non è il caso, non è il momento. Non tornano i conti della maggioranza, che mentre la casa brucia blaterano di “verifica”, “stati generali” e altre fumisterie politiciste, e non tornano i conti dell’opposizione, che mentre le piazze ribollono non trova parole nuove per coniugare verità, “alterità” e responsabilità. Non tornano i conti delle Regioni, che oscillano tra le titubanti esitazioni della Lombardia e le tonitruanti deliberazioni della Campania. Quello che è successo a Napoli non è solo il fuoco fatuo di una nuova plebe derelitta, usata dalla frangia più violenta del tifo politico e strumentalizzata dalla Camorra. È una miccia accesa e pronta ad esplodere nel cuore della nostra democrazia, che ora è minata dal rischio di un altro contagio: quello della protesta sociale, che può dilagare ovunque. Molto più che un semplice tema da ordine pubblico: piuttosto un’altra sfida istituzionale e valoriale, che l’Agente Patogeno ci impone di affrontare con rigore, ma anche con misura. Ho la massima fiducia nel governatore De Luca, e sarei portato a condividere senza sé e senza ma le sue posture da Sceriffo di fronte a certe immagini agghiaccianti viste ieri sui social, tra pranzi allegri sulle spiagge di Posillipo e file chilometriche di sciatori alle funivie di Cervinia. Ma non si governa un territorio devastato e difficile con il Terrore della radiografia e l’Apocalisse della morte: l’opinione pubblica va sensibilizzata, mobilitata, ma rassicurata. Angela Merkel insegna, con il suo storico “Wir Schaffen Das” pronunciato cinque anni fa. Era un altro contesto storico, addirittura un’altra era geologica. Ma queste parole ci aspettiamo, da chi ci deve guidare oltre questo buio. Dipende da noi, dipende da voi. “Ma ce la faremo”. I balletti politici senza fine e la chiarezza necessaria di Roberto Gressi Corriere della Sera, 25 ottobre 2020 Nei giorni del lockdown la capacità degli italiani di restare uniti ha fatto la differenza al pari delle misure prese. Se ripartirà nei prossimi giorni il gioco dello scaricabarile questo tesoro andrà disperso, le persone sono stanche, logorate da una prova molto lunga. Non è stata una bella scena quella di questi ultimi giorni e settimane. Il virus ripartiva prepotente e la politica giocava allo stallo, per vedere chi si sarebbe scoperto facendo la prima mossa. Il premier Giuseppe Conte, il leader del lockdown che gli era valso prima beffe poi apprezzamenti mondiali, resisteva alle pressioni. Le Regioni vedevano aumentare i contagi, i morti e assistevamo al riempirsi delle terapie intensive. Fino a che proprio la Lombardia guidata dal leghista Attilio Fontana era costretta a chiedere misure drastiche, mettendo in difficoltà il leader del partito, Matteo Salvini. Tattiche di Palazzo solo in parte spiegabili, ma non giustificabili, con l’atteggiamento di una parte dell’opposizione, che a sua volta aspettava la stretta del governo solo per criticarla. L’incapacità di fare squadra, ancora una volta, dei partiti, è apparsa particolarmente sgradevole. Gli incidenti di Napoli, per quanto tutt’altro che spontanei ma con l’impronta chiara della criminalità, hanno dato l’ultimo segnale che l’ora dei balletti era finita. Ora il governo sta prendendo decisioni forti e puntuale riesplode il conflitto con le Regioni che pure gli avevano chiesto di intervenire. Si chiedono sacrifici molto pesanti. L’impatto sull’economia e sulla scuola sarà duro e solo risultati soddisfacenti contro il virus aiuteranno i cittadini a condividere un impegno così gravoso. Si avverte la preoccupazione, soprattutto dalle parole del presidente Sergio Mattarella, che la fiducia nelle istituzioni non venga scalfita. Nei giorni del lockdown la capacità degli italiani di restare uniti ha fatto la differenza al pari delle misure prese. Se continuerà nei prossimi giorni il gioco dello scaricabarile questo tesoro andrà disperso: le persone sono stanche, logorate da una prova molto lunga. Hanno bisogno di serietà, responsabilità e chiarezza. Vale per tutti ma soprattutto per il governo. Viviamo da mesi una situazione anomala. Anomalo è il virus, che ci ha catapultato in una situazione inedita. Anomalo è il ricorso, almeno così massiccio, ai decreti del presidente del Consiglio. Sono accettati per affrontare il nemico comune, devono andare di pari passo con una chiara assunzione di responsabilità. Morire di fame o per il morbo. L’alternativa deformata di Luigi Manconi La Stampa, 25 ottobre 2020 Due notti fa, come nella più prevedibile scena di una serie televisiva simil Gomorra, abbiamo potuto osservare nel corso di un conflitto urbano, il perfetto sovrapporsi di due interessi: quello dei commerci onesti e degli affari leciti e quello dei traffici illegali e dei movimenti criminali. In mezzo, la “zona grigia” rappresentata dalla micro-economia dei vicoli e dei bassi, delle attività irregolari e del lavoro nero. È probabile che tutt’e tre queste componenti di un sistema di sussistenza fatto di prestazioni occasionali e di redditi precari, siano all’origine degli scontri che hanno infiammato mezza Napoli. Il motivo è semplice: il “coprifuoco” di per sé, limita i movimenti delle persone, ne blocca le attività, ne controllale azioni, riducendo drasticamente i consumi, la domanda di merci legali e illegali, e lo scambio tra denaro e beni di qualsiasi tipo. Non stupisce, di conseguenza, che nei disordini di venerdì sera sia stata segnalata la presenza e la “tecnica” - motorini utilizzati per ostacolare i movimenti delle forze di polizia - di appartenenti a organizzazioni camorristiche; e, come accade ormai da decenni, di elementi del tifo organizzato. Ma non sorprende nemmeno che, come sembra, abbiano avuto un certo ruolo anche esponenti di estrema destra e militanti dei centri sociali: a entrambi, inevitabilmente, il “coprifuoco” appare misura autoritaria, di natura dispotica destinata a comprimere le libertà individuali. In ogni caso, e al netto delle violenze, quelle proteste segnalano un diffuso disagio sociale che, dopo una sotterranea incubazione, tende infine a emergere. A muoversi sono i ceti e i gruppi che patiscono più direttamente, senza alcuna forma di intermediazione e di ammortizzatore sociale, il processo di impoverimento e desertificazione (le serrande abbassate, i cartelli “vendesi”, le attività dismesse) determinato dal rallentamento delle attività economiche, in un quadro generale di incremento delle diseguaglianze sociali. In una condizione di crescente sofferenza e di panico latente, e in presenza di messaggi brutalmente semplificati, quel dilemma può manifestarsi così: morire di fame o morire di virus. Qualora una simile e deformata alternativa si diffondesse fino a diventare senso comune e qualora il timore dei piccoli commercianti, legali e illegali di Napoli, diventasse sentimento collettivo, allora davvero ci troveremmo sul crinale di una temibile crisi sociale. A prevenirla, deve provvedere l’attività del Governo e un serio e massiccio programma di sostegno all’economia, ed è questo il passaggio decisivo. Ma assumono rilievo anche considerazioni per così dire “locali”. Le proteste dell’altra notte erano indirizzate in primo luogo contro il presidente della Regione De Luca, questi è persona intelligente, dotata di un irresistibile sarcasmo - virtù rarissima in politica - tra il plebeo e il colto, ma rischia, come troppi, di perdere il senso della misura. L’efficacia e la rapidità delle sue decisioni, possono precipitare in un decisionismo declamatorio. Disporre il “coprifuoco” può essere necessario e, addirittura, provvidenziale: ma una misura tanto pesante richiede, perché non sia osteggiata, strategie intelligenti di protezione economico - sociale, capaci di limitare i danni e di offrire alternative; e adeguate e razionali campagne di persuasione. Ed esige anche un’immagine, almeno un’immagine! unitaria dell’autorità pubblica. Che è esattamente ciò che manca a Napoli, dove - da tempo - si assiste a una stucchevole conflittualità tra il presidente della Regione e il sindaco de Magistris. Si tratta, per giunta, di due esponenti dello stesso populismo di sinistra che, pur tra molte differenze, ricorre al medesimo linguaggio e a un analogo repertorio di tecniche politiche. Salvo darsele di santa ragione appena spunta un microfono o una telecamera. Roberto Saviano: “Non è solo camorra, è la disperazione del Sud che sta scoppiando” di Fabio Martini La Stampa, 25 ottobre 2020 Roberto Saviano: “Non è solo camorra, è la disperazione del Sud che sta scoppiando”. Lo scrittore: “Conte ha goduto di una specie di intoccabilità, ma ora è un capo che non ci sta proteggendo”. Sulla sua Napoli, Roberto Saviano spiazza chi si aspetta la “sparata” sulla camorra: “È miope guardare soltanto il segmento dei pregiudicati. È ovvio che nelle confuse manifestazioni di rabbia popolare finisca per entrare di tutto, ma stavolta c’era la disperazione del Sud che sta scoppiando. I risparmi questa volta sono finiti, non bastano per reggere ad una seconda ondata di chiusura”. E Saviano fa una previsione: “Le insurrezioni non sono finite, proseguiranno: perché sono finiti i soldi”. E sulla gestione da parte del governo lo scrittore napoletano è lapidario: “A Conte, il primo ministro che ha avuto forse più potere negli ultimi decenni, tutto quel che sta accadendo, ha finito per dare una sorta di “intoccabilità”: tutti ci raccogliamo attorno al capo. Un capo che non ci sta proteggendo”. Nelle ore in cui Napoli torna sotto i riflettori e la sua rivolta restituisce tanti interrogativi, sulle ultime ore e sul futuro, Roberto Saviano racconta la sua versione dei fatti: “È successo questo: parte una manifestazione pacifica, di commercianti, per protestare contro un lockdown che non dà speranza economica e alcuna compensazione. Protestano perché si chiude e la gente non lavora più. Alla manifestazione si aggancia un po’ di fascistume e anche dei pregiudicati. Poi ci sono stati degli scontri e l’attenzione ha finito per essere attirata da questi elemento”. In una realtà come quella napoletana è sempre difficile tracciare confini tra gruppi e gruppetti, ma certo le tecniche di attacco alla polizia non sembravano improvvisate, che dice Saviano? “In piazza, da quello che mi risulta c’era di tutto: l’evasore classico, l’imprenditore che sfrutta a nero, ma soprattutto un sacco di gente disperata. C’era chi sperava nell’obolo, o nel fare rumore, ma c’era pure la disperazione del Sud. Certo, non solo il Sud non regge più, ma era naturale che la prima insurrezione avvenisse dove non ci sono più soldi”. Ma chiudere tutto, spezzare la catena del contagio per un periodo limitato non può servire proprio per evitare di proseguire con continui stop and go? Saviano non ha dubbi: “De Luca chiude senza compensare, senza poter dare garanzie. In questo senso le istituzioni stanno fallendo completamente. Le persone sono lasciate sole. Dalle file infinite per fare i tamponi, a chi è rinchiuso in casa come positivo asintomatico e non sa quando può fare il secondo tampone. Ma come si fa ad andare avanti se tutto è…mezzo? I soldi arrivano per metà o non arrivano. Le informazioni sono continuamente smentite, i licenziati litigano tra di loro”. Eppure il consenso dei campani al “primo” De Luca, così proibizionista e così imitato dal governo nazionale, non ha dimostrato la riconoscenza a chi si faceva carico di decisioni impopolari per una popolazione istintivamente ribellista e che vive con una densità abitativa senza pari in Italia? Roberto Saviano sul tema non sembra attraversato da dubbi: “Ogni volta De Luca fa questa sceneggiata del vecchio padre che difende, dimenticandosi che ha smantellato la sanità campana”. Ma Saviano guarda anche a Roma. “Arcuri in tutto questo, sapeva in che condizioni si trova il Sud o no? Sapeva che bisognava intervenire per tempo o no? Sapeva che bisognava lavorare sui vaccini antinfluenzali, che mancano in molte parti d’Italia? Sapeva che bisognava creare dei sistemi di tracciamento e di tamponi? È incredibile, incredibile che in nome della crisi stiamo tollerando un’incapacità assoluta: mesi e mesi in cui non hanno agito. L’opposizione è stata criminale nel negare, ha fatto il gioco di questa incapacità, di questa lentezza e ha cercato la caccia all’untore, questa estate con gli immigrati, una delle porcherie più violente di Salvini”. Ma ora il dubbio che attraversa chi tutela la sicurezza pubblica è uno solo: proseguiranno le rivolte? “Continueranno le proteste di questo tipo a cui magari si agganceranno pezzi di destra no-mask, o di populismo basso”. Ma proprio perché nella protesta ci sono tutte queste cose dentro, si può immaginare che i clan soffieranno sul fuoco? Saviano spiazza ancora: “Non credo che in tutto quel che è accaduto ci sia una responsabilità camorristica, anche se di mezzo ci sono pregiudicati e camorristi. La camorra guadagna dal lockdown. Tantissimo. Più si corrode la struttura economica, più loro guadagnano”. Ma con la chiusura, quantomeno le piazze si sono svuotate e la camorra dovrebbe aver guadagnato meno con lo spaccio? Ma Saviano non è d’accordo: “È una verità parziale. I magazzini di marijuana a New York sono andati in secco, hanno venduto tutto, anche i pezzi di erba e di fumo considerati vecchi. La domanda è aumentata. Per depressione. Per malinconia. Per noia. E non c’è una particolare preoccupazione negli spacciatori perché si mimetizzano come ragazzi che portano dei viveri”. Graziano Delrio: “Aiuti subito a chi sarà più colpito, mi spaventa l’ira delle persone miti” di Francesca Schianchi La Repubblica, 25 ottobre 2020 Il Capogruppo del Pd alla Camera: “Tutti potevamo arrivare più preparati alla seconda ondata”. Ristori tempestivi per chi dovrà abbassare la saracinesca e un occhio di riguardo per le manifestazioni di disagio: non quelle violente e “inaccettabili” andate in onda la scorsa notte a Napoli, ma quelle che esprimono “la rabbia dei miti”, come definisce il capogruppo del Pd, Graziano Delrio, la maggioranza di italiani perbene ormai stressati dalla pandemia. Reduce dalla videoconferenza con cui il premier Conte ha illustrato a lui e ai colleghi di maggioranza e opposizione la nuova stretta in arrivo, fa una prima valutazione: “Ora dobbiamo fare tutto il necessario per fermare il contagio. Le misure del nuovo Dpcm potranno essere aggiustate se servirà, ma sono in linea con l’orientamento dei Comitati tecnici scientifici di tutto il mondo”. Presidente, le categorie colpite però già lanciano allarmi: “Così moriamo”, dicono bar e ristoranti… “Oggi nuovi sacrifici sono necessari per contenere l’epidemia, ma capisco molto bene le loro ragioni: per questo i ristori devono essere immediati. E bisogna cercare di introdurre sempre di più norme generiche e non particolari”. Le ricordo che sull’erogazione della Cig ci sono stati tremendi ritardi. “Lo so e non deve più succedere. Il presidente del Consiglio ci ha garantito che stanno lavorando al decreto necessario, che potrebbe arrivare già domani”. Giovedì scorso alla Camera lei ha usato parole nette: “Nessuna azienda deve chiudere per i nostri ritardi”. Vede questo rischio? “Il compito della politica è far presente le difficoltà a chi prende le decisioni e indicare un orizzonte. Insisto: la parola chiave ora è tempestività. Nelle misure per contenere il virus e nei ristori per le categorie colpite”. Sulla scuola lei aveva chiesto attenzione da mesi. Alle superiori si torna in gran parte alla didattica a distanza. Un fallimento? “Io ho sempre sollecitato a riaprire le scuole il prima possibile, avrei voluto anche prima dell’estate. Ma in questo momento la didattica a distanza è il male minore: un provvedimento doloroso ma necessario. Dobbiamo ridurre i contatti sia sui trasporti pubblici che tra i ragazzi fuori da scuola”. Ha fatto bene Conte a cercare di sensibilizzare i ragazzi all’uso della mascherina chiedendo aiuto a Fedez e Chiara Ferragni? “Non solo la scelta non mi scandalizza, ma penso che forse bisognava farla prima per far scaricare a tutti Immuni. Forse andava fatta già in estate per ricordare di stare attenti, visto che sarebbe arrivata la seconda ondata”. Ci si poteva arrivare un po’ più preparati? “Tutti ci potevamo arrivare più preparati, in Italia e all’estero. Da un lato c’è la responsabilità individuale dei cittadini, che dovrebbero sempre applicare alcune regole ineludibili come le mascherine e il distanziamento. Dall’altro c’è il livello istituzionale, che deve dare risposte efficaci e chiare, in modo che i cittadini non si sentano sbattuti qui e là come nel vento di una tempesta”. Le sembra che le risposte delle istituzioni siano così chiare ed efficaci? “Dal punto di vista sanitario dei passi avanti sono stati fatti, sia sulle terapie intensive che sulla diagnostica. Quello che non è stato preparato adeguatamente sono i trasporti e l’aiuto ai medici di medicina generale”. Sarebbe stato opportuno chiedere il Mes per preparare la sanità alla seconda ondata? “Noi del Pd siamo tutti convinti che vada preso. Con tutta la maggioranza abbiamo chiesto che si presenti un piano rafforzato della sanità territoriale, e attendiamo che il premier lo presenti in Parlamento. Il momento è adesso, bisogna accelerare. A quel punto valuteremo con quali risorse finanziarlo, io credo che le più convenienti siano quelle del Mes, ma si può discutere. L’importante è farlo subito”. Fatto sta che, come ha detto lei alla Camera, “non è il momento di raccontarci che va tutto bene”… “È normale essere orgogliosi del lavoro che si fa, ma nel Paese sta succedendo qualcosa di molto serio. Bisogna prestare orecchio alle sofferenze di tanti cittadini, c’è molta fragilità e impazienza, che rischia di trasformarsi in rabbia”. Allude ai fatti di Napoli? “Quello è un episodio di violenza inaccettabile, in cui qualcuno ha tentato di speculare sulla disperazione. Ma io penso a manifestazioni più pacate di insoddisfazione: è la rabbia dei miti quella che mi preoccupa. La frustrazione di quelli che mandano avanti il Paese, e magari devono saltare due giorni di lavoro perché non arriva il risultato del tampone. Bisogna stare attenti che queste persone continuino a fidarsi delle istituzioni”. C’è il rischio che non ci credano più? “Nella prima fase della pandemia, abbiamo visto davvero una grande comunità stretta intorno alle sue istituzioni. Oggi noto una maggiore difficoltà a farlo. Per questo vanno ascoltati e capiti”. Con il Dpcm che dovrebbe essere firmato oggi scongiureremo un nuovo lockdown totale? “Le misure restrittive danno risultati dopo 2-3 settimane: se entro una decina di giorni non si vedrà nessun miglioramento, occorrerà fare altre valutazioni. Ma speriamo davvero che basti così”. Corea del Nord. Le sevizie nei lager di Kim. “Non detenuti, ma animali” di Michela A.G. Iaccarino Il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2020 I testimoni raccontano: in carcere con accuse fittizie, poi l’incubo fra abusi sessuali, pestaggi e niente cibo. “Venivamo trattati peggio degli animali ed è quello che siamo finiti per diventare”. Yoon Young Cheol lavorava per il governo nordcoreano al confine con la Cina, quando a 30 anni è stato arrestato dalla Bowibu, la “polizia segreta” di Pyongyang. “Ho chiesto per giorni e giorni: Perché? Perché sono stato arrestato?”. Che fosse stato accusato di spionaggio lo ha saputo dopo settimane di percosse. Dopo sei mesi i poliziotti hanno concluso che non era un agente segreto, ma è cominciata un’altra indagine fasulla a suo carico: su contrabbando di oro ed erbe mediche che non aveva mai commesso, un’accusa che lo ha costretto ad un processo sommario a cui è seguita una sentenza a cinque anni di reclusione in un campo di lavoro. È stata questa la sua vita prima che riuscisse a scappare e raccontare, insieme ad altri fuggitivi, la sua storia a Human Rights Watch. Nelle carceri nordcoreane la tortura è così costante da essere “rituale”, gli assalti sessuali assidui, le umiliazioni continue. Gli uomini vengono sempre picchiati, le donne spesso violentate. Alla commerciante Kim Sun Young, 50 anni, è successo prima durante l’interrogatorio, poi in cella: “È stato impossibile ribellarsi”. A pronunciare più volte la parola coreana komun, tortura, sono stati 15 donne, 7 uomini e 8 ex ufficiali che si sono aggirati spesso per celle e uffici del dipartimento giudiziario di Pyongyang. Le loro testimonianze sono state raccolte in un impietoso report di 88 pagine sulle Kuryujang, i gulag del regime di Kim Jong-un, dove si viene divorati dall’arbitrio degli uomini del Comitato e Ministero per la sicurezza, che agiscono nel totale abuso di potere. Nel “sistema arbitrario, violento, crudele in cui vivono in costante paura, il processo è irrilevante, la colpa presupposta e l’unica via per sottrarsi è quella delle tangenti” ha descritto il direttore del dipartimento Asia dell’ong, Brad Adams. In prigione uomini e donne diventano numeri senza nome e con le cifre si rivolgono a loro i secondini. In buchi stretti senza bagno e sapone, rimangono ammassati decine di prigionieri: senza coperte, a volte senza vestiti, anche d’inverno. In altri casi senza nemmeno un motivo apparente che possa giustificarne la detenzione. Senza cibo: gli unici che riuscivano ad averlo, raccontano i sopravvissuti, erano quelli con le famiglie capaci di corrompere le divise. Lim Ok Kyung, il cui marito è membro del Partito dei Lavoratori, ha ricevuto una sentenza meno dura degli altri ed è stata confinata a Ryanggang, dove per cinque giorni in carcere è stata costretta a rimanere in piedi ininterrottamente. Alcuni sono stati obbligati a rimanere a testa in giù e con le mani sul pavimento solo per aver incrociato lo sguardo del carceriere: “non dovevamo guardare negli occhi gli ufficiali, eravamo considerati inferiori” ha raccontato un ex soldato scappato nel 2017. Lo conferma Park Ji Cheol: “Per punizione dovevamo allungare le braccia tra le sbarre per terra e loro ci camminavano avanti e indietro sopra, con gli stivali”. I fuggitivi, che hanno abbandonato la Nord Corea dopo il 2011, anno in cui Kim ha instaurato il suo dominio sugli apparati, raccontano che i processi equi sono una chimera e a volte non esistono neppure. Anche durante indagini ed interrogatori preliminari, ha confessato una guardia, “usiamo bastoni, calci o semplicemente le nostre mani per estorcere le confessioni, oppure leghiamo le nostre cinture al collo dei sospetti per farli correre come cani”. A volte, “stringendo le manette intorno ai pugni”, colpivano teste finché non diventavano fontane di sangue. Le testimonianze hanno fatto di nuovo eco nello sconcerto, però formale e immobile, dell’Onu: poco è stato fatto dal 2014, quando la commissione d’inchiesta accusò di “crimini contro l’umanità” il regime di Pyongyang, ora nuovamente tacciato di violazione sistemica e diffusa dei diritti umani, di omicidi extragiudiziali e di gestire una rete di gulag per prigionieri politici. Le uniche lacrime versate sono quelle del dittatore. “Scusate. Non sono stato capace di ripagare la vostra fiducia”: ha detto al popolo durante il 75° anniversario del partito, tra applausi e osanna del suo esercito in coro. Israele. Da 3 mesi in sciopero della fame e ricoverato in ospedale, è stato riportato in carcere di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 25 ottobre 2020 Il prigioniero politico palestinese, arrestato in Cisgiordania in luglio (in quanto sospettato di legami con la Jihad Islamica) e detenuto in Israele, Maher Al-Akhras (49 anni) era entrato in sciopero della fame per protestare contro la sua “detenzione amministrativa”. Ossia contro un dispositivo giuridicamente controverso che - come minimo - viola il diritto a un processo equo. Istituito ad hoc da Israele, viene applicato per arrestare persone - generalmente palestinesi - senza accuse specifiche (tantomeno prove) e senza un processo e mantenerle in carcere per sei mesi (rinnovabili oltretutto). Al-Akhras rifiuta il cibo ormai da oltre novanta giorni e ovviamente le sue condizioni si vanno deteriorando. Al momento sono considerate “alquanto critiche”. Nonostante ciò, il 23 ottobre sarebbe stato prelevato dall’ospedale Kaplan di Tel Aviv (dove era ricoverato dai primi di settembre) e riportato in un carcere (sempre nei pressi di Tel Aviv). La notizia è stata data congiuntamente dalla sua avvocata e dal Club dei Prigionieri Palestinesi (una ong locale che si sta interessando della sua situazione). Una prima conferma del trasferimento è venuta da Yitzhak Goralov, portavoce dell’autorità carceraria. A suo avviso, la ragione del trasferimento sarebbe dovuta a una presunta “mancanza di cooperazione con il personale medico”. Il che potrebbe eventualmente essere anche tradotto con “si ostina a rifiutare il cibo e anche l’alimentazione più o meno forzata”. Viva preoccupazione per la situazione in cui versa Maher Al-Akhras è stata espressa dal Comitato Internazionale della Croce Rossa. In un comunicato del 22 ottobre si dichiara di essere “preoccupati per la sua salute e per le conseguenze che potrebbero essere irreversibili”. Aggiungendo che “da un punto di vista medico il prigioniero si trova in una fase critica”. Il giorno successivo - 23 ottobre - Michael Lynk (commissario speciale delle Nazioni unite per la situazione dei Diritti umani nei Territori Palestinesi) aveva chiesto esplicitamente a Israele di “porre fine alla prassi della detenzione amministrativa” e di “liberarlo immediatamente”. Una decina di giorni fa un consistente gruppo di detenuti palestinesi (circa 40) rinchiusi nel carcere di Ofer aveva iniziato uno sciopero della fame in solidarietà con Al-Akhras. Si tratta di prigionieri appartenenti a diverse organizzazioni e tra loro si trovano appartenenti sia ad Hamas che alla Jihad islamica e al Movimento nazionale di Liberazione della Palestina (Al-Fatah). D’altro canto non sembra questo un buon momento per le rivendicazioni del popolo palestinese. Qualche giorno fa le autorità israeliane hanno deciso di classificare come “terrorista” il Polo studentesco democratico progressista (in quanto ritenuto contiguo al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina). Da tempo nel mirino della repressione (con arresti, intimidazioni...), è composto da migliaia di aderenti e rappresenta una delle principali organizzazioni studentesche dell’Università di Birzei in Cisgiordania. Risale invece alla settimana scorsa la notizia che il ministero israeliano degli Affari strategici avrebbe dato l’autorizzazione per stanziare la cifra di ben 37 milioni di dollari per far pubblicare sui giornali di ogni angolo del pianeta quella che a tutti gli effetti non sarebbe altro che pubblicità. Ma facendola apparire come informazione (grazie a giornalisti compiacenti). Obiettivo, le campagne BDS (che si autodefiniscono “il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliano”). In pratica - se la notizia fosse confermata - Israele starebbe organizzando una campagna a livello mondiale contro i movimenti che lottano per i diritti del popolo palestinese. Già in precedenza (fonte di entrambe le notizie è il giornalista Itamar Benzaquen del periodico on-line 972 Magazine) il ministero degli Affari strategici avrebbe versato ingenti somme al Jerusalem Post e a diverse altre testate, non solo israeliane, per pubblicare articoli contro BDS. Articoli basati più sulle “veline” del ministero israeliano che su autentiche inchieste giornalistiche. I ragazzi che svegliano la Nigeria: “La Storia condannerà i corrotti” di Domenico Quirico La Stampa, 25 ottobre 2020 Nel gigante del continente i giovani si sono ribellati al potere che li umilia da 60 anni. Il regime ha risposto con la violenza. Buone notizie dall’Africa, buone notizie dalla Nigeria: finalmente! Nel gigante del continente, per popolazione, economia, creatività e per violenza, ladrocinio, ineguaglianze criminali, folle di giovani occupano da giorni le strade, manifestano, gridano la loro veemenza, paralizzano le città contro la mafia infame che li umilia da 60 anni. Provano la potenza demolitrice della Rivoluzione. La polizia e l’esercito sparano, uccidono. C’è già un “martedì di sangue” che separa il prima e il dopo. Ci sono bandiere verdi e bianche macchiate di sangue dei martiri, luoghi divenuti santuario per la memoria collettiva: come il pedaggio di Lekki all’ingresso del quartiere degli affari di Lagos, la capitale economica, dove sono caduti i primi dimostranti. La rivolta ha una musica, strofe, canzoni quelle delle star dell’Afrobeat, i tenori del beat nigeriano, Davido, Tiwa Savage, MR Eazi. Fino a ieri inneggiavano alle godurie e alla spazzatura del capitalismo “bling bling’”. Ora hanno riscoperto la rabbia politica del mitico Fela Kuti che inventò questo genere musicale e si batteva per i diritti umani. Notazione confortante: ad Abuja, la capitale politica, i più feudali e voraci nemici del popolo africano hanno paura, disperati e cattivi. Stanno chiusi nei palazzi e nelle ville rubate alla miseria della gente, invocano la calma, promettono, per contentarli. Ecco: i giovani entrano violentemente nella Storia e la loro irruzione può renderla universale, africana. Annunciano il gran colpo furioso. Rivoluzione o solo rivolta? Durerà? Una settimana, un mese, un anno? I grandi momenti sono fuori del tempo. Le situazioni in bilico fanno pensare sempre all’inizio e alla fine. Le strade, le bidonvilles, le università di tutto un continente ridotto a una perenne cintura di singhiozzi guardano a Lagos, a Benin city, ad Abuja, a Kano; si scopre e si parla con la voce dei giovani nigeriani. Quello che accade lì farà scuola. Gli anni rubati non si ricomprano, ma il futuro è loro. I segni del coraggio - Il Capo, il culto della persona, la cultura occidentale o il ritorno sterile al remoto passato della cultura africana: la vera svolta africana è la Rivoluzione che metta contro il muro della Storia i ladri e gli assassini e i complici nella corruzione che stanno da questa parte del mondo, i ladri del petrolio. È presto, sì, ma ci sono segni di indomita gaiezza, di diffuso coraggio a Lagos: per esempio nessun assalto ai negozi o saccheggi dei super-mercati dove spesso si impaludano le rivolte africane. Sono alle prime prove i ragazzi di Lagos, ma imparano presto. Non naufraghiamo nei numeri. La Nigeria è in due cifre: il sessanta per cento dei suoi duecento milioni di abitanti ha meno di 24 anni. La loro speranza di vita si ferma a 54. Hanno poco tempo dunque per cambiare il mondo. Di tutto possono morire: di stenti soprattutto, perché nel gigante del petrolio il reddito medio giornaliero non supera i quattro euro. Possono ucciderli un jihadista del califfato del nord o un gangster delle bande del Delta a sud; i viaggi dell’emigrazione, la prostituzione accudita da fattucchiere e stregoni. La Nigeria: dove le famiglie vanno a raccogliere le gocce di petrolio che scendono dalle giunture di vecchi oleodotti, come un tempo i poveri spigolavano i chicchi di grano dimenticati nei campi. Tutto è iniziato in modo banale. Perché le rivoluzioni iniziano sempre in modo banale: un insulto, un sasso lanciato, un soldato nervoso. Erano, in fondo, solo proteste contro le violenze e la impunità della polizia, della famigerata brigata speciale dedita alla razzia, alle torture, alle esecuzioni. Al pedaggio di Sekki ogni giorno si formano mostruose code di auto di coloro che lavorano nella città degli affari. Per la gente povera di Lagos è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico. Infatti per entrare si deve pagare. La polizia attacca i manifestanti, spara. L’immagine degli agenti che uccidono un giovane a sangue freddo è il manifesto della rivolta e le cambia volto, ambizioni, parole d’ordine. Nessuno parlava di giustizia, una condizione troppo difficile da ottenere qui. Il massimo a cui si poteva aspirare era la limitazione dell’ingiustizia. Ora si chiedono le dimissioni del presidente, ridistribuzione della ricchezza petrolifera, giustizia: di qui non ce ne andremo! Tutta l’Africa potrebbe firmare le stesse necessità. Ecco il nome che appare negli slogan: Muhammadu Buhari, il presidente. E la sintesi rivoluzionaria, perfetta: “Non vogliamo mai più dei Buhari”. Ci sono presidenti che danno nome a vie, piazze, ponti, codici, biblioteche. Il nigeriano Buhari ha dato nome a una carestia. La prima volta che l’ho sentito nominare ero in Niger. La gente diceva “el buhari” per indicare la fame e non capivo. Mi spiegarono che durante la sua dittatura durata venti mesi, nel 1983 scatenò una caccia xenofoba ai migranti nigerini che cercavano oltreconfine un lavoro. Il ritorno forzato dei migranti e la fine delle rimesse in denaro provocò nell’est del Niger una carestia di massa. Buhari ha 77 anni, malvissuti e stratificati di golpe, malvagità, potere brutale e corrotto. Musulmano, prevedeva la sharia universale, anche nel sud animista e cristiano. Poi, astutamente, si è convertito alla libertà religiosa. Ha iniziato a studiare la tecnica del colpo di stato a 19 anni, nel 1966, quando appena entrato nell’esercito partecipò al primo, come gregario. Aveva talento, nell’83 il golpe lo fece lui, in persona. Breve, un altro generale lo depose, questa è la politica in Nigeria. Il bottino è grosso, bisogna arraffare in fretta e lasciare il posto anche agli altri. Bastarono per distribuire pene corporali agli impiegati pubblici che arrivavano in ritardo e per far rapire un ex ministro incautamente diventato oppositore e rifugiato a Londra. I doganieri inglesi lo scoprirono imballato dentro la valigia diplomatica in partenza per Lagos. Un miliardo di mazzette - Con metodo moderno nel 2015 si è fatto eleggere presidente. Il golpe è anticaglia, le elezioni sono più comode. Il bilancio di 5 anni: la rivolta islamista dei Boko Haram controlla una parte del nord, la regione petrolifera del delta, assassinata dal disastro ambientale, è in mano alla mafia, le mazzette sono salite a un miliardo di euro, i ministri vendono le concessioni petrolifere alle compagnie straniere direttamente, come se zampillasse nel giardino di casa. E poi c’è il Covid e una recessione economica brutale. Barricato nella capitale fantoccio costruita dai militari a celebrazione del proprio dispotismo, Buhari tace. La risposta ai ragazzi è quella di tutte le dittature all’agonia, dei Mubarak, dei Gheddafi: scatenare squadracce di teppisti per terrorizzare la protesa e infangarla. I manifestanti non si piegano, filmano, denunciano, incastrano gli assassini, preparano gli atti di accusa dei tribunali della Storia, li insultano, li vomitano a gola spiegata. Il MeToo iraniano. Le donne denunciano e rischiano le frustate di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 25 ottobre 2020 In Iran le donne alzano la testa, non solo per togliersi il velo, ma per denunciare stupri e molestie. Un MeToo che arriva con tre anni di ritardo rispetto a quello americano ma che ha una valenza molto più profonda se si pensa che nel codice della Repubblica islamica, per un’interpretazione sciita particolarmente oscurantista della sharia, la donna che denuncia è “vittima” e allo stesso tempo “colpevole” visto che i rapporti sessuali fuori del matrimonio sono un reato. “Quando accusi qualcuno di averti costretto a fare sesso stai praticamente testimoniando contro te stessa” dice Shadi Sadr, attivista per i diritti umani e avvocata iraniana di base a Londra. Eppure, in atti di coraggio straordinari, dallo scorso agosto più di 100 uomini sono stati denunciati attraverso i social media. Non persone qualsiasi ma manager, professori universitari, intellettuali. Gente in vista, benestante se non ricca, con amicizie altolocate nei centri di potere del Paese. Tra loro spicca l’artista Aydin Aghdashloo, 80 anni il 30 ottobre, conosciuto a livello internazionale e molto legato al regime degli ayatollah. In un’inchiesta, pubblicata giovedì scorso, il New York Times intervista alcune delle sue accusatrici che non esitano a definirlo l’Harvey Weinstein iraniano, un uomo che per 30 anni non si è fatto scrupolo di ricattare studentesse, giornaliste, galleriste, critiche d’arte e chiunque altra gli capitasse a tiro, minacciandole di porre fine alla loro carriera se non avessero ceduto alle sue molestie. La prima a puntare il dito contro di lui, il 22 agosto, è stata l’ex giornalista Sara Omatali che ha raccontato su Twitter di essere stata molestata durante un’intervista nel 2006. Lui l’avrebbe accolta seminudo nel suo ufficio baciandola a forza e strusciando il suo corpo su di lei. Da allora è stato un susseguirsi di Me-Too. Il New York Times ha intervistato 45 persone che hanno testimoniato di aver assistito ai comportamenti predatori di Aghdashloo. Tredici donne hanno raccontato di aver subito violenza. Una all’età di 13 anni. Una studentessa ha detto che quello che credeva il suo mentore le ha offerto un quadro dal valore di 85 mila euro in cambio di un rapporto sessuale. Una pittrice si è vista chiudere la porta in faccia da molte gallerie dopo aver rifiutato le avance del pittore. Un’insegnante d’arte, che ha affiancato per dodici anni l’artista nei suoi workshop, ha raccontato che le studentesse si erano spesso lamentate con lei ma che lui si era difeso dicendo che le ragazze avrebbero dovuto considerare il suo affetto un privilegio. Interpellato dal Times Aghdashloo, tramite il suo avvocato, assicura “di aver sempre trattato tutti con rispetto e dignità”. Riuscirà il #MeToo iraniano a ottenere, almeno in parte, giustizia? Il 12 ottobre il capo della polizia di Teheran ha annunciato che Keyvan Emamverdi, proprietario di una libreria, ha confessato di aver stuprato 30o donne dopo che 3o di loro avevano avuto il coraggio di denunciarlo. Rischia la pena di morte. Di certo la strada è tutta in salita ma questa vicenda dimostra che le donne sono in prima linea e non hanno paura di sfidare la sottomissione imposta dal regime teocratico.