Carceri, contagi in aumento: positivi 71 detenuti e 112 operatori di Angela Stella Il Riformista, 24 ottobre 2020 In dodici giorni casi raddoppiati, tamponi a macchia di leopardo. Firmato protocollo tra Dap e sindacati per la comunicazione dei dati e presto tornerà anche il bollettino quotidiano del Garante nazionale. Sono attualmente 71 i positivi al Covid tra i detenuti in 34 diverse carceri, 112 tra gli operatori penitenziari: questi dati sono stati resi noti ieri dal sindacato Uil-pa Polizia penitenziaria ma sono purtroppo aggiornati a lunedì scorso. Erano 35 i detenuti e 61 i poliziotti penitenziari positivi all’11 ottobre: quindi quasi un raddoppio nel giro di dodici giorni. Se torniamo ancora indietro di un mese, il 10 settembre scorso si contavano 10 detenuti e 11 agenti positivi. La situazione non è allarmante, ma l’attenzione va mantenuta alta, come nel resto del Paese. E così come avviene per le regioni, anche nelle carceri il tracciamento dei contagi è a macchia di leopardo: il Garante nazionale Mauro Palma ha riferito a Radio Radicale che in Lombardia sono stati fatti nelle carceri 8821 tamponi, in Calabria solo 415. L’aspetto positivo è che, a differenza della scorsa primavera, la distribuzione dei casi positivi non è concentrata in pochi istituti. Volendo fare un raffronto con i dati della prima ondata, dobbiamo far riferimento al rapporto di metà anno di Antigone per cui i casi totali al 7 luglio erano stati 287. Quattro in totale le vittime secondo quanto riportato il 3 settembre sempre dal Garante delle persone private della libertà personale, che a breve riprenderà a diramare il consueto bollettino. Si può facilmente evincere quanto sia difficile districarsi tra le fonti per avere una fotografia chiara della situazione pandemica nelle carceri. Purtroppo abbiamo anche appurato che non è possibile reperire i numeri direttamente dall’amministrazione penitenziaria. Ma forse una buona notizia c’è: sempre ieri è stata raggiunta un’intesa per la condivisione di un protocollo sanitario per la prevenzione e il contenimento dei rischi da contagio da coronavirus fra il Dap, il Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la quasi totalità delle organizzazioni sindacali rappresentative del Corpo di polizia penitenziaria. All’interno di tale protocollo è previsto anche che Dap e Dgmc forniranno sistematicamente alle organizzazioni sindacali i numeri relativi al personale e ai detenuti risultati positivi. Ci riesce complicato comprendere perché il Ministero della Giustizia non possa farsi in prima persona promotore di un bollettino per aggiornare sull’andamento della pandemia nelle carceri. Comunque se misure soft per contrastare l’emergenza sono state prese per limitare alcune attività nel Paese, si potrebbe pensare di mettere in campo anche per l’esecuzione penale alcuni provvedimenti atti a prevenire un espandersi del contagio. Grazie una testimonianza arrivata alla radicale Rita Bernardini veniamo a sapere, per esempio, che i detenuti semiliberi del carcere Fuorni di Salerno chiedono di ripristinare ciò che era previsto nella prima fase, cioè rientrare a casa la sera anziché in carcere: “nonostante il Dpcm vieti categoricamente assembramenti, questo la sera al rientro in carcere non avviene, in quanto varcato il cancello, veniamo riuniti - scrive un detenuto - in circa 20 persone in uno spazio fortemente limitato, veniamo tutti da zone dove è presente un alto tasso di contagiati asintomatici e dormiamo sempre in 5 in una cella dove i letti sono distanziati di circa 40 centimetri”. Ad una situazione sanitaria precaria si aggiungono pure le numerose restrizioni e contrazioni delle opportunità trattamentali e degli spazi residui di libertà e la risalita delle presenze in carcere (al 30 settembre sono 54.277 i reclusi presenti): per questo Rita Bernardini rilancia la proposta di legge elaborata dal Partito Radicale e da Nessuno Tocchi Caino, e presentata dall’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti, che indica in 75 giorni, e non più in 45, la detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata per ogni singolo semestre di pena scontata. Salgono rapidamente i contagi in cella. Ma si discute solo del sit-in per Battisti di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 ottobre 2020 Sale rapidamente il numero dei detenuti contagiati dal Covid-19, anche se, assicura il sindacato di polizia penitenziaria Uilpa, “il sistema carcere, diversamente dai mesi di marzo e aprile, quando però è andato in forte affanno tutto il Paese, sta per ora reggendo bene”. Secondo le ultime cifre fornite ai sindacati dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria, sarebbero 75 le persone detenute positive e 117 gli operatori delle carceri contagiati. Ma solo pochi giorni prima, alla fine della settimana scorsa, erano 85 i poliziotti penitenziari e 54 i carcerati positivi. Ecco perché, come sottolineano gli stessi rappresentanti dei lavoratori penitenziari, non bisogna “abbassare la guardia”. Fortunatamente, per ora, spiega il segretario Uilpa Gennarino De Fazio, “in massima parte non vi è coincidenza fra le carceri nelle quali sono allocati i detenuti contagiati e quelle in cui prestano servizio gli operatori positivi al Covid”, a testimonianza del fatto “che il principale luogo di contagio, non è all’interno delle mura di cinta”. D’altronde, poco o nulla è cambiato da quando con l’emergenza sanitaria vennero imposte forti restrizioni a colloqui e incontri con i familiari, compensando parzialmente l’isolamento con videochiamate e telefonate aggiuntive (ma a discrezionalità dell’Amministrazione e a seconda delle possibilità di ciascun carcere). Non parliamo poi dell’affettività e degli incontri intimi, che anche senza epidemia è diritto misconosciuto in Italia, a differenza dei Paesi civili dell’occidente. L’isolamento dei detenuti quindi è garantito. In questo contesto, fa molto discutere solo il sit-in che si terrà domani mattina davanti al carcere di Rossano (Cs) dov’è detenuto nel reparto di Alta sicurezza da venerdì scorso l’ex terrorista Pac Cesare Battisti. Una manifestazione organizzata dal suo legale, l’avvocato Adriano D’Amico, dal Prc provinciale di Cosenza, e sostenuta da Franco Piperno, fondatore di Potere operaio e docente dell’Unical. La convocazione del sit-in, che rivendica “Dignità per tutti i detenuti”, pone l’accento sul no del Dap ricevuto da Battisti all’uso del computer in cella. “È evidente che gli si vuole impedire di interagire con le istanze esterne, culturali e mediatiche, che potrebbero fargli guadagnare il consenso di democratici e garantisti”, afferma l’avvocato. Secondo l’Adnkronos, nei giorni scorsi Battisti avrebbe chiesto poi al magistrato di sorveglianza il rinvio, per motivi di salute, dell’esecuzione della pena con detenzione domiciliare. Ma il detenuto rifiuterebbe le visite mediche. L’iniziativa ha sollevato le proteste dei familiari delle vittime di Battisti, del Pac e del terrorismo “rosso”. Covid. Arriva il protocollo per la sicurezza nelle carceri quotidianosanita.it, 24 ottobre 2020 Il documento sottoscritto dai sindacati, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento per la giustizia minorile contiene le linee guida per garantire la salute e la sicurezza del personale di Polizia Penitenziaria sul posto di lavoro. Il protocollo Covid, firmato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità con le organizzazioni sindacali del comparto sicurezza, contiene le linee guida per garantire la salute e la sicurezza del personale di Polizia Penitenziaria sul posto di lavoro ed è stato elaborato in coerenza con i provvedimenti normativi nazionali e regionali e con tutte le indicazioni per la prevenzione del contagio emanate dai dipartimenti nei mesi scorsi. “Sono pienamente soddisfatto per l’intesa raggiunta oggi - dichiara il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi - È fondamentale continuare a mantenere alta la guardia sulla situazione sanitaria che stiamo vivendo e avere anche in tutti gli istituti penitenziari ogni strumento di conoscenza e operativo per garantire la sicurezza del personale e della popolazione detenuta, prevenendo e scongiurando la diffusione dei contagi. Tutto questo in raccordo con le aziende sanitarie di riferimento di ciascun territorio”. “Ognuno di noi deve avere piena consapevolezza della fase critica che stiamo vivendo nel Paese ed è fondamentale collaborare a tutti i livelli per evitare rischi che possono compromettere la salute delle persone in tutti i luoghi pubblici e privati” conclude il sottosegretario. L’Italia presente per la prima volta nel Sottocomitato Onu per la prevenzione della tortura di Daniela De Robert Ristretti Orizzonti, 24 ottobre 2020 Finalmente il Sottocomitato per la prevenzione della tortura (Spt), organo delle Nazioni Unite per la vigilanza e il monitoraggio di tutti i luoghi di privazione della libertà, ha un componente italiano. Nella seduta di ieri, 22 ottobre, i rappresentanti diplomatici dei 91 Paesi che aderiscono al Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura hanno eletto Massimiliano Bagaglini come componente del Spt per un mandato di quattro anni a partire dal 1° gennaio 2021. Massimiliano Bagaglini è il responsabile dell’Unità Migranti e privazione della libertà del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e ricopre questo incarico sin dall’avvio, nel febbraio 2016, delle attività del Garante nazionale. Per questo la sua elezione rappresenta non solo un riconoscimento alla persona e all’Autorità di garanzia che lo vede attivo componente, ma anche alla drammaticità del tema che egli rappresenterà in seno al Sottocomitato sulla base dell’esperienza che con continuità l’Unità migranti e privazione della libertà conduce. Il Garante nazionale è grato al Ministero degli Affari esteri e della cooperazione, all’Ufficio Nazioni Unite e alla Rappresentanza italiana a Ginevra, per l’impegno profuso affinché la candidatura di Bagaglini potesse andare in porto. La Costituzione spiegata dai notai ai detenuti in uno spettacolo teatrale di Annarita D’Ambrosio Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2020 Non solo la spiegazione degli articoli principali, ma una narrazione supportata da contributi audio e video, un progetto dall’alto valore formativo e divulgativo. In occasione della Giornata europea della giustizia civile che ricorre il 25 ottobre di ogni anno, Notariato italiano, in collaborazione con il ministero della?Giustizia, in campo con una rappresentazione teatrale sulla nostra carta costituzionale. “Questa Costituzione è uno spettacolo” il titolo della piece che sarà trasmessa per la prima volta in modalità digitale in contemporanea in sei istituti penitenziari d’Italia, all’interno dei quali sono previsti anche momenti di interazione fra i detenuti ed il notaio Giulio Biino, ideatore e interprete dello spettacolo, che, collegato in diretta da remoto, risponderà alle domande che gli saranno poste. Dove si vede - È stato il ministero ad individuare gli istituti carcerari all’interno dei quali si svolge l’iniziativa: la Casa di reclusione Milano Opera, gli Istituti penitenziari di Parma, la Casa di reclusione di Roma Rebibbia, la Casa circondariale di Firenze Sollicciano, il Centro penitenziario di Napoli Secondigliano, la Casa circondariale di Palermo “Pagliarelli” e quella Lorusso e Cutugno di Torino, durante la quale verrà trasmessa la versione digitale dello spettacolo teatrale interpretato dal notaio Biino, consigliere nazionale del Notariato con delega alla comunicazione, e dal notaio torinese Fabrizio Olivero. I notai presentano ai detenuti la Costituzione come se fosse un romanzo, concentrandosi sugli articoli dedicati alla detenzione e ai diritti riconosciuti ai detenuti, intervallando testi e commenti della Carta costituzionale con una colonna sonora pensata per l’evento, videoclip, spezzoni di film, richiami ai mezzi di informazione ed ai giornalisti. Vicinanza al mondo carcerario - Di un segnale importante di vicinanza istituzionale al mondo penitenziario ha parlato il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, mentre Cesare Felice Giuliani, presidente del Consiglio nazionale del Notariato ha sottolineato l’importanza dell’evento “in un anno particolare come quello che stiamo vivendo, in cui la condivisione dei valori di comunità è diventato requisito imprescindibile per vincere una delle sfide più difficili del nostro secolo”. “La giustizia non è credibile, va riformata in tre mosse”, parla l’avvocato Polidoro (Ucpi) di Viviana Lanza Il Riformista, 24 ottobre 2020 La cronaca di questi giorni ha raccontato storie di persone arrestate e poi assolte, di vite e carriere rovinate da sospetti che in sede processuale non hanno trovato conferme. Sono la spia di una giustizia che fatica a essere credibile? Lo chiediamo all’avvocato Riccardo Polidoro, penalista di lungo corso, responsabile dell’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane: “Certo, è un dato che dovrebbe far riflettere, ma quanti sono disposti a farlo? Da sempre l’avvocatura, e solo l’avvocatura, si è posta questo problema. Eppure, va evidenziato che proprio gli avvocati traggono vantaggio da questa situazione. Un’indagine debole, che viene demolita in giudizio, è fonte di guadagno e visibilità per il difensore”. Su questo e su altri temi, come quello delle ingiuste detenzioni, l’Ucpi ha più volte denunciato che il sistema non funziona. “Ci sono state, e purtroppo ci saranno, vite distrutte e carriere professionali e politiche rovinate da indagini a senso unico, che non hanno trovato il controllo, pur previsto, da parte del giudice - continua Polidoro - Per i reati più gravi, la Procura della Repubblica può chiedere il rinvio a giudizio dell’imputato, ma poi deve essere un giudice a disporlo. Ed è qui che il sistema non funziona. Le indagini durano anni e producono migliaia di atti che poi si riversano sulla scrivania del giudice per le indagini preliminari che, nell’arco di pochissimo tempo, spesso in una sola udienza, deve prendere una decisione. Se decide per il rinvio a giudizio dovrà solo apporre la firma sul decreto, mentre se decide per il proscioglimento dovrà emettere una sentenza motivata, che presuppone ovviamente la completa conoscenza degli atti processuali. Vi è un enorme sbilanciamento tra le due possibilità, tenuto conto che l’ufficio del gip è quello certamente più oberato di lavoro nel sistema processuale penale. Deve, infatti, tra l’altro, decidere sulle misure cautelari, deve portare a termine i riti abbreviati, deve autorizzare le intercettazioni, deve sentire l’imputato per l’interrogatorio di garanzia e così via. È chiaro che, in questa massa di lavoro, l’udienza preliminare è sacrificata e, nella maggior parte dei casi è un formale passaggio processuale in cui il rinvio a giudizio è pressoché certo. Stesso ragionamento può valere per il Tribunale per il Riesame, che dovrebbe verificare la bontà della misura cautelare, ma il tempo a disposizione non consente spesso il necessario approfondimento. Il sistema, pertanto, non funziona, non è efficace e la fiducia nella giustizia, diminuisce di giorno in giorno”. Le statistiche sugli errori giudiziari rivelano che a Napoli, nel 2019, ci sono state 129 ordinanze con indennizzi per oltre tre milioni di euro. “Sono dati che fanno rabbrividire - osserva Polidoro - perché dietro questi numeri ci sono persone e la libertà non ha prezzo. L’errore è sempre possibile e il rimedio purtroppo non può che essere economico, ma la quantità degli indennizzi spaventa”. La questione è complessa. “Un altro dei temi è la solitudine del pubblico ministero, che per anni indaga senza un effettivo controllo sul suo operato. Si accumulano così migliaia di atti e si rischia quello che io definisco “innamoramento” per l’indagine da parte della Procura e, chi è innamorato, non vede quello che altri, invece, possono vedere”. Quale riforma auspicare? “Separazione delle carriere: non solo per un effettivo distanziamento tra l’accusa e il giudice terzo - spiega Polidoro - ma anche per far comprendere all’opinione pubblica che la notizia apparsa sui giornali dell’indagine o della misura cautelare, non è una sentenza, ma un’ipotesi accusatoria che va verificata. Depenalizzazione: si tengono processi che giungono fino in Cassazione (non per colpa degli avvocati che svolgono compiutamente il loro lavoro), per questioni che potrebbero essere risolte in altre sedi. Maggiore importanza politica al sistema giustizia: nell’emergenza Covid, il governo ha di fatto delegato ogni decisione alle singole Corti di Appello, con risultati non sempre efficaci e, comunque, diversi per ogni città. Eppure il funzionamento della giustizia riguarda tutti i cittadini e influisce anche in maniera determinante sull’economia del Paese”. Tribunali sommersi dall’arretrato. In Italia la giustizia più lenta dell’Ue di Maria Elena Cosenza La Notizia, 24 ottobre 2020 Una sentenza penale di primo grado richiede 361 giorni. Quasi il triplo della media degli altri Paesi europei. L’Italia è davvero il Paese dove i processi durano di più? Secondo la Commissione europea per l’efficacia della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej) non ci sarebbe alcun dubbio. È il nostro Paese a portare la maglia nera. Nel 2018 il tempo medio per arrivare a una sentenza di primo grado in un processo penale è stato il più elevato d’Europa: 361 giorni contro una media di 144 giorni. Gli analisti di Strasburgo ogni due anni valutano l’efficienza dei sistemi giudiziari dei Paesi membri. Rispetto al 2010 si sono guadagnati 32 giorni che diventano 51 rispetto al 2016, anno in cui sono state introdotte una serie di depenalizzazioni. In un processo civile e di contenzioso commerciale, invece, il tempo medio è stato di 527 giorni, secondo solo a quello della Grecia (559 giorni), contro una media europea di 233 giorni, meno della metà. A Roma servono in media, niente po’ po’ di meno che 889 giorni per arrivare a una sentenza di primo grado in un processo amministrativo davanti al Tar a fronte di una media europea di 323 giorni. In questa classifica la maglia nera la cediamo a Malta con 1.057 giorni, mentre in Portogallo servivano 928 giorni. Conserviamo comunque un terzo posto nella classifica delle peggiori. Il motivo? Secondo la Cepej sono diversi le ragioni, “ma sicuramente la quantità di arretrato accumulato gioca un ruolo importante”. E in effetti i numeri parlano chiaro: vengono segnalati 2,09 casi pendenti per 100 abitanti nel 2018. “L’Italia, come dimostrano i dati sui casi chiusi ogni anno tra il 2010 e 2018, si è sforzata di risolvere questo problema”, osservano a Strasburgo, “ma questi stessi dati mostrano che il sistema giudiziario non è stabile e che non può mantenere un carico di lavoro che supera una certa soglia”. Nel nostro paese il 44,8 per cento dei casi in sospeso è più vecchio di due anni, a Malta il 45,6 per cento. Nell’ottavo rapporto si evidenzia, poi, anche il budget legato alla giustizia utilizzato dai Paesi membri. Si registra, in tal senso, un lieve aumento: se nel 2010 la spesa era di 64 euro per abitante all’anno, nel 2018 è stata in media di 72 euro (in Italia è stata di 83,2 euro, con un incremento del 14 per cento). Il rapporto rileva anche che i Paesi meno abbienti spendono in proporzione di più per le loro autorità giudiziarie, mentre i Paesi più ricchi investono di più nell’assistenza legale. Inoltre, in media, oggi vi sono 164 avvocati ogni 100mila abitanti (in Italia la cifra sale a 388), mentre il numero dei tribunali è sceso del 10 per cento tra il 2010 e il 2018. Se la tecnologia è diventata parte integrante della fornitura di servizi di giustizia, l’impatto di questi nuovi strumenti “dovrebbe essere monitorato per evitare che incidano sui principi di equità, imparzialità e indipendenza della giustizia”. Quanto all’efficienza, in generale i tre livelli del penale sono più efficienti (il secondo grado in particolare), mentre non brillano in ambito civile. C’è poi un altro fattore che ha ultimamente ingolfato le attività dei tribunali: le richieste d’asilo. Hanno avuto, infatti, un impatto significativo in termini di numero di casi in entrata nel 2018 in sette paesi: Austria, Belgio, Francia, Germania, Italia, Spagna e Svezia. C’è una seconda parte del Rapporto che riporta i dati per Paese in termini di personale ed emerge che, il sistema giudiziario italiano è leggermente sguarnito rispetto alla media europea ad eccezione degli avvocati. Anche perché un procuratore italiano nel 2018 ha ricevuto in media 1.332 casi contro una media europea di 189,65. È arrivata l’ora di un referendum sulla giustizia di Fabrizio Cicchitto Il Riformista, 24 ottobre 2020 Vi ricordate quell’“arriverà un giorno nel quale i giudici si arresteranno tra loro?”. Fu una frase di Bettino Craxi. Spunti affinché il caso Palamara (ma che peccato non siano stati ammessi i suoi 130 testimoni. Ne avremmo sentite di tutti i colori!) serva a qualcosa. È il momento giusto per indire uno o più referendum su aspetti fondamentali riguardanti la giustizia italiana e la magistratura, dopo il caso Palamara. Ciò non significa che si vuole intaccare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura. Bisogna piuttosto liberarla dalla ruggine di privilegi accumulati nei decenni. Due esempi. Il primo: gli incarichi extragiudiziari dei magistrati, la loro seconda attività, la cui crescita, negli ultimi sei mesi, ha raggiunto il numero di 961, rispetto ai 494 dei sei mesi precedenti. Il secondo: l’uso eccessivo della custodia cautelare. Questo è il quadro nel quale si svolse il referendum sulla giustizia giusta, l’8 ottobre del 1987, per stabilire la responsabilità civile per i magistrati. Certamente bisognerà studiare sul piano tecnico come i referendum devono essere articolati, i punti specifici su cui far pronunciare i cittadini. Per memoria, i temi essenziali sono la separazione delle carriere, il Csm, i termini processuali, gli incarichi extragiudiziali, la carcerazione preventiva. Su un altro piano: le intercettazioni e la prescrizione. La presa di coscienza dell’esistenza di un problema magistratura è partita dall’arresto, nel 1983, di Enzo Tortora, scaturito dalle dichiarazioni di un pentito e dalle successive calunnie di suoi omologhi a cui i mezzi di informazione e la procura di Napoli diedero grande credibilità. Insomma, fu condannato un innocente che subì una via crucis giudiziaria e una gogna mediatica senza pari, per colpa di macroscopici errori giudiziari. Non sapremo mai se quegli errori fossero dovuti a deficit di capacità professionale o del tutto intenzionali, fatti per fare carriera e addirittura per conquistare fama. A dire il vero, i magistrati coinvolti in quei processi hanno fatto ottima carriera e i falsi pentiti hanno vissuto, negli anni, felici e contenti. Il caso Tortora fu definito giustamente da Giorgio Bocca: “Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso nel nostro Paese”. I protagonisti di quella battaglia referendaria furono il Partito Radicale di Marco Pannella e il Psi di Bettino Craxi. Per Tortora ci fu il combinato disposto di pentiti e Pm con la partecipazione straordinaria dei mass media. Dopo Tortora è avvenuto di tutto. Da un lato c’è stata una magistratura che ha pagato un prezzo altissimo al suo impegno contro la mafia e contro il terrorismo. Non facciamo nomi perché l’elenco sarebbe lungo. C’è stato però anche il rovescio della medaglia, la magistratura che ha fatto politica e che con Mani Pulite ha operato una forzatura al limite dell’eversione: tutti i partiti si finanziavano in modo irregolare, alcuni di essi furono distrutti, altri salvati e favoriti. È inutile anche in questa occasione fare nomi e cognomi. Va però detto che si è trattato dell’unico caso in Europa nel quale alcuni partiti sono stati estromessi dal Parlamento non per il libero voto degli elettori, ma per l’inusitato, pressante e invasivo intervento del circo mediatico-giudiziario. Il caso Palamara è arrivato alla conclusione di un ciclo all’inizio del quale il ruolo dei magistrati è apparso come “l’angelo sterminatore” nel film di Bu?uel. Invece il caso Palamara ha messo in evidenza che esiste una lotta di potere all’interno della magistratura che arriva fino all’ordine gerarchico più elevato, il Csm. Il correntismo e il carrierismo hanno messo l’ordine giudiziario (diventato potere per colpa della politica in uno stato di soggezione di fronte alla magistratura), in una condizione di credibilità decrescente. Gli italiani ora diffidano della magistratura. L’inversione di tendenza si è avuta per via del caso Palamara, ma il malessere durava da decenni. In più, si è inserito il populismo giudiziario dei 5 stelle e del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Come un fulmine a ciel sereno, Luca Palamara balza agli onori della cronaca, accusato di aver ricevuto 40 mila euro per una nomina e per aver rapporti con imprenditori e avvocati. Ha sempre negato di aver intascato soldi. Chi è Luca Palamara? Ex presidente dell’Anm, leader della corrente moderata di Unicost, ed ex componente del Csm. Come mai deflagra il caso? Una microspia-virus, il trojan, è stata introdotta nel suo cellulare, registrando per filo e per segno la sua vita pubblica e privata. Galeotto fu l’hotel Champagne e chi partecipò alla cena con magistrati del Csm delle correnti Unicost e Magistratura Indipendente e politici di alto rango: Cosimo Ferri, ex magistrato e parlamentare ex Pd ora Italia Viva, e Luca Lotti deputato Pd ed ex ministro, inquisito per il caso Consip. Il trojan in questo caso certe volte funziona, altre volte no. Quando gli incontri coinvolgono personalità o magistrati intoccabili il trojan pare non funzionare. Il corto circuito si innesca con l’andata in pensione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Inizia uno scontro senza esclusione di colpi per conquistare la poltrona più prestigiosa e di maggior potere della giustizia italiana. I procuratori di Firenze e di Palermo scendono in campo. Lo scontro è durissimo e Luca Palamara entra per questo nel tritacarne. La chiave di lettura che egli dà delle sue disgrazie è la seguente: quando ero alleato della sinistra non ho avuto problemi, ora, che l’asse del Csm si stava spostando a destra, sono stato radiato dalla magistratura. Ora, il rapporto ambiguo e ipocrita tra magistratura e politica è vecchio come il cucco. Ad esempio, un vicepresidente del Csm non nasce dalla testa di Giove come Minerva, ma viene eletto sulla base di trattative tra mondo politico e quello della giustizia. Non crediamo che l’attuale vicepresidente Ermini sia stato eletto per le sue pubblicazioni, ma pensiamo sia il frutto di una contrattazione che però non è stata registrata dal trojan. Sono migliaia i casi di promozione all’interno della magistratura, decisi dalle correnti con l’intervento della politica. Fino a quando questo sistema esisterà e resisterà alle spinte di riforma, vale la citazione dell’Amleto di William Shakespeare. E, comunque, non valgono le riforme omeopatiche e quelle gattopardesche bensì quelle che cambiano l’attuale sistema molto autoreferenziale. Per farla breve, Palamara si trova radiato dalla magistratura perché così ha deciso il Csm, incolpato di essere stato “il regista del sistema delle nomine”. Ma nel passato, invece, le nomine come sono state fatte? Un vero peccato che grazie alla mancata ammissione dei 130 testimoni indicati da Palamara non sia stato possibile approfondire l’argomento. A noi oggi interessa il caso Palamara per capire come funziona la giustizia, di modo che l’eventuale referendum abbia tutte le carte in regola per riformarla, per non ripetere per ogni sentenza di assoluzione la famosa frase del mugnaio “c’è un giudice a Berlino” e per scongiurare ciò che, profeticamente, affermò Bettino Craxi: “Arriverà un giorno in cui i giudici si arresteranno tra loro”. La guerra dei puri e duri di Giuseppe Sottile Il Foglio, 24 ottobre 2020 Quoque tu. Al Csm anche Di Matteo ha votato per la defenestrazione di Davigo. Uno scontro fra giustizialisti. Qualcuno, spingendosi oltre il confine della retorica, ha evocato Bruto, le Idi di Marzo e l’agguato a Giulio Cesare, nel 44 avanti Cristo. Paragone esagerato e forse anche inopportuno. Perché nell’ultimo atto del dramma che ha spinto il Consiglio superiore della magistratura a decretare la defenestrazione, per raggiunti limiti di età, del reverendissimo Piercamillo Davigo non c’è stato alcun agguato e non c’è stato nemmeno un complotto. È successo semplicemente che al momento della votazione ciascuno dei consiglieri, laico togato poco importa, ha messo sul piatto le proprie paure, i propri sentimenti, i propri rancori, la propria coscienza. Nel momento in cui la credibilità di Palazzo dei Marescialli precipitava verso il fondo senza mai toccare il fondo era fin troppo prevedibile che la corrente di Area, quella dei progressisti, non trovasse né il coraggio di voltare le spalle al Santissimo Fustigatore né la forza di neutralizzare il pollice verso del vicepresidente David Ermini, quasi certamente sintonizzato con il Quirinale, e dei vertici della Cassazione: infatti tre di loro si sono astenuti. Ed era altrettanto prevedibile che la corrente di Magistratura Indipendente, quella del renziano Cosimo Ferri, e la corrente di Unicost, quella del reprobo Luca Palamara, pareggiassero i conti con l’ex “doctor subtilis” di Mani pulite che, come membro della “Disciplinare”, era già pronto a sfoderare la spada dell’inquisizione per colpire tutti i magistrati sorpresi dal trojan a traccheggiare, con Palamara, sulle nomine prossime venture del Csm. Non era prevedibile invece che si schierasse contro Davigo il più puro e il più duro dei magistrati coraggiosi: quel Nino Di Matteo, palermitano, che è stato pubblico ministero nel processo della Trattativa; che da Palermo è passato alla Procura nazionale antimafia e che è stato eletto al Consiglio superiore da indipendente ma con l’appoggio pubblico e determinante di Autonomia e Indipendenza: manco a dirlo, la corrente fondata tre anni fa proprio da Davigo dopo la rottura dei rapporti con Magistratura Indipendente. Chi avrebbe mai immaginato che la fronda di Nino Di Matteo diventasse quasi determinante per mettere fuori gioco, fin dal 20 ottobre - giorno del suo settantesimo compleanno e del suo obbligato pensionamento - il magistrato Davigo, idolo e simbolo dei giustizialisti più intolleranti e più forcaioli? Chi avrebbe mai immaginato un titanico scontro tra il puro e duro della Trattativa e il puro e duro di Mani pulite; tra il puro e duro che va in televisione, da Massimo Giletti, per attaccare a testa bassa il ministro della Giustizia e il puro e duro che va in televisione, da Giovanni Floris, per predicare urbi et orbi il suo particolarissimo vangelo sulla presunzione d’innocenza, sulla prescrizione e su altre quisquilie del cosiddetto stato di diritto? Non lo avrebbe immaginato nessuno. Invece il sipario si è strappato e ha mostrato al popolo incantato dei fedelissimi e degli spettatori che sul palcoscenico della purezza si giocano guerre sotterranee con lo stesso stile di quelle che si combattono silenziosamente dentro i palazzi della politica. Per capire l’asprezza del conflitto, del resto, bastava leggere l’attacco che Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano ed estimatore di Piercamillo Davigo, ha sferrato a stretto giro di posta nei confronti di Di Matteo. Lo ha inserito nel girone malvagio dei voltagabbana e ha picchiato duro con parole che somigliano più a una scomunica che non a una sentenza. Dopo avere ricordato che non c’era alcuna ragione perché il plenum del Csm deliberasse la decadenza di un suo membro tra i più intransigenti e più preparati, Travaglio scrive che Davigo è finito “nel mirino dei colleghi invidiosi della sua popolarità, della sua credibilità e del suo rigore morale”. E spiega: “Tra quelli che ieri gli hanno votato contro con voltafaccia imbarazzanti, oltre a un inspiegabile e sconcertante Nino Di Matteo, ci sono i correntocrati della destra e della sinistra che per anni hanno inciuciato e fatto carriera con i vari Palamara” e che, tra un traccheggio e l’altro, hanno contribuito anche “a coprire i porti delle nebbie e delle sabbie”. Più duro di così il direttore del Fatto quotidiano non poteva essere. Ma Di Matteo non ha fatto una piega. Ha indossato ancora una volta i paramenti sacri del puro e del duro e ha sostenuto di avere scelto “con grande difficoltà umana, ma in piena coscienza”. Dura lex sed lex, ha aggiunto. “La qualità di appartenente all’ordine giudiziario è imprescindibile per avere funzioni nell’autogoverno”, ha detto. Se Davigo fosse rimasto in carica nel Consiglio superiore oltre il suo pensionamento, si sarebbe verificata - secondo l’ex pm della Trattativa - l’anomalia “di avere un tertium genus di consigliere, né togato né laico, che avrebbe alterato il rapporto tra la componente magistratuale e le altre in Consiglio e che sarebbe andato ad accrescere ingiustificatamente il numero dei non togati, violando anche lo spirito delle norme costituzionali sull’ordinamento della magistratura”. Basterà il latinorum di Di Matteo ad appannare i segnali di guerra che si levano dal meraviglioso mondo dei puri e duri? Probabilmente no. È da parecchi mesi che sotto la cenere cerimoniosa delle buone maniere cova il fuoco di un risentimento che appesantisce ogni giorno di più i rapporti tra Di Matteo e Alfonso Bonafede, ministro Guardasigilli, e che di rimando coinvolge, direttamente o indirettamente, i comprimari dell’uno e dell’altro fronte. Tutto comincia, come si ricorderà, con la cosiddetta battaglia del Dap, chiamiamola così. Nel giugno del 2018, subito dopo la nomina al vertice di Via Arenula, Bonafede chiama l’ex pm della Trattativa e gli propone un incarico di eccezionale potere: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Cioè un impero di 191 istituti carcerari, con un bilancio di due miliardi e settecento milioni di euro, con un esercito di 36 mila agenti di polizia penitenziaria e con una squadra speciale, i famigerati Gom, in grado di controllare e intercettare ciascuno dei 740 boss in regime di carcere duro e di gettare un occhio anche sugli altri 53 mila detenuti esposti, dal sovraffollamento, a ogni insofferenza, a ogni promiscuità e a ogni contagio. Ma il ministro si rimangia la promessa nel giro di ventiquattr’ore e Di Matteo non assorbe il colpo facilmente. Chiamato a metà maggio di quest’anno a “Non è l’Arena”, la trasmissione televisiva di Giletti, il magistrato più scortato d’Italia lancia pubblicamente il sospetto che il ministro grillino, impaurito dalle voci tenebrose provenienti dal carcere, fosse sceso sostanzialmente a patti con i padrini di Cosa nostra. Un sospetto pesantissimo, infamante: Bonafede alla fine avrebbe ceduto alle ragioni della mafia, assegnando la massima responsabilità del Dap al pallido Francesco Basentini e sacrificando di conseguenza Di Matteo: sì, proprio lui, l’eroe dell’antimafia che Beppe Grillo in persona aveva indicato, nel pieno della campagna elettorale, come il candidato più idoneo a ricoprire addirittura la poltrona che poi Luigi Di Maio, capo politico dei Cinque stelle, preferirà affidare al suo fraternissimo amico Bonafede, dj in quel di Mazara del Vallo. Il sodalizio mediatico tra Giletti e Di Matteo è poi andato oltre. E la campagna contro Bonafede, anche e soprattutto dopo la scarcerazione di alcuni boss al 41 bis, gravemente ammalati, ha assunto toni sempre più ruvidi e sempre più infuocati. Al punto da indignare non solo il ministro, che non ha più voluto mettere piede negli studi de La7, ma anche tutti gli uomini che hanno condiviso con lui, e in parte anche ispirato, le leggi contro la corruzione e contro la prescrizione. Norme talmente severe - basta ricordare l’invasività selvaggia del trojan nel sistema delle intercettazioni - da avere procurato al ministro di Giustizia l’appellativo secco e inequivocabile di “manettaro”. Tra i difensori di Bonafede, e delle sue leggi, i più appariscenti sono stati, manco a dirlo, Travaglio e Davigo. Il direttore del Fatto quotidiano non ha esitato a stroncare, con un giudizio sferzante, la trasmissione di Giletti e le forzature dei suoi ospiti, primo fra tutti Di Matteo, opportunamente assistito da una sua personalissima e sodale comitiva: dal sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, al sostituto procuratore antimafia Catello Maresca, dal procuratore aggiunto di Catania e membro del Csm, Sebastiano Ardita, all’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, inventore e sceneggiatore dell’inchiesta sulla Trattativa. Mentre Piercamillo Davigo ha preferito mantenersi sulle generali. Non ha speso ufficialmente una parola a favore di Bonafede ma non ha speso una parola nemmeno a favore di Di Matteo. Che, verosimilmente, se l’aspettava. Lunedì, nella sala Bachelet del Consiglio superiore della magistratura, si è consumata così una contrapposizione riconducibile comunque alla guerra del Dap. Quando il plenum è stato chiamato a votare sulla decadenza di Davigo - 13 a favore, 6 contro, 5 astenuti - il voto che ha fatto più rumore è stato quello del puro e duro Di Matteo. Un voto di coscienza non v’è dubbio. Ma la coscienza, si sa, non è una stanza vuota: comprende anche sentimenti, umori, malumori e risentimenti. Che l’ex pubblico ministero della Trattativa - suo il merito, chiamiamolo così, di avere ottenuto la condanna in primo grado di alcuni uomini dello Stato accusati di avere tramato con i boss - non fosse un tipo sempre disponibile alla remissione dei peccati altrui si sa ormai da tempo. E per averne una conferma basta leggere il sito ufficiale della cosiddetta Confraternita della Trattativa, che puntualmente gli assegna ogni giorno da cinque a sette titoli in prima pagina e che altrettanto puntualmente bastona, si fa per dire, chiunque osi sollevare un dubbio, una perplessità o una polemica nei confronti del magistrato al quale il santone del simpatico giornaletto, con le sue stimmate, ha assegnato il primo e insindacabile posto nel piazzale degli eroi. Il pestaggio non ha risparmiato nessuno: né il giornalista che ha avuto l’ardire di non genuflettersi davanti alla spettacolarizzazione di un processo basato essenzialmente sulle rivelazioni di un pataccaro come Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, trasformato frettolosamente in una “icona dell’antimafia”; né il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, bollato come bugiardo solo perché si era permesso di telefonare in diretta a Massimo Giletti per smentire pubblicamente un’affermazione dell’eroe. Incredibile a dirsi, ma il fanatico furore della Confraternita ha investito persino Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice assassinato ventotto anni fa a Palermo, colpevole di avere mostrato pubblicamente tutto il suo disappunto per come i magistrati di Caltanissetta, tra i quali c’era anche il giovane Nino Di Matteo, avallarono subito dopo la strage di via D’Amelio il depistaggio congegnato, più o meno volontariamente, da un gruppo di investigatori in combutta con un balordo, Vincenzo Scarantino, spacciato come il pentito di mafia più attendibile dell’universo mondo. Tutti censurati, tutti bastonati, tutti richiamati all’ordine. Compresi, va da sé, Marco Travaglio e Alfonso Bonafede, il ministro manettaro che nel giugno di due anni fa, per la direzione del Dap, preferì puntare su Basentini, un magistrato quasi sconosciuto di Potenza, e non sul più duro e più puro cavallo di razza di cui l’ordinamento giudiziario potesse in quel momento disporre. Se lo ricordi, Piercamillo Davigo. Anche se il Tar del Lazio, nelle cui mani ha rimesso le sue ultime speranze, gli concederà la possibilità di riprendersi il suo ruolo di consigliere del Csm, il Santissimo Fustigatore troverà sempre sulla sua strada un collega ancora più puro che cercherà sempre e comunque di epurarlo. Calabria. L’unica Rems ha 20 posti, i detenuti con disturbi psichiatrici restano in carcere di Tiziana Bagnato lacnews24.it, 24 ottobre 2020 Nell’unica Rems calabrese di Santa Sofia D’Epiro, nel Cosentino, liste d’attesa ferme al 2018. Un dramma umano e una piaga del sistema giustizia. Una sola Rems in tutta la Calabria, solo venti posti a disposizione. E così chi nella nostra regione ha commesso un reato ed ha un disturbo psichiatrico non va, come dovrebbe essergli garantito, in una struttura destinata a prendersene cura da un punto di vista sanitario, le residenze per l’esecuzione di misure di pubblica sicurezza appunto, ma resta in carcere. Un tema delicato e spinoso questo, che in tanti rifuggono, ma che riguarda l’Italia intera dopo la chiusura degli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, e che ha visto l’intervento anche della Corte Europea. A farsi promotrice di questa battaglia è l’avvocato calabrese, lametino, Serena Galeno, professionista tanto determinata e preparata, quanto schiva. Si deve a lei il riconoscimento di un ristoro economico a Pino Astuto, internato nel manicomio di Girifalco da bambino, senza che avesse alcuna patologia. Una storia andata in prescrizione, su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo, una storia che però non poteva passare in sordina e, alla fine, ha trovato un “risarcimento” economico, seppur minimo rispetto a quanto patito, ma anche un riconoscimento umano e sociale. Ora questo nuovo scoglio. “In ipotesi di applicazione di misura cautelare in carcere con conseguente richiesta di accertamento psichiatrico, acclarata l’incapacità di intendere e volere al momento della commissione del fatto-reato e congiuntamente la pericolosità sociale ed applicata la misura di sicurezza del ricovero in Rems - spiega Galeno - non può mantenersi l’originario titolo custodiale cautelare, in quanto carente del presupposto che lo aveva legittimato. In tali casi, il detenuto deve essere scarcerato e contestualmente ricoverato in rems. Tuttavia, a causa della cronica insufficienza dei posti disponibili all’atto della scarcerazione i detenuti restano di fatto in carcere sine die, in attesa dello scorrimento della lista di attesa nella rems individuata dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulla scorta del criterio della territorialità”. Nel caso della Calabria la residenza è una sola, si trova a Santa Sofia d’Epiro in provincia di Cosenza, dove è sorta nel 2016. La struttura, di proprietà dell’Asp, è gestita dal centro di solidarietà Il Delfino. L’equipe, guidata da un direttore sanitario per conto dell’Asp di Cosenza, è composta da psichiatri, psicologi, assistenti sociali, educatori, infermieri e oss. Solo venti i posti a disposizione e le liste d’attesa sono ferme al 2018. Questo significa, in soldoni, che c’è chi dal 2018 è in carcere, attendendo si liberi per lui un posto. Il giudice deve bilanciare da un lato l’interesse della collettività e/o della vittima (ritenendolo prevalente) dall’altro quello alle cure, e si trova costretto a far trattenere nelle more il malato psichiatrico in carcere e ad ordinarne l’immediata liberazione soltanto all’atto del ricovero all’interno della Rems. “È assolutamente necessario - sottolinea il legale - un intervento istituzionale, finalizzato all’aumento dei centri Rems, ovvero alla individuazione di strutture alternative per la custodia dei soggetti non imputabili e di cui sia stata accertata la pericolosità, destinatari, dunque, di una misura di sicurezza detentiva, atti a garantire quantomeno una collocazione provvisoria in attesa dello scorrimento delle liste di attesa delle Rems, che possono essere anche di anni”. Secondo gli ultimi dati ufficiali le Rems in Italia sono 30 e ospitano circa 600 persone. L’accordo concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Opg ha ribadito che spetta alle Regioni e alle Province Autonome garantire l’accoglienza nelle proprie Rems delle persone sottoposte a misura di sicurezza detentiva residenti nel proprio ambito regionale o provinciale. Le Regioni devono provvedere ad una idonea programmazione che tenga conto delle esigenze in corso e a venire, con specifico riguardo all’evoluzione del numero dei propri pazienti. Il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) svolge esclusivamente una attività di raccordo con le autorità giudiziarie, fornendo l’indicazione della residenza attiva sul territorio per il ricovero. Abruzzo. Rischio Covid nelle carceri, Pezzopane (Pd): tutelare personale e detenuti di Francesca Trinchini abruzzolive.it, 24 ottobre 2020 La deputata presenta un’interrogazione in commissione. “Ritengo un atto doveroso chiedere l’intervento del presidente del consiglio dei ministri, del ministro della giustizia, del ministro della salute e della ministra dell’interno, per quanto di loro competenza, per sapere quali misure intendano adottare al fine di tutelare la salute e la sicurezza del personale penitenziario e dei detenuti. A tal proposito, ho presentato un’interrogazione in commissione”. Lo dichiara la deputata dem Stefania Pezzopane, capogruppo Pd in commissione ambiente e membro della presidenza del gruppo Pd alla Camera. “Vista l’inevitabile intensificazione delle positività accertate nel Paese, compresa la regione Abruzzo, appare del tutto indispensabile e necessario che venga avviata un’attività di screening a favore dei poliziotti penitenziari in servizio presso le strutture in questione, così come anche definito nel protocollo stipulato tra l’amministrazione penitenziaria e la regione Abruzzo. È opportuno evidenziare che, in alcuni istituti penitenziari (Lanciano e Vasto) sono stati, di recente, condotti detenuti positivi al Covid-19” spiega Pezzopane. “Gli agenti di polizia penitenziaria sono fortemente preoccupati per l’indiscusso e oggettivo rischio biologico, nonostante la presenza di Dpi e altri utili strumenti. Non ho intenzione di destare alcuno sterile allarmismo, tuttavia, ritengo essenziale esercitare ogni forma di tutela a favore della salute del personale penitenziario” conclude la deputata. Toscana. Accoglienza per minori in Comunità terapeutica “filtro” di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 24 ottobre 2020 È stato siglato in Toscana un protocollo d’intesa per la sperimentazione di un percorso di inserimento del minore in Comunità terapeutica con funzione di filtro. A sottoscrivere l’intesa sono stati il Centro giustizia minorile, la Regione l’Azienda Usl, il Tribunale e la Procura della Repubblica per i minorenni di Firenze, l’Agenzia Regionale di Sanità e la Comunità Masotti. L’inserimento nella Comunità terapeutica di minori sottoposti a misure cautelari che necessitano di diagnosi tossicologica e psicopatologica, intende perseguire la finalità di una attenta e rigorosa valutazione dei bisogni del minore non noto ai Servizi Sanitari e senza diagnosi e verificare l’eventuale necessità di approfondimento del quadro diagnostico del minore stesso, affinché possa essere puntualmente individuata la tipologia di struttura più adeguata alle sue necessità. A gestire il percorso sarà la Comunità Masotti dell’Associazione Centro Solidarietà di Pistoia Onlus che ha messo a disposizione 4 posti per minori di entrambi i sessi e che è risultata idonea dai Dipartimenti di Salute mentale delle Aziende Sanitarie della Toscana. Per Stefania Saccardi, assessore regionale al Diritto alla Salute, “si tratta di un percorso innovativo e sperimentale che ci permetterà, questo è l’auspicio, di avere un quadro conoscitivo adeguato, del profilo e dei bisogni sanitari di alcuni dei minorenni sottoposti a misure cautelari, per poterli indirizzare verso una Comunità adeguata alle loro esigenze”. Il dirigente del Centro giustizia minorile della Toscana Antonio Pappalardo ha dichiarato: “Dopo un lungo percorso siamo giunti a dare risposta a un’esigenza che esiste sia dalla riforma della sanità penitenziaria. Il risultato è un’ottima sintesi che prevede l’inserimento di questi minorenni in una Comunità filtro dove nell’arco di trenta giorni un’apposita equipe di specialisti sarà in grado di diagnosticare il ragazzo e quindi di indirizzarlo verso una comunità terapeutica specifica per adolescenti o, in mancanza di una diagnosi di tipo sanitario, in un’ordinaria comunità per minorenni”. La Procura e il Tribunale per i minorenni di Firenze hanno sottolineato la sinergia tra istituzioni che ha consentito il varo di questa nuova e importante risorsa minorile, frutto di un modello di inclusione e compartecipazione che trova nella Regione Toscana ampia e positiva attuazione. Monza. Via crucis di 37 giorni in cella fino alla morte. Chiesta l’archiviazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2020 Francesco Smeragliuolo era ad alto rischio suicidio, i legali della sua famiglia si sono opposti alla richiesta di archiviazione. Detenuto nel carcere di Monza il ventiduenne Francesco Smeragliuolo con problemi di tossicodipendenza, era un soggetto ad alto rischio e per tale ragione doveva essere sottoposto a sorveglianza a vista. Così, purtroppo, non è stato. Infatti è stato ritrovato morto in una cella non sua. Gli avvocati Daniel Monni e Alessandro Ravani, come già riportato da Il Dubbio, hanno presentato una denuncia presso la procura di Monza integrandola con il reato di condotta omissiva visto che la sorveglianza risultava assente. Il pm ha chiesto l’archiviazione - Ma il pm, qualche giorno fa, ha fatto richiesta di archiviazione senza indagare sulla notizia di reato denunciata. Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione, l’avvocato Monni fa presente che le condotte omissive e attive dell’amministrazione penitenziaria devono essere oggetto di attenta attività d’indagine. Parliamo del reato contemplato nell’articolo 572 del codice penale. Una notizia di reato che, però, è rimasta lettera morta con la richiesta di archiviazione. Un via crucis in carcere - Nell’opposizione si ripercorre tutta la via crucis del ragazzo incarcerato. Egli era conosciuto dall’equipe del carcere di Monza, noto anche, e soprattutto, per i dolori acuti dovuti dalla sua patologia. Come si legge nell’opposizione, “nel susseguirsi dei giorni intercorrenti dal 2.05.2013 - data di ingresso in carcere - al 8.06.2013 - data del decesso - Francesco aveva, in numerose e ricorrenti occasioni, mostrato la propria sofferenza e chiesto aiuto ma, ciononostante, non venne ascoltato”. In effetti, le sue richieste di aiuto sono scalfite nel suo diario clinico: con crescente insistenza, infatti, il ragazzo riferiva il proprio malessere, le proprie fobie, il forte senso di nodo alla gola, ansia non controllata e idee di morte. Il 28 maggio del 2013, quindi qualche giorno prima della sua morte, Francesco arrivò addirittura a compiere gesti autolesivi e riferì di averlo fatto, perché “non ce la faceva più”. L’altissima sorveglianza che non è mai arrivata - Immediatamente dopo questo episodio, è stato richiesto un regime altissima sorveglianza nei suoi confronti. Ma, di fatto, mai attuato. La prova, d’altronde, è da ritrovare proprio nel momento in cui è stato ritrovato morto. Quel tragico giorno dell’8 giugno 2013, Francesco si trovava in una cella diversa dalla propria privo di adeguata sorveglianza: il personale del 118, non a caso, giunse all’interno della cella numero 606 solo un’ora dopo il crollo del ragazzo a terra. Nell’opposizione all’archiviazione, l’avvocato Monni sottolinea il fatto che Francesco, negli ultimi 37 giorni della sua vita, ha vissuto in uno stato di grave sofferenza psicofisica, con tanti di gesti autolesivi. La madre testimonia che, all’ultimo colloquio, Francesco risultava notevolmente dimagrito rispetto a quando aveva fatto ingresso in carcere. La salma è risultata piena di escoriazioni e lo screening biologico ha evidenziato la presenza di diversi psicofarmaci. Perché chiedere l’archiviazione senza nemmeno indagare visto la notizia di reato? Ricordiamo che recentemente la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per il suicidio di un detenuto avvenuto 19 anni fa. Il motivo della condanna? Le autorità non hanno garantito il “diritto alla vita” che obbliga lo Stato non soltanto ad astenersi dal provocare la morte in maniera volontaria e irregolare, ma anche ad adottare le misure necessarie per la protezione della vita delle persone sottoposte alla sua giurisdizione. Lo stesso diritto, quello alla vita, che doveva valere anche per Francesco. “Difficile spiegare a una madre - spiega a Il Dubbio l’avvocato Daniel Monni - questa richiesta di archiviazione. Potrei dirle, usando parole di altri ben più illustri, che la giustizia si manifesta solo a chi ci crede e, conseguentemente, con fatica, con perseveranza, con lo scorrer del tempo. In realtà, però, l’iscrizione di una notizia di reato non è stata accompagnata dalle indagini. Non vorrei tristemente dirle che la giustizia è un atto di fede”. Parole amare, ma è quello che è accaduto. Lo Stato vorrebbe archiviare, i suoi familiari no. Firenze. Detenuto di 66 anni muore in ospedale per un tumore di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 24 ottobre 2020 Era rinchiuso a Sollicciano, dopo la condanna a 30 anni per aver freddato con tre colpi di pistola l’ambulante senegalese Idy Diene, sul Ponte Vespucci, il 5 marzo 2018. Roberto Pirrone a 66 anni aspettava in cella il processo in Cassazione ma si è ammalato di cancro ed è morto lo scorso 20 agosto all’ospedale di Careggi ma la notizia è stata resa nota ieri. “Portatemi via, non ho più voglia di vivere. Voglio andare in carcere … almeno lì ho un piatto caldo tutti i giorni”. Quella mattina di marzo, l’ex tipografo si consegnò alla polizia dopo aver ucciso Diene. Camminava sul ponte Vespucci con la pistola in tasca deciso a farla finita, ma il coraggio gli mancò. Rivolse la beretta su una vittima innocente, dopo aver risparmiato altri passanti che aveva incrociato: una mamma brasiliana che spingeva la figlia in passeggino, una coppia di amiche giapponesi, un giovane e un anziano. Sparò due colpi. L’ambulante senegalese, 54 anni, cadde a terra, ferito e il pensionato gli diede il colpo di grazia. La comunità senegalese scese in piazza per esprimere il proprio dolore e sdegno contro il razzismo. Ma la Procura non contestò l’aggravante dell’aggressione dettata dall’odio razziale. Pirrone fu condannato in primo grado, con rito abbreviato a 16 anni. In appello, un anno fa, la pena fu raddoppiata: i giudici riconobbero l’aggravante dei futili motivi. Un’aggravante ritenuta ingiusta da Pirrone che contava sulla decisione della Cassazione per ottenere uno sconto di pena. Ma è morto prima. Terni. Covid: focolaio in carcere, positivi venti detenuti Il Messaggero, 24 ottobre 2020 Focolaio all’istituto di pena di vocabolo Sabbione. Tutto è cominciato lunedì scorso, quando un detenuto dell’alta sicurezza ha accusato i primi sintomi riconducibili al covid. Una volta accertata la positività dell’uomo la direzione del carcere ha attivato tutte le procedure previste e dai test svolti è emerso che sono venti i detenuti positivi. Tutti ristretti nel circuito dell’alta sicurezza del penitenziario. “Per fortuna al momento non hanno una sintomatologia grave ma molto blanda” dice Antonio Marozzo, direttore del presidio sanitario dell’Usl presso la casa circondariale. Accertate le venti positività, nove delle quali erano riconducibili ai contatti del primo contagiato, a Sabbione si è subito provveduto a ricavare spazi per poter isolare i detenuti. Non essendo sufficienti i quattro posti della sezione Covid che era stata allestita all’inizio della pandemia è stata adeguata la sezione d’accoglienza, che ospita gli altri 16 positivi. “La situazione è sotto controllo - aggiunge Marozzo - in queste ore stiamo facendo i test rapidi a gran parte del personale della polizia penitenziaria e in breve tempo testeremo tutti. Con l’utilizzo di test sierologici rapidi per step riusciremo ad avere il controllo totale”. L’emergenza covid ha imposto il blocco di tutte le attività, da quelle scolastiche a quelle trattamentali, e degli ingressi. Frosinone. Detenuti sex offender: il progetto adesso è replicabile garantedetenutilazio.it, 24 ottobre 2020 I partner di Conscius, il progetto volto a ridurre e prevenire la recidiva per gli autori di abuso sessuale e violenza domestica, offrono gli strumenti per riproporre il modello in altri Paesi. Sono stati recentemente pubblicati due nuovi studi che affrontano l’impatto socioeconomico del progetto Conscius, nonché la trasferibilità in altri contesti. Iniziato nel 2018 nel Frusinate, Conscius vede come capofila il Dipartimento di salute mentale e patologie da dipendenza della Asl di Frosinone, in partenariato con il Garante dei detenuti del Lazio, e in partnership con il Centro nazionale studi e ricerche sul diritto della famiglia e dei minori e la Wwp (European network for the work with perpetrators of domestic violence), l’organizzazione internazionale che raggruppa 64 membri in 32 paesi, impegnati nel contrasto alla recidiva. Il progetto durerà fino a dicembre 2020, dopo un’estensione concessa dall’Unione europea che lo co-finanzia. Conscius introduce in ambito carcerario ed extra carcerario, un modello di trattamento e supporto, finalizzato alla riduzione della recidiva, integrando attività trattamentali, percorsi di rieducazione e reinserimento sociale nonché attività d’aggiornamento per operatori. Nelle attività di trattamento sono stati coinvolti inizialmente 42 sex offenders, di cui nove recidivi, e dodici colpevoli di maltrattamenti in famiglia, detenuti presso la casa circondariale di Cassino, mentre un servizio esterno è stato attivato presso l’Asl di Frosinone per perpetrators ex detenuti o sottoposti a misure alternative segnalati all’Asl dal Tribunale di Sorveglianza o dallo sportello antiviolenza presente presso la Procura di Frosinone. Attraverso le attività previste nel programma di trattamento specialistico, le relazioni di sostegno e la possibilità di sperimentare modalità di giustizia riparativa, gli autori di reato potranno acquisire strumenti concreti per la gestione del proprio comportamento ed un migliore controllo degli impulsi violenti. Napoli. Videochiamate vietate, il Dap ci ripensa dopo l’appello di Ciambriello di Viviana Lanza Il Riformista, 24 ottobre 2020 “Questa articolazione ha provveduto a rimettere al prudente apprezzamento della Direzione la ripresa delle comunicazioni in video, a mezzo applicativo web, nel rispetto delle cautele inerenti l’ordine e la sicurezza”. Fuori dal burocratese questo passaggio, contenuto in una lettera inviata dal Dap al garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, rappresenta uno spiraglio per la soluzione del caso dell’ergastolano A.G. al quale, da aprile, sono stati sospesi i colloqui attraverso videochiamate dopo una leggerezza commessa, non da lui ma dal fratello, durante un collegamento. Quale leggerezza? Durante la videochiamata autorizzata dalla direzione del carcere di Secondigliano, il fratello di A.G. ha inserito nella videocall anche la sorella e la mamma delle quali, in quell’occasione, non era prevista la presenza. Il fratello lo aveva fatto per tranquillizzare A.G. che, a causa della piena emergenza Covid, temeva per la salute dell’anziana madre e della sorella. Di qui la sospensione della telefonata e la sanzione: stop a tutti i colloqui. A.G. è siciliano e nel carcere di Secondigliano sta scontando una condanna definitiva all’ergastolo. Per un detenuto come lui, con la famiglia distante e senza la possibilità di poter sperare in una scarcerazione, le telefonate con i familiari sono l’unico ponte con la vita reale. Da quando è scattata la sanzione ad oggi sono trascorsi sei mesi. Da allora ad A.G. sono concesse soltanto le telefonate a numeri fissi e con la figlia, che ha solo il cellulare, non parla da aprile. In questi mesi ha anche atteso una risposta da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria a cui, sia di proprio pugno sia attraverso il proprio legale e l’associazione Yairaiha, ha chiesto di ripristinare il suo diritto alla videochiamate spiegando che l’errore era stato commesso dal fratello “senza alcuna intenzione disonesta”. A.G. ha raccontato di non aver capito, al momento dei fatti, che il fratello aveva attivato un collegamento video multiplo. “Non ho alcuna cognizione di come funzionano questi apparecchi telefonici - spiega - visto che sono recluso da 26 anni. Quando sono entrato in carcere si usavano i telefoni a gettoni”, scrive precisando come per lui la modernità si sia fermata al giorno in cui è entrato in cella. Il 14 ottobre scorso il Riformista ha raccontato la storia di A.G., il 15 ottobre il garante della Campania Ciambriello ha scritto al Dap: “È dal mese di aprile che, per un mero errore del fratello, al detenuto non è consentita alcuna videochiamata, neanche con la figlia. Credo che il diritto alla videochiamata sostitutiva del colloquio visivo sia un diritto inalienabile e non può essere una punizione sine die. È giusto punire per un errore commesso, ma non con il diniego della possibilità di vedere a mezzo video le persone care”. Inoltre, Ciambriello ha evidenziato che “il detenuto è in attesa di una risposta da diversi mesi e in questo senso già questi mesi di sospensione possono essere segnali di una afflizione già scontata”. Il Dap ha risposto il 20 ottobre e ha comunicato che la ripresa delle comunicazioni in video del detenuto è stata rimessa “al prudente apprezzamento della direzione del carcere”. Saluzzo (Cn). Laurearsi in carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 24 ottobre 2020 Nonostante l’emergenza Covid abbia bloccato o fortemente ridimensionato nei penitenziari le attività formative ed educative per evitare il diffondersi del contagio, il Polo Universitario del carcere torinese “Lorusso e Cutugno” non si è mai fermato. E in questi giorni, come accade negli altri Atenei cittadini, sono riprese le lezioni anche per gli studenti detenuti grazie alla didattica a distanza. Non solo. Il Polo Universitario torinese, il primo nato in Italia nel 1998 grazie a un protocollo d’intesa tra Università degli Studi di Torino, Tribunale di Sorveglianza e Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria, è in procinto di firmare per l’Anno Accademico 2020-21 una convenzione con il carcere di Saluzzo che ospita detenuti in regime di Alta Sicurezza con lunghe pene da scontare e che hanno richiesto di iscriversi ai corsi universitari, come anticipa Franco Prina, ordinario di Sociologia giuridica e della devianza, delegato del rettore dell’Ateneo Torinese per il Polo Universitario per studenti detenuti e presidente della Cnupp (Conferenza nazionale delegati poli universitari penitenziari). “Sono 13 i reclusi nel penitenziario di Saluzzo orientati ad iscriversi ai corsi di Diritto di impresa e Scienze dell’educazione ed altri 15 detenuti a Torino hanno chiesto di immatricolarsi. L’apertura di una succursale del Polo universitario torinese a Saluzzo”, prosegue il sociologo Prina, “è un segnale incoraggiante e che speriamo contagi altri reclusi per dare un senso al tempo della detenzione e un’opportunità di formazione e riscatto attraverso lo studio e la cultura”. All’inizio del 2020 erano 31 gli Atenei che, sull’esempio di Torino, sono presenti in vario modo in 82 istituti penitenziari italiani per un totale di 920 studenti detenuti immatricolati di cui 38 donne. Il Polo Universitario torinese, fin dalla sua origine, si avvale di un contributo annuale da parte della Fondazione Compagnia di San Paolo che sostiene gli studenti (libri, materiale didattico, tasse ecc.): nell’anno accademico 2019-20 erano iscritti 46 studenti (34 italiani, 10 stranieri di cui due donne). Tra i corsi scelti dagli studenti ristretti Scienze politiche e sociali (il più gettonato), Sociologia, Scienze internazionali, Diritto per imprese e istituzioni, Giurisprudenza, Matematica, Beni culturali. “Nonostante il lockdown della scorsa primavera”, prosegue il delegato del rettore, “anche senza essere presenti fi sicamente, grazie agli educatori siamo riusciti a proseguire le lezioni, i colloqui con docenti e tutor e gli esami a distanza: per ora abbiamo ripreso alcune lezioni anche in presenza, ci auguriamo di poter continuare”. Il professor Prina evidenzia come recentemente nel carcere di Napoli Secondigliano, in occasione dell’incontro del Cnupp con il ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis “abbiamo chiesto, come l’emergenza Covid sia l’occasione per potenziare la didattica on line nei Poli Universitari carcerari potenziando i collegamenti fra Atenei e Istituti di pena. Inoltre abbiamo chiesto al Dap (Dipartimento amministrazione carceraria) di migliorare le condizioni dell’edilizia dei Poli per studenti detenuti facendo in modo che l’Università in carcere diventi un sistema sempre più strutturato con linee guida che valgano per tutti gli Istituti: i Poli non devono più sentirsi ‘ospiti’ a seconda se la direzione sia sensibile o meno all’istruzione universitaria ma devono diventare una delle tante opportunità messe in campo nei penitenziari perché si realizzi l’applicazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione che sancisce che ‘Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato’”. Bari. Gli “occhiolini” prodotti dai detenuti minorenni: “Diamogli una seconda possibilità” cronachedigusto.it, 24 ottobre 2020 Dal 3 novembre 2020 su Kickstarter sarà lanciata la campagna di crowdfunding per il progetto “Occhiolini - Looking for a new life” di Mariagiulia Davide e Gabriele Narracci in collaborazione con Made in Carcere il social brand che si occupa di economia rigenerativa grazie al talento e alla generosità della sua fondatrice Luciana delle Donne. Gli “Occhiolini”, evocano un segno di intesa, uno strizzare l’occhio - non chiuderlo - a nuove possibilità. Dei taralli dolci realizzati con i migliori prodotti del territorio pugliese nati da un lungo lavoro di ricerca e sperimentazione che ha portato ad una ricetta inedita. Dall’occhiello - dell’Istituto Penale per i Minorenni di Bari diretto da Nicola Petruzzelli - si è aperta una nuova prospettiva che promuove il superamento dei confini tra dentro e fuori i luoghi di detenzione, e mira a rieducare attraverso la formazione questi giovani in difficoltà. Un fortuito incrocio di competenze diverse quelle di Mariagiulia e Gabriele - laureati in economia e con diverse esperienze di consulenza alle spalle - e quello di Luciana da sempre in prima linea per il benessere sociale. Il progetto “Occhiolini” concorrerà quindi a dare una nuova vita ai minori in stato di detenzione favorendone il reinserimento sociale attraverso l’esperienza del lavoro. Dopo 12 anni di attività, Luciana conferma quanto rilevato dalla statistica: l’80% delle persone che lavorano in carcere non vi tornano - un dato che esprime a pieno il benessere generato da progetti come questi per l’individuo e la collettività. Questo, per Mariagiulia e Gabriele, rappresenta il punto di partenza per un progetto più ampio e di respiro internazionale. Il progetto di Luciana delle Donne ha già dimostrato di poter diventare un modello di impresa sociale scalabile sia sul territorio nazionale che all’estero. Un progetto, dolce, che realizza più obiettivi attraverso un prodotto semplice e al contempo raffinato, in grado di conservare la tradizione e apportare innovazione stupendo il palato, ma un po’ anche noi stessi. Sorprendiamoci nell’osservarci in grado di sospendere i giudizi e sederci tutti alla stessa tavola che dovrebbe essere sempre una tavola imbandita di buon cibo e sentimento. Il progetto Occhiolini, ben oltre il prodotto, mira proprio a questo ricordarci la “Joie de Vivre”. Un’idea originale per i regali di natale è decidere di sostenere il progetto “Occhiolini - Looking for a new life” - gustare un buon prodotto e rendersi consapevoli che con un semplice gesto di solidarietà è stata donata una seconda opportunità a qualcuno che nel mondo, forse un giorno incontreremo, e sapremo riconoscerlo dalla lealtà del suo occhiolino. Le prime 24 ore della campagna saranno ricche di sorprese e gadget doppi per darvi un benvenuto speciale. E tu, cosa aspetti a farci l’occhiolino? Milano. “Salvato dalla musica. Ero un randagio: ho ritrovato fiducia” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 24 ottobre 2020 Vito, 18 anni: una prof mi ha fatto scoprire il talento: “Mio padre è in carcere, voglio sia orgoglioso di me”. “Cosa vuole dire il contatto diretto con una insegnante che ti sorride in classe e giorno dopo giorno ti convince che hai talento e che vale la pena studiare, io lo so...”. Vito di Lonardo è un ragazzone di Quarto Oggiaro: “Se in quel periodo delle scuole medie fosse capitata la didattica a distanza - prosegue - non credo mi avrebbero agganciato. Sarebbe stato tutto diverso”. Vito riavvolge il nastro della sua storia. Ha 18 anni, all’epoca ne aveva 13. “Bocciato, randagio e sbandato, mi facevo onore solo nel calcio”, ammette. Il padre da tanto tempo in carcere, la mamma grande lavoratrice con cinque figli cui badare. In seconda media incontra la nuova docente di musica della classe. “Arrivata la prof Patrizia Roca, è cambiato qualcosa. Andavo male in tutte le materie ma quando mi ha avvicinato al flauto, che non avevo mai suonato in tutti quegli anni, in pochi giorni ho ottenuto molto. Avevo risultati migliori degli altri. La prof - ricorda - mi faceva sedere sempre vicino a lei, me la cavavo benissimo anche con il pianoforte”. Ad un certo punto si era fissato che voleva iscriversi ad un progetto musicale pomeridiano che si svolgeva nella sua scuola, la Trilussa. Con enormi sacrifici la mamma, per il suo compleanno, gli regala una pianola e acconsente a iscriverlo al corso. Vito si fa conoscere subito, ha un incredibile talento. I maestri iniziano a dargli lezioni gratis e l’associazione Punto Luce, con le Acli e Save the Children, riesce a fargli avere una sorta di borsa di studio. Intanto, a 16 anni, Vito esordisce anche in serie A nel calcio a cinque. Pian piano recupera fiducia in sé stesso. Un giorno un esperto chiamato dal docente Giovanni Todaro gli porge un corno, strumento che il ragazzo non aveva mai visto, spiega due trucchi e semplicemente gli dice: “Suona”. Sembra una cosa incredibile, ma lui davvero suona. Restano tutti a bocca aperta. Lo aiutano a prepararsi all’esame per d’ammissione al Conservatorio: entra con 9,50, tra i migliori in assoluto. A 18 anni Vito di Lonardo è iscritto alla facoltà di Agraria e in contemporanea al Conservatorio. Non solo: gioca a calcio a cinque tra i giovani di serie C1. “Mio padre non lo vedo mai ma vorrei che sapesse, che mi dicesse ti voglio bene e sono contento di quello che fai - sorride. Lui è stato fortissimo come calciatore”. Nel minuscolo bilocale popolare dove vive con mamma e fratelli non apprezzano le sue esercitazioni, quindi per suonare va tutti i giorni in parrocchia. Agli amici che sottovalutano l’importanza delle lezioni in aula, dice: “La salute è fondamentale, ma anche l’istruzione è una priorità. Salva i cittadini dalla svogliatezza, dalla devianza, dalla rassegnazione e dalla paura”. Siena. Carcere di Santo Spirito: le voci dei detenuti attraverso la scrittura di Cecilia Marzotti sienanews.it, 24 ottobre 2020 Uno spiraglio e la volontà di rimettersi in gioco nonostante tutto. Parte da qui il desiderio di un gruppo di detenuti di Santo Spirito che stanno partecipando ad un ambizioso progetto che ha come obiettivo quello di avere una struttura per l’inserimento dopo la detenzione. Di questo avevano parlato con il vescovo e un libero professionista prima che il Covid bloccasse tutto e per questo cercavano appoggi con persone (commercianti, artigiani, studenti, responsabili di cooperative, eccetera) che del carcere non conoscono nulla e spesso ne hanno paura. Dallo scorso marzo tutto chiuso e poi lentamente il progetto è ripartito e naturalmente il gruppo è in parte cambiato e diminuito sensibilmente di numero per mantenere le dovute distanze durante gli incontri del sabato mattina. Non sarà più possibile guardare in faccia le persone che a suo tempo erano state invitate e allora come fare? La voce si può far sentire anche tramite la scrittura e così hanno scelto di affidare i loro desideri, speranze e aspirazioni alla carta e ad una penna. La prima persona a cui si sono rivolti è stato proprio il vescovo Augusto Paolo Lojudice. Una breve missiva nella quale ribadiscono quanto già gli era stato detto sette mesi fa. Un periodo lungo e lo diventa ancora di più per quanti sono in carcere e non possono abbracciare i loro familiari. I mezzi messi a disposizione dalla direzione di Santo Spirito hanno in parte alleviato la pesantezza e la tristezza di 210 giorni lontano da tutto e tutti, ma non è bastato. Nonostante le difficoltà il progetto inserito nella scrittura collettiva e i passi già fatti e quelli che verranno saranno raccontati in un diario. Uno spiraglio per toccare con mano il progetto, sì ambizioso, ma fattibile se quanti stanno oltre le sbarre lo volessero. Un sogno? A volte i sogni si possono avverare. Potenza. Nel carcere il teatro sperimenta cosa vuol dire andare “oltre i limiti” di Giuseppe Abbatepaolo* gnewsonline.it, 24 ottobre 2020 Il progetto “Teatro in carcere”, realizzato nella casa circondariale di Potenza, invita a riflettere sui limiti imposti dal carcere e dal tempo che stiamo vivendo. Che si tratti dei limiti insuperabili posti dalle mura di un istituto penitenziario che contengono e racchiudono oppure dei limiti psicologici dei detenuti desiderosi di inventarsi un “altrove” diverso e più accogliente oppure quelli di ognuno di noi quando pensiamo il carcere come un tabù, possono essere visti come un sottile gioco di specchi. Realizzato grazie alla collaborazione culturale e rieducativa tra la Compagnia Teatrale Petra diretta da Antonella Iallorenzi e la Direzione del carcere di Potenza rappresentata dalla direttrice Maria Rosaria Petraccone, il progetto convoglia in un unico momento creativo ed emozionale il teatro, il carcere e la società civile, per proporre una visione ‘altra’ della tradizionale concezione detentiva, non più luogo di vergogna e privazioni ma contesto in rado di promuovere nuove forme di conoscenza, di riscatto e di incontro. Lo spettacolo-saggio dei detenuti del laboratorio diretto da Philippe Barbut in programma oggi nella sala teatro del penitenziario di Potenza si interroga su questi temi, al centro ora più che mai di accesi confronti e dibattiti pubblici, proponendo un originale mix tra esperienza teatrale vissuta e partecipazione della comunità esterna. Contemporaneamente, infatti, gli interpreti potranno “uscire all’esterno” attraverso la proiezione dello spettacolo, in diretta streaming, sulle mura esterne del carcere. E allora il gioco di riflessi diventa ancora più coinvolgente, sollecitando a pensare il superamento dei confini e delle barriere che separano i due mondi, quello “normale” e quello “penitenziario”, e invitando lo spettatore a varcare la soglia del carcere senza timori e pregiudizi. Petraccone si è dichiarata entusiasta dell’evento: “Riprendo le stesse parole della compagnia teatrale e lo ritengo un evento doppiamente speciale perché da un lato è un modo per dare concretezza all’azione di superamento del limite rappresentato dalle mura del carcere e dall’altro è un modo per affrontare e vincere i timori e le limitazioni di questo tempo di emergenza sanitaria”. La direttrice che, con un certo orgoglio, ha sottolineato la capacità di riuscire a fare squadra e realizzare eventi di tale portata, ha ringraziato la Compagnia Teatrale Petra per l’impegno profuso nel progetto, reso possibile grazie anche e soprattutto alla collaborazione fattiva del personale del Corpo di Polizia Penitenziaria, al personale dell’area educativa e a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione dell’evento. *Referente della Comunicazione del Prap Puglia e Basilicata “Quello che non ti dicono”, di Mario Calabresi recensione di Stefano Cappellini La Repubblica, 24 ottobre 2020 Quando ho saputo il titolo del nuovo libro di Mario Calabresi, “Quello che non ti dicono”, lì per lì ho pensato potesse essere un lavoro sull’informazione, sulle fake news, cronache sul rapporto sempre più diffidente tra politica, giornalismo e opinione pubblica. È stato un pensiero istintivo, perché quell’espressione e molte altre affini (quello che sai è falso, quello che nessun giornale ti farà mai sapere, e via così) sono da anni utilizzate dalla sedicente controinformazione per spacciare “verità alternative”, cioè quasi sempre bufale complottistiche, deliri dietrologici, in una spirale paranoide che ormai è in grado di sfidare e talvolta prevalere sull’evidenza dei fatti. Invece il titolo non ha nulla a che fare con tutto ciò. O meglio, non nel senso in cui pensavo. Ma ci arriverò. Quello che non ti dicono è, nel libro, la frase che esprime il rammarico per la rimozione privata di una tragedia: a pronunciarla è una figlia che non ha potuto conoscere il padre né avere di questa mancanza una spiegazione più soddisfacente di silenzi e mezze parole. Una vicenda familiare avvolta da un lutto soffocato e omertoso cui i sopravvissuti si sono adeguati per paura, imbarazzo, inerzia. Una vicenda che però, al tempo stesso, è tutt’altro che privata: nasce e ruota intorno a un fatto pubblico, un dimenticato episodio di cronaca nera politica degli anni Settanta: il sequestro e l’uccisione del ventiseienne Carlo Saronio. In pochi oggi ricordano o conoscono la vicenda. Essendo nato nel 1974, un anno prima dei fatti che portarono alla morte di Saronio, scoprii per la prima volta la sua storia in un libro di Giampaolo Pansa, “L’utopia armata”, che lessi da ragazzino nell’edizione Oscar Mondadori (Sperling lo ha rieditato qualche anno fa). Mi colpì subito moltissimo il fatto, che era quasi incredibile. Saronio era figlio di un importante industriale della chimica, ai primi posti nella classifica dei contribuenti milanesi. Lui stesso si era laureato in Ingegneria chimica ed era un brillante ricercatore. Ma il ragazzo, intelligente e inquieto, dopo aver frequentato il mondo dei cattolici del dissenso, era diventato un militante di Potere operaio, uno dei principali gruppi comunisti extraparlamentari nati sull’onda del Sessantotto. Tra i suoi contatti più stretti in quel mondo c’era tale Carlo Fioroni, detto il professorino, un po’ per via della professione reale e molto di più per la saccenza dei modi. Fioroni non era un militante qualunque. A lui era intestata l’assicurazione del furgoncino con il quale nel 1972 l’editore e rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli si era recato sotto un traliccio dell’alta tensione a Segrate, rimanendo dilaniato dallo scoppio prematuro dell’ordigno che avrebbe dovuto provocare un black out. Il miliardario Feltrinelli, nome di battaglia Osvaldo, era un terrorista dei Gap, “Gruppi di azione partigiana”, ed era in contatto stretto con altre formazioni dell’ultrasinistra. Soprattutto “Potere operaio” che a Feltrinelli, strappato dalla morte il velo sulla sua militanza clandestina, dedicherà la copertina del giornale omonimo: “Un rivoluzionario è caduto”. Dopo lo scioglimento di Potere operaio Saronio e Fioroni avevano continuato a militare in quella che si chiamava all’epoca area dell’Autonomia, una galassia di collettivi, sigle e giornali che nel loro caso faceva capo soprattutto al magistero di Toni Negri, professore all’università di Padova, già dirigente e ideologo di Pot. Op. Fu proprio l’amico e compagno Fioroni a ideare il sequestro di Saronio per finanziare l’attività clandestina del suo gruppetto. All’epoca il sequestro di persona era uno dei principali canali di finanziamento delle bande criminali. I sequestri, in tutto il Paese, si contavano a centinaia l’anno. Perché non usare il metodo anche per la causa rivoluzionaria? Per realizzare l’opera, Fioroni si servì della manovalanza di un gruppo di criminali comuni che all’epoca flirtavano con la sovversione. Saronio fu dunque sequestrato da un gruppo misto di banditi e terroristi, questi ultimi suoi compagni di militanza fino a un attimo prima del ratto. Saronio morì, secondo una delle molte versioni poi fornite dagli assassini, la più attendibile e comunque quella poi accreditata in sede di verità giudiziaria, la sera stessa del sequestro, perché nel tentativo di sedarlo fu usato uno straccio imbevuto di una sostanza tossica, il toluolo, che gli provocò una grave reazione. Nonostante la morte dell’ostaggio, i rapitori si fecero avanti per il riscatto. La prima richiesta alla famiglia fu di 5 miliardi di lire. Quella finale, pagata con una valigia di contanti lasciata sul bordo di una strada di provincia, 470 milioni. Saronio, nel frattempo, era già sotto terra. In un campo del milanese adiacente a un canale dove verrà ritrovato, quel che ne rimaneva, quattro anni dopo il sequestro, nel 1979, quando il capo dei criminali complici di Fioroni, Carlo Casirati, porterà gli inquirenti sul luogo del sotterramento simulando uno dei tanti dubbi pentimenti di cui è costellata l’indagine sull’omicidio. Il caso Saronio è un pugno nello stomaco. Una storia che eccelle in spregevolezza persino in un contesto come quello dei Settanta, ricco di atrocità. E a renderla ancora più tragica ha contribuito per anni una ricostruzione alternativa, molto accreditata all’epoca negli ambienti dell’ultrasinistra, che lo stesso Pansa cita senza peraltro sposarla, e cioè che Saronio potesse essere d’accordo con i suoi rapitori, che si fosse prestato al sequestro per estorcere alla famiglia denaro di cui, altrimenti, non avrebbe avuto disponibilità. Solo un incidente imprevisto, insomma, la garza col toluolo, avrebbe impedito la realizzazione di un piano di cui il ragazzo era pienamente complice. La ricostruzione di Calabresi smentisce nettamente questa ipotesi. Anzi, la capovolge di netto. Le testimonianze da lui raccolte suggeriscono che Saronio sia stato rapito anche perché intenzionato ad allontanarsi dal gruppo, di cui era già generoso finanziatore (nella trama spicca il racconto del furto della sua Porsche, lui giovane extraparlamentare ma amante delle auto sportive, furto che secondo un amico di Saronio rintracciato da Calabresi fu tutt’altro che casuale e imprevisto). Ma la scintilla che accende il racconto di “Quello che non ti dicono” è un’altra. Pur avendo letto molti libri che toccavano la storia ignoravo, credo in larga compagnia, un particolare sconvolgente. La fidanzata di Saronio, Silvia, era incinta di un mese quando lui fu rapito e ucciso. Silvia partorì una bambina il giorno della vigilia di Natale del 1975. La chiamò Marta e dopo qualche anno riuscì anche a darle il cognome del padre, il quale era morto senza neanche sapere che stava per diventarlo. Il motore narrativo è proprio un incontro di Calabresi con Marta e con suo zio Piero, prete missionario e cugino di Saronio (figlio della sorella della madre). Sono loro i mandanti dichiarati dell’indagine di Calabresi, decisi a spazzare via la coltre di omertà familiare e oblio collettivo sulla tragedia. Entriamo tutti così in un’altra città sommersa, dopo quella del bellissimo libro di Marta Barone di cui abbiamo parlato qualche tempo fa su Hanno tutti ragione. Un’altra indagine sui padri. I corpi del passato si muovono tra la residenza borghese della famiglia Saronio in corso Venezia a Milano e i palazzoni di Quarto Oggiaro, dove il giovanissimo Carlo va a fare azione sociale. Riemergono preti rivoluzionari, animati dallo spirito della teologia della liberazione cara ai vescovi sudamericani, agit prop, sbandati, missionari delle periferie, aspiranti tupamaros, i guerriglieri uruguayani che molti volevano imitare tra le brume del milanese, modello dichiarato anche dei primi brigatisti rossi. E non sempre, anzi quasi mai, c’è una cesura netta tra un mondo e l’altro, tra una figura e l’altra. È questo l’impasto di umanità varia nel quale Saronio si getta per convinzione ma anche, forse, nel tentativo di espiare la sua colpa atavica, la ricchezza di famiglia. Accumulata anche grazie al collateralismo del padre con il regime fascista che si servì delle produzioni dei Saronio per la sciagurata impresa etiope nella quale l’esercito italiano usò sul campo armi chimiche. L’espiazione è probabilmente il sentimento che cementava le due anime di Saronio, quella evangelica e quella extraparlamentare, ed era potente in lui fin dall’adolescenza, come testimonia la lettera di una sua professoressa, una delle tante missive private cui Calabresi ha avuto accesso grazie al patto con questo ramo fin qui ignoto della famiglia Saronio. È angosciante, ripensando alla formazione cattolica di Carlo, il senso di condanna al sacrificio che pervade la sua breve vita, la traiettoria ineluttabile disegnata per lui dalle scelte personali e dalla congerie storica: un ragazzo che certo non voleva morire e che però ha di fatto costruito passo dopo passo la più crudele e geometrica delle immolazioni. Quello che non ti dicono, il rimosso familiare, si rivela il rimosso più sociale che possa esistere. C’è in quel ragazzo inghiottito dalla storia tutto il dolore e il senso di inadeguatezza e lo smarrimento e persino l’innocenza che animava il suo tentativo di trovare un posto nel mondo, in quella società degli uomini e delle donne che può essere salvezza o martirio o tutti e due insieme. Nel caso di Saronio, un tentativo disperato, destinato a lasciare dopo di lui una vita, quella della figlia, condannata a rivivere in modo ancora più crudele la rottura generazionale, la soluzione di continuità tra padri e figli che già aveva spezzato una volta i legami di famiglia di casa Saronio. Una questione privata? Neanche per idea. Ed è a questo punto che ho pensato, dopo aver finito il libro, che in fondo quel pensiero istintivo e fuorviante sul titolo conteneva una suggestione utile a proiettare la storia di Saronio nel nostro tempo, i suoi tormenti novecenteschi nell’era digitale. Spesso è proprio la difficoltà a fare i conti con quel grumo di sofferenza esistenziale e con le sue conseguenze a giustificare molte delle azioni con cui scegliamo di stare al mondo. Fare i conti, intendo, non solo a livello personale ma anche quando venirne a capo presuppone uno sforzo di memoria collettiva e condivisa che in questo caso è proprio il terreno che manca. Gli anni Settanta, con il loro carico di vita e morte, ne sono un esempio massimo. Molti di coloro che li hanno vissuti intensamente hanno scelto di uscirne bruscamente, come da una sala cinematografica nella quale non si vuole più mettere piede ma ripromettendosi di non esprimere mai un giudizio sul film. Le reticenze su quegli anni, l’omertà, i vincoli di lealtà o di assoluzione degli ideali giovanili sono sopravvissuti anche alla morte dei corpi e delle vecchie idee. A parlare sono rimasti spesso solo gli acritici esaltatori, una cadente genìa di dannunziani fuori tempo massimo, o i pentiti in senso giudizario, quasi mai coincidenti con i pentiti in senso morale. Pentiti come Fioroni, ispiratore con le sue dichiarazioni di più indagini e processi, compreso il famigerato teorema Calogero che il 7 aprile 1979 portò all’arresto di Negri e dei vertici dell’Autonomia, certo responsabili di molti reati ma accusati (senza alcun fondamento) di essere i capi occulti delle Br. Lo stesso Fioroni, uscito dal carcere grazie ai benefici per i collaboratori di giustizia nel 1982. Sette anni dopo aver messo Saronio nelle mani dei suoi aguzzini. Un personaggio così piccino e ambiguo, sia prima che dopo, da non meritare nemmeno la mano tesa di Piero, il cugino prete di Saronio, che sceglie di incontrarlo ma, racconta Calabresi, esce talmente deluso e amareggiato dalla pochezza del personaggio da rinunciare definitivamente allo slancio di riconciliazione. Il complottismo che avvelena il nostro tempo disilluso è figlio anche della scorciatoia che per primi imboccarono molti reduci di quella guerra, delle migliaia di diserzioni individuali rispetto alla ricerca di un nuovo percorso comune. Ognuno perso dentro ai fatti suoi, esattamente come quarant’anni fa pareva obbligatorio il contrario, perdersi nei fatti degli altri, imboccare un senso unico ideologico anche quando - come nel caso Saronio - annullava ogni confine tra bene e male, vittima e carnefice. I tempi sono cambiati, e quanto, ma il disagio, il risentimento hanno solo cambiato strada e si sono dispersi in mille rivoli velenosi. Finito il tempo dei dogmi e della teleologia rivoluzionaria, a tanti è rimasto solo di affidare a teorie e tesi, le più bizzarre, il compito di darsi una risposta sul proprio posto in società, specie quando è sgradito. Come lo era a Saronio, che aveva trovato scampo dal tormento per il suo privilegio di censo nella teologia che gli offriva il suo tempo selvaggio: la rivoluzione. Oggi lo scampo è offerto da tante piccole pseudo-dottrine, pillole omeopatiche del nulla per un unico effetto placebo: la comodità e la rassicurazione di pensare che quel che ci è toccato in sorte sia il disegno di una qualche entità misteriosa e ostile. Un grande censore che reprime e nasconde, mistifica e confonde. Quello che sai è falso. Quello che non ti dicono (il governo, il potere, i media, le multinazionali). Eppure quello che non ci è stato detto quasi sempre avevamo bisogno di sentirlo dalle persone a noi più vicine. E non sono state capaci loro di dircelo. E non siamo stati capaci noi di chiederlo. Il mondo costruito da ognuno di noi - la politica, il lavoro, gli affetti, in una parola: la società - è prima di ogni altra cosa il regalo di quel non detto. Accorgersi quantomeno di dover scartare quel regalo è l’unico modo di provare a trovare un filo. Carlo non ha fatto in tempo ad acciuffarlo. Marta l’avrà trovato con questo libro, speriamo. Gli inutili conflitti di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 24 ottobre 2020 Siamo in una sorta di federalismo di fatto, ma senza regole, dove spesso prevale il più forte. Non in termini di capacità progettuale o operativa ma di peso politico. Di fronte ad una pandemia che si diffonde nel Paese in maniera non uniforme, è Di fronte ad una pandemia che si diffonde nel Paese in maniera non uniforme, è evidente la necessità di misure di prevenzione e cura mirate, pertanto la cooperazione tra Stato, Regioni e Comuni è indispensabile. Lo scenario più efficace dovrebbe prevedere misure specifiche e circoscritte, inserite tuttavia in contesto solido di visione e coordinamento nazionale. Di fronte all’emergenza estrema che stiamo affrontando, continuiamo invece ad assistere ad un confuso e persistente conflitto istituzionale e scarico di responsabilità. Le Regioni conoscono i problemi del loro territorio, e se valutano di isolare una zona, la decisione non può essere presa autonomamente, perché quella zona poi la devi cinturare, e le forze di polizia le dispone il prefetto, che risponde al Ministro dell’Interno. Le questioni sono strettamente connesse alla salute pubblica, e in sanità la competenza è delle Regioni. Vuol dire che devono provvedere al buon funzionamento degli ospedali, incrementare la medicina del territorio, organizzare con i comuni il trasporto pubblico in sicurezza, individuare tempestivamente i focolai, provvedere al tracciamento dei contagi. Ma ci sono misure che coinvolgono anche la sicurezza pubblica, e le Regioni non hanno forze di polizia. Da qui i conflitti, e il consueto scaricabarile. Siamo in una sorta di federalismo di fatto, ma senza regole, dove spesso prevale il più forte. Non in termini di capacità progettuale o operativa ma di peso politico. L’esempio più emblematico è quello della scuola. La competenza è nazionale. Nella prima fase dell’epidemia il presidente delle Marche Ceriscioli decide autonomamente di chiuderle. Ceriscioli è in uscita, si sa già che non sarà ricandidato, il governo impugna il provvedimento, e vince. Le scuole riaprono, per essere richiuse qualche giorno dopo, e in tutta Italia, con un provvedimento governativo. Seconda ondata: De Luca, rieletto trionfalmente a settembre, la scorsa settimana chiude le scuole. Il governo ha fatto un attacco durissimo a De Luca, il ministro Azzolina ha usato parole che rasentano il disprezzo, ma non impugna. Tema immigrazione: la competenza è nazionale. Nel mese di giugno Musumeci dirama una direttiva ai prefetti siciliani (non potrebbe farlo senza averlo prima concordato con il Ministro dell’Interno) intimando loro di procedere ad una distribuzione dei migranti giunti in Sicilia sull’intero territorio nazionale. Il governo fa finta di niente e non impugna. È tuttavia costretto a farlo quando lo stesso Musumeci ordina la chiusura dei centri d’accoglienza in Sicilia. Vince al Tar, e a quel punto vengono fatte le navi quarantena per liberare Lampedusa dal sovraccarico. Tema chiusura dei confini regionali: non essendo l’Italia uno Stato confederale non ci sono confini da chiudere. Ed in ogni caso la limitazione della libertà di movimento, in situazioni di ultima emergenza, spetta allo Stato nazionale, non ai presidenti di regione poiché ci vuole un’attività di polizia per cui le Regioni non hanno le competenze nè i mezzi. E qui viene la questione del controllo del territorio. L’ ultimo dpcm delega ai sindaci la chiusura di zone delle città ritenute preoccupanti per la diffusione della pandemia. Giustamente chi meglio di loro sa dove si annidano i focolai? Quindi possono fare le ordinanze, mandare i vigili a chiudere le piazze con le transenne, ma è poco più di un’operazione di facciata perché per rendere efficace il controllo occorre un altro calibro di forza, e la competenza non è nè regionale nè comunale. Il Sindaco può partecipare al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, ma la responsabilità esclusiva è del prefetto e quindi dello Stato nazionale. Per la precisione il ministro dell’interno è Autorità Nazionale di Pubblica Sicurezza. Nessun altro lo è. Nemmeno il Presidente del Consiglio. Eppure il ministro dell’Interno non fa parte di alcuna cabina di regia governativa sulle misure anti Covid. Né di quella con i poteri legali, nè quella dei cosiddetti capi delegazione. Per il contenimento del Covid è stato istituito un Comitato Tecnico Scientifico che fa le proposte, ma poi si attuano quelle a cui i partiti danno il via libera. Il ministro Lamorgese è l’unico ministro tecnico, che non rappresenta un partito, e per questo tenuta fuori dalle decisioni e consultazioni. Ora, con le tensioni esplose, Lamorgese si è impegnata - di sua iniziativa - ad aprire un canale con gli enti locali. Sarebbe stato opportuno coinvolgerla prima di firmare il Dcpm. Sta di fatto che il governo non si assume la responsabilità di fare misure restrittive perché sono impopolari, delegando gli enti locali, che sono anatre zoppe. Così si alza la tensione fra Presidenti di Regione e i sindaci, fra Fontana e la Azzolina. Addirittura il presidente della Campania chiede il lockdown nazionale. Per arrivare al paradosso del sindaco di Borgosesia che ha deciso di denunciare chi denuncia gli assembramenti. Un quadro di caos istituzionale dove nessuno fa ciò che gli compete e di cui il Paese ha bisogno, mentre i contagi si impennano e ancora non si capisce perché sia così complicato fare i test rapidi, già disponibili da mesi e autorizzati dal Ministro Speranza. Scuola, ultima a riaprire e prima a richiudere di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 24 ottobre 2020 La didattica a distanza introdotta da molte regioni. Continua il caos politico tra il governo e le regioni che procedono in ordine sparso senza coordinamento né visione generale. Il criterio lo ha dettato il governatore lombardo Fontana: “O riduciamo la gente che va al lavoro o la gente che va a scuola”. La protesta degli studenti: “Scontiamo il fallimento della riapertura”. Mentre il presidente del Consiglio Conte ribadiva che “bisogna evitare la chiusura delle scuole” ieri i governatori delle regioni procedevano in ordine sparso introducendo la didattica a distanza nelle superiori. Nella Campania del “lockdown” totale le scuole sono già chiuse e non riapriranno dopo il 30 ottobre. In Lombardia tutte le superiori sono state messe in didattica a distanza. Così faranno le Marche. In Liguria da lunedì saranno online al 50%, così si farà per le seconde fino alle quinte in Piemonte e nel Lazio. In Puglia la “Dad” riguarderà le ultime tre classi delle secondarie dal 26 ottobre al 13 novembre. Con la curva epidemiologica in crescita potrebbero non essere le ultime decisioni. Ad oggi nessuno intende prendersi la responsabilità del fallimento della riapertura presentata come un successo. La mancanza di una visione d’insieme ha portato a un caotico gioco delle parti con le regioni, in particolare sul nodo dei trasporti e delle entrate scaglionate in classe. Le decisioni prese in queste ore sono ispirate all’alternativa stabilita dal governatore lombardo Fontana: “Dobbiamo cercare di ridurre l’affollamento e le ipotesi sono due: o riduciamo la gente che va al lavoro o la gente che va a scuola”. Come se la scuola non fosse anche un luogo di lavoro. Il criterio è chiaro: la produzione va avanti a costo della salute. C’è poi il problema politico su chi decide in uno stato di emergenza e si assume le responsabilità politiche sia della programmazione, sia dei suoi fallimenti. Il governo non ha fatto né l’uno, né l’altro e oggi assiste alle fughe in avanti delle regioni che dimezzano le attività di un luogo relativamente sicuro, mentre lasciano aperti gli altri dove presumibilmente i contagi da Covid avvengono molto più spesso. Gli studenti ieri sono tornati in piazza e hanno organizzato presidi e flash mob di protesta in molte città. “Il problema del contagio non sono le scuole, ma come è stata organizzata la riapertura - ha detto Alessandro Personè dell’Unione degli Studenti - Durante i mesi estivi non si è lavorato abbastanza per potenziare le corse dei trasporti, costruire nuove aule contro le classi pollaio e garantire l’organico necessario. Ora stiamo scontando un piano di riapertura che non ha dato risposte ai problemi che ogni giorno stiamo vivendo”. La scuola è stata l’ultima a riaprire a settembre, dopo mesi di didattica online, e la prima ad avviarsi verso la chiusura. Gli ultimi 40 giorni di attività didattica sono passati già in alternanza scuola-schermo con carenze di organici e spazi, “senza programmare le lezioni, dosare i programmi, pensare oltre la singola lezione” racconta il movimento “Priorità alla scuola”. Covid, guerriglia a Napoli nella prima notte di coprifuoco di Antonio Piedimonte La Stampa, 24 ottobre 2020 Lanciati fumogeni e bombe carta contro le forze dell’ordine e contro la sede della Regione. Coprifuoco alle 23 e lockdown paventato: è bastato questo a far esplodere la violenza nelle strade di Napoli. Ore di scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, giornalisti aggrediti e feriti, lancio di bottiglie, pietre e bombe carte su poliziotti e carabinieri, cassonetti incendiati. Per la prima volta in Italia l’insofferenza verso i provvedimenti presi per fronteggiare la pandemia si è fatta durissima protesta di piazza. Già emerse nei giorni scorsi, ma in forma civile, le tensioni sono esplose sino a diventare guerriglia nella zona di Santa Lucia, a pochi passi dalla sede della Regione Campania, che, benché vuota (data l’ora) era diventata l’obiettivo principe dopo l’ultimo intervento televisivo del governatore Vincenzo De Luca, che ha preannunciato un blocco totale di 40 giorni. Coprifuoco, notte di guerriglia a Napoli: proteste contro De Luca - Composto da alcune centinaia di persone - in maggioranza giovani commercianti, ristoratori e altri lavoratori del by night (ma non solo) - il corteo si era mosso dalle piazzette del centro antico, a ridosso dell’università “L’Orientale” (uno dei luoghi della movida), dietro uno striscione che recitava “La salute prima cosa ma senza soldi non si cantano messe”. I primi a finire nel mirino sono stati i vigili urbani, le cui auto imbottigliate nei vicoli sono state vandalizzate con la vernice spray. Le fila dei dimostranti, che alternavano appelli alla “libertà” ad insulti rivolti ai rappresentanti del governo regionale, si sono ingrossate man mano che la protesta si è spostata verso il Lungomare, e agli operatori commerciali si sono aggiunti gruppi di violenti, alcuni di quali legati al tifo organizzato. Il clima è dunque mutato rapidamente, gli slogan si sono incattiviti e anche gli atteggiamenti. A farne le spese diversi cronisti, a cominciare dai reporter di Rai News e di Sky tg24 (il collega Paolo Fratter è stato colpito e sbattuto sul cofano di un’auto), altri sono stati allontanati. Covid, a Napoli in migliaia in corteo contro coprifuoco e lockdown - Quando i manifestanti sono arrivati vicino alla Regione è cominciato l’assalto a polizia e carabinieri con un fitto lancio di oggetti, fumogeni e petardi (che dimostrano la premeditazione). La rabbia feroce espressa dai tanti facinorosi - peraltro, manco a dirlo, sprovvisti di mascherine - e le fiamme sprigionate dai roghi dei contenitori dell’immondizia hanno evocato scenari da anni di piombo e hanno fatto prendere posizione ad alcuni degli organizzatori, che non avevano in mente una protesta violenta. Hanno preso le distanze dai (non pochi) teppisti, giunti anche in scooter. Ma come si può vedere anche nei video girati durante gli scontri, la dissociazione dei commercianti ha scatenato nuove, brusche diatribe. Grande professionalità e sangue freddo hanno dimostrato gli uomini in divisa, che erano ovviamente in assetto antisommossa, i quali hanno contenuto l’aggressione limitandosi a cariche di alleggerimento e al lancio di lacrimogeni, evitando così che il bilancio dei danni si potesse estendere anche alle persone. Le violenze si sono fermate solo dopo la mezzanotte (dunque molto dopo il coprifuoco anti Covid). Scatta il coprifuoco in Campania, violenti scontri a Napoli - Indignato e fermo il commento del questore Alessandro Giuliano: “Questa sera abbiamo assistito a veri e propri comportamenti criminali verso le forze dell’ordine. Nessuna condizione di disagio, per quanto umanamente comprensibile, può in alcun modo giustificare la violenza”. La preoccupazione, peraltro già emersa più volte nelle scorse settimane, è che a Napoli come in altre zone del Paese la disperazione provocata dalla crisi economica possa far alzare ancora il già alto livello di tensione sociale. Libia. Tregua vera tra Tripoli e Bengasi. L’unico scontento è Erdogan di Roberto Prinzi Il Manifesto, 24 ottobre 2020 Raggiunto l’accordo tra le due parti: entro tre mesi ritiro dei gruppi armati e allontanamento delle truppe straniere (comprese quelle turche). A suggellare il cessate il fuoco il primo aereo civile che ieri ha volato dalla Tripolitania alla Cirenaica. Cauti gli analisti. La notizia era nell’aria da giorni, ma solo ieri è diventata ufficiale: il Governo di Accordo nazionale (Gna) di Tripoli e l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) del generale Haftar hanno raggiunto un “accordo di cessate il fuoco permanente”. L’intesa, siglata a Ginevra dal Comitato militare congiunto 5+5 (cinque rappresentanti del Gna e cinque dell’Enl) grazie alla mediazione della Missione dell’Onu in Libia (Unsmil), chiarisce però che lo stop ai combattimenti non si applicherà ai gruppi terroristici designati dall’Onu (Stato Islamico e al-Qaeda). A dare per prima la notizia del cessate il fuoco è stata ieri mattina l’Unsmil sui social: “È un accordo storico - scrive - che segna una svolta importante verso il raggiungimento della pace e della stabilità in Libia”. Se “svolta” è parola assai impegnativa, sicuramente quanto raggiunto nella città svizzera conferma che l’avvicinamento tra Tripolitania e Cirenaica è qualcosa di tangibile, non solo propaganda politica. Il primo segnale distensivo è avvenuto nella stessa giornata di ieri quando un aereo passeggeri è volato da Tripoli nella “nemica” Bengasi per la prima volta in più di un anno. La bozza finale del testo - firmata non dai principali protagonisti del Gna e dell’Enl ma comunque da “personaggi autorizzati” dei due schieramenti - è divisa in due parti: principi generali (in cinque punti) e termini dell’accordo (in dodici). Nella prima sezione si sottolinea “l’integrità territoriale libica” e “la lotta comune al terrorismo”. Più complessa invece la seconda parte in cui si parla di “cessate il fuoco immediato” che prevedrà “entro tre mesi dalla firma dell’intesa” il ritiro dei gruppi armati da tutte le “aree di scontro”. Ma soprattutto si precisa che “tutti i mercenari e i combattenti stranieri devono lasciare i territori libici” e che “fin quando un nuovo governo unificato non assumerà le sue funzioni” gli accordi militari sull’addestramento “saranno sospesi e le squadre di addestramento dovranno andare via”. Il riferimento è soprattutto alla Turchia attiva in Tripolitania per formare le forze alleate del Gna e che solo l’altro giorno annunciava il controllo della Guardia Costiera locale. Le parti si impegnano poi a “fermare l’incitamento all’odio mediatico”, a porre fine agli “arresti politici” e ad aprire le strade e lo spazio aereo come già previsto negli incontri di Hurghada (Egitto) di fine settembre. L’obiettivo è anche aumentare la produzione di petrolio attualmente vicina a 500mila barili al giorno, ancora lontana dal potenziale di 1,2 milioni. La notizia dell’accordo è stata accolta favorevolmente da tutta la comunità internazionale. Se la Germania ha parlato di “primo raggio di speranza dopo tanto tempo”, l’Ue ha detto che l’accordo “è molto importante per la ripresa dei negoziati politici”. Soddisfazione è stata espressa anche dal segretario della Nato Stolenberg che ha invitato però le parti ora a rispettarlo. Per Di Maio, invece, quella di ieri è stata “una giornata importante anche per l’Italia e l’intero Mediterraneo”. Unica voce fuori dal coro è stata quella del presidente turco Erdogan che l’ha definita “un’intesa non al massimo livello”. Al “sultano” non sarà piaciuto quel passaggio sulla fine degli addestramenti da parte degli stranieri che potrebbe rappresentare un pericolo per gli interessi turchi nel Nord Africa. Predicano cautela però anche diversi analisti. Il direttore della rivista The International Interest, Sami Hamdi, ha infatti osservato come qualcosa di simile l’Onu l’ha raggiunto anche in Yemen con gli accordi di Stoccolma tra Houthi e governo di Aden. Alle strette di mano seguirono poco dopo di nuovo le violenze. La Nigeria crede nei “mercanti della speranza” di Michele Farina Corriere della Sera, 24 ottobre 2020 La “Coalizione Femminista” dice ai giovani: non cadete nella trappola di chi vuole trasformarvi in nemici o martiri. Voi servite più da vivi che da morti. “Siamo mercanti di speranza”, e per questo “vi chiediamo di rispettare il coprifuoco e le indicazioni delle autorità”. Il messaggio della Feminist Coalition è rivolto ai giovani nigeriani che in questi giorni con coraggio e determinazione hanno raggiunto due straordinari obiettivi: mettere sulla difensiva un governo abituato a infischiarsene brutalmente dei cittadini. E indurre il mondo distratto a curarsi di quanto avviene in un “angolo” di un continente considerato marginale. Nelle ultime due settimane la Nigeria è stata teatro di una protesta pacifica, nella quale la Feminist Coalition ha avuto un ruolo trainante: giovani scesi in piazza per chiedere lo smantellamento della famigerata Sars, un corpo speciale della polizia che anziché proteggere i cittadini li taglieggia con ferocia e impunità. Martedì notte forze di sicurezza hanno compiuto una strage tra i manifestanti inermi. Gruppi di picchiatori al soldo della polizia avevano preparato il terreno assaltando negozi e centri commerciali, per giustificare l’idea di una protesta violenta. Amnesty International accusa il governo della morte di almeno 12 persone. Chi pensava di chiudere la partita nel sangue si è dovuto ricredere. Alla fine è dovuto intervenire pure il presidente, l’ineffabile Muhammadu Buhari, che pur incredibilmente (e vergognosamente) non ha citato i ragazzi uccisi nel buio di Lagos. Ma già il fatto che abbia parlato è segno di debolezza. In questo gioco di specchi e di eco, l’appello della “Coalizione Femminista” dice ai giovani: non cadete nella trappola di chi vuole trasformarvi in nemici o martiri. Voi servite più da vivi che da morti. Rispettate il coprifuoco. L’idea dei mercanti di speranza ben si addice a un Paese (un continente) dove il commercio anche spicciolo è in ogni angolo di strada, in ogni sogno. Commercio di cose e di ideali. Essere “mercanti di speranza”: un obiettivo che vale per tutti.