Discariche sociali: ecco le nostre carceri di Gioacchino Criaco Il Riformista, 23 ottobre 2020 Troppe violazioni minime che portano in cella, detenzioni estenuanti e leggi confuse sulla droga. Così il sistema ci costa tantissimo: serve più prevenzione. Per spiegare davvero cosa sia il carcere, uno dovrebbe essersi fatto un po’ di galera, sul serio non come succede per finta nei film americani. Ma poi nemmeno questo basterebbe, perché ognuno tenderebbe a raccontare le proprie prigioni, con troppi elementi personali e pochi di carattere e utilità generale. Stefano Natoli conosce il carcere perché ci entra da volontario, ha 25 di esperienza giornalistica, è membro di Nessuno Tocchi Caino, quello che gli manca come esperienza di sofferenza personale è sostituito da una conoscenza profonda di uomini, luoghi, dati. Ha scritto un libro che esce a fine mese, edito da Rubbettino, che si intitola “Dei Relitti e Delle Pene”: avrebbe potuto chiamarsi, senza che fosse un gioco di parole, “I Relitti delle Pene”, quello che il sistema carcerario restituisce degli esseri umani che siano entrati nelle sue spire. I dettati della Costituzione, ravvedimento, rieducazione, reinserimento, trattamento umano diventano fantasmi, assumono il tono della beffa, in barba alle sentenze della Cedu, la corte dei diritti umani. Lo stato delle prigioni italiane finisce spalle al muro sotto l’incalzare impietoso dei dati: 54mila detenuti contro una capienza di 46, 120 ogni 100 posti disponibili. 2700 donne recluse e 60 bambini che vivono con loro. 70 mila bambini che ogni anno entrano in carcere per poter incontrare madri e padri detenuti. 20 mila stranieri dietro le sbarre. 9 mila detenuti nei gironi infernali dell’alta sicurezza. 1.700 reclusi all’ergastolo. Numeri che continuano e continuano impietosi per costruire la reale espansione del dramma, per sfatare miti, fare a pezzi luoghi comuni. Il carcere è il paese della sofferenza, è una nazione che costruisce relitti, trasforma anime nere, grigie, chiare, in zombi, buoni più a niente, per la società e per se stessi. Nel carcere non si vive facile, dal carcere non si esce facilmente. Molti ci escono fisicamente da morti. Molti, nonostante la liberazione, mentalmente non ci usciranno mai. I problemi reali: una eccessiva normazione di carattere penale, troppe violazioni minime che portano al carcere, alle quali si potrebbe porre rimedio con sanzioni diverse. Una carcerazione preventiva lunghissima, che lascia segni indelebili su un 29% di soggetti che alla fine il sistema giudiziario riconoscerà innocenti. In carcere ci si sta stretti, e il disagio è dei detenuti e anche degli operatori di polizia, di tutti quelli che per lavoro o coscienza lo frequentano quotidianamente. La misura della civiltà del Paese che è in perenne curva discendente, mentre la curva in salita della pandemia in corso mette a nudo la sua deficienza sanitaria oltre a quella di civiltà. Le casistiche di buoni esempi allocano ai margini, diventano eccezione mai regola. Un sistema civile non si può affidare alla buona volontà, deve avere in missione il rispetto costituzionale, se la Costituzione ha ancora valore, se sta al vertice della gerarchia legislativa. La maggior parte delle detenzioni è prodotta dal multiforme mondo della droga che mischia lo spaccio alla dipendenza e risolve, per modo di dire, contraddizioni sociali scaricandole nel posto sbagliato. Perché il carcere è sempre più una discarica sociale che tiene, e non dovrebbe, criminali per scelta e inciampi di vita, arroganza e disperazione, ambizione e malattia. 134,50 euro costa giornalmente ogni detenuto, la moltiplicazione per il totale rende evidente quanto si potrebbe fare in chiave preventiva, con indirizzi economici mirati. Quanti si salverebbero dal carcere, e quante vittime sfuggirebbero ai propri aguzzini, se invece di pensare alla repressione si investisse su una prevenzione sociale? Quanto la gente fuori vivrebbe con meno paura e minori prigioni mentali se conoscesse a fondo il sistema carcerario, se conoscesse fisicamente le storie dei detenuti, il loro reale spessore criminale? Il libro pone tantissime domande, e dà tantissime risposte. Una miniera di informazioni utili per chi volesse porre rimedio al declino della funzione della pena a secoli, ormai, dai Lumi. Una miniera di informazioni per il popolo di fuori che del carcere conosce un film ingannevole. Tra le righe di Natoli sparisce la voluttà serica della seta, compare il panno ruvido di una galera reale. Sorge l’insofferenza ingiusta che la società dei buoni infligge ai cattivi, e ai presunti tali. Pugno di ferro dietro le sbarre contro i peccati d’amore di Rita Bernardini Il Riformista, 23 ottobre 2020 Dieci minuti di telefonata a settimana, un’ora sola di colloquio, proibiti quelli intimi. E vi meravigliate se un detenuto si innamora della psicologa? Mi scrive Bruno dal carcere di Rebibbia: “L’inserimento del detenuto in cosa consiste? Io credevo di essere un detenuto modello e ci credevo molto in ciò che facevo. Ero inserviente in cucina e dopo il lavoro andavo a scuola e dopo la scuola facevo teatro e dopo il teatro andavo in palestra. Fino a quando scoprono che mio fratello (anche lui detenuto) ha una relazione amorosa con la sua psicologa che, tra l’altro, non seguiva me. Ebbene “per ordine e sicurezza” trasferiscono non solo mio fratello, ma pure a me che non ho fatto nulla e ora mi trovo qui in un altro carcere senza essere seguito né da un educatore né da una psicologa. Mi può aiutare a rientrare dove stavo?”. Ricordo che un po’ di anni fa mi telefonava una signora molto anziana che aveva il figlio in carcere e mi chiedeva di aiutarla a farlo avvicinare a casa perché lei era molto malata e “cicciona” e faticava troppo negli spostamenti. La chiamavo la “Sora Lella” perché parlava proprio come la sorella di Aldo Fabrizi. In quel caso, il figlio era stato trasferito perché “importunava la maestra” e lei, la Sora Lella, sfoggiando la migliore saggezza popolare, mi disse “e nun je poteva dà ‘na pizza invece de fallo trasferì”. “Mi fijo c’ha er core d’oro, aiuta sempre l’artri. Pè questo stà ‘n galera! Io dico è ggiusto che deve da pagà pè i casini c’ha fatto, ma bisogna pure aiutallo! M’ha detto ch’aveva scritto tante poesie pè ‘a maestra e che quella se l’era perze… te credo che c’è rimasto male e l’ha importunata, no?” Nel sistema penitenziario italiano sono proibiti i colloqui intimi, le telefonate concesse sono una a settimana di soli 10 minuti e i colloqui visivi sono limitati a uno a settimana della durata di un’ora sotto lo sguardo vigile degli agenti. Ci si meraviglia se un detenuto si innamora (magari anche corrisposto) della maestra o della psicologa? Ma in che mondo vivono questi “esperti” di diritto penitenziario? E per il detenuto, il trasferimento lontano dagli affetti familiari è una delle punizioni più gravi che possa ricevere! Gli ci vorrebbe proprio un corso accelerato di saggezza popolare tenuto dalla Sora Lella. Stretta sui telefoni in cella e sugli aiuti ai boss, in vigore il nuovo reato e le nuove pene giustizianews24.it, 23 ottobre 2020 Da oggi, venerdì 22 ottobre, introdurre telefoni cellulari in carcere costerà una condanna da 12 mesi a 4 anni. E pagherà caro anche chi agevolerà in qualsiasi modo le comunicazioni dei boss detenuti al 41bis con l’esterno. Il decreto legge sulle Disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, all’interno del quale è contenuta questa nuova modifica al codice penale è stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale. L’introduzione di cellulari in prigione diventa così reato ed è previsto dal nuovo articolo 391-ter del codice penale. Sino ad ora rappresentava solo un illecito disciplinare, sanzionato all’interno del carcere. La pena scatta sia per chi riceve il cellulare sia per chi lo porta. Il ministro ha deciso di introdurre questa nuova misure alla luce dell’esplosione del fenomeno denunciato anche numerosi procuratori. Solo nel 2020 (e fino alla fine di settembre) sono stati sequestrati 1761. Disparati i mezzi con i quali i cellulari sono stati ‘recapitati’ ai detenuti: camuffati nel cibo, sistemati negli indumenti intimi, ingoiati, nascosti nel corpo, inseriti in un pallone per poi essere lanciati, trasportati da un drone, collocati nel fondo delle pentole. Un pentito del clan napoletano Lo Russo di Miano ha raccontato che i ‘cellulari’ venivano nascosti nelle scarpe calzate da chi doveva andare a colloquio coi detenuti. Le nuove norme prevedono, inoltre, un rafforzamento delle sanzioni applicate in caso di comunicazioni dei detenuti sottoposti all’articolo 41bis dell’Ordinamento Penitenziario. Per chi agevola il detenuto al 41bis nelle comunicazioni con l’esterno la pena è innalzata fino a 6 anni. Se il reato è commesso da un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o avvocato la pena aumenta dagli attuali 2-6 anni a 3-7 anni. Infine il decreto prevede anche l’inasprimento e il Daspo sulle risse e lo spaccio. Il questore, anche sulla base di una sola denuncia per rissa, potrà vietare ai violenti e ai pusher l’accesso ad un elenco di locali fino a 2 anni. Con la violazione del Daspo è prevista la pena fino a 2 anni di reclusione e multa fino a 20mila euro. Se da una rissa deriva la morte o lesioni personali, si rischiano fino a 6 anni. Per quanto riguarda lo spaccio, il decreto interviene sulla vendita online della droga: i provider che non inibiranno gli accessi alle piattaforme nell’elenco dei siti indicati dal Viminale pagano fino a 250 mila euro. “Questa Costituzione è uno spettacolo”. Anche per i detenuti di Marco Belli gnewsonline.it, 23 ottobre 2020 Presentare la Costituzione come fosse uno spettacolo, raccontando ai detenuti l’importanza e il senso della legge fondamentale del nostro Paese, concentrandosi in particolar modo sugli articoli che la Carta dedica ai loro diritti e alla detenzione. L’iniziativa è del Notariato italiano in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia e sarà realizzata in sette istituti penitenziari domenica prossima, in occasione della V edizione della Giornata Europea della Giustizia Civile. Celebrata il 25 ottobre di ogni anno dal 2003 su impulso della Commissione Europea e del Consiglio d’Europa, la Giornata costituisce un momento d’informazione, riflessione e confronto tra operatori della giustizia, cittadini, studenti ed esperti. Per questa edizione il Notariato italiano, seguendo le indicazioni del Consiglio dei Notariati dell’Unione Europea, ha deciso di aderire all’iniziativa organizzando per domenica prossima un evento digitale rivolto ai detenuti di Milano Opera, Parma, Roma Rebibbia, Firenze Sollicciano, Napoli Secondigliano, Palermo Pagliarelli e Torino. “Questa Costituzione è uno spettacolo” è il titolo della pièce che il Notariato ha ideato in occasione del settantesimo compleanno della nostra Carta. Già rappresentata per ben due volte nel carcere di Torino, oltre che nei teatri e nelle scuole, è interpretata dal notaio Giulio Biino, consigliere nazionale con delega alla comunicazione, e dal notaio Fabrizio Olivero. Nel video, opportunamente adattato all’iniziativa del 25 ottobre, i due notai presenteranno ai detenuti un nuovo modo di raccontare la Costituzione: parleranno di diritti inviolabili, principio di uguaglianza e giusto processo, accompagnando la narrazione dei testi della Carta Costituzionale con una colonna sonora pensata per l’occasione; e poi spezzoni di film, richiami ad articoli di stampa, alla televisione e al giornalismo. Non soltanto una spiegazione delle norme quindi, ma un racconto diverso, finalizzato a rendere un testo di legge in maniera accattivante e appassionante. “In un anno particolare come questo - spiega il presidente del Consiglio Nazionale del Notariato, Cesare Felice Giuliani - in cui la condivisione dei valori di comunità è diventato requisito imprescindibile per vincere una delle sfide più difficili del nostro secolo, abbiamo pensato all’importanza di sensibilizzare all’interno degli istituti penitenziari sul valore delle leggi e dei principi fondanti la nostra Costituzione. Questa iniziativa, accolta con grande e sincero entusiasmo dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e dal Capo del DAP, testimonia quanto sia fondamentale la cultura del diritto anche e soprattutto nell’ottica del reinserimento nella società delle persone attualmente in carcere”. “La cultura del rispetto delle regole a cui si ispira l’iniziativa del Consiglio Nazionale del Notariato - ha sottolineato dal canto suo il responsabile del DAP, Bernardo Petralia - è un importante segnale di vicinanza istituzionale al mondo penitenziario, ma al tempo stesso anche un messaggio di pedagogia sociale che si lega idealmente alla precedente iniziativa La Corte Costituzionale nelle carceri, fortemente voluta dall’allora presidente Marta Cartabia. Anche in questa occasione il Dipartimento ha subito aderito con entusiasmo, selezionando sette istituti distribuiti su tutto il territorio nazionale dove, sono certo, i notai troveranno l’attenzione e la curiosità che l’iniziativa merita di suscitare”. Consiglio d’Europa: nonostante gli sforzi la Giustizia italiana è la più lenta Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2020 Per il Rapporto Cepej i motivi dietro la lunghezza dei processi in Italia sono diversi, ma sicuramente la quantità di arretrato accumulato gioca un ruolo importante. In Italia, nel 2018, il tempo medio per arrivare a una sentenza in primo grado in un processo penale è stato il più elevato d’Europa, 361 giorni (contro una media di 144 giorni), in un processo civile e di contenzioso commerciale è stato di 527 giorni, secondo solo a quello della Grecia (559 giorni), contro una media europea di 233 giorni. Nel nostro Paese occorrevano in media 889 giorni per arrivare a una sentenza di primo grado in un processo amministrativo (Tar), contro una media europea di 323 giorni. In questo ambito il record spetta a Malta (1.057 giorni), seguita dal Portogallo (928 giorni). Questi sono alcuni dei dati contenuti nell’ultimo rapporto del Cepej (commissione europea per l’efficacia della giustizia), che ogni due anni valuta i sistemi giudiziari dei Paesi membri del Consiglio d’Europa. “I motivi dietro la lunghezza dei processi in Italia sono diversi, ma sicuramente la quantità di arretrato accumulato gioca un ruolo importante”, spiegano gli esperti del Cepej. “L’Italia, come dimostrano i dati sui casi chiusi ogni anno tra il 2010 e 2018, si è sforzata di risolvere questo problema”, osservano a Strasburgo, “ma questi stessi dati mostrano che il sistema giudiziario non è stabile e che non può mantenere un carico di lavoro che supera una certa soglia”. Al top nella digitalizzazione - Ma l’Italia porta a casa anche il segno più nella digitalizzazione. Siamo tra i 9 Paesi europei che tra il 2016 e il 2018 hanno aumentato di più il budget riservato all’informatizzazione dei tribunali, e anche tra i sei in cui è cresciuto quello destinato alla formazione dei magistrati. Nel nostro Paese l’aumento del budget per l’informatizzazione è stato pari all’84%, e quello per la formazione del 48%. In base ai dati raccolti da Strasburgo l’indice globale di penetrazione dell’informatizzazione nel sistema giudiziario italiano è pari a 6,42. La media europea è 6,11. Il settore dove l’Italia ottiene i migliori risultati è quello della digitalizzazione della gestione dei tribunali e dei fascicoli, in cui ottiene un punteggio di 8,05. La media europea è pari a 7,11. Il punteggio per le tecnologie che aiutano i magistrati a prendere le loro decisioni è 6,11. Mentre quello per gli strumenti tecnologici che permettono ai tribunali di comunicare tra loro ma anche con l’esterno 5,10. Le tendenze generali - Ma nelle conclusioni dell’ottavo rapporto di valutazione ci sono altri dati interessanti che individuano delle tendenze generali nei sistemi giudiziari di 45 paesi europei: • gli Stati europei spendono in media € 72 per abitante all’anno nel sistema giuridico; • il numero di donne giudici e pubblici ministeri continua ad aumentare, ma le professioni giuridiche sono ancora svolte prevalentemente da uomini; • in media, oggi vi sono 164 avvocati ogni 100.000 abitanti; • il numero dei tribunali è sceso del 10% tra il 2010 e il 2018; • i tribunali in tutta Europa hanno potuto continuare a operare durante la pandemia grazie ai recenti progressi della tecnologia dell’informazione. Per la prima volta, inoltre, il rapporto di valutazione della Cepej contiene delle schede paese che permettono di situare il proprio paese rispetto ad altri paesi europei. Lo scopo della Cepej, ricorda infine il comunicato stampa, “è migliorare l’efficacia e il funzionamento della giustizia nei suoi Stati membri”. Aiga: “No” ad un nuovo stop della giustizia studiocataldi.it, 23 ottobre 2020 Giovani avvocati preoccupati i per le conseguenze che derivano dagli ultimi interventi normativi a fronte dei quali è stato prorogato il periodo emergenziale al 31 gennaio 2021. In una nota, l’Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) spiega che la proroga “ha determinato da parte di alcuni Uffici Giudiziari l’emissione dei primi provvedimenti con i quali molti giudizi sono stati nuovamente rinviati”. Come chiarisce il presidente Aiga, avv. Antonio De Angelis “La giustizia non può e non deve fermarsi - poiché - rinviare i procedimenti equivale ad una denegata giustizia per cui auspichiamo che il Guardasigilli prenda immediatamente i più opportuni provvedimenti, univoci su tutto il territorio nazionale, affinché non si ripeta quanto già accaduto a marzo. Ci sono gli strumenti, ormai, per procedere, quanto meno nel processo civile, amministrativo e tributario, attraverso la trattazione scritta o da remoto di gran parte delle udienze che non prevedano l’istruttoria della causa”. Da qui la necessità per i Giovani Avvocati di continuare ad utilizzare “a pieno regime il processo telematico, anche presso i Giudici di Pace” sia per garantire il rispetto della normativa sanitaria a tutela del diritto alla salute, sia, in linea generale per la tutela di ogni più ampio diritto dei cittadini. Infine “Il giusto contemperamento tra il diritto alla salute e il diritto di difesa- aggiunge la Responsabile dell’Ufficio Legislativo, avv. Anna Lops -rappresenta l’unica strada da percorrere in un momento storico-economico qual è quello attuale in cui le difficoltà possono essere sfruttate come nuove opportunità anche per la professione forense”. Il progresso, secondo i giovani avvocati, non deve fermarsi di fronte alla pandemia, piuttosto “l’attuale stato di emergenza sia da stimolo e da acceleratore per un nuovo sviluppo sistemico del nostro Paese”. A Milano tornano le udienze da remoto. La sezione immigrazione si sposta online di Simona Musco Il Dubbio, 23 ottobre 2020 La stretta anti-covid nelle linee guida elaborate dal presidente del Tribunale e dall’Ordine degli Avvocati. Al tribunale di Milano tornano le udienze da remoto. Ad essere interessata la sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, con un provvedimento organizzativo firmato dalla presidente Laura Sara Tragni, a seguito delle linee guida sottoscritte dal presidente del tribunale Roberto Bichi e dal presidente dell’ordine degli avvocati Vinicio Nardo. Il provvedimento prende le mosse dalla recente apertura del Centro di Permanenza per i rimpatri di via Corelli, “che impone l’adozione di idonee misure organizzative, in relazione alla capienza di 140 posti della struttura”, volte a regolare lo svolgimento delle udienze di convalida/proroga del trattenimento degli stranieri, delle udienze di convalida dell’allontanamento dei cittadini comunitari temporaneamente trattenuti presso il Cpr nonché delle udienze di convalida di allontanamento. Tribunale e Coa hanno dunque stabilito che le udienze verranno effettuate da remoto, salvo diversa richiesta, “secondo modalità idonee a garantire e a salvaguardare il rispetto del contraddittorio, della riservatezza e della sicurezza”, a partire dal 20 ottobre 2020. Nei casi in cui sia impossibile, per ragioni tecniche, svolgere le udienze in modalità telematica, le stesse si svolgeranno presso il Cpr, “secondo modalità protettive di tutti i partecipanti alla stessa, osservate le condizioni ambientali di necessario distanziamento tra i soggetti presenti”. Verrà utilizzata ancora una volta la piattaforma Teams, con una “stanza virtuale” raggiungibile tramite apposito link contenuto nel provvedimento di fissazione dell’udienza. Il difensore avrà facoltà di essere presente nel luogo in cui si trova l’assistito, presso l’Ufficio giudiziario o da remoto, dandone tempestiva comunicazione via mail all’ufficio immigrazione. Le udienze di convalida/ proroga si terranno il lunedì, il mercoledì e il venerdì. Al difensore - di fiducia o d’ufficio - “sarà comunque consentita la possibilità di comunicare in via preliminare e con assoluta riservatezza con la persona destinataria del provvedimento da convalidare, anche mediante l’ausilio di un interprete, ove necessario”. Nel caso sia necessaria la presenza di un interprete, lo stesso parteciperà all’udienza accanto alla persona destinataria del provvedimento o nell’ufficio giudiziario in cui si tiene la convalida e potrà comunicare - con L’ausilio di un dispositivo elettronico - con l’interessato e con le altre parti. Sarà possibile produrre documenti e avanzare istanze mediante la chat attiva nella stanza virtuale della videoconferenza o attraverso l’indirizzo di posta elettronica della cancelleria della Sezione. Il giorno dell’udienza, si legge ancora nel documento, un operatore della polizia sarà presente nel luogo in cui si trova il richiedente e ne attesterà l’identità dando atto, tramite verbale, che non sono posti impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà a lui spettanti. La Questura dovrà organizzarsi inviando le richieste di convalida per posta elettronica alla cancelleria della sezione specializzata immigrazione (XII civile). “Al fine di rendere più stabile la connessione - si legge ancora -, il giudice potrà disporre che le parti, alle quali non ha dato parola, disattivino temporaneamente il microfono e il collegamento video, restando comunque loro garantito di udire e vedere quanto viene detto dal giudice”. Si tenta, intanto, di tenere sotto controllo i contagi, con uno screening di tutti i dipendenti tramite tamponi antigenici, a partire da lunedì. I circa 5mila lavoratori del Palazzo di Giustizia, dove attualmente si riescono a gestire solo le urgenze e la copertura dei turni, verranno dunque sottoposti a test rapidi per cercare di evitare una nuova chiusura, anche a seguito dei recenti contagi che hanno interessato cinque pm e diversi dipendenti. Una situazione difficile, con la Procura che è corsa ai ripari riducendo al minimo i contatti in presenza. Nel frattempo, anche l’Ordine degli avvocati di Milano ha siglato una convenzione con l’Irccs Policlinico San Donato- Gruppo San Donato “per l’effettuazione di uno screening per tutti gli iscritti”. Concorso in magistratura truccato, il Tar chiude un occhio, anzi due: “Tutto regolare” di Paolo Comi Il Riformista, 23 ottobre 2020 Anche il Fatto Quotidiano, tramite il giudice Antonio Esposito, ha scoperto che diversi temi, giudicati idonei, dell’ultimo concorso per magistrato ordinario sono infarciti di “strafalcioni giuridici” ed “errori di ortografia”. Esposito, noto alle cronache per essere stato il presidente del collegio della Cassazione che nel 2013 condannò in via definitiva per frode fiscale Silvio Berlusconi, è da tempo uno degli editorialisti di punta del quotidiano diretto da Marco Travaglio. Nel pezzo di questa settimana, l’ex magistrato ha ripercorso l’intera vicenda del concorso, raccontata dal Riformista già il mese passato con diversi articoli. Alcuni candidati bocciati alle prove scritte, come si ricorderà, avevano chiesto di visionare i temi che la Commissione esaminatrice aveva invece giudicato positivamente. Le sorprese non erano mancate in quanto questi elaborati presentavano errori di diritto e diverse indicazioni grafiche che potevano essere interpretate come simboli identificativi. Venivano acquisiti anche i verbali delle attività svolte dalla Commissione. Si appurava che le correzioni non erano state effettuate, come previsto, in stretto ordine cronologico. In particolare, alcuni compiti erano stati corretti solo successivamente e senza l’indicazione delle tempistiche. L’onorevole Pierantonio Zanettin (FI) aveva al riguardo chiesto chiarimenti al ministro della Giustizia, a cui la legge affida “l’alta vigilanza” sul concorso in magistratura. Con una risposta sorprendente, Bonafede la scorsa settimana aveva affermato di non potere entrare “nel merito delle decisioni” della Commissione, invitando i bocciati a presentare ricorso, come qualcuno aveva già fatto, al Tar. “Il ministro ha dimenticato che può intervenire ogni qualvolta lo ritenga opportuno e ha facoltà di annullare gli esami nei quali siano avvenute irregolarità: è sconfortante constatare che abbia abdicato alle sue prerogative, preferendo obbedire all’ukase dell’Anm che aveva bollato come “strumentalizzazione politica” la richiesta di chiarimenti, era stata la replica di Zanettin. I ricorsi, è notizia di ieri, sono stati respinti nella fase cautelare dal Tar del Lazio in quanto la discrezionalità tecnica, per quanto “opinabile”, non appare “palesemente irragionevole, immotivata o disarticolata dai criteri di valutazione predisposti dalla Commissione”. Tornando quindi ad Esposito, da ex magistrato esperto, ha fornito sul concorso un particolare importante, che era sfuggito a tutti, e che riguarda la modalità con cui viene composta la Commissione esaminatrice. “Vengono sistematicamente nominati quali componenti, per lo più, magistrati non molto conosciuti”, ha affermato Esposito, sottolineando che sono “più conosciuti in ambito correntizio”. “Tale operazione - ha poi aggiunto - è stata agevolata da una normativa, varata anni orsono con il placet dell’Anm, che ha drasticamente ridotto il numero dei più qualificati magistrati di Cassazione”. Insomma, quando c’è un problema che tocca la magistratura è sicuro che le correnti hanno avuto un ruolo - in negativo - di primo piano. Esce Davigo, entra Di Matteo: il Csm e la staffetta rigorista alla disciplinare di Errico Novi Il Dubbio, 23 ottobre 2020 Grandi cambiamenti al Csm. Anche se non tutti sostanziali. Via Davigo, decaduto dalla carica di consigliere in seguito al voto di lunedì scorso in plenum, gli subentra Carmelo Celentano, un giudice di Cassazione dal profilo assai lontano dalla vocazione carismatica del predecessore. Indipendente candidatosi col sostegno di Unicost, si è insediato due giorni fa con un discorso che merita di essere riportato: “Chi si accinge a un compito come quello legato all’autogoverno ha in mente, o deve averlo, un modello di magistrato orientato in senso costituzionale”, ha ricordato, anche a proposito del padre, a sua volta giudice e che ha rappresentato “un modello di magistrato riservato e guidato dal senso del dovere, che attende ai suoi altissimi compiti senza l’ansia di avere in cambio né plauso sociale né riconoscimenti tangibili”. Una sorta di implicito manifesto contro il protagonismo dei pm. Intanto si dovrà attendere il ricorso al Tar del Lazio proposto dall’ex pm di Mani pulite, ma si dovrà farlo per alcune settimane, visto che è stato assegnato a un collegio, anziché a un giudice monocratico, l’esame della sospensiva, cioè della richiesta avanzata da Davigo di congelare immediatamente, in vista del giudizio di merito, la propria fuoriuscita dal Csm. Ci sarà un’udienza in camera di consiglio, impossibile dunque un esito fulmineo. Nel frattempo l’addio, definitivo o temporaneo che sia, del fondatore di “Autonomia e indipendenza”, è compensato dal pur automatico ingresso di Nino Di Matteo nella sezione disciplinare. Davigo ne ha fatto parte nel turbo-processo Palamara e oggi vi compariranno gli altri cinque ex togati protagonisti della fatale cena all’hotel Champagne: Corrado Cartoni, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli, Antonio Lepre e Luigi Spina. Di Matteo era già supplente del collegio. Sarà perciò tra i giudici dei colleghi accusati di aver tentato un “condizionamento occulto” della nomina alla Procura di Roma. Certamente una garanzia di rigorismo degna dell’ex pm del Pool di Milano. In realtà l’assegnazione di Di Matteo alla “corte disciplinare” ci sarebbe stata anche con un’eventuale permanenza di Davigo al Csm. I giudici di Palamara non avrebbero potuto esprimersi anche sulle posizioni di altri incolpati nell’ambito delle medesime vicende. A presiedere il collegio sarà come sempre un laico, Filippo Donati (eletto al Csm in quota 5S). Con lui un altro laico, Michele Cerabona, scelto da Forza Italia, e i togati Alessandra Dal Moro di Area, Michele Ciambellini di Unicost, e lo stesso Celentano, sostituto diretto di Davigo anche nelle funzioni disciplinari. Csm, ribaltone e controribaltone: dopo la cacciata di Davigo cambiano gli equilibri di Paolo Comi Il Riformista, 23 ottobre 2020 Ora che Piercamillo Davigo non è più consigliere del Csm che cosa succederà a Palazzo dei Marescialli? Come cambieranno gli equilibri e i rapporti fra le correnti della magistratura? L’inaspettata - per Marco Travaglio - decadenza dell’ex pm di Mani pulite sta determinando in queste ore un “contro ribaltone” al Csm. Il primo ribaltone, quello originale, si era avuto lo scorso anno con le dimissioni “spontanee” dei cinque consiglieri che avevano partecipato all’incontro notturno dell’hotel Champagne, organizzato dall’ex zar delle nomine Luca Palamara, con i parlamentari Cosimo Ferri e Luca Lotti. La corrente di Davigo, Autonomia & Indipendenza, che aveva perso l’anno prima le elezioni, per un meccanismo elettorale incredibile, era diventata la prima forza a piazza Indipendenza. La legge elettorale del Csm prevede, infatti, che subentri al dimissionario il primo dei non eletti in ognuna delle tre categorie: pm, giudici di merito e giudici di legittimità. In questo modo può subentrare, come avvenuto, anche chi non faccia parte del gruppo associativo a cui appartiene il magistrato che ha abbandonato il Csm. I davighiani, grazie a questo sistema che non tiene minimamente conto della volontà degli elettori, avevano quasi triplicato la loro presenza al Csm, passando da due a cinque consiglieri. La presa di distanza di Nino Di Matteo da Davigo, con il voto contrario alla sua permanenza al Csm, e anche la fredda difesa dell’ex pm di Mani pulite da parte dell’altro davighiano, il pm antimafia Sebastiano Ardita, sono segnali che mettono in forse l’attuale alleanza di A&i con la sinistra giudiziaria di Area. L’ex procuratore aggiunto di Roma Giuseppe Cascini, capo delegazione di Area al Csm, proprio per questo motivi si era speso tantissimo per evitare l’uscita di Davigo. Il posto di Davigo verrà preso, già da questa settimana, dal giudice di Cassazione Carmelo Celentano, magistrato di Unicost e un tempo legato a Palamara. I numeri sono sul filo. Soprattutto se dovesse subentrare anche il giudice genovese Pasquale Grasso, esponente di Magistratura indipendente, la destra giudiziaria. Grasso, si ricorderà, ha il dente avvelenato con le toghe di sinistra. Presidente dell’Anm da pochi mesi, esploso il Palamaragate lo scorso anno, venne sfiduciato in una assemblea infuocata in Cassazione dove mancò poco per l’intervento dei carabinieri. Il Csm lo tiene a bagnomaria da oltre un mese. Sulla carta deve subentrare al giudice di Unicost Marco Mancinetti, dimessosi per essere finito nelle micidiali chat di Palamara. Palazzo dei Marescialli sta studiando cosa fare, non escludendo anche nuove elezioni suppletive, le terze. Un record assoluto. Il Quirinale, già intervenuto nel caso Davigo, potrebbe comunque sbloccare l’impasse con una moral suasion pro Grasso ed evitare una nuova tornata elettorale. Sul fronte Anm, all’inizio della prossima settimana è previsto l’insediamento della nuova giunta. Le correnti stanno affilando i coltelli. Covid 19: le patologie non gravi del detenuto non garantiscono i domiciliari di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2020 Il Tribunale del riesame aveva già respinto le richieste del soggetto in carcere. In presenza del Covid 19 le patologie fisiche non eccessivamente gravi non garantiscono l’uscita dal carcere e l’ottenimento degli arresti domiciliari: le cure, infatti, benché complicate dalla pandemia, possono essere eseguite presso la casa circondariale. Questo in sintesi il contenuto della sentenza della Cassazione n. 29378/20. La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con un ricorrente che, in unico e complesso motivo di appello, denunciava che il Tribunale del riesame non aveva esaminato le informazioni e soprattutto le conclusioni alle quali era pervenuta la direzione della Casa circondariale di Siracusa ove il ricorrente era ristretto, e che in ragione delle gravi e persistenti patologie doveva decretare la necessità di giovarsi di misure alternative, invocando anche la nota della procura generale sulla riduzione della popolazione carceraria in tempo di Covid-19. Il Tribunale del riesame, quindi, oltre ad aver “superato” quanto affermato dalla direzione del carcere siciliano non si sarebbe attenuto alla Nota del Procuratore generale della Cassazione del 1° aprile 2020 sull’affollamento carcerario durante la pandemia, escludendo che le condizioni patologiche dell’indagato fossero incompatibili con il regime detentivo carcerario e che la misura degli arresti domiciliari anche con il braccialetto elettronico fosse in grado di assicurare la tutela delle esigenze speciali preventive. Tale misura infatti - si legge nella sentenza - avrebbero finito con il collocare il detenuto proprio su quel territorio che lo aveva visto commettere diversi reati (all’interno di una cosca mafiosa) come il narcotraffico. In base a questo appello la Cassazione, pur non potendo riesaminare la vicenda nel merito, ha ricordato che le condizioni patologiche dell’imputato non erano così gravi da giustificare uno sconto di pena domiciliare. Si trattava di una patologia vertebrale, corretta in passato, di una resezione gastrica e di ipertensione arteriosa. La Cassazione spiega che il regime detentivo più leggero poteva essere concesso se le patologie denunciate non potevano essere curate in carcere e richiedevano un intervento esterno. Conclusioni - Per la Cassazione, infine, i disagi vissuti in carcere rispetto alla difficoltà di diagnostica e alla riabilitazione non erano diversi da quelli affrontati in temi di pandemia dai cittadini che vivono in ambienti chiusi. Giudicato penale nel processo tributario: la Cassazione esclude ogni automatismo di Alessandra Martuscelli Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2020 Il giudice tributario può legittimamente fondare il proprio convincimento sulle prove acquisite nel giudizio penale purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori. Con la recentissima pronuncia in commento, la Cassazione civile, sezione tributaria, ha ribadito il principio di diritto, ormai divenuto tralatizio, per il quale “non può essere attribuita autorità di cosa giudicata alla sentenza penale irrevocabile emessa in materia di reati fiscali, anche se i fatti esaminati siano i medesimi”. Si è altresì specificato che “il contribuente assolto in sede penale per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste può comunque essere ritenuto responsabile ai fini fiscali quando l’atto impositivo si fondi su indizi validi, i quali sarebbero insufficienti ai fini di un giudizio di responsabilità penale ma idonei ai fini di quello tributario”. Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania che, confermando la sentenza del giudice di primo grado, aveva rigettato l’appello dell’Ufficio avverso l’annullamento dell’avviso di accertamento notificato al contribuente, con il quale era stato rideterminato il suo reddito di partecipazione nella società, quale socio di fatto. In particolare, la CTR si era limitata a confermare le statuizioni di primo grado, invocando la pregiudiziale penale che aveva escluso la prova del coinvolgimento del contribuente nella compagine sociale. Gli Ermellini hanno cassato la sentenza e rinviato il giudizio alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, evidenziando alcuni principi che meritano di essere ripercorsi. In primo luogo, si è evidenziato come “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione Finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare” (Cass. Pen., sez. V, n. 5820/2007; Cass. Civ., sez. trib., n. 10578/2015; Cass. Civ., sez. trib., n. 17258/2019). La Corte ricorda, inoltre, che “la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto a quella di un’altra decisione, anche se non passata in giudicato, purché riproduca i contenuti mutuati e li renda oggetto di un’autonoma valutazione critica, così consentendo la verifica della compatibilità logico - giuridica del rinvio” (Cass. Civ., sez. VI, n. 5209/2018). Da ultimo, la Suprema Corte precisa che “l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (cfr. Cass. Pen., sez. II, n. 8129/2012; Cass. Civ., sez. VI, n. 16262/2017; Cass. Civ., sez. VI, n. 28174/2017). Tanto premesso in ordine al caso in esame e ai principi espressi, appare utile ripercorrere - in termini più generali - l’evoluzione della disciplina dei rapporti tra processo penale e procedimento tributario. Per oltre cinquanta anni, tali rapporti sono stati regolati sulla base della c.d. pregiudiziale tributaria: l’azione penale poteva aver corso solo dopo che l’accertamento dell’imposta e della relativa sovraimposta fosse divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia. Tale criterio, finalizzato a subordinare l’instaurazione del processo penale alla definizione del procedimento tributario, se da un lato scongiurava la possibilità di un contrasto di giudicati in ordine agli stessi fatti, dall’altro si traduceva in una evidente compromissione dell’autonomia valutativa del giudice penale. Del resto, tale vincolatività fu dichiarata incostituzionale (cfr. sentenza n. 88/1982) per violazione sia del diritto di difesa sia del principio di parità del trattamento, oltre che dell’art. 101, secondo comma Cost., volto a garantire l’indipendenza funzionale, in base al quale il giudice è soggetto soltanto alla legge. Il sistema della pregiudiziale venne definitivamente abbandonato con la c.d. legge “manette agli evasori” (legge n. 516/1982). In particolare, con l’art. 12 della predetta legge si è previsto che “in deroga a quanto disposto dall’articolo 3 c.p.p., il processo tributario non può essere sospeso; tuttavia la sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio relativo a reati previsti in materia di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale”. Si consacrava così, per quanto attiene alla relazione tra giudizio tributario e processo penale, il principio di autonomia e di separazione delle giurisdizioni: la sentenza di condanna o di proscioglimento avrebbe potuto avere autorità nel processo tributario con riferimento ai fatti materiali oggetto del giudizio penale, senza però che il processo tributario venisse sospeso. Da ultimo, i rapporti tra le due differenti giurisdizioni hanno trovato una compiuta disciplina nel d.lgs. n. 74/2000, con cui il legislatore ha nuovamente disciplinato i rapporti tra procedimento penale e processo tributario alla luce del principio di specialità, riconfermando il principio della piena e reciproca autonomia tra i due sistemi, e l’esclusione di qualsiasi rapporto di pregiudizialità. Con la predetta novella, infatti, è stato abrogato esplicitamente il menzionato art. 12 e vietata la sospensione del procedimento tributario in pendenza di un procedimento penale (così l’art. 20 d.lgs. n. 74/2000). L’art. 654 c.p.p. e l’efficacia del giudicato penale - Oggi, come noto, la norma che disciplina l’efficacia del giudicato penale nel procedimento tributario è l’art. 654 c.p.p., ai sensi del quale la sentenza penale irrevocabile di assoluzione o di condanna fa stato nel processo civile ed amministrativo (nonché tributario) solo nei confronti di soggetti che abbiano formalmente partecipato al processo penale (limite soggettivo), sempre che i fatti ivi accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa (limiti oggettivi). Proprio la differente connotazione, in punto di raccolta e valutazione delle prove, ha condotto la dottrina e la giurisprudenza ad affermare il principio della non automatica efficacia vincolante del giudicato penale sul processo tributario, anche qualora i fatti esaminati siano gli stessi. Le limitazioni alla prova pongono, dunque, il problema (di natura fisiologica, stante l’accoglimento del principio guida del doppio binario) del possibile contrasto tra giudicati. In materia, il Ministero delle Finanze, nella propria circolare n. 154/2000, aveva ammesso la possibilità che il giudicato penale facesse stato nel processo tributario nella sola ipotesi in cui la pronuncia del giudice penale non avesse - nel caso specifico - impiegato prove non ammesse nel processo tributario (fra tutti, si consideri che l’art. 7, comma 4 d.lgs. n. 546/1992 statuisce che “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”). Tale tentativo di salvare l’efficacia del giudicato penale in sede tributaria, attraverso l’analisi del singolo caso, non appare condivisibile, incontrando un ostacolo proprio nella lettera dell’art. 654 c.p.p. Si deve, tuttavia, riconoscere come appaiono condivisibili le ragioni, logiche e di opportunità, per cui potrebbe essere riconosciuta efficacia vincolante ad una decisione del magistrato penale, laddove il giudizio si sia fondato esclusivamente su mezzi di prova di natura documentale. Gli orientamenti della Corte di Cassazione - In ogni caso, come più volte specificato dagli Ermellini “il risultato raggiunto in sede penale non rappresenta qualcosa di completamente avulso dal gravame tributario” (cfr. Cass. Civ., sez. trib., n. 12577/2000). Il giudice tributario, infatti, può legittimamente fondare il proprio convincimento sulle prove acquisite nel giudizio penale, purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione degli elementi probatori. Al riguardo, si deve evidenziare che la struttura e la finalità del contenzioso tributario, volto ad accertare la sussistenza e l’entità dell’obbligazione tributaria, di spiccata rilevanza pubblicistica, mal si conciliano con un’efficacia vincolante del giudicato conseguito in sede penale, che può essere valutato, dunque - ai fini del libero convincimento del giudice ex art. 116 c.p.c. - solo come elemento a carattere presuntivo ed indiziario, necessariamente da porsi a confronto, come anticipato, con tutti gli elementi probatori acquisiti agli atti (sul punto: Cass. Civ., sez. trib., n. 19786/2011). In altri termini, il giudice tributario non può passivamente rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie ma deve - nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti - procedere all’apprezzamento del contenuto della decisione, ponendola a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio. Tanto è vero che la Corte di Cassazione, in un’ottica di sempre maggiore responsabilizzazione del giudice tributario, si è spinta fino ad affermare che “anche la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice tributario il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione” (per tutte: Cass. Civ., sez. trib., n. 24587/2010). Peraltro, il quadro probatorio complessivo emerso in sede penale potrà costituire fonte di prova sotto un profilo meramente oggettivo dell’accertamento dei fatti materiali: di conseguenza, non sarà invece vincolante per il giudice tributario la valutazione espressa del giudice penale sulla qualificazione giuridica dell’atto in termini di invalidità (sub specie di annullabilità o nullità del provvedimento amministrativo). L’efficacia del giudicato tributario nel giudizio penale - Infine, sempre con riferimento all’interconnessione tra i due procedimenti in esame, è utile osservare come - allo stesso modo - il giudice penale non sia vincolato alle determinazioni assunte dall’amministrazione finanziaria e dal giudice tributario. Per esempio, ai fini del superamento della soglia di punibilità per i reati tributari, si è affermato come il giudice possa legittimamente avvalersi dell’accertamento, anche induttivo, dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari (cfr. Cass. Pen, sez. III, n. 32490/2018), potendo tale accertamento rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, anche in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge. Tuttavia, questo è possibile, sempre che il giudice proceda ad un’autonoma valutazione degli elementi indicati, potendo egli rilevare il quantum evaso con le (diverse) regole del rito penale, compresa la prova testimoniale, attraverso una verifica che può, quindi, anche contraddire quella raggiunta dinanzi al giudice tributario (cfr. Cass. Pen., sez. III, n. 12050/2020). D’altra parte, il giudicato tributario potrà valere come uno degli elementi valutabili dal giudice penale, alla luce dell’art. 238-bis c.p.p., il quale consente l’acquisizione di sentenze irrevocabili come prova documentale nell’ambito del processo penale e la loro conseguente valutazione critica, alla luce degli artt. 187 e 192, comma terzo c.p.p. Per quanto attiene alle sentenze non definitive, è invece opportuno far riferimento ad una pronuncia del Supremo Collegio secondo cui “le sentenze, come qualsiasi atto valutativo, possono considerarsi documenti ed essere utilizzati come prova, solo per i fatti documentali in esse rappresentati e non per il fatto documentato” (cfr. Cass. Pen., sez. III, n. 10258/1999). Covid e lavoro, il contagio in azienda è infortunio: le conseguenze di Isidoro Trovato Corriere della Sera, 23 ottobre 2020 L’impresa rischia processo penale e risarcimento. Stando all’ultimo report Inail, a fine settembre le denunce di contagio sul lavoro da Covid-19 hanno superato le 54.000 unità (54.128) con un aumento di 1.919 denunce rispetto a fine agosto di cui 1.127 relative a infezioni avvenute in settembre e le altre 792 nei mesi precedenti, per effetto del consolidamento dei dati. Questi dati riaprono il dibattito sulla necessità di uno scudo penale per i datori di lavoro adempienti, rispetto al tema delle misure di prevenzione. “Le norme vigenti, anche quelle ultimamente introdotte, non escludono la responsabilità penale del datore di lavoro, che vedrà riconosciuto il proprio comportamento lecito solo alla fine del relativo procedimento”, commenta Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. “Le incertezze esistenti, su dove come e da chi avvenga il contagio, creano una situazione di grande disagio tra gli imprenditori. Ed è un problema non da poco. Per questo è urgente, considerando l’impennata dei contagi a cui stiamo assistendo, avviare una riflessione con le parti sociali per arrivare a una norma”. Rischi e interpretazioni dubbie della normativa - L’equiparazione fatta dall’articolo 42 del D.L. n. 18/2020 tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, potrebbe portare al coinvolgimento dell’imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni o di omicidio colposo, nel caso di decesso. E questo anche nel caso che la responsabilità del datore di lavoro non sia oggettiva, ma abbia adempiuto a tutto quanto previsto da norme e regolamenti. Infatti, restano ancora molti i punti critici; tra questi, ad esempio, la verifica che il contagio sia effettivamente avvenuto in occasione di lavoro, considerando che il lungo periodo di incubazione del virus non permette di avere certezza sul luogo e sulla causa del contagio. Così come di escludere con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio. Senza poi contare i casi dei soggetti asintomatici. Il tutto al netto di cause civili per risarcimento danni. Soprattutto gli uomini e si abbassa l’età - I casi mortali per contagio da Covid-19 sono pari a circa 1/3 del totale dei decessi denunciati all’Inail dall’inizio dell’anno. Ad essere colpiti sono soprattutto gli uomini (84,0%) e nelle fasce 50-64 anni (69,9%) e over 64 anni (19,4%), con un’età media dei deceduti di 59 anni. In quasi nove casi su 10 (89,3%) si tratta di lavoratori italiani, mentre tra gli stranieri le comunità più colpite sono quelle peruviana (17,6&), rumena (14,7%) e albanese (11,8%). Prendendo in considerazione il totale delle infezioni di origine professionale denunciate, il rapporto tra i generi si inverte - circa sette contagiati su 10 (70,7%) sono donne - e l’età media scende a 47 anni. Nord sotto tiro - Dall’analisi territoriale il Nord resta sotto tiro. Entrando nello specifico emerge che più della metà delle denunce presentate all’Istituto (55,1%) ricade nel Nord-Ovest, seguito da Nord-Est (24,4%), Centro (11,9%), Sud (6,2%) e Isole (2,4%). Concentrando l’analisi esclusivamente sui casi mortali, la percentuale del Nord-Ovest sale al 56,7%, mentre il Sud, con il 16,0% dei decessi, precede il Nord-Est (13,8%), il Centro (11,6%) e le Isole (1,9%). La Lombardia si conferma la regione più colpita, con il 35,2% dei contagi denunciati e il 41,7% dei casi mortali. Tra le province, invece, il primato negativo spetta a quella di Milano, con il 10.8% del totale delle infezioni sul lavoro denunciate, seguita da Torino (7,8%), Brescia (5,4%) e Bergamo (4,6%). Si riducono i contagi delle professioni sanitarie - Se la categoria dei tecnici della salute - con il 39,2% delle infezioni denunciate, oltre l’83% delle quali relative a infermieri, e il 9,5% dei casi mortali - si conferma la più colpita, seguita dagli operatori socio-sanitari (20,6%), dai medici (10,1%), dagli operatori socio-assistenziali (8,9%) e dal personale non qualificato nei servizi sanitari, dopo il lockdown l’incidenza delle professioni sanitarie sul totale dei contagi da Covid-19 si è progressivamente ridotta. Guardando invece le attività produttive coinvolte dalla pandemia, il settore della sanità e assistenza sociale (ospedali, case di cura e di riposo, cliniche, residenze per anziani e disabili) con il 70,3% delle denunce e il 21,3% dei decessi codificati precede l’amministrazione pubblica (Asl e amministratori regionali, provinciali e comunali), in cui ricadono l’8,9% delle infezioni denunciate e il 10,7% dei casi mortali. Gli altri settori più colpiti sono i servizi di supporto alle imprese (vigilanza, pulizia e call center), il manifatturiero e le attività dei servizi di alloggio e ristorazione. Palermo. Morti due detenuti del carcere Pagliarelli, la Procura dispone l’autopsia di Riccardo Campolo palermotoday.it, 23 ottobre 2020 Si tratta di un 37enne e di un 48enne morto dopo l’arrivo in ospedale. A stroncarli sarebbe stato un infarto fulminante. Per averne conferma però bisognerà attendere il risultato degli esami che verranno eseguiti all’Istituto di medicina legale. Morti due detenuti del Pagliarelli. La Procura ha disposto l’autopsia per fare luce su entrambi i casi, registrati in poco meno di 24 ore. Si tratta di due palermitani di 37 e 48 anni. Il primo è deceduto ieri mattina, nonostante le manovre di rianimazione eseguite dal personale in servizio nell’istituto penitenziario. Il secondo si sarebbe sentito male ieri sera, mentre si trovava nella sua cella. Dopo i primi soccorsi è intervenuta un’ambulanza che ha portato il detenuto in ospedale, dove si è spento questa mattina. A stroncarli potrebbe essere stato un infarto, ma per avere una conferma ufficiale bisognerà attendere l’esito degli esami autoptici che verranno eseguiti all’Istituto di medicina legale del Policlinico. Benevento. 22enne morto in cella, i familiari accusano: “Non è suicidio” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 23 ottobre 2020 Sabato scorso da Brindisi era arrivato a Benevento. E qui, nella casa circondariale Capodimonte, aveva detto di trovarsi particolarmente bene al punto di voler chiedere il trasferimento in via definitiva. Martedì sera, però, è stato trovato impiccato nella cella che condivideva con un altro detenuto. Protagonista della vicenda è Salvatore Luongo, 22enne originario di Melito: è lui la nona persona a essersi tolta la vita in una prigione della Campania dall’inizio dell’anno a oggi. Ma per i familiari del giovane, che stava scontando una pena per piccoli reati, non si tratta di suicidio: “Salvatore stava benissimo - riferisce una zia - È stato sicuramente ucciso, bisogna far luce sulle sue ultime ore”. Stando al racconto dei parenti, Luongo era arrivato a Benevento per presenziare ad alcune udienze. Nel penitenziario sannita il 22enne era apparso su di morale. Anche la sua compagna aveva avuto questa sensazione nel corso della telefonata ricevuta alle 15 di martedì: “Quando si sono sentiti - racconta Rubina Vincolo, zia di Salvatore - mio nipote diceva di essere contento di trovarsi a Benevento. Era sicuramente positivo e ottimista” Otto ore più tardi, alle 23, dal carcere sannita è però arrivata la notizia della morte di Luongo. “Ci hanno detto che si era impiccato - continua la zia - Che cosa è successo tra il pomeriggio e la sera? Vogliamo la verità sulla morte di Salvatore”. Sono diversi gli elementi che inducono i familiari di Luongo a escludere l’ipotesi del suicidio. Al giovane, detenuto dal 2016 per piccoli reati, restavano da scontare pochi mesi di reclusione. A Benevento si era trovato subito a proprio agio. Ad agitarlo, però, sarebbe stato il compagno di cella che, secondo quanto riferito dallo stesso Salvatore ad alcuni parenti, lo avrebbe guardato “in malo modo”. Sulla morte del 22enne di Melito è stata aperta un’inchiesta e oggi i medici legali dell’ospedale San Giuliano di Giugliano sottoporranno la salma ad autopsia. Dall’esame potrebbero emergere indizi fondamentali per ricostruire gli ultimi istanti di vita di Luongo e la dinamica della sua morte. Se anche si trattasse di suicidio, il fatto sarebbe grave. Il motivo? Il gesto estremo di Luongo è il nono in Campania e il 47esimo in tutta Italia dall’inizio dell’anno a oggi. Segno che i reclusi nelle prigioni nazionali vivono troppo spesso momenti di difficoltà psicologica legati non solo al loro passato, ma anche alle disumane condizioni detentive: spazi esigui, sovraffollamento, igiene approssimativa, attività rieducative insufficienti e ridotti contatti con i familiari spingono chi si trova dietro le sbarre a compiere gesti estremi. “Non conosciamo il cortocircuito che determina certe tragedie - commentano Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, rispettivamente garante campano e napoletano dei detenuti - Certo è che il carcere è stato rimosso dal dibattito pubblico e ridotto a discarica sociale. E anche per questo chiediamo che venga fatta luce sulla morte di Luongo”. Come si può rimediare? “Servono più figure sociali, più attività trattamentali, più occasioni di lavoro - concludono Ciambriello e Ioia - Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria può custodire e accudire i detenuti, ma per questi ultimi non c’è possibilità di rieducazione e di reinserimento sociale se mancano azioni positive da parte del territorio e degli enti locali”. Benevento. “Ucciso e trattato come un cane”, l’appello della famiglia di Salvatore di Rossella Grasso Il Riformista, 23 ottobre 2020 “Mio fratello non si è ucciso, ne sono certa, me l’hanno ammazzato in carcere. E poi hanno trattato la salma come quella di un cane”. Il cuore di Concetta Esposito è straziato dal dolore per la morte di suo fratello Salvatore Luongo, morto in carcere a Benevento la sera del 20 ottobre. La famiglia si dispera mentre aspetta da tre giorni fuori all’ospedale di Giugliano. Si sono riunite lì tutte le donne della famiglia, le sorelle, la mamma, le zie, le cugine, per darsi forza in attesa dell’esito dell’autopsia che chiarirà le circostanze della morte di Salvatore ancora avvolte nel mistero. Certo è che un giovane di 22 anni è morto all’interno di un carcere. Dal primo momento alla famiglia è stato detto che Salvatore si era suicidato impiccandosi nella sua cella. “Non avrebbe mai fatto una cosa del genere - dice Concetta tra le lacrime - Lui era un ragazzo forte. Poi il 20 pomeriggio ci siamo sentiti al telefono: abbiamo parlato e scherzato. Mi ha detto che nella sua cella c’era un bulgaro che lo guardava male senza parlare. Salvatore ne aveva timore. Aveva anche chiesto di cambiare cella”. Salvatore era detenuto dal 2016 al carcere di Brindisi. Era momentaneamente stato trasferito in quello di Benevento per consentirgli di prendere parte a un’udienza. Si trovava lì da due giorni ma aveva raccontato alla famiglia di essersi trovato bene lì tanto da voler chiedere il trasferimento. “Dopo averlo sentito al telefono ero serena quel giorno - continua Concetta - poi alle 23 ho ricevuto una telefonata da un numero anonimo. Mi dicevano che Salvatore era morto, che si era impiccato. Io non ci potevo credere. Mi hanno detto anche che la sera stessa la sua salma sarebbe stata portata all’ospedale Sangiuliano di Giugliano. Non sapevano dirmi nient’altro. Allora con la mia famiglia abbiamo iniziato a chiamare in continuazione al carcere per capire cosa fosse successo ma nessuno ci rispondeva. Siamo andati all’ospedale e la salma non c’era. Poi qualcuno ci ha risposto al telefono al numero del carcere e ci ha detto che forse ci avevano fatto uno scherzo perché mio fratello era nella sua cella e stava bene. Così stavamo per andare via quando abbiamo visto arrivare un carro funebre”. “Ci siamo avvicinati al carro e abbiamo chiesto di chi fosse la salma - continua il racconto Rubina Vincolo, zia di Salvatore - Gli autisti non lo sapevano. E non sapevano niente nemmeno all’ospedale: nessuno gli aveva detto che stava arrivando una salma da Benevento. Siamo rimasti fino alle 4 del mattino intorno alla bara senza sapere cosa fare e senza che nessuno ci dicesse cosa fare. Nemmeno i carabinieri sapevano”. “Possibile mai che un ragazzo che ci hanno detto essere morto in carcere a Benevento intorno alle 21, tre ore dopo sta già in obitorio a Napoli e nessuno sa niente? - dice Concetta - Non ce lo hanno nemmeno fatto riconoscere. Non c’è nemmeno una foto o una dichiarazione del carcere che dica cosa è successo. Volevano solo sbarazzarsene e sviare le indagini? Ci hanno detto che Salvatore è stato trovato morto con la cella aperta, un detenuto ha anche provato a salvarlo facendogli la respirazione bocca a bocca. Dove stava la polizia, perché nessuno sa niente o ha visto niente?” Intanto la famiglia Luongo aspetta il risultato dell’autopsia anche se crede poco all’ipotesi del suicidio: “Al telefono mi aveva chiesto di portargli soldi e vestiti puliti e voleva sapere quando sarei andata a trovarlo. Uno che pensa di uccidersi qualche ora dopo chiede questo?”. E fa un appello a tutti i detenuti: “Voi detenuti dite la verità, non vi nascondete, perché voi potete essere le prossime vittime. Com’è stato fatto a mio fratello lo fanno anche a voi. Vi prego se sapete qualcosa su mio fratello ditecelo anche in maniera anonima. Scriveteci una lettera per dirci com’è stato ammazzato mio fratello. Vi prego aiutateci! Io voglio la verità su mio fratello, mi devono dire perché è morto. Noi non ci fermiamo finché non sappiamo la verità”. Milano. Dentro il carcere di Bollate: la pena come rieducazione milano-positiva.it, 23 ottobre 2020 Entrare in un carcere non è una cosa semplice, neppure come visitatori. Isola di dolore, luogo di riflessione, ma anche di sofferenza personale, di libertà compressa per legge. Milano Positiva ci è entrata nelle scorse ore, a Bollate, nelle more di un processo rieducativo che ha permesso che alcuni detenuti del penitenziario possano essere autorizzati, con permessi speciali, a consegnare in alcune chiese della città quel cibo che Milano Positiva si occupa di raccogliere attraverso le imprese che lo mettono a disposizione, per quelle famiglie che in un momento di crisi come questo hanno bisogno prima di tutto di mangiare. Il percorso condiviso sia con le istituzioni giudiziarie sia con il penitenziario della città metropolitana, prevedono che accanto a Gianni Zais sia consentito ad alcuni detenuti di accompagnare quest’ultimo nella consegna che viene fatto in alcune diocesi cittadine (a proposito: vi ricordiamo che Milano Positiva cerca un benefattore per poter comprare un pulmino per distribuire il pane alla gente). Un’esperienza importante che segna da vicino quei ragazzi che, macchiati di reati anche gravi, hanno così la facoltà di maturare la coscienza della necessità di tanti e della sofferenza di troppi cui il contributo della presenza oltre che del cibo offre ristoro a chi più di ogni altra cosa soffre di solitudine. Una condizione che molto detenuti hanno imparato a riconoscere come fratello nella propria esistenza, soprattutto quando le porte del carcere si chiudono dietro di te, generando una lacerazione con il mondo esterno e con le figure affettive che da quel momento non possono più incontrarli. Una scelta importante quella della nostra associazione: innanzitutto esserci per chi non ha la forza di vivere la dimensione del carcere se non nel senso di una punizione. Invece dal male si guarisce con l’amore, con le emozioni, scavando a fondo dentro il dolore di cui tanti, troppi, fuori dal carcere decidono di rinunciare. Una rinuncia fatale che porta all’ignavia e alla tracotanza di tanti anziani medici, sulla bocca di tutti oggi, che proliferano davanti alle telecamere con il loro narcisismo ferito e la loro rabbia repressa, che genera paura. A volte si è in prigione anche a piede libero. E si è liberi pur essendo costretti all’esercizio di misure restrittive. Stare a contatto con il dolore può essere una chiave di volta per provare a cambiare. Mettendosi in prima linea per cambiare con la fatica di guardarsi attorno e capire la complessità sociale. Stare dentro la realtà, un modo per far finta di essere sani in un mondo di disturbati. Rossano Calabro (Cs): “Dignità per tutti i detenuti”, domenica sit-in davanti al carcere informazionecomunicazione.it, 23 ottobre 2020 Sit-in dinanzi alla Casa di Reclusione di Rossano in programma domenica 25 ottobre alle ore 10,30 per rivendicare “Dignità per tutti i detenuti”. L’iniziativa, che nasce in seguito ad una missiva inviata al Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) dall’avv. Adriano D’Amico, consigliere comunale di San Demetrio Corone e membro del Comitato Politico Provinciale Rifondazione Comunista Cosenza, mira ad accendere i riflettori sul “pianeta carcere” e sulle sue finalità, richiamando quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione Italiana: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo stesso D’Amico cita nella missiva al Dap l’opera di Cesare Beccaria, che “certamente non può essere annoverato tra comunisti ed estremisti nemici del Popolo e dello Stato” e che “a proposito della pena riferisce che non può essere “Uno strumento per raddoppiare con altro male il male prodotto dal delitto commesso” ma uno strumento “Per impedire che al male già arrecato se ne aggiunga altro ad opera dello stesso criminale o ad opera di altri che dalla sua impunità potrebbero essere incoraggiati”. Partendo dalle situazioni denunciate da Cesare Battisti, attualmente ristretto nella sezione AS2 del carcere di Rossano, dedicata ai detenuti imputati e/o condannati per terrorismo, i promotori del sit-in intendono sensibilizzare sulle condizioni di tutti i detenuti: “La richiesta di aiuto che giunge forte dal super carcere di Rossano (CS), ci ha fatto incontrare nei giorni scorsi per discutere di diritti e dignità dei detenuti. Le privazioni ed i soprusi subiti da Cesare Battisti, emerse dalle sue dichiarazioni riportate dai media nazionali e locali, sono comuni, purtroppo, a moltissimi detenuti italiani, che a discapito della citata Carta Costituzionale sono costretti in uno spazio vitale ai minimi termini di sopravvivenza; all’ozio forzato in una cella che il più delle volte non rispetta i canoni di legge; sprovvisti molto spesso di suppellettili indispensabili, quali, ad esempio, un computer o dei francobolli, che consentirebbero al detenuto di continuare a vivere oltre la dimensione disumana del carcere e comunicare con i suoi cari. Nel caso specifico di Battisti, detenuto nel super carcere di Rossano da qualche settimana, nel momento in cui al predetto, che ha scritto numerosi libri pubblicati in Italia ed all’estero, si impedisce l’uso del computer, ritenendosi, provocatoriamente “che non risulta alle autorità una sua professione che implichi la disponibilità del computer o di altro materiale didattico”, è evidente che gli si vuole impedire di interagire con le istanze esterne, culturali e mediatiche, che potrebbero fargli guadagnare il consenso di democratici e garantisti. Se così non è, si diano segnali altri, diversi; si ridia dignità a Cesare Battisti ed a tutti i detenuti italiani; che possano scontare la loro pena secondo le regole e le leggi dello Stato, senza subire da questi, dallo Stato, una vile ed inutile vendetta. La rieducazione è il fine ideale della pena; e lo Stato, durante l’esecuzione della stessa, dovrebbe creare le condizioni necessarie affinché il condannato possa reinserirsi nella società in modo dignitoso, mettendolo in condizioni, una volta libero, di non commettere nuovi reati; finalità introdotta per salvaguardare la dignità umana quale diritto fondamentale dell’uomo in quanto tale. Sulla scorta di queste brevi ma sentite considerazioni, Vi invitiamo al sit in che si terrà innanzi il super carcere di Rossano”. I primi firmatari: Franco Piperno (docente Unical); Adriano D’Amico (avvocato); Sandra Berardi (associazione Yairaiha onlus); Francesco Saccomanno (segretario provinciale Rifondazione Comunista-Cosenza); Andrea De Bonis (operatore culturale); Francesco Cirillo (giornalista-scrittore); Daniela Ielasi (giornalista); Claudio Dionesalvi (giornalista); Delio Di Blasi (CGIL-Cosenza); Lisa Sorrentino (avvocato); Maurizio Nucci (avvocato); Fortunato Cacciatore (ricercatore Unical); Paolo Perri (ricercatore UniFi); Oscar Greco (ricercatore UniCal); Angelo Broccolo (medico); Eugenio Naccarato (avvocato); Italo Di Sabato (Osservatorio sulla repressione); Elisabetta della Corte (ricercatrice UniCal); Silverio Tucci (musicista); Franco Iachetta (attivista). Catania. “L’Orto dei sogni”: dal carcere di Giarre presto i tesori del territorio di Antonella Barone gnewsonline.it, 23 ottobre 2020 La casa circondariale di Giarre (Ct) dispone, come molti altri istituti, di tenimenti (ndr vasti possedimenti terrieri) che da alcuni anni sono stati oggetto di rilancio delle attività penitenziarie agricole grazie a progetti che coniugano formazione e opportunità lavorative per le persone detenute. La posizione del carcere di Giarre- Istituto a Custodia Attenuata per Tossicodipendenti con due sezioni Media Sicurezza - sembra prestarsi particolarmente a un progetto di recupero dei terreni, sia per la sua favorevole posizione climatica, tra l’Etna e la fertile piana costiera del mar Jonio, sia per la ricchezza di prodotti agricoli tipici della zona: tra le eccellenze coltivate il Cavolo Trunzu di Acireale. Il progetto Orto dei sogni in terra di Sicilia, oltre al ripristino agricolo dei terreni dell’istituto di Giarre ha, proprio per le caratteristiche del luogo, l’obiettivo ulteriore di valorizzare e far conoscere i prodotti del territorio. Contenuti e finalità del progetto sono stati regolati da un Protocollo d’intesa firmato nei giorni scorsi dalla direttrice pro tempore del carcere, Milena Mormina, dalla dirigente dell’Istituto Superiore Mazzei Sabin Tiziana d’Anna e dai rappresentanti dell’azienda Slow food Catania e delle Associazioni Mercati del Contadino Siciliano e Agriturist Sicilia. L’accordo descrive anche gli impegni dei firmatari nelle varie fasi in cui si articola l’attività, dalla formazione delle persone detenute alla promozione e vendita dei prodotti. La Direzione dell’istituto individuerà i detenuti che hanno i requisiti - in termini di percorso rieducativo e durata della pena - per essere ammessi alla formazione e all’attività lavorativa interna ed esterna al carcere. Punti vendita dei prodotti provenienti dai tenimenti saranno messi a disposizione dall’Istituto Mazzei e dall’Associazione Mercati del contadino. Quest’ultima, insieme a Slow food, fornirà piante e sementi di prodotti tipici. Le attività di promozione delle iniziative, infine, saranno curate da Agriturist nazionale che individuerà anche canali di vendita dei prodotti nelle aziende associate. Parte integrante del progetto la partecipazione degli allievi dell’IIS Mazzei Sabin alle fasi di formazione congiunta che potrà rappresentare un’occasione per gli studenti per conoscere gli strumenti tramite i quali nelle carceri si cerca di dare attuazione alla funzione rieducativa della pena stabilita dalla carta costituzionale. Pianosa (Li). “Inserire i detenuti nel mondo del lavoro, il progetto per l’agricoltura” iltelegrafolivorno.it, 23 ottobre 2020 Visita a Pianosa del sottosegretario alla Giustizia Giorgis. Un sopralluogo sull’isola per verificare le modalità di attivazione del progetto Pon inclusione. È questo il motivo che ha portato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis nei giorni scorsi a visitare Pianosa. Ad accompagnare il viceministro c’erano il sindaco di Campo nell’Elba Davide Montauti e il direttore del carcere Francesco D’Anselmo. Il Pon è un progetto che ha come obiettivo la formazione dei detenuti e il loro graduale inserimento nel mondo lavorativo con attività destinate al mondo dell’agricoltura che sarà realizzato grazie ai fondi messi a disposizione dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con il cofinanziamento del Fondo sociale europeo. Tra Pianosa e Gorgona sono stati stanziati contributi per circa 1 milione e 300 mila euro. “È stato un incontro positivo - spiega il sindaco Montauti - teso a risolvere alcune difficoltà di tipo tecnico. Con il sottosegretario Giorgis ci siamo focalizzati su alcuni aspetti strutturali fondamentali per la realizzazione del progetto Pon. C’è la volontà condivisa delle istituzioni coinvolte ad avviarlo in tempi brevi. È un passo importante per fare interventi che aiutino l’isola a superare lo stato di degrado. La nostra idea è costruire anche una rete di collaborazioni con le realtà agricole locali. Una sinergia che, considerando che, in base agli usi civici, buona parte di Pianosa appartiene alla comunità campese,. potrebbe portare sviluppo e lavoro nel nostro comune”. Novara. La Camera penale dona attrezzi per l’attività sportiva in carcere di Marco Benvenuti La Stampa, 23 ottobre 2020 Ancora un’iniziativa per manifestare vicinanza alla popolazione detenuta, soprattutto in un periodo difficile come quello dell’emergenza sanitaria. Questa mattina una delegazione della Camera Penale di Novara, composta dagli avvocati Lorena Fornarelli e Fabio Fazio, ha donato alcuni attrezzi ginnici al carcere di via Sforzesca, utili all’attività ricreativa e sportiva. La consegna è avvenuta alla presenza del comandante del corpo di polizia penitenziaria e della responsabile dell’area trattamententale. L’attrezzatura è stata messa a disposizione dalla palestra “Vecchia Maniera” di Castelletto Ticino e verrà collocata nella palestra interna del penitenziario. “I giovani idealizzano il boss perché in cerca di una figura paterna” di Orlando Trinchi Il Dubbio, 23 ottobre 2020 “Il carcere è un’esperienza di una durezza incredibile. Nel reparto che ho frequentato a lungo i detenuti stavano venti ore su ventiquattro chiusi dentro la loro cella, in otto stipati in uno spazio di piccolissime dimensioni. Uno di loro mi diceva sempre: “quando siamo in galera, siamo tutti quanti dei lupi travestiti da pecore” “Non ci interessava entrare nel merito dei singoli episodi di violenza per fornire una spiegazione diversa o proporre addirittura una verità nuova rispetto a quella descritta nei procedimenti giudiziari, ma volevamo produrre riflessioni approfondite, cercando punti di vista originali rispetto a quelli consueti”. “Testimoni di violenza”, pubblicato di recente da Donzelli Editore, è infatti il frutto di incontri periodici che lo psicoterapeuta Giovanni Starace ha portato avanti per più di un anno con un gruppo di detenuti di un reparto di massima sicurezza del carcere di Poggioreale, allo scopo di approfondire la vita affettiva, le relazioni interne ai clan, il mondo interiore degli affiliati: tutto ciò che di solito sfugge alle cronache. Tra gli altri libri dell’autore, ricordiamo: “Il racconto della vita. Psicoanalisi e autobiografia” (Bollati Boringhieri, 2004), “Gli oggetti e la vita” (2013) e “Vite violente” (2014), entrambi editi da Donzelli. Come è nato questo libro? Avevo già scritto un articolo sulla storia di un trafficante e sui meccanismi di identificazione che questi aveva avuto con un importante boss della camorra. Il direttore di Poggioreale, che aveva letto i miei scritti, mi aveva invitato a parlarne alle guardie carcerarie, agli educatori, al personale e a tutti i presenti interessati. Hanno partecipato una trentina di persone, vi fu un interessante dibattito. Nel momento dei saluti, il direttore, persona molto affabile e intelligente, mi chiese se avessi voglia di collaborare a qualche altra iniziativa e io risposi che avrei avuto bisogno di tempo per pensarci, anche se, mentre lo dicevo, già sapevo che avrei accettato. Elaborai un piccolo progetto relativo a un gruppo di autobiografia, riservato a una decina di detenuti per un totale di sei incontri e successivamente, in base a come sarebbe andato, avrei deciso come proseguire. Così è nato questo libro. In che modo il modello offerto ai giovani dai cosiddetti reclutatori si sovrappone e a volte confligge con quello proposto dalla figura paterna - di cui lei rileva spesso l’assenza - e la figura materna? Parliamo spesso di ambienti degradati segnati da grande indigenza. Le figure genitoriali, cui i ragazzi sono affettivamente legati, non offrono tuttavia meccanismi convincenti di identificazione. I padri sono spesso disoccupati o impiegati in lavori occasionali, nel qual caso portano a casa un reddito molto esiguo. Una volta che si presentano figure di riferimento con cui identificarsi ricche, potenti, vincenti e rispettate, queste esercitano un grande richiamo. Questi giovani sanno a cosa vanno incontro ma preferiscono rischiare, complice anche quel tipico senso di onnipotenza adolescenziale che li spinge a pensare che non succederà mai loro quello che succede agli altri (cosa che invece puntualmente avviene). Matteo a un certo punto dice: “Una persona diventa tanto più potente quanto più è invisibile”. Da cosa deriva il carisma del capo? Il capo è tale innanzitutto in quanto è riuscito a sbaragliare i suoi rivali diventando il dominus incontrastato della sua zona. Gode di ricchezze inestimabili, al punto da potersi permettere di bruciare in una notte migliaia e migliaia di euro al gioco d’azzardo. Per questioni più che altro legate alla sicurezza, il capo non si vede mai, tranne nel momento in cui viene arrestato o ucciso. Per via di tale invisibilità, acquisisce un maggiore carisma, diventando una sorta di presenza autorevole che aleggia nel paese. Sa tutto di tutti - in quanto tutto gli viene riferito - ma gli altri non sanno niente di lui. Anche lo spazio stesso acquisisce una forte valenza psicologica. Potrebbe parlarci dell’identificazione di interi quartieri con i clan? Pur trattandosi di un mondo dove le regole vengono fatte e poi contravvenute, è tuttavia sempre vivo il tentativo di imporle. I clan fondano la propria attività sullo spazio che è di loro pertinenza, che controllano e si tramandano di generazione in generazione: cambiare quartiere vuol dire anche cambiare clan di riferimento. Ogni quartiere, a seconda del capo, ha le sue regole: in alcuni di essi, possono anche essere vietati lo spaccio di droga e le estorsioni. C’è un’ambiguità comunicativa di fondo nel codice della criminalità organizzata? Una volta dichiarate, i contendenti credono nelle regole che si sono dati. In certe occasioni, tuttavia, mentre viene dichiarata una regola, coloro che la stipulano sanno già che la infrangeranno alla prima occasione utile. Ciò avviene spesso nelle alleanze: quando due figure legate a clan diversi stringono un comune accordo per uccidere un terzo incomodo, subito dopo ciascuno dei due si ingegna su come far fuori l’alleato stesso. Si tratta di una procedura molto frequente. Cosa comporta a livello psicologico l’esperienza della reclusione che può valere come credenziale per venire successivamente reclutati? La detenzione produce spesso una conseguenza psicologica molto particolare, ovvero la dissociazione. Gli individui in carcere cambiano, in quanto se dovessero tenere insieme la vita da recluso e quello di uomo libero rischierebbero di impazzire. Il carcere è di una durezza incredibile. Nel reparto che frequentavo, i detenuti stavano venti ore su ventiquattro chiusi in cella. In otto, in una cella di piccole dimensioni. Uno dei detenuti mi diceva: “Quando siamo in carcere, siamo tutti lupi travestiti da pecore”. Gli aspetti più violenti vengono lasciati fuori e dentro la prigione si cerca, per quanto possibile, di convivere in maniera civile. Per alcuni affiliati, tuttavia, una volta usciti dal carcere, è molto difficile riuscire ad affrancarsi dal clan di appartenenza. La memoria della reclusione diventa presto lontana e si ritorna a delinquere. L’essere stati in carcere rappresenta sicuramente una credenziale, in quanto vuol dire che non si ha tradito e si ha acquisito una tempra sufficiente per poter poi venire reclutati a livelli più alti. Che incidenza ha la violenza - o le varie forme di violenza - nella regolazione dei rapporti criminali? Si sa benissimo che chi trasgredisce un patto va incontro a una risoluzione violenta e i rapporti gerarchici molto marcati sono segnati dalla violenza: chi non sia attiene alla gerarchia richiama su di sé una sanzione violenta, prima minacciata e poi agita. La violenza è il regolatore fondamentale e ultimo dei rapporti nella criminalità, in quanto, a differenza del mondo civile, non esistono altri meccanismi sanzionatori. Nel fenomeno rappresentato dalla cosiddetta paranza dei bambini la gerarchia viene meno? Quello della paranza dei bambini è un fenomeno che perdura, anche se penso che adesso si sia un po’ attenuato. Ho parlato dell’argomento con i detenuti del mio gruppo e la mia interpretazione era che i padri, morti o carcerati, avevano liberato uno spazio consistente, abbassando di fatto l’età di appartenenza e, addirittura, di dirigenza dei clan. I miei interlocutori non erano del tutto d’accordo con me, in quanto molti di questi giovani non necessariamente appartenevano a dei clan ma erano delinquenti sciolti che emulavano i comportamenti dei criminali adulti. Non avevano altro che riferimenti idealizzati dei capi clan e quindi agivano in modo spontaneo ed esibizionista, tanto che la maggior parte di loro è finita in galera o è stata uccisa. Molte di queste persone percepiscono lo Stato solo nelle sue componenti repressive. A suo avviso, cosa bisognerebbe migliorare? Esiste, al riguardo, una molteplicità di iniziative sul territorio, dal doposcuola al teatro ai progetti patrocinati da parrocchie e organizzazioni cattoliche. Sarebbe tuttavia necessaria un’azione straordinaria dello Stato in termini di creazione di occupazione, di investimenti in loco. Bisogna inoltre ricordare che lo Stato è declinato nelle sue diverse articolazioni territoriali, che comprendono Comuni e Province e le pertinenze ad essi collegati (trasporti, infrastrutture, ecc...). Per migliorare sarebbe quindi necessario il concorso di tutte queste articolazioni statali. Il Covid e le città impotenti di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 23 ottobre 2020 Non aver compreso che il virus non ha sensibilità istituzionale, non conosce le linee di confine tracciate dalle autorità istituzionali, fa sì che i centri nevralgici del contagio, le città, le aree metropolitane, le grandi concentrazioni urbane siano state lasciate a sé stesse Le città impotenti - Le città italiane vengono molto prima delle Regioni, entità amministrative e istituzionali costruite dalla legge e dai confini disegnati a penna, come gli Stati nazionali scaturiti dalla dissoluzione dell’Impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale. E se proprio si vuole tornate indietro, esistono da prima della fondazione del nostro Stato unitario. Con la pandemia stiamo scoprendo che dal punto di vista sanitario le città, pur forti di una storia, di una cultura, di un’identità e persino di un orgoglio municipale (mentre non esiste, o è debolissimo, un orgoglio propriamente “regionale”), non contano nulla, mentre le costruzioni che di storia ne hanno quasi zero, le Regioni, dettano legge nel campo della sanità. Con il risultato paradossale che Milano conta la metà dei contagiati di tutta la Regione Lombardia, che lo stesso vale per Roma con il Lazio, per Genova con la Liguria, per Napoli con la Campania, ma Milano, Roma, Genova, Napoli e le altre città capoluoghi di Regione possono pochissimo nella battaglia contro il virus. E se i piccoli centri, tutto sommato, sono più protetti da un sistema di medicina territoriale discutibile ma pur sempre meno distante, più presente, più riconoscibile, le metropoli travolte più drammaticamente dal contagio si smarriscono. I grandi centri urbani perdono il bandolo dei tracciamenti, abbandonano i cittadini nella solitudine e nell’impotenza, nella pandemia incontrollata, come dicono (tardivamente) gli stessi epidemiologi. Non aver capito, dopo l’esplosione del marzo scorso, che la pandemia agisce secondo logiche straordinarie del tutto diverse dai periodi in cui la sanità è gestita in via ordinaria, e non aver compreso che il virus non ha sensibilità istituzionale, non conosce le linee di confine tracciate dalle autorità istituzionali, fa sì che i centri nevralgici del contagio, le città, le aree metropolitane, le grandi concentrazioni urbane siano state lasciate a sé stesse. Con una doppia conseguenza negativa, per le grandi città e per la provincia, trattate allo stesso modo e senza tener conto delle specificità, delle differenze, delle urgenze. Non ha nessun rapporto con la realtà trattare allo stesso modo, solo per fare degli esempi ma se ne potrebbero proporre mille altri, Milano e la provincia Sondrio, Roma e quella di Rieti, Napoli e quella di Benevento, Firenze come la Versilia, Palermo come Racalmuto, Torino come le Langhe e così via. E se oggi si lamenta la mancanza di uniformità nazionale, la sensazione che ognuno vada per conto suo, è soprattutto perché questa differenziazione avviene in modo caotico, estemporaneo, senza programma, senza lucidità, senza chiarezza di obiettivi, in definitiva senza governo, mentre le differenze dovrebbero essere valorizzate proprio per una battaglia condotta con mezzi migliori contro il virus. I cittadini (appunto, si dice “cittadini”) vivono in città dove il contagio è più favorevole perché nelle città, per definizione ci si incontra, ci si accalca, avvengono scambi, contatti, ci si sposta di più, si affollano i mezzi del trasporto pubblico. Il “coprifuoco”, eventualmente, deve concentrarsi lì, perché lì, nelle metropoli, è più utile, allenta la morsa della calca, e infatti in Francia, che pure ha una storia molto meno “policentrica” fondata sulle mille città, Emmanuel Macron ha imposto il coprifuoco dalle 21 solo in alcune concentrazioni urbane e non nella grande provincia. I problemi nascono perché c’è una eccessiva distanza tra la realtà, cioè la centralità della citta nella pandemia e il disegno politico-amministrativo che assegna alle Regioni la competenza sanitaria. È un’autonomia monca perché non tiene conto della realtà, della storia, della società così com’è effettivamente e come si sta rivelando nella battaglia contro il virus. E i ritardi, le inefficienze, le inadempienze sanitarie diventano ancora più deleterie, e letali, se i presìdi sociali sono lasciati sguarniti. Le code apocalittiche per i tamponi avvengono nelle grandi città, i vagoni della metropolitana a si riempiono nelle grandi città, anche i treni dei pendolari si dirigono prevalentemente verso le grandi città, e forse fa eccezione in parte la Lombardia, che ha un territorio fortemente più antropizzato che altrove. Ma che potere hanno i sindaci per prender misure radicali senza disporre del minimo controllo sull’apparato sanitario? Le città sono il centro della vita reale, ma il governo delle strutture sanitarie, nel picco della tempesta pandemica, risiede altrove. Il caos di questi giorni, così drammatico, nasce anche da qui. I paradossi della “tirannia sanitaria” di Massimo Recalcati La Stampa, 23 ottobre 2020 Sono sempre più numerose le voci intellettuali, più o meno nobili, da destra e da sinistra, che si sono alzate con vigore in queste ultime settimane allarmate non tanto per la seconda ondata del virus, ma per come la gestione sanitaria dell’epidemia stia generando il rischio di una vera e propria svolta totalitaria del nostro Paese. La riduzione delle libertà individuali, lo svuotamento della democrazia parlamentare pregiudicata dal numero eccessivo di decreti legge, una legislazione sempre più asservita all’emergenza fanno temere per le sorti della nostra democrazia. La virata liberticida sarebbe sotto gli occhi di tutti: una dittatura sanitaria avrebbe preso il posto della nostra democrazia. Questo genere di letture appaiono ai miei occhi doppiamente colpevoli. La prima colpa consiste nell’avallare una sottovalutazione della dimensione clinico-epidemica del Covid 19. È la colpa grave di chi vorrebbe rimuovere la morte, la malattia e la sofferenza che ci ha travolti in questi mesi. Solo questa colpa dovrebbe essere una ragione sufficiente per moderare i toni, essere più umili e più rispettosi nei confronti delle persone e delle famiglie colpite tragicamente dal morbo. Invocare la lettura generale dei movimenti d’insieme - per esempio la spinta ad una legislazione fondata sullo stato d’emergenza che dall’11 settembre in avanti sembra dominare la vita politica dell’Occidente - trascurando però la dimensione singolare della perdita e del dolore, rischia di essere espressione di un terribile vizio di fondo della politica: fare prevalere i discorsi generali-universali sulla considerazione della dimensione singolare della vita e della sua fragilità. Per questa ragione un grande psicoanalista italiano come Evio Fachinelli di fronte alla misteriosa sparizione del corpo del leader comunista cinese Lin Piao caduto in disgrazia presso i fedelissimi di Mao all’interno del suo partito, insisteva nel chiedere sue notizie. Dov’è il corpo di Lin Piao? Mentre i dotti commentatori di sinistra consideravano la sua scomparsa un’inezia, un riflesso del tutto secondario di una partita assai più ampia - quella della lotta interna al partito per avere la sua direzione - lo psicoanalista non indietreggia nel porre la sua fastidiosa ed emblematica domanda che ricorda all’universalismo astratto del discorso politico l’insopprimibilità della dimensione singolare dell’esistenza: dove è il corpo di Lin Piao? Lo stesso accade oggi, se si vuole, per coloro che denunciano nella legislazione d’emergenza una dittatura sanitaria di fronte alle sofferenze delle persone e delle famiglie colpite dal virus. La seconda grave colpa riguarda l’intolleranza nei confronti dell’esperienza del limite che la gestione dell’emergenza sanitaria ha dovuto necessariamente riaffermare nella nostra vita individuale e collettiva. Questa intolleranza deriva direttamente da una concezione solo libertina della libertà che vive l’esperienza imposta del limite come l’esito liberticida di un suo abuso dittatoriale. Portare la mascherina, rinunciare alla movida, alla libertà di spostamento, alle feste con gli amici, insomma incontrare i limiti imposti dalla Legge all’esercizio effettivo della nostra libertà viene visto come un attentato autoritario nei confronti di nostri inalienabili diritti. La dittatura sanitaria colpisce al cuore la nostra libertà individuale. Saremmo così tutti prigionieri di un regime che esercita un potere di controllo tanto abusivo quanto illimitato. La diagnosi biopolitica di Foucault sarebbe pienamente confermata. Quello che però così non si riesce a leggere è quanto l’esigenza della sicurezza e della protezione della vita non debba sempre avallare il fanatismo igienista del biopotere, quanto la solidarietà non necessariamente debba evolvere verso una compattezza totalitaria del corpo sociale, quanto l’esperienza del limite non sia solo una costrizione repressiva ma l’incontro con una alterità che ci educa a considerare la funzione virtuosa del suo trauma. Affermare invece una libertà astratta che non è in grado di attraversare l’esperienza del limite significa sostenere il carattere illusorio dell’ideale di fronte ad un reale traumatico che non può essere negato. Dovremmo infatti ricordare che ogni negazionismo è l’aggiramento del lavoro atroce ma necessario del lutto rispetto, innanzitutto, alla nostra onnipotenza. Come insisteva a fare Fachinelli, dovremmo sempre chiederci dove sia il corpo di Lin Piao, non dimenticare mai il carattere singolare della vita, la sua fragilità senza scampo. Lamorgese: “Migranti in sicurezza sulle navi quarantena” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 ottobre 2020 La risposta della ministra all’interrogazione del deputato di Erasmo Palazzotto (Leu). Nelle scorse settimane, di notte, erano stati prelevati molti migranti che si trovavano nei centri di accoglienza e portati sopra le cosiddette “navi quarantena” dove non avrebbero più visto un medico, sarebbero stati costretti a stare per giorni con le stesse lenzuola e addirittura la stessa mascherina. Finalmente il caso è arrivato in parlamento e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, nel question time alla Camera, ha risposto all’interrogazione parlamentare del deputato di Erasmo Palazzotto. “Alcuni migranti risultati positivi al Covid 19 sono stati trasferiti dai centri di accoglienza - ha spiegato la ministra Lamorgese - dove erano ospitati, a bordo di una delle 5 navi quarantena. Questo ha corrisposto a un’esigenza del tutto eccezionale in considerazione dell’impossibilità di individuare, nella contingenza, i posti necessari nelle strutture del territorio destinate all’accoglienza e all’osservanza sanitaria. Tale esigenza si è resa indispensabile per tutelare anche la salute degli altri stranieri presenti in quei centri, viste le difficoltà di compartimentazione delle strutture”. Ci ha tenuto a precisare, però, che “i trasferimenti sulle navi sono stati effettuati con l’adozione di ogni misura precauzionale nel pieno rispetto delle misure anti Covid, d’intesa con il Dipartimento della Protezione Civile e senza alcuna compromissione della situazione dei migranti trasferiti, che peraltro sono già in larga parte, non appena negativizzati, rientrati nelle strutture di accoglienza precedenti e lo stesso naturalmente avverrà anche per quei pochi che sono ancora positivi, quindi che sono ancora in quarantena”. La ministra dell’interno ha inoltre smentito che i servizi igienici e sanitari non siano stati attuati ai migranti ospiti delle navi quarantena. “Voglio anche sottolineare - ha aggiunto - che la strategia posta in essere dal ministero dell’Interno è volta a dare priorità all’applicazione delle misure di sorveglianza sanitaria sul territorio in cui i migranti sono ospitati. E proprio per questo sono state reperite altre 25 strutture a terra che hanno una ricettività totale di 2700 posti. In tale prospettiva, che richiede ovviamente la collaborazione di tutte le istituzioni interessate, la linea d’azione potrà essere rafforzata e in questo senso ho dato specifiche indicazioni ai miei uffici”. Palazzotto di LeU, replicando alla ministra, ha augurato che i trasferimenti operati non si verifichino più, aggiungendo il fatto che la questione posta “offre l’opportunità di aprire una riflessione sulle navi quarantena, uno strumento approntato durante l’emergenza che sta mostrando tutta la sua inadeguatezza”. Per corroborare tale inadeguatezza ha citato la drammatica vicenda di Abou, un ragazzo di 15 anni morto perché a bordo di una di quelle navi non ha ricevuto le cure e l’assistenza adeguata alla sua condizione di naufrago e di sopravvissuto alle torture dei campi di concentramento in Libia. “Abou - ha sottolineato il deputato Palazzotto - sulla base delle nostre leggi, in particolar modo della legge Zampa sulla tutela dei minori stranieri non accompagnati, non doveva neppure trovarsi su quella nave. Eppure è rimasto lì per oltre 10 giorni prima di essere ricoverato in un ospedale. Le navi si stanno rivelando uno strumento lesivo dei diritti delle persone e particolarmente costoso”. Il deputato di LeU, sempre durante la replica alla ministra, ha spiegato che non possiamo permetterci che lo stato di eccezione legato alla pandemia travolga principi e valori fondativi della nostra Repubblica, sanciti dalla nostra Costituzione. “E non possiamo prevedere trattamenti diversi in base alla nazionalità dei cittadini. Se ciò dovesse accadere sarebbe messo in discussione lo stato di Diritto che è architrave della nostra democrazia. La invito quindi Signora Ministro a sospendere l’utilizzo delle navi quarantena a e trovare sistemi di accoglienza e di tutela della sicurezza sanitaria dei cittadini più adeguati”, ha concluso Palazzotto. Gran Bretagna. Stretta sui condannati e i senzatetto non britannici di Leonardo Clausi Il Manifesto, 23 ottobre 2020 Giro di vite contro l’immigrazione: dal 1 gennaio “criminali” e homeless stranieri saranno deportati. Dopo i “criminali” stranieri, i senzatetto. Dal primo gennaio prossimo, una volta compiuto il periodo di transizione post-Brexit, gli appartenenti a entrambe le categorie che non godano dell’invidiabile privilegio di essere sudditi della corona saranno deportati - sì, deportati - nei rispettivi paesi di origine. O sarà loro vietato l’ingresso nel paese. È la nuova, umanitaria misura varata dalla titolare del dicastero dell’Interno Priti Patel: testé annunciata, attualmente al vaglio delle Camere e che sarà discussa il prossimo 4 novembre ai Comuni. L’ennesima stecca nella cacofonia sociale chiamata Brexit. Poco importa che le misure saranno, a detta dello stesso ministero, applicate solo a coloro che rifiutino altri aiuti o si comportino ripetutamente in modo antisociale: che pratiche da seconda guerra mondiale come la deportazione (o il coprifuoco) diventino la “normalità” cui tutti agognano di questi tempi la dice lunga sulla tossicità etica e morale nella quale sguazzano i governi di tutta Europa, in un’epoca in cui l’economia recede e la pandemia galoppa. Tanto che viene da chiedersi come mai Patel e i suoi sgherri sprechino quest’inestimabile potenziale di manodopera gratuito anziché recludere i parassitari “continentali” nelle workhouses: sorta di galere dove si lavorava gratis e in cui erano molto pragmaticamente sbattuti i poveri ai bei tempi della “New” Poor Law (1834). Il problema dell’essere senza fissa dimora, nel quinto paese più ricco del mondo, è endemico. Dei 300mila senza casa stimati nel 2017 dall’organizzazione umanitaria Shelter, circa 12mila sono quelli denominati dall’orrenda parola “barboni”: gente che dorme sdraiata su pezzi di cartone, sotto i viadotti, in automobili e negli autobus notturni. Cifre del 2019 riportate dal Guardian stabiliscono l’incidenza di senzatetto di origine europea nel paese al 22% (extraeuropea al 4%), mentre a Londra le percentuali sono rispettivamente del 42% e del 7%: un autentico bendidio per la propaganda sovranista al potere. Ecco dunque la misura totalitaria annunciata dalla ministra, che cade altresì a fagiolo nel programma di sradicamento della homelessness del governo Johnson, ultimo della sfilza di governi tories cui si deve - in buona sostanza - lo stesso pastrocchio Brexit. La loro politica economica e sociale non avrà creato il problema - quello dei senza casa nelle grandi città britanniche è endemico, va avanti da decenni e ha caratterizzato anche il lungo periodo a guida laburista, negli anni Novanta - ma l’ha violentemente esacerbato, soprattutto con l’austerity e la cronica mancanza di alloggi popolari, ripetutamente promessi e mai costruiti in proporzione sufficiente. Diventa quindi molto più facile demonizzare l’altro, nel lavoro come nella sua mancanza, e applicare bovinamente la discriminazione nazionalistica anche alla devianza sociale: un “prima i britannici” affibbiato ai lavoratori e ai disoccupati come ai “malviventi” e ai senza fissa dimora. Evitando a bella posta di agire sulle cause del problema, concentrandosi piuttosto sull’eliminazione della sua visibilità. C’è dunque poco da meravigliarsi, figuriamoci indignarsi. Simili provvedimenti non sono soltanto in linea con il naufragio ormai irrimediabile del modello neoliberale. Sono l’evoluzione, pedissequa e prevedibile, della retorica che aveva portato colei che aveva preceduto Patel in quello stesso ministero: Theresa May e il suo, ormai famigerato, “ambiente ostile”. Un’ostilità che è ormai leitmotiv di queste società europee sempre più occhiute, ex-liberali, ex-liberiste, socialmente distanziate. Gran Bretagna. Feroce Brexit di Johnson: via gli europei condannati di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 23 ottobre 2020 L’espulsione varrà anche per i reati di lieve entità. Il governo: “Basta con chi abusa dei nostri valori”. Il 1° gennaio si aspetta se veramente la Brexit produrrà l’uscita totale della Gran Bretagna dal consesso dell’Unione Europea. In realtà, negoziati difficilissimi dal punto di vista commerciale, sono ancora in corso, e potrebbe profilarsi anche il cosiddetto “no deal”, l’abbandono della Ue senza accordo. In ogni caso l’inizio dell’anno prossimo potrebbe rivelarsi un momento nel quale in UK sarà difficile essere dei cittadini europei. Il governo di sua Maestà infatti ha già annunciato che agirà da sola per quanto riguarda le persone del vecchio continente sulle quali gravano condanne per diversi reati penali anche di lieve entità. Secondo quanto dichiarato ieri da Priti Patel, alla guida dell’Home Office, una euroscettica convinta, “per troppo tempo, le leggi dell’Unione europea hanno permesso di far entrare nel nostro Paese criminali stranieri, che abusano dei nostri valori e minacciano il nostro modo di vivere. Dal 1° gennaio 2021 finirà la libertà di movimento Ue per noi e il Regno Unito sarà un Paese molto più sicuro, grazie ai nostri controlli ai confini: i criminali europei saranno trattati come tutti quelli degli altri Paesi”. Un discorso da pura sovranista che va ben al di là delle norme Brexit. In realtà la Patel ha già subito una sconfitta, quella inflittale mercoledì scorso dalla Corte d’appello che ha annullato la decisione del Ministero dell’Interno di espellere i migranti dal Regno Unito senza che possano avere accesso alla giustizia. Con una decisione unanime infatti, tre giudici hanno ritenuto illegale la politica, che consentiva l’allontanamento forzato a volte entro poche ore e in molti casi senza l’ausilio di avvocati. Fino ad ora le espulsioni sono state oltre 40mila, persone vulnerabili vittime di provvedimenti illegali e ora autorizzate a rientrare nel Regno Unito. Per i cittadini europei, proprio in virtù della Brexit, l’intenzione della Patel assume un carattere evidentemente diverso. Attualmente, secondo le leggi Ue, gli europei possono essere espulsi solo se costituiscono una minaccia riconosciuta e non gravati di una condanna pregressa. Anche nel caso di reati come omicidio o violenza sessuale. Dal prossimo anno però coloro che hanno carichi penali superiori ad un anno non potranno fare ingresso in UK, qualora già si trovino in territorio britannico verranno espulsi. Per le condanne a meno di 12 mesi si valuterà caso per caso. Particolarmente controversa la possibilità che l’Home Office possa applicare l’allontanamento anche per condanne di pochi mesi che non hanno mai fatto incarcerare la persona interessata. Una eventualità vaga e poco chiara tutta a discrezione delle autorità. Si parla di soggetti pericolosi “per il bene comune” o il “mantenimento dell’ordine pubblico”. Per diversi critici del provvedimento la possibilità che si verifichino abusi di legge è più che plausibile. Rimarranno fuori dalle nuove leggi i cittadini europei che hanno commesso reati precedenti ma hanno ottenuto un permesso di soggiorno di almeno 5 anni. Misura che però potrebbe essere revocata in caso d’infrazioni che comportano pene superiori ad 1 anno di prigione. Stati Uniti. Dalla schiavitù al patibolo, il razzismo ha cambiato volto di Valerio Fioravanti Il Riformista, 23 ottobre 2020 Tra i motivi di liberazione dal braccio della morte in Usa dilaga la cattiva condotta di polizia e accusa, soprattutto quando l’imputato è nero. Un nuovo rapporto del National Registry of Exonerations (Registro Nazionale dei Proscioglimenti) ha rilevato che la cattiva condotta della polizia o dell’accusa è dilagante nei casi di liberazione dal braccio della morte e si verifica ancora più frequentemente quando l’imputato ingiustamente condannato a morte è nero. Il rapporto Government Misconduct and Convicting the Innocent, pubblicato il 15 settembre 2020, ha esaminato i fattori che hanno contribuito a 2.400 proscioglimenti dal 1989. Ha rilevato che la cattiva condotta è stata presente in più della metà dei casi e in quasi tre quarti dei casi di pena di morte, e la cattiva condotta tendeva ad aumentare di frequenza man mano che i reati contestati diventavano più gravi. Il Registro ha riscontrato un comportamento scorretto nel 54% di tutti gli esoneri, salendo al 72% nei casi in cui gli innocenti erano stati condannati a morte. Una strage degli innocenti che è stata evitata spesso per un pelo. “La moderna pena di morte è la diretta discendente della schiavitù, del linciaggio e della segregazione razziale”, ha detto Robert Dunham, Direttore esecutivo del Death Penalty Information Centre, la fonte più autorevole sulla pena di morte a stelle e strisce, che ha documentato almeno 172 casi dal 1973 di persone che erano state ingiustamente condannate a morte e poi prosciolte. Durante la schiavitù, la pena capitale era uno strumento per controllare le popolazioni nere e frenare le ribellioni. Dopo la guerra civile, i funzionari pubblici hanno promesso esecuzioni legali come mezzo per scoraggiare i linciaggi. Quando le esecuzioni hanno cominciato a prendere il loro posto in tutto il Sud, uomini afroamericani sono stati condannati e giustiziati per presunto stupro o tentato stupro di donne o ragazze bianche. Nessun uomo bianco è mai stato giustiziato per aver violentato una donna o una ragazza nera. La discriminazione razziale è ancora di attualità nella giustizia americana. Il comportamento scorretto di polizia e/o pubblica accusa è risultato più probabile nei casi che coinvolgevano imputati neri, in particolare nei casi di droga o omicidio. Complessivamente, il 57% degli esonerati neri e il 52% degli esonerati bianchi sono stati vittime di cattiva condotta della polizia e/o pubblica accusa, ma, il rapporto ha rilevato, “questo divario è molto più ampio tra gli esoneri per omicidio (dal 78% al 64%), specialmente quelli con condanne a morte (dall’87% al 68%)”. Il tasso con cui si è verificato un comportamento scorretto era più basso, in generale, per i crimini di droga, ma la disparità razziale era molto maggiore (47% per gli esonerati neri, contro il 22% per gli esoneri bianchi). Lo studio ha classificato il “comportamento scorretto” in cinque categorie principali: pressioni sui testimoni, irregolarità negli interrogatori, prove artefatte, occultamento di prove a discarico e irregolarità durante il processo. Comportamenti scorretti della polizia sono stati riscontrati nel 35% dei proscioglimenti e dei pubblici ministeri nel 30% dei casi. Tra le cattive condotte della polizia, pressioni illecite sui testimoni, irregolarità durante gli interrogatori, fabbricazione di prove a carico e una grande quantità di occultamento di prove a discarico e false testimonianze durante i processi. Mentre i pubblici ministeri si sono distinti nella maggior parte dei casi di occultamento delle prove a discarico e irregolarità durante il processo e in una notevole quantità di pressioni illecite sui testimoni. Secondo Samuel Gross, redattore capo del rapporto, è sottostimata l’incidenza dei comportamenti scorretti da parte della polizia e/o pubblica accusa, perché la grande maggioranza delle condanne errate non viene mai scoperta, quindi la portata del problema è molto maggiore di quanto i numeri provino. Secondo il rapporto, il problema è aggravato dall’incapacità sistemica di ritenere responsabili i trasgressori. “Non ho mai sentito parlare di un pubblico ministero arrestato o di un pubblico ministero licenziato o radiato dall’albo per cattiva condotta”, ha commentato Joel Feinman, il principale difensore della contea di Pima, in Arizona. Stati Uniti. Oltre 3.000 morti all’anno nelle prigioni, molti mai condannati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 ottobre 2020 Sono oltre 3000 morti l’anno i detenuti delle carceri statunitensi. Questo dato allarmante si evince dal fatto che, attraverso il monitoraggio della agenzia stampa Reuters del 20% delle carceri Usa, risultano 625 morti l’anno. Di questi, ben due terzi sono in attesa di un processo. Un dato che se moltiplicato per cinque, arriviamo appunto ad oltre 3000 decessi. Parliamo di uno studio della Reuters sulla mortalità nelle carceri statunitensi e ripreso dall’associazione radicale “Nessuno Tocchi Caino” che monitora costantemente la situazione penitenziaria di tutto il mondo. Basandosi su una parte delle carceri di bassa e media sicurezza, l’agenzia stampa ha individuato 7500 morti negli ultimi 12 anni. Come riporta “Nessuno Tocchi Caino”, l’agenzia stampa Reuters ha presentato più di 1.500 richieste di documenti pubblici per raccogliere dati sulla popolazione di detenuti di più di 523 prigioni statunitensi, sull’assistenza sanitaria che ricevono, e sulle morti. Si tratta di uno studio su quelle che negli Usa vengono chiamate “jail”, ossia le prigioni “locali”, gestite dagli uffici degli sceriffi delle varie contee. Sono prigioni o per detenuti in attesa di processo o, una volta effettuato il processo, per detenuti condannati per reati non gravi. Come è noto il sistema penitenziario degli Stati Uniti ha poi un sistema statale di “prisons”, ossia prigioni non a livello di contea, ma di stato, dove dopo il processo vengono inviati i detenuti con reati gravi. Oltre a quelle statali, esistono anche le “prisons” federali”. L’ultimo conteggio, ripreso sempre da “Nessuno Tocchi Caino”, risalente a poco più di un anno fa contava nei vari sistemi carcerari statunitensi un totale di poco più di 2.200.000 detenuti: circa 730.000 nelle “jails”, poco meno di 1.300.000 nelle “prisons”, e 180.000 nelle “prisons” federali”. Come criterio Reuters ha scelto le “jails” che hanno una presenza media giornaliera di almeno 750 detenuti, e comunque le 10 più popolose di ogni stato. Reuters calcola di aver preso in considerazione i dati “equivalenti” a 445.106 detenuti l’anno. Se il totale dei detenuti Usa è 2.200.000, 445.000 rappresenta il 20,2%. I dati non includono sei stati, poco popolati, in cui jails e prisons sono difficili da distinguere perché gestite da strutture statali unificate: Alaska, Connecticut, Delaware, Hawaii, Rhode Island e Vermont. In totale Reuters ha individuato, dal 2008 al 2019, 7.571 decessi, così suddivisi dai rapporti ufficiali: suicidi 2.075, omicidi 206, droghe / alcol 618, malattia 3.802, infortuni 153. Dei suicidi, Reuters indica che 3/4 si sono uccisi prima del processo, o addirittura prima del rinvio a giudizio. Diversi sono i casi riportati. Uno riguarda Harvey Hill che non voleva andarsene dal cortile del suo datore di lavoro ed era rimasto sotto la pioggia battente. Per quell’episodio Hill è stato accusato di violazione di domicilio e arrestato con una imputazione che in realtà dovrebbe prevedere una semplice multa fino a 500 dollari. Cominciò ad andare in escandescenza e ha subito abusi dagli agenti. Soffriva di dolori, ma è stato mandato direttamente in cella di isolamento. Nessuno lo ha controllato per 46 minuti. Quando lo hanno fatto, era già morto. Le vittime come Hill sono all’ordine del giorno: trattenute con accuse minori, e muoiono senza mai passare da un tribunale. Almeno 2/3 dei detenuti morti identificati da Reuters, 4.998 persone, non sono mai stati condannati per le accuse per le quali erano stati arrestati. Nessuno Tocchi Caino, sul suo sito on line, ha riportato alcune storie simili. Israele non rinnova i permessi ai funzionari Onu per i diritti umani di Michele Giorgio Il Manifesto, 23 ottobre 2020 17 organizzazioni per i diritti umani israeliane hanno scritto al ministro degli esteri Ashkenazi per protestare contro la decisione di non rilasciare permessi di soggiorno ai funzionari stranieri dell’Ohchr, l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet. “Il personale dell’Ohchr deve ottenere i visti. Quei permessi sono stati rilasciati per decenni da Israele al personale dell’Ohchr nei Territori palestinesi occupati (Tpo). Ora l’ufficio di cui sei responsabile ha deciso di sospendere il rilascio dei visti ostacolando così il lavoro del Commissario (per i diritti umani). Questi tentativi di censura falliranno: non riusciranno a nascondere le conseguenze della politica di Israele e le violazioni dei diritti umani che commette nei Tpo e non metteranno a tacere il nostro lavoro o quello dei nostri colleghi (stranieri)”. Così 17 organizzazioni per i diritti umani e della società civile in Israele - tra le quali Adalah, Gisha, B’Tselem, Yesh Din, Rompere il silenzio - hanno scritto in una lettera indirizzata al ministro degli esteri Gabi Ashkenazi, per protestare contro la decisione del governo Netanyahu di non rilasciare più permessi di lavoro ai funzionari stranieri dell’Ohchr, l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet. Le autorità israeliane non hanno ancora risposto a queste accuse. Siamo di fronte, dicono gli attivisti dei diritti umani, a una ritorsione per la lista diffusa lo scorso 12 febbraio dall’Ohchr con i nomi delle 112 aziende israeliane ed internazionali che svolgono attività negli insediamenti coloniali ebraici costruiti dopo l’occupazione militare nel 1967 in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Aziende che rischiano sanzioni. Sino ad oggi però non si è appreso di alcun provvedimento nei loro confronti. Le 17 ong affermano che il mancato rilascio dei visti è “l’ultima di una serie di misure” delle autorità israeliane che hanno colpito diversi difensori dei diritti umani. E citano le restrizioni ai movimenti per Laith Abu Zeyad, dell’ufficio di Ramallah di Amnesty International; l’espulsione del direttore in Palestina di Human Rights Watch Palestina, Omar Shakir; e la campagna contro il direttore di Al-Haq, Shawan Jabarin, etichettato un “terrorista in giacca e cravatta”. Ricordano anche il favore con cui il premier Netanyahu ha accolto la decisione dell’Amministrazione Trump di approvare sanzioni contro la Corte penale internazionale dell’Aia. Il governo Netanyahu, dopo la diffusione della lista delle 112 aziende che operano nelle colonie, aveva subito minacciato sanzioni nei confronti dell’Ohchr che accusa di antisemitismo e di prendere di mira sistematicamente lo Stato ebraico perché controllato da paesi nemici di Israele. L’ex ministro degli esteri Israel Katz aveva disposto “misure eccezionali e dure” contro l’ufficio di Michelle Bachelet descrivendolo “al servizio della campagna Bds”, il movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele per le sue politiche nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. Una linea dura pienamente condivisa dall’Amministrazione Trump. Così in questi ultimi mesi gli uffici dell’Ohchr nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania si sono svuotati dei loro funzionari internazionali. Almeno nove membri della commissione Onu sono stati costretti a partire, riferiva nei giorni scorsi il portale Middle East Eye. Avevano richiesto secondo la procedura in uso l’estensione dei permessi ma dal ministero competente i loro passaporti sono tornati senza il timbro di rinnovo. I visti di altri tre funzionari dell’Ohchr scadranno presto. La giornalista israeliana Amira Hass ha scritto qualche giorno fa sul suo giornale, Haaretz, che lo scopo del governo Netanyahu sarebbe quello di “mettere a tacere e paralizzare qualsiasi opposizione internazionale all’occupazione e alle colonie”. Nagorno Karabakh, la pace sembra un’illusione di Antonio Armellini Corriere della Sera, 23 ottobre 2020 La Russia di Putin e la Turchia di Erdogan non potevano non scontrarsi in una regione in cui si sovrapponevano la storia e le ambizioni di entrambi. È inutile farsi troppe illusioni. Tregue e scontri continueranno a lungo intorno al Nagorno Karabakh, metafora efficace della pretesa, a lungo coltivata, di gestire grazie a nuove regole condivise lo sconvolgimento creato dalla fine dei blocchi contrapposti in Europa. La modifica dei confini fra le Repubbliche sovietiche era utilizzata anche da Stalin per creare instabilità e rafforzare il controllo dal centro di Mosca: il Nagorno Karabakh, un’enclave armena cristiana all’interno dell’Azerbaijan mussulmano, venne annesso a quest’ultimo al termine di un periodo molto turbolento, con uno statuto di autonomia contestato che rinfocolò il confronto sinché, con la dissoluzione dell’Urss, le cose precipitarono. Il Nagorno dichiarò la propria indipendenza e fra le parti ci fu guerra aperta. Si trattava della prima e della più violenta fra le crisi regionali che stavano emergendo dalle ceneri dell’Urss. Le nuove repubbliche indipendenti di Armenia e Azerbaijan si erano impegnate al rispetto dei principi dell’integrità territoriale e della modifica pacifica dei confini, sanciti dalla “Carta di Parigi per una Nuova Europa” della Csce, con cui vincitori e vinti della guerra fredda avevano inteso nel 1990 cancellarne l’eredità. L’impianto scricchiolava già pericolosamente e c’era il timore di un effetto di contagio; le pressioni per metterne alla prova l’efficacia furono forti e la Csce riuscì ad imporre una mediazione in quello che prese il nome di “gruppo di Minsk”, presieduto dall’Italia. L’Italia svolse un ruolo molto attivo in quegli anni. La politica estera di un Ministro tanto controverso quanto intelligente come Gianni de Michelis, partiva da un’idea lungimirante e spregiudicata dell’interesse nazionale, che andava oltre la sola dimensione comunitaria e, considerando che la fine dell’impero sovietico aveva aperto prospettive inedite, mirava a recuperare autonomamente spazi e influenza. Con la creazione della “Pentagonale” cercò di ribilanciare l’influenza della Germania in paesi dell’Europa centrale dove l’Italia era stata storicamente presente. Con il “gruppo di Minsk” cercò di inserirsi nel gioco delle influenze post-sovietiche in un’area che si annunciava importante per le sue risorse petrolifere. La macchina della diplomazia tradizionale, tuttavia, stentava a tenere il passo e non è un caso se entrambe finirono per scivolare in una progressiva irrilevanza. La Russia era nel pieno delle sue convulsioni interne e la Turchia era ancora un affidabile scudiero della Nato. Entrambe avevano altro da pensare e lo spazio per un intervento della Csce, utile come parametro anche per altre crisi, c’era. Il negoziato partì con le migliori intenzioni a Roma - il modello su cui si ragionava era quello dell’Alto Adige - ma si impantanò in un intreccio contorto di torti e ragioni che rinfocolavano le rigidità rispettive, mentre l’Armenia conquistava sul terreno un collegamento fisico con la provincia separatista. La debolezza della Csce era evidente e ci sarebbe voluto un impegno di direzione forte; l’Italia non se la sentì e preferì rinunciare ad un ruolo di spessore in un’area dove diversi anni dopo avrebbe cercato faticosamente di rientrare. La palla della mediazione passò a Russia, Stati Uniti e Francia, dove si trova tuttora. Ragioni antiche servono a spiegare fatti recenti. Il conflitto si è trascinato negli anni in una successione di scontri armati e tentativi di pace, alimentato dall’odio storico e religioso fra i contendenti, senza che cambiasse di molto la situazione di fatto. Russia e Stati Uniti, i due dominus esterni, si limitavano a controllare la situazione e tenere d’occhio i contendenti, badando che la crisi non debordasse dalla dimensione regionale per assumere carattere più ampio, per il quale vedevano più rischi che utilità. Il gruppo di Minsk era la foglia di fico di un coinvolgimento multilaterale privo di effettiva sostanza. Le cose sono cambiate quando al multilateralismo inefficace si sono sostituite le ragioni della geopolitica. La Russia di Putin, intenta a recuperare un ruolo internazionale a tutto tondo, e la Turchia di Erdogan, dalle aggressive tentazioni neo-ottomane, non potevano non scontrarsi in una regione in cui si sovrapponevano la storia e le ambizioni di entrambi, cruciale sotto il profilo energetico e dalla quale ritenevano di essere state estromesse per ragioni che era gran tempo di correggere. Il Nagorno Karabakh non è più un problema locale da utilizzare strumentalmente, ma è diventato la rappresentazione di uno scontro dall’importanza strategica assai diversa. Il tutto, nell’indifferenza degli Stati Uniti di Trump e nella debolezza europea, velleità francesi a parte. Il quadro multilaterale, l’Osce, la Nato, l’Onu potranno avere un ruolo di contorno, utile per confermare l’intesa se e quando sarà raggiunta dagli attori principali. Sino ad allora, parlare di pace nel Nagorno Karabakh resterà un’ambizione frustrata.