Le carceri italiane sono la vergogna del Paese, ma non importa a nessuno di Giuliano Pisapia* linkiesta.it, 22 ottobre 2020 Alle condizioni degradanti delle prigioni si aggiunge una mentalità collettiva che dà più importanza alla punizione che al reinserimento. Il risultato, come si ricorda nella prefazione di Giuliano Pisapia a “Dei relitti e delle pene”, libro di Stefano Natoli (Rubbettino), è una situazione disumana e controproducente per la società stessa. Spesso sfugge - anche agli operatori del settore - quanto sia nevralgica per il futuro del nostro Paese la questione carceraria. Non occorre scomodare Voltaire o Brecht per dover prendere atto che le carceri del nostro Paese non sono degne di un Paese civile e che, più in generale sui temi della giustizia, l’Italia non è stata capace di far proprio il pensiero di uno dei suoi figli più illustri, Cesare Beccaria. Tanto da far dire, a un luminare del diritto, come il prof. Giacomo Delitala, che “l’Italia è tanto culla del diritto che il diritto si è addormentato”. Stefano Natoli con acutezza rilegge il titolo della celebre opera del grande illuminista milanese e parla “dei relitti e delle pene”. Perché i protagonisti di questa riflessione sono proprio i relitti, gli ultimi, le persone ai margini della società; i tanti che entrano nel cerchio, spesso infernale, delle nostre carceri e si trovano a vivere - alcuni a scontare la pena, altri in carcerazione preveniva, e quindi presunti innocenti - in condizioni spesso disumane e degradanti anche, ma non solo, per il sovraffollamento carcerario, di gran lunga superiore alla capienza regolamentare. Tanti sono i motivi di una situazione che ha visto il nostro Paese essere condannato in più occasioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti “disumani e degradanti”. Il principale, però, è - e continua ad essere - la visione predominante, non solo del legislatore ma anche dei nostri concittadini, che considerano la “carcerizzazione” maestra per l’espiazione della pena. Così non è, come spiega l’autore, partendo dalla realtà quotidiana e dimostrando che la doverosa tutela della collettività, le esigenze di difesa sociale e l’equa punizione di chi ha leso diritti altrui ben può conciliarsi con il senso di umanità e con pene non vendicative e non carcerarie. Riflessione, quest’ultima, da decenni confermata dal fatto che chi sconta l’intera pena in carcere ha un tasso di recidiva di gran lunga maggiore di chi usufruisce pene alternative a quelle carcerarie. Natoli il mondo delle carceri lo conosce bene in quanto volontario in un istituto penitenziario milanese; è impegnato quotidianamente per aiutare “chi ha sbagliato” a ripensare ai propri errori e a trovare le energie per ripartire. Da acuto giornalista mette in fila i tanti errori, le omissioni, le visioni antiquate che ancora oggi sono “pensiero dominante” di chi ritiene il carcere quale unica via di redenzione dimenticando che sia la nostra Costituzione, sia le Convenzioni internazionali sottoscritte e ratificate dal nostro paese fanno propria la presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva e la finalità anche rieducativa della pena. Un contrasto tra princìpi fondanti della nostra democrazia e realtà quotidiana, dentro e fuori dalle carceri, che si è reso ancora più evidente e stridente in occasione dell’emergenza Coronavirus. I media si sono rianimati parlando delle sommosse, ma non è stata colta l’occasione per una riflessione sul carcere e la sua funzione. Sono l’indifferenza e la disinformazione il grande male che affianca la condizione carceraria e fa bene l’autore a rimarcarlo. Poco o nulla è cambiato dal “cimitero dei vivi” denunciato a suo tempo da Turati e ripreso, a quarant’anni di distanza, da Piero Calamandrei. La visione di Aldo Moro, fautore di un diritto penale dal volto umano, ha visto una possibile “primavera” con la riforma del 1986 promossa da Mario Gozzini, ma solo dopo pochi anni il carcere ha ritrovato la sua sinistra centralità. La finalità rieducativa della pena, ricordava Aldo Moro, non contrasta, ed è perfettamente compatibile, con quella etico-retributiva: “La pena non è il male per il male ma la limitazione della personalità finalizzata a una ragione superiore, che è poi la cancellazione del male stesso, l’eliminazione sul piano ideale del male che si è verificato nella vita sociale”. Riflessione che lo aveva portato ad essere contrario non solo alla pena di morte, ma anche all’ergastolo, alla “pena senza fine, alla pena che non finirà mai”, che “finirà con la tua vita questa pena, psicologicamente incivile e disumana”. La situazione è nota: istituti di pena sovraffollati, abitati da ultimi e da “cittadini in attesa di giudizio”. Una vita interna ai penitenziari dura e difficile dove il lavoro - interno o esterno alla struttura carceraria - viene visto più come un premio di buona condotta invece che un necessario strumento per la rieducazione del condannato e il suo reinserimento nella società. Natoli nella sua analisi mette in fila tutte le storture del sistema tra cui “il fine pena mai”. L’Italia in questo non è da sola rispetto ad altre Nazioni europee, ma un cambiamento di rotta si impone, in particolare dopo alcune decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. Come giustamente scrive l’autore le alternative al carcere ci sono e per questo bisogna crederci di più; le sanzioni sostitutive quali ad esempio la libertà controllata, i lavori socialmente utili, la pena pecuniaria sostitutiva hanno dimostrato con il tempo la loro efficacia. Grazie all’opera infaticabile di volontari, cappellani carcerari, giuristi, operatori del diritto hanno preso avvio importanti cammini volti a favorire la consapevolezza della giustizia riparativa nell’itinerario di reinserimento dei condannati e dell’attenzione alle vittime dei reati e ai loro familiari. La riforma carceraria non basta. Questo libro potrà contribuire a creare le condizioni per un recupero, sia a livello legislativo, sia nell’applicazione concreta delle norme già esistenti, dello spirito della Legge Gozzini. Non è più procrastinabile una riforma di sistema che veda una robusta opera di depenalizzazione, pene diverse da quella detentive, l’aumento dei riti alternativi con l’obiettivo di favorire una giustizia più celere ed efficiente. Solo così il nostro Paese potrà tornare a sedersi nel consesso delle grandi Nazioni e delle Patrie del Diritto. Per farlo occorre lasciarsi alle spalle visioni manichee e giustizialiste che ancora oggi dominano all’interno delle stanze dei bottoni. Saggi come quello di Stefano Natoli sono preziosi strumenti per rilanciare un dibattito e per offrire un opportuno quadro d’insieme a chi è chiamato a procedere con riforme non più indifferibili. Tribunali, corsa contro il tempo per evitare un nuovo lockdown di Simona Musco Il Dubbio, 22 ottobre 2020 Via Arenula studia interventi per scongiurare la chiusura Caiazza: “Necessario creare le condizioni di sicurezza”. Giustizia in stato d’agitazione. Senza norme di riferimento, né protocolli da seguire e i casi di contagio nelle procure e nei tribunali in aumento. Così si corre ai ripari, con chiusure strategiche e il tentativo di ridurre al minimo sindacale gli accessi ai palazzi, spostando online, quanto più possibile, l’attività. Il tutto mentre il Guardasigilli sta lavorando con l’obiettivo di aumentare le attività eseguibili da remoto, come la possibilità di consentire l’accesso da casa ai cancellieri anche per i registri penali, che richiede un investimento sul fronte della sicurezza per evitare possibili attacchi informatici. Si tratta, per ora, solo di dichiarazioni di intenti, prendendo a modello, quanto più possibile, quanto già avviene nel settore civile. Il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria, con una circolare, ha confermato la volontà di “non abbandonare il fruttuoso percorso, già avviato, di remotizzazione del processo e del lavoro del personale di magistratura e dipendente”. La novità è che gli applicativi da remoto saranno ora disponibili anche per alcuni registri di cancelleria, attraverso la distribuzione agli uffici 3.000 pc portatili (altri 5.000 saranno a breve diffusi), grazie ai quali “a breve potranno certamente essere disponibili e utilizzati da remoto anche i registri di area civile Sicid, Siecic e Sigp e le Consolle unificate di amministrazione (Cua) Sici e Secic”. Applicativi che consentiranno “la gestione remotizzata di tutta l’area dei registri civili, volontaria giurisdizione, fallimentare ed esecuzioni e dei servizi civili dei giudici di pace”. Tali servizi andranno ad aggiungersi a quelli dell’area amministrativa e generale già resi disponibili da remoto dal 9 marzo e per ora, però, poco sfruttati: pur avendo “accreditando nei sistemi stessi circa 10.040 unità di personale rispetto alle oltre 32.200 in servizio”, conclude la circolare, ad oggi gli “effettivi utilizzatori dei sistemi da remoto sono in numero assolutamente inferiore”. Tra le intenzioni del ministro ci sarebbe anche quella di consentire il deposito di atti via pec anche nel penale, equiparandolo al deposito cartaceo in cancelleria, con la possibilità di aprire nuovamente alle udienze da remoto, nel caso in cui fosse assolutamente necessario. Lo scopo è, ovviamente, evitare di tornare ad una chiusura totale, così accaduto durante il lockdown. Un’urgenza manifestata soprattutto dall’Unione delle Camere penali, che nei giorni scorsi ha scritto una lettera al ministro Alfonso Bonafede chiedendo un decreto legge per il deposito a mezzo pec degli atti processuali, quali impugnazioni, memorie, istanze e documenti. “Non abbiamo avuto nessun riscontro - ha spiegato al Dubbio Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi. Abbiamo chiesto un incontro e stiamo predisponendo un testo per le modifiche che riteniamo tecnicamente indispensabili per l’accesso smaterializzato agli uffici”. Il principale timore, allo stato attuale, è che si torni a “forme di sospensione o di riduzione dell’attività processuale”, un disastro in una situazione già collassata da anni e peggiorata dal lockdown. “È indispensabile mettere gli avvocati nelle condizioni di poter accedere il meno possibile agli uffici, ma non riceviamo risposte”, ha aggiunto Caiazza. E sul rischio di ritorno al processo da remoto anche per il penale, il leader di Ucpi è lapidario: “Mi aspetto di tutto”. Temono un blocco anche i giovani avvocati, che a seguito della proroga del periodo emergenziale al 31 gennaio 2021 hanno registrato, da parte di alcuni Uffici Giudiziari, i primi provvedimenti di rinvio. “La giustizia non può e non deve fermarsi - ha commentato il presidente Aiga, Antonio De Angelis -. Rinviare i procedimenti equivale ad una denegata giustizia per cui auspichiamo che il Guardasigilli prenda immediatamente i più opportuni provvedimenti, univoci su tutto il territorio nazionale, affinché non si ripeta quanto già accaduto a marzo”. Milano è solo la punta dell’iceberg dei disagi vissuti in queste settimane: il procuratore Francesco Greco, ieri, ha diramato una circolare con la quale ha regolamentato la stretta agli accessi, dopo il contagio, in pochi giorni, di cinque magistrati - l’ultimo ieri, con conseguente chiusura di uno dei corridoi del quarto piano con un nastro e l’isolamento di una scala laterale, bloccata con alcune spranghe - un ufficiale di pg, un paio di magistrati ordinari in tirocinio, due tirocinanti e due giudici. Mentre a Napoli, dopo la notizia di un caso di positività, un intero piano è stato chiuso in fretta e furia, con rinvio delle udienze già in corso e grande agitazione tra gli avvocati presenti. Greco, dal canto suo, ha regolato il rapporto tra gli avvocati e gli uffici della procura disponendo il ritorno all’interlocuzione digitale, con contatti solo via email o al telefono e appuntamenti in presenza concordati, “tenuto conto dell’evoluzione della situazione sanitaria” che attraversa una “fase critica”, si legge nella circolare, valida fino al 15 novembre. Covid, avvocati amministrativisti al Governo: si torni alle udienze da remoto Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2020 Per garantire lo svolgimento della giustizia necessario il processo a distanza fino al 31 gennaio 2021 e comunque per tutto il periodo di emergenza Covid. Qualche giorno fa, con una missiva inviata al Presidente Conte, erano stati i magistrati di Tar e Consiglio di Stato a chiedere il ripristino delle udienze da remoto. Oggi arriva l’appello, sempre in forma di lettera, degli avvocati amministrativisti al Premier e al sottosegretario Riccardo Fraccaro affinché per contenere il rischio contagi, “si torni alle udienze remoto” che “hanno funzionato e garantito macchina Giustizia”. “Con la crescita dei contagi, si legge in una nota dell’Unaa (Associazione nazionale avvocati amministrativisti), le raccomandazioni dello stesso governo a prediligere riunioni on line e la possibilità per i sindaci di ordinare lockdown parziali, è necessario tornare all’udienza da remoto fino al 31 gennaio 2021 e comunque fino al termine dell’emergenza Covid”. “Solo così - proseguono i legali - si potrà garantire l’effettivo svolgimento della Giustizia amministrativa nei prossimi mesi”. L’Unaa ricorda che l’udienza da remoto è stata una realtà fino al 31 luglio scorso ed è stato uno strumento “utile ed efficiente per affrontare i momenti più difficili della pandemia”. Gli avvocati amministrativisti chiedono quindi il varo di una norma che riattivi tale disciplina. L’attività in presenza, osservano gli avvocati, implica lo spostamento del difensore in tutto il territorio nazionale, l’utilizzazione di molteplici trasporti pubblici, lunghe attese fuori dai tribunali per evitare assembramenti e cioè mille situazioni di possibile contagio da evitare per lo stesso interesse della collettività, inevitabili rinvii e rallentamenti dell’iter processuale. Il Decreto sicurezza approda in Gazzetta, torna la “protezione umanitaria” Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2020 Approda finalmente in “Gazzetta” il cosiddetto “Decreto Sicurezza”. Dopo l’approvazione al Consiglio dei ministri del 6 ottobre scorso arriva in Parlamento il cambio di passo del Governo sull’immigrazione. Infatti, il decreto legge 21 ottobre 2020 n. 130 - recante “disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale e complementare, modifiche agli articoli 131-bis, 391-bis, 391-ter e 588 del codice penale, nonché misure in materia di divieto di accesso agli esercizi pubblici ed ai locali di pubblico trattenimento, di contrasto all’utilizzo distorto del web e di disciplina del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale” - fa ingresso nella raccolta delle leggi n. 261 del 21 ottobre. Vediamo in sintesi le novità. Permessi di soggiorno e transito e sosta nel nostro mare territoriale - Il primo fondamento del provvedimento - si legge nella relazione illustrativa - “si esplica nel richiamo ora inserito all’articolo 5, comma 6, del d.lgs. 286/1998, concernente le previsioni sul rifiuto e la revoca del permesso di soggiorno adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali”. Si incide poi sulla disciplina del provvedimento di divieto di transito e sosta nel mare territoriale. Nel caso in cui detto provvedimento sia fondato su ragioni di ordine e sicurezza pubblica, esso è adottato dal ministro dell’Interno, di concerto con il ministro della Difesa e con il ministro delle Infrastrutture, previa informazione al Presidente del Consiglio. Dette disposizioni non trovano applicazione alle operazioni di soccorso, immediatamente comunicate alle autorità italiane e dello Stato di bandiera e condotte nel rispetto delle norme di diritto internazionale e delle indicazioni del competente centro di coordinamento dei soccorsi in mare. Per quanto riguarda, in particolare, il permesso di soggiorno per la protezione speciale si prevedono due ipotesi ostative dell’espulsione: 1) si prescrive infatti il divieto di espulsione e respingimento nel caso in cui il rimpatrio determini, per l’interessato, il rischio di tortura; 2) si introduce una nuova fattispecie di divieto di espulsione che consegue al rischio di violazione del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare. Modifiche al procedimento di riconoscimento della protezione internazionale - Il restyling delle procedure si basa su due istituti: l’esame prioritario è diretto a rendere più celere il procedimento al fine di esaminare istanze che hanno una manifesta fondatezza o che sono presentate da persone vulnerabili; la procedura accelerata - invece - riguarda casi in cui può presumersi un uso strumentale della domanda e sono previsti termini precisi e più stringenti. Ampliamento delle competenze delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale (Dlgs 25/2008) - Il decreto legge estende, infatti, “la potestà decisionale delle Commissioni territoriali a fattispecie diverse da quelle della protezione internazionale, in particolare con riguardo alla fattispecie di cui all’articolo 19, comma 2, lett. d-bis, decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (divieto di espulsione per stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità)”. Cambiamento della condizione giuridica dello straniero - Si innova in questo ambito sotto due aspetti: 1) si adegua la normativa in materia dell’iscrizione anagrafica e rilascio della carta di identità nel segno della decisione della Corte costituzionale n. 186 del 9 luglio 2020; 2) si affronta poi anche il tema della “convertiblità dei permessi di soggiorni in materia di lavoro”. Scende in campo il nuovo Sistema di accoglienza e integrazione - Si individua nel nuovo Sistema di accoglienza e integrazione - che succede all’attuale Siproimi - come caposaldo ove svolgere le operazioni di accoglienza degli stranieri. In particolare, la struttura del Sistema di accoglienza e integrazione si articola “in due livelli di prestazioni, di cui il primo è dedicato ai richiedenti protezione internazionale mentre il secondo è relativo ai titolari di protezione e prevede servizi aggiuntivi, finalizzati all’integrazione”. Le norme in materia di sicurezza pubblica: dall’ordinamento penitenziario al Daspo urbano - La relazione illustrativa giustifica in questo modo le innovazioni. In particolare, si legge nel testo “si interviene sull’articolo 391-bis del codice penale, in materia di agevolazione delle comunicazioni dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis della legge 354/1975 (Ordinamento penitenziario), completandone il perimetro ed elevando il regime sanzionatorio”. Nello stesso ambito e con analoghe finalità, si introduce una nuova figura di reato (art. 391-ter del codice penale), mediante la quale viene sanzionata l’introduzione e la detenzione all’interno degli istituti penitenziari di telefoni cellulari e di dispositivi idonei a consentire la comunicazione con l’esterno. Si provvede inoltre a elevare le sanzioni penali previste per il reato di rissa (art. 588 del codice penale). Sono altresì rafforzate le misure del divieto di ingresso nei pubblici esercizi e nei locali di pubblico trattenimento o nelle loro adiacenze, nonché le misure di contrasto al fenomeno dello spaccio di stupefacenti attraverso siti web. Nel primo caso, si tende a rafforzare la capacità preventiva sul cosiddetto “Daspo urbano”, con l’intento di prevenire gravi episodi di violenza sia all’interno di locali che nelle immediate vicinanze degli stessi. Il secondo intervento mira ad applicare il meccanismo (già utilizzato per il contrasto alla pedo-pornografia online) dell’oscuramento dei siti web, che, sulla base di elementi oggettivi, devono ritenersi utilizzati per la commissione di reati in materia di stupefacenti. Viene infine integrata la disciplina contenuta nell’articolo 7 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, rimodulando la denominazione del Garante nazionale e ridefinendo sul piano normativo primario il suo ruolo di meccanismo nazionale di prevenzione, prorogando, nel contempo, per due anni il mandato del collegio attualmente in carica. Paralisi Anm, non c’è una maggioranza. Poniz bis, “Mi” frena di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 22 ottobre 2020 Adesso che le elezioni sono terminate e i 36 eletti del comitato direttivo centrale sono stati proclamati dall’Ufficio elettorale, è il momento di dar vita alla nuova giunta dell’Anm. Il “Cdc” deve insediarsi, come prevede lo statuto, fra 15 giorni per eleggere al suo interno la giunta esecutiva centrale, composta da nove membri, tra i quali il presidente, il vicepresidente, il segretario generale, il vicesegretario Generale, e il direttore della rivista “La Magistratura”. L’elezione dei vertici associativi potrebbe avvenire, quindi, già il 7 novembre prossimo. Questa la ripartizione dei seggi uscita dalle urne virtuali (le elezioni si sono tenute per la prima volta in modalità telematica): 11 alle toghe progressiste di Area, 10 a quelle moderate di Magistratura indipendente, 7 ai centristi di Unicost, 4 agli ex davighiani di Autonomia e indipendenza, e 4 ad Articolo 101, il gruppo “anti-correnti”. Lo schieramento dell’ex pm di Mani pulite sarà l’ago della bilancia. Area ha già fatto sapere di essere pronta a un “giunta unitaria”. Una riedizione di quanto già visto nel 2016 e che durò, però, un solo anno. Davigo, dopo essere stato eletto per primo alla presidenza dell’Anm (venne scelto il criterio della rotazione annuale dei vertici in modo che tutte le correnti avessero rappresentanza nel quadriennio), terminato il mandato era uscito dalla giunta in disaccordo con le scelte del Csm in tema di nomine dei capi degli uffici. Csm dove poi, nel 2018, si candiderà venendo eletto con un plebiscito. La giunta unitaria dovrebbe ripartire, secondo le intenzioni delle toghe progressiste, con un Poniz bis. L’eventuale riconferma nell’incarico del presidente uscente, esponente di Area, ha lasciato molto perplessi tanti magistrati di “Mi”. Per dar vita a una giunta unitaria bisogna convergere su un programma chiaro di “cinque o sei punti’ che verta su temi “sindacali”, affermano dalle parti della corrente moderata. Se invece gli altri gruppi intendessero dare una connotazione “ideologica” al futuro mandato dell’Anm, è la posizione prevalente in “Mi”, allora è inutile iniziare ogni discussione ed è meglio rimanere “all’opposizione”. Rispetto all’ipotesi di una presidenza Poniz, certamente legittimata dal primato assoluto di preferenze conseguito dal leader uscente, c’è un’altra considerazione che circola nel gruppo moderato: senza nulla togliere ai consensi ottenuti, non ci sono precedenti, nella storia dell’Anm, di un doppio e consecutivo mandato presidenziale. A dividere Area e “Mi” c’è pure la riforma del Csm. La corrente moderata, Articolo 101 e i togati eletti al Csm con “Aei” Nino Di Matteo e Sebastiano Ardita si sono espressi per il sorteggio. Ipotesi bocciata da Area e dallo stesso guardasigilli Alfonso Bonafede, il quale ha proposto una riforma, attualmente alla Camera, che, per i detrattori, anziché diminuire il potere delle correnti lo potrebbe persino accrescere. Ma a proposito del travaglio che “Mi” sembra destinata a vivere, peseranno molto le considerazioni proposte da Pasquale Grasso, ex presidente dell’Anm, e tra gli assertori, nello schieramento moderato, di una svolta “bipolarista”. Grasso è al momento “sub iudice”: il Csm sta studiando da oltre un mese, da quando si è dimesso il togato Marco Mancinetti, per capire se il giudice del Tribunale di Genova possa subentrargli o se invece sia necessario indire le terze elezioni suppletive in meno di un anno. Grasso è il primo dei non eletti alle ultime suppletive, quelle tenutosi lo scorso dicembre. “Area e Unicost”, è la premessa di Grasso, interpellato dal Dubbio, “non hanno la maggioranza, e nemmeno il resto degli schieramenti: parità perfetta e paralizzante. Certo, Autonomia e indipendenza potrebbe appoggiare Area e Unicost, come avvenuto nella giunta precedente, ma rischierebbe di compromettere almeno una parte significativa dei propri consensi, anche se si limitasse a un appoggio esterno”. “Articolo 101”, continua nella sua analisi l’ex presidente dell’Anm, “per propria natura non ha la vocazione a stabilire alleanze: sono colleghi duri e puri, per usare il gergo parlamentare”. Grasso però non certifica uno stallo, ma intravede un’evoluzione tutt’altro che smentita dai segnali emersi nella giornata di ieri: “Area sembra interessata a un’Anm che le consenta di veicolare innanzitutto le proprie idee, e se possibile di presentarle come comuni all’intera magistratura, per quanto l’obiettivo sia problematico: si spiegano anche così gli sforzi della corrente progressista per arrivare a una giunta unitaria, obiettivo peraltro dichiarato con parole chiare da Albamonte”. E allora per il giudice e predecessore di Poniz al vertice della giunta, “in un’ottica ecumenica non è escluso che Articolo 101 possa essere tentata, nell’illusione di cambiare qualcosa. Così come ‘ Aei’, comunque in difficoltà, potrebbe pensare di giocarsi una simile estrema opzione”. Ma il punto chiave dell’analisi di Grasso, che proprio come componente del gruppo moderato era stato proposto, un anno e mezzo fa, alla presidenza dell’Anm, è il seguente: “Magistratura indipendente, se accettasse, commetterebbe un enorme errore politico. Tra gli eletti di “Mi” ci sono molte persone in gamba che potrebbero in buona fede pensare di farcela a mutare la linea dell’Associazione, ma così lo schieramento moderato rischierebbe seriamente forme di dissenso interno”. Un’analisi che pesa, visto il ruolo di Grasso: che non si è candidato al comitato direttivo centrale, e che anzi da “Mi” era formalmente uscito l’anno scorso, ma che è in realtà il più convinto fra i promotori dell’asse che la corrente moderata ha costruito con il gruppo dei fuoriusciti di Unicost, Movimento per la Costituzione. Un asse che come è noto si è tramutato in una lista unitaria, in cui le due figure simbolo di “Mpc”, Enrico Infante e Antonio Sangermano, sono risultate fra i 10 eletti della neonata alleanza. Benevento. Tragedia nel carcere, detenuto di 22 anni si impicca nella sua cella di Valerio Papadia fanpage.it, 22 ottobre 2020 Il suicidio la scorsa notte nel carcere del capoluogo sannita: la vittima è un giovane detenuto napoletano di 22 anni, Salvatore Luongo, sul cui corpo come da prassi è stata disposta l’autopsia. “Ancora ignoto il corto circuito che porta a queste tragedie” hanno commentato i garanti dei detenuti di Campania e Napoli, Samuele Ciambriello e Pietro Ioia. Un giovane detenuto napoletano di 22 si è suicidato questa notte nel carcere di Benevento: il ragazzo si è impiccato all’interno della sua cella. A dare il triste annuncio sono stati il garante dei detenuti per la Campania e il garante dei detenuti per Napoli, Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, che fanno sapere che il 22enne è il nono detenuto a suicidarsi in Campania dall’inizio dell’anno, il 47esimo in Italia. “Non conosciamo il corto circuito che porta a queste tragedie - spiegano Ciambriello e Ioia. La maggioranza di loro sono giovani ed in carcere per piccoli reati. Il carcere è stato rimosso, è diventato una discarica sociale, che. ospita detenzione sociale. Salvatore, napoletano, proveniva da Brindisi e da sabato era nel carcere di Benevento, nella giornata di ieri, alle 15, aveva sentito al telefono la sua compagna. Era arrivato a Benevento per una udienza ed era in cella con un’altra persona. Domani ci sarà l’autopsia”. I due garanti dei detenuti, poi, continuano: “Vite, come si vede, per lo più giovani, finite, per disperazione, senso di impotenza o chissà cos’altro, nei pochi metri quadrati di una cella, insieme ad un altro recluso. Chiediamo che si faccia chiarezza su questa morte. Abbiamo bisogno di piu’ figure sociali nelle carceri, di più trattamento, di più lavoro. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria può custodire ed accudire, ma non c’è rieducazione e reinserimento sociale senza azioni positive del territorio e degli Enti locali. E il volto costituzionale della pena necessità di magistrati di sorveglianza più efficaci e coraggiosi” concludono Ciambriello e Ioia. Benevento. Giovanissimo muore in carcere, la famiglia chiede verità: “È stato ucciso” di Rossella Grasso Il Riformista, 22 ottobre 2020 “Non si può morire in carcere a 22 anni, senza nemmeno sapere il perché”. Rubina Vincolo, la zia di Salvatore Luongo non si dà pace. Durante la notte il carcere di Benevento ha comunicato al telefono alla famiglia del ragazzo che Salvatore è morto. Trovato impiccato nella sua cella, mentre era detenuto nel carcere di Benevento. Sono in corso le prime ricostruzioni ma la famiglia non crede assolutamente che si possa essere trattato di suicidio. E chiede giustizia e aspetta di sapere qualcosa fuori alla sala mortuaria dell’Ospedale Sangiuliano di Giugliano dove è stata portata la salma durante la notte. Un corpo, quello di Salvatore, originario di Melito di Napoli, che la famiglia ancora non ha potuto vedere in attesa dell’autopsia prevista giovedì 22 ottobre. La famiglia Luongo non sa cosa sia accaduto in carcere ma è certa che non si sarebbe mai potuto uccidere. “La compagna ieri lo ha sentito intorno alle 15 al telefono - racconta la zia - era contento di essere stato trasferito dal carcere di Brindisi a quello di Benevento dove stava da due giorni. Diceva di essersi trovato bene e di voler chiedere il trasferimento lì al più presto”. Era infatti stato momentaneamente trasferito a Benevento da Brindisi per presenziare ad alcune udienze. Al telefono era su di morale, positivo ed ottimista. “Poi alle 23 ci hanno chiamati e ci hanno detto che salvatore era morto, si era impiccato - continua la zia Rubina - cosa è successo in quelle ore? Salvatore non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere”. Salvatore era detenuto dal 2016 per aver commesso reati di piccola entità. Gli mancava poco da scontare. Anche per questa alla famiglia risulta difficile credere al suicidio in carcere. Al racconto fatto dalla famiglia si aggiunge anche che l’unica cosa che preoccupava Salvatore era il compagno di cella, un Bulgaro che “lo guardava in malo modo”, ha detto la zia. La notizia è stata diffusa dal giornale web Internapoli.it. Se fossero confermate le ipotesi di suicidio sarebbe il nono suicidio in Campania dall’inizio dell’anno. Finora in tutta Italia si è arrivati a 47 persone. “Non conosciamo il corto circuito che porta a queste tragedie- scrivono in una nota congiunta Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà e Pietro Ioia, garante napoletano - La maggioranza di loro sono giovani ed in carcere per piccoli reati. Il carcere è stato rimosso, è diventato una discarica sociale, che ospita detenzione sociale”. “Vite - continua la nota - come si vede, per lo più giovani, finite, per disperazione, senso di impotenza o chissà cos’altro, nei pochi metri quadrati di una cella, insieme ad un altro recluso. Chiediamo che si faccia chiarezza su questa morte”, commentano Ciambriello e Ioia che poi concludono lanciando un appello: “Abbiamo bisogno di più figure sociali nelle carceri, di più trattamento, di più lavoro. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, può custodire ed accudire, ma non c’è rieducazione e reinserimento sociale senza azioni positive del territorio e degli Enti locali. E il volto costituzionale della pena necessità di magistrati di sorveglianza più efficaci e coraggiosi”. Genova. Carcere Pontedecimo, 6 detenuti e 3 agenti positivi al coronavirus genovatoday.it, 22 ottobre 2020 Nei giorni scorsi sono risultati positivi al coronavirus due detenuti e mercoledì 21 ottobre altri quattro detenuti e tre poliziotti penitenziari positivi al covid-19. “Appena appresa la notizia, dei primi due detenuti positivi, il 15 ottobre l’Osapp con un comunicato sindacale ha chiesto di effettuare celermente i previsti controlli per la ricerca del virus a tutto il personale, detta richiesta è rimasta inascoltata”, spiega il sindacato. “Ad oggi non abbiamo notizie di cosa stia facendo la direzione del carcere di Pontedecimo, ma certo è che la preoccupazione tra i poliziotti è diffusa per garantire l’osservanza delle vigenti disposizioni governative, tanto più in un istituto penitenziario dove è insito uno stretto regime di convivenza. Alla luce di ciò - prosegue l’Osapp - chiediamo interventi celeri per limitare la diffusione del virus e di fornire le opportune e tempestive azioni di supporto all’osservanza dei protocolli sanitari e delle misure idonee a prevenire la diffusione del contagio”. “Chiediamo - prosegue l’Osapp - la fornitura di sufficienti mascherine chirurgiche monouso per essere utilizzate nel quotidiano, di dispenser disinfettanti che scarseggiano e di tutti gli strumenti idonei e necessari per il contenimento del contagio e, di assicurarne altresì il costante approvvigionamento”. Napoli. Giudici lenti, negata visita medica per una detenuta di Viviana Lanza Il Riformista, 22 ottobre 2020 Tempi lenti e burocrazia eccessiva continuano a essere zavorre del sistema giustizia. A Napoli ne sono un esempio i disagi lamentati dai penalisti per il mancato rispetto delle fasce orarie delle udienze in calendario che avrebbe dovuto evitare attese inutili e code agli ingressi dei tribunali pericolose per il rischio contagio. E ne sono un ulteriore esempio le difficoltà di ottenere dalla giustizia risposte in tempi ragionevoli e utili. Perché dove non fanno gli effetti indiretti delle restrizioni adottate per contenere la pandemia, fa la burocrazia, quella farraginosa, lenta, ripetitiva. Maria ne è vittima da alcuni mesi. Maria è una donna napoletana sottoposta alla misura cautelare degli arresti domiciliari da luglio scorso. Incensurata, fu trovata con alcune dosi di hashish e delle banconote false. Fu arrestata e processata per direttissima. È stata condannata in primo grado a un anno e quattro mesi di reclusione, senza sospensione condizionale della pena ma con gli arresti domiciliari. La misura restrittiva è stata predisposta per il solo reato di detenzione e spendita di monete false, perché l’hashish era in quantità tale da essere considerato dose personale e non giustificare un arresto. In questa situazione, circa due mesi fa Maria avverte dolori ai denti e ha la necessità di sottoporsi a una visita specialistica. Tramite l’avvocato Gennaro De Falco, presenta istanza ai giudici della Corte di appello dinanzi ai quali pende il processo di secondo grado. Nell’istanza chiede l’autorizzazione per una visita dal dentista, ma per i giudici l’istanza è incompleta, occorre specificare più nel dettaglio la patologia per la quale si richiede l’appuntamento con lo specialista. L’istanza, allora, viene ripetuta con una nuova richiesta e una nuova prescrizione medica allegata, nella quale si prova a essere più specifici nella descrizione dei sintomi e della possibile patologia, pur considerando che una precisa diagnosi si potrà avere solo dopo la visita specialistica. Sta di fatto che la prescrizione medica viene fatta, che l’istanza viene rinnovata e corredata di tutti gli elementi e i dettagli del caso. È il 22 settembre scorso. La visita dal dentista è fissata per il 12 ottobre successivo. Ci sono venti giorni di tempo, dovrebbe essere un termine congruo per sperare in una risposta dei giudici. Dovrebbe, ma nella realtà non è. Perché la riposta arriva il 13 ottobre, con deposito il giorno successivo. E l’istanza, sostengono i giudici, non può essere accolta in quanto tardiva rispetto al giorno fissato per l’appuntamento con il dentista. Maria, dunque, è costretta a ripetere tutto da zero, a richiedere al medico una nuova prescrizione, a richiedere all’avvocato una nuova istanza che dovrà essere inoltrata attraverso nuove mail e genererà nuove attese. Intanto il tempo passa e al dolore ai denti per Maria non c’è altro rimedio che la sopportazione. La storia di questa donna apre una serie di interrogativi e rinnova la riflessione sui tempi della giustizia. Se per una richiesta semplice come quella di poter andare dal dentista sono sorti così tanti intoppi e così lunghe attese, viene da domandarsi cosa potrebbe accadere per questioni più complesse e quali conseguenze potrebbero dover patire i detenuti in caso di quadri sanitari più precari o richieste di accertamenti per il sospetto di patologie più rischiose. “Non è possibile ripetere la stessa istanza tre o quattro volte - commenta l’avvocato De Falco - Qui si va nel ridicolo. E in questo caso si tratta di andare dal dentista, pensiamo se si fosse trattato di problemi più seri”, osserva. Del resto, che il diritto alla salute sia uno dei più difficili da garantire per chi è in carcere o sottoposto a misure restrittive è un dato rilevato già prima dell’emergenza Covid, le restrizioni dovute alla pandemia lo hanno solo acuito. Ma nella storia di Maria c’è anche altro. Oltre alle lungaggini, c’è la distrazione, quella che fa scrivere ai giudici che la misura cautelare cui è sottoposta è legata anche al reato di droga mentre, nella realtà è solo conseguenza dell’accusa di detenzione di banconote false. Un’inezia, si direbbe, se fosse l’unica tessera del mosaico a non essere perfettamente al suo posto. Ma in questa storia pesano lungaggini e burocrazia e Maria dovrà ancora attendere. Firenze. I problemi restano tanti, ma per Sollicciano una svolta ora è possibile di Eros Cruccolini* Corriere Fiorentino, 22 ottobre 2020 Gentile direttore, in merito all’articolo del Corriere Fiorentino di sabato scorso sulla visita al carcere di Sollicciano da parte del Garante regionale, Giuseppe Fanfani, mi sento in dovere di intervenire per completezza di informazione. Con l’ex Garante regionale, Franco Corleone, in questi anni abbiamo sollecitato il Dipartimento e le istituzioni locali a intervenire rispetto ai problemi strutturali del carcere di Sollicciano, trovando una proficua collaborazione integrando fra loro i progetti previsti. Il Dipartimento ha predisposto una gara di appalto per oltre due milioni e seicento mila euro e dopo varie vicissitudini riguardo a vari ricorsi tra le ditte partecipanti (alla fine è dovuto intervenire il Coniglio di Stato) è arrivata l’assegnazione definitiva. Sono in corso in queste settimane i sopralluoghi tra i tecnici del Dipartimento e la Ditta aggiudicataria, per stabilire il cronoprogramma degli interventi e l’apertura del cantiere, per la manutenzione straordinaria delle coperture e delle facciate dei reparti detentivi; revisione delle centrali termiche e realizzazione delle dorsali idrico-sanitarie in vista dell’adeguamento dei servizi igienici dei reparti detentivi al Dpr 230/2000. Mentre la Regione Toscana ha messo a disposizione quattro milioni per un progetto di efficientamento energetico, in collaborazione con il Provveditorato alle Opere Pubbliche. I lavori partiranno nella primavera 2021, e prevedono: sostituzione caldaia centrale termica, Nuova Caserma; impianto solare termico, reparto maschile e femminile; impianto fotovoltaico; sostituzione infissi in alcuni reparti; coibentazione di alcune parti dell’istituto. L’intervento riguarda anche l’istituto Gozzini. Con questi due interventi, saranno risolti i problemi che oramai denunciamo da anni, andando a migliorare anche le condizioni interne, portando le docce nelle celle e superando anche l’annosissimo problema del riscaldamento. Si sta avviando inoltre un altro cantiere, che riguarda la costruzione di un capannone, come struttura per la formazione e lavoro, che prevede 865 metri quadri per attività di lavoro e 380 metri quadri di aule per la formazione. Il dottor Fanfani, ha constatato la presenza di bimbi in tenera età, con mamme detenute. Abbiamo evidenziato più volte a giudici e a magistrati, l’esistenza della legge Severino, che prevede l’inserimento delle mamme con bambini, in alternativa al carcere, nelle case famiglia protette. Alcuni interventi sono già stati sperimentati, riteniamo che è più utile un percorso rieducativo nella casa famiglia piuttosto che in carcere. Abbiamo avviato con la Regione due percorsi, insieme al Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria: uno la ristrutturazione di un immobile messo a disposizione da parte della Madonnina del Grappa per la predisposizione di quella struttura come istituto a custodia attenuata per le mamme con bambini. Questo è un progetto che sta seguendo l’Asl Centro per un costo di 900 mila euro e il possibile inserimento di otto mamme con bambini. L’inizio dei lavori è entro il primo semestre del 2021. Abbiamo inoltre fatto un incontro con l’associazione delle case famiglia, in Regione, che ha già dichiarato la disponibilità per eventuali inserimenti. Sarà utile sicuramente, l’esperienza del Garante Fanfani, presso il Csm, per sensibilizzare i nostri interlocutori che devono decidere sulla destinazione delle mamme con bambini, sia per la custodia cautelare sia per la pena definitiva, evitando il carcere. Gli altri impegni che su cui ci dobbiamo concentrare con il nuovo Provveditore De Gesu, sono quelli di una nuova direzione dell’istituto che dia continuità e stabilità nel governo di Sollicciano, impegnandosi sulla parte anche trattamentale, (più telefonate, maggiore apertura delle celle attraverso attività che arricchiscono il percorso rieducativo, più lavoro per combattere il fannullismo detentivo) che vuol dire poi il vivere quotidiano delle persone recluse, ma anche della Polizia penitenziaria e del personale sanitario. A questo proposito De Gesu ha lanciato la proposta di un progetto benessere rivolto a tutti coloro che vivono il carcere, dando una disponibilità in termini di contenuti e risorse per la sua attuazione. Altri temi caldi sono l’individuazione di spazi per i semiliberi, il trasferimento del femminile al Gozzini e l’ipotesi di una nuova struttura per la custodia cautelare, che abbia le caratteristiche in termini di spazi, dettati dalla Comunità europea, da costruirsi nell’area attualmente occupata dal magazzino vestiario, adiacente a Sollicciano. Il lavoro non manca perché vorremmo a Firenze, città di Mario Gozzini, Alessandro Margara, stimatissimo magistrato di sorveglianza e Giampaolo Meucci, che hanno profuso impegno nell’ambito delle esperienze sulle carceri fiorentine e non solo, avviare una esperienza sperimentale, simile a quella di Bollate a Milano. *Garante dei detenuti del Comune di Firenze Roma. Carcere di Rebibbia, ecco la casetta per i rapporti familiari di Domenico Alessandro De Rossi* Il Dubbio, 22 ottobre 2020 Uno sforzo mostruoso, tanto da richiedere il coordinamento di docenti di progettazione architettonica dell’Università Sapienza, per il progetto di un gruppo di architetti di Roma, che ha disegnato e finalmente visto terminata in questi giorni la casetta in legno destinata alla cura dei rapporti familiari nel carcere di Rebibbia. Diritto ormai (quasi) da tutti teoricamente accettato, dopo le tante battaglie dei Radicali, dei libri, delle conferenze e delle manifestazioni fatte per il rispetto della vita affettiva. Finalmente oggi un atto concreto. I tre professionisti che hanno lavorato al progetto del grazioso casinetto sono stati niente di meno guidati dall’architetto Renzo Piano. Sì, proprio il senatore a vita. Il progetto di Rebibbia è stato sostenuto e finanziato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), contando sull’attiva partecipazione di Carmelo Cantone, il provveditore dell’Amministrazione penitenziaria del Lazio, Abruzzo e Molise e naturalmente curato anche dall’architetto Ettore Barletta, al tempo capo dell’Ufficio tecnico del Dap. Una piccola riflessione in merito va comunque fatta. In primo luogo riguarda l’eco notevole che tale opera ha meritato negli ambienti interessati. Infatti, al di là dell’intervento in sé costituito da un oggetto di design ben curato, rispettoso dell’ambiente, nei materiali e nella collocazione, costruito peraltro con una finalità rispettabilissima e degna di molto apprezzamento, questo è stato innalzato agli onori delle cronache perché dietro ad esso, o sopra di esso, giganteggiava Renzo Piano. Il quale, scendendo dall’Olimpo degli archistar, si era dedicato al problema delle residenze per gli incontri affettivi dei carcerati, guidando per mano i tre architetti e, probabilmente, anche alcuni docenti della Sapienza che sono presenti nel lungo elenco consulenziale di tale opera. Nulla di strano, sembrerebbe a prima vista. Ma si dà il caso che il grande architetto - perché tale veramente è - goda di una carica nel Parlamento italiano di non secondaria importanza. Egli infatti è uno dei senatori a vita nominati nel 2013 dal presidente Napolitano. Questo meritato riconoscimento pensiamo che metta però in condizione il senatore di pesi e responsabilità culturali che vanno molto al di là della casetta destinata agli incontri familiari. Ci saremmo infatti aspettati dall’architetto/senatore, non dico per la Giustizia in generale - che avrebbe ben altro bisogno di restauri e nuove casette dato il pesante degrado in cui versa - qualche cosa di più che riguardasse le questioni in cui si trovano le carceri italiane. Fatto importante direi questo che sicuramente è arrivato all’attenzione anche nelle ovattate stanze dei senatori. Magari con il supporto politico di altri senatori sensibili al problema, altre più significative azioni avremmo auspicato a seguito della umiliante censura fatta all’Italia dalla Cedu per il modo in cui manteneva i detenuti all’interno di ambienti e spazi non idonei. Normale sarebbe stato attendersi proposte di leggi più attinenti ad una nuova visione del Piano carceri, specificamente alla edilizia penitenziaria. Magari, perché no, più attenti suggerimenti concernenti i concorsi di progettazione di nuovi istituti, da sempre subordinati agli intricati meccanismi del Dap. Meglio ancora un piano programmatico concernente una visione, una “sistematica di riuso” degli antichi castelli o degli edifici costruiti prima dell’Ottocento presenti nei centri storici e destinati, contro ogni logica, tuttora a carceri. Vano sarebbe stato sperare qualche riflessione sul rapporto tra architettura penitenziaria e diritti umani? Non avremmo disdegnato certo di ascoltare, dalla politica tutta, ancora qualche osservazione attinente il che fare delle vecchie carceri eventualmente da trasformare con leggi speciali in altre strutture del tipo da archeologia industriale per nuovi musei o altro ancora. Il “vantaggio” per l’architettura, che già tanto soffre in Italia da anni per molte e svariate ragioni, di avere in Parlamento un senatore a vita, peraltro un grandissimo architetto, di grande esperienza e noto in tutto il mondo, si è ridotto nei fatti a guidare con la sua esperienza un gruppo di architetti e docenti universitari benedicendo dall’alto del suo ruolo la casetta per gli incontri. Speriamo che in futuro le cose cambino. Visto anche l’impegno che da anni molti architetti, in mancanza di una “corte” adeguata poco ascoltata dal Dap, dedicano alle questioni relative all’edilizia carceraria, proponendo riflessioni, dibattiti e pubblicazioni, ci sarebbe da sperare finalmente in una maggiore attenzione. Ma si sa: meglio cominciare dalle cose piccole per arrivare a quelle più grandi. Sempre, naturalmente, con uno sponsor dietro le spalle che possa essere di garanzia. Non sia mai che in Italia si passi, una volta per tutte, senza una “guida” autorevole, affermando soltanto una più trasparente partecipazione al fare. Basata solo sul merito. *Vicepresidente Centro Europeo Studi Penitenziari Trani (Bat). Chiusa dopo 45 anni la sezione “della vergogna” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2020 Odori nauseabondi, nessuna privacy, degrado e sporcizia. Per 45 anni, i detenuti sono stati reclusi in bugigattoli di stampo medievale delle dimensioni di due metri e cinquanta per un metro e mezzo. L’arredamento comprendeva un tavolo minuscolo a pochi centimetri da un orrido cesso. Ci vivevano spesso in due, in mezzo a miasmi del gabinetto e condizioni igieniche vergognose, in spregio a ogni regola. Dopo quasi mezzo secolo finalmente è stato deciso di chiudere questo orrore. Parliamo della “sezione blu” del carcere di Trani. Celle, appunto, molto piccole e bagni a vista, ma anche degrado generalizzato e mancanza di dignità di trattamento dei detenuti. Sono solo alcune delle condizioni che hanno convinto a chiudere quella che, secondo il Garante pugliese per i diritti dei detenuti, Piero Rossi, era una vera e propria “vergogna” per la quale era necessario agire subito soprattutto per la “dimensione di inumanità” in cui erano costretti a vivere i detenuti. Chiusa a causa delle condizioni di degrado in cui riversava, un tempo, la sezione era destinata, nello specifico, ai detenuti in regime di massima sicurezza. Un ramo del carcere che prospera dagli anni 70, e che ha dato “graziosa” ospitalità a brigatisti e persone accusate di terrorismo. La cosiddetta “sezione blu”, denominata così per le inferriate e le pareti dipinte dello stesso colore, finalmente sarà svuotata e ristrutturata. I detenuti saranno trasferiti nel nuovo padiglione, una palazzina attigua alla struttura penitenziaria, i cui lavori sono appena conclusi. Per anni, a denunciare queste condizioni sono stati proprio gli agenti penitenziari: denunce, appelli, telefonate, lettere. In più di una occasione il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) ha sollecitato l’amministrazione penitenziaria affinché chiudesse con un tratto di penna, senza se e senza ma, quella che era diventata la sezione della vergogna. I dettagli delle novità relative al carcere di Trani e ad altre strutture penitenziarie pugliesi, anche con nuovi servizi sanitari dedicati ai detenuti, saranno al centro di un webinar moderato dal garante Rossi stamane, 22 ottobre, alle 12 con gli interventi del governatore Michele Emiliano, del presidente del Consiglio regionale Mario Loizzo, dell’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, del provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Puglia e la Basilicata, Giuseppe Martone, del direttore del Dipartimento regionale Salute, Vito Montanaro, del direttore generale della Asl Alessandro Delle Donne e del direttore del carcere di Trani, Giuseppe Altomare. Milano. Il tribunale corre ai ripari: stretta agli accessi per evitare il Covid di Errico Novi Il Dubbio, 22 ottobre 2020 La decisione del procuratore Greco dopo il contagio di diversi magistrati e dipendenti. Il palazzo di Giustizia di Milano corre ai ripari. Con una circolare, a seguito dei casi di contagio registrati nei giorni scorsi, il procuratore capo Francesco Greco ha disposto il ritorno all’interlocuzione digitale, con contatti solo via email o al telefono e appuntamenti in presenza concordati. Un documento con il quale viene regolato il rapporto tra gli avvocati e gli uffici della Procura di Milano, che in questi giorni hanno visto il contagio di quattro magistrati. Disposizioni stabilite “tenuto conto dell’evoluzione della situazione sanitaria, che sia pur con delle caratteristiche diverse rispetto alle prime fasi della emergenza, attraversa una fase critica ed esige comunque massima attenzione, considerata altresì la ripresa massiccia di tutte le attività produttive pubbliche e private e quindi la ripresa degli spostamenti fisici”, si legge nella circolare, valida fino al 15 novembre. Greco ha disposto che per le esecuzioni penali tutte le istanze e le richieste di consultazione dei fascicoli vanno inoltrate all’indirizzo pec dell’ufficio. In seguito, i fascicoli prenotati saranno resi disponibili, previo visto del pm, “con visione fisica programmata, presso le sezioni competenti”. La consultazione degli atti di dibattimento può avvenire solo a seguito di richiesta inviata agli indirizzi mail dedicati dell’ufficio, a seguito della quale la cancelleria fisserà il giorno e l’ora per la consultazione, che avverrà in un ufficio del predibattimento. Per la ricezione di atti sarà aperto uno sportello riservato alle Forze dell’ordine, in Via Manara al piano terra, dalle ore 9,30 alle ore 12,30 dal lunedì al sabato. L’inoltro degli atti (querele, memorie, istanze di interrogatorio, nomine eccetera) in formato pdf dovrà essere effettuato via pec all’apposita mail certificata della procura, nonché in copia all’indirizzo istituzionale della segreteria del magistrato titolare del procedimento indicato sul sito della Procura. Alle denunce e alle querele deve essere allegata copia del documento di identità. L’eventuale deposito di allegati, se voluminosi, dovrà avvenire su supporto digitale presso l’ufficio ricezione atti, dalle ore 9,00 alle ore 12.30 dal lunedì al venerdì. La richiesta dei certificati del casellario potrà avvenire esclusivamente online, tramite il form esistente sia sul sito della Procura, con la possibilità di ritiro presso l’Urp dalle ore 9.00 alle ore 13, dal lunedì al venerdì. La richiesta dei Permessi di colloquio è prevista esclusivamente online tramite l’apposito form, così come la richiesta di appuntamenti per visionare fascicoli e richieste rilascio copie Tiap per la chiusura delle indagini. Gli atti si considereranno ricevuti dagli avvocati con l’avviso di ricevimento della mail - in caso di trasmissione con Onedrive - ovvero nella data di consegna del dvd o copia cartacea, ovvero dalla data di consultazione del fascicolo. Per quanto riguarda le negoziazioni assistite, viene prorogata la procedura telematica di deposito autorizzazione. L’accordo dovrà essere trasmesso via pec. Per i procedimenti della Dda, le nomine dei difensori, le memorie e le richieste di interrogatorio vanno inoltrate, esclusivamente, alla mail dda.procura.milano@giustiziacert.it. Per l’ufficio intercettazioni, tutte le richieste provenienti da avvocati relative ad ascolto o duplicazioni di file audio dovranno pervenire esclusivamente via mail. L’ufficio riceve solo su appuntamento inviando mail all’indirizzo. La ricezione delle istanze per l’ufficio liquidazioni e la richiesta di informazioni avviene esclusivamente per posta elettronica, e così via. Intanto, la Camera penale milanese segnala che “è giunto il momento in cui il Governo decida di rendere possibile il deposito degli atti difensivi via Pec. Per spingere in questa direzione - spiegano i penalisti milanesi - abbiamo proposto ai vertici degli uffici giudiziari di Milano di sollecitare con comuni intenti il ministro della Giustizia e il Legislatore. Ci auguriamo - si legge ancora - che le cautele, realizzate e preventivate da parte dell’autorità giudiziaria milanese, possano consentire al sistema della giustizia penale di non incorrere in una nuova paralisi, anche se evidentemente sarà fisiologico un rallentamento”. Intanto è di questa mattina del quinto caso di positività in Procura, con il contagio di un altro pm. La conseguenza è stata la chiusura di uno dei corridoi del quarto piano con un nastro, isolata anche una scala laterale, bloccata con alcune spranghe, in modo da consentire la sanificazione delle aree. I primi due casi erano stati registrati la scorsa settimana, e gli altri tra ieri e l’altro ieri. Diversi i magistrati in isolamento e quelli che si sono sottoposti al tampone. Intanto, dovrebbe tenersi oggi una riunione tra i vertici del Palazzo di Giustizia per decidere le prossime misure da adottare per limitare i contagi. Torino. Processi saltati e smartworking. I sindacati: “Si rischia il blocco” di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 22 ottobre 2020 Causa numero eccessivo di persone - tutte parti processuali - rispetto alle dimensioni dell’aula, ieri mattina è saltato un altro dibattimento, quello contro l’ex comandante dei carabinieri di Pinerolo, accusato di corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e circonvenzione di incapace in concorso, nell’inchiesta del pubblico ministero Elisa Pazé. Del resto, la chiusura delle maxi aule dopo la caduta di un listello di legno dal tetto, ha ulteriormente complicato le cose, dentro un palazzo di giustizia che ha pochi spazi idonei alle norme anti-covid. I presidenti di sezione stanno tentando di salvare più processi possibili, ma ieri, per esempio, ci si è ritrovati nell’aula 59, una delle più piccole, e così i difensori hanno fatto istanza di rinvio, per motivi sanitari. Dopo aver posticipato l’udienza alle 10, nel tentativo di reperire un’altra aula, ai giudici della terza sezione penale non è rimasto che rinviare il dibattimento. Come se non bastasse, sulle attività del palazzo “Bruno Caccia” pende l’accordo del 14 ottobre, tra il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria e i sindacati, sullo smart working (previsto fino al 31 dicembre). “Ho capito che può essere un casino - dice schietto Gabriele Gilotto, segretario della Cgil-funzione pubblica (Fp) - e che questo rischia di rallentare la giustizia”. In alcuni tribunali, anche di più: “A Ivrea c’è una scopertura di posti del 50 per cento: se la metà lavorasse da casa, non aprono neanche la porta”. I dirigenti degli Uffici dovranno organizzarsi, anche con i sindacati, come ricorda Aldo Blandino, della Cisl-fp: “Lo smartworking in periodo emergenziale è materia contrattuale, e quindi si dovrà fare un accordo vero e proprio”. Proprio ieri sono arrivate le richieste di incontro, da parte dei vertici giudiziari. Così come sono stati notificati gli accordi, con i lavoratori che cinque giorni per indicare la disponibilità al lavoro agile, cui seguiranno altri 10 giorni per la valutazione. Al solito, come già visto sotto lockdown, c’è un enorme problema, di più nel settore penale: “La strumentazione informatica non è adeguata”, taglia corto Gilotto. Tiene alta l’attenzione anche il segretario generale della Confsal-Unsa, Costantino Squeo, partendo dall’allarme del presidente del tribunale di Bologna (“con lo smartworking al 50 per cento chiudiamo”): “Non dice una bugia, perché c’è la possibilità che i tribunali si blocchino, ma aggiungo che ci sono mezze misure”. Ovvero: “La cosa importante è che gli individui fragili, con certificato, devono assolutamente stare in smart, come chi ha superato i 63 o i 65 anni”. Altra avvertenza: “Però, non siamo d’accordo a mandare persone a casa, senza fare nulla”. Come però a volte è successo, durante il lockdown, dicono altri, sottovoce: “Gli si è dato da fare qualcosetta, ma i sistemi informatici da remoto sono inaccessibili”. Così, Squeo fa una proposta: “Chi è a casa potrebbe fare formazione”. Che i sistemi telematici siano un mezzo disastro lo conferma Blandino: “C’è una certa difficoltà nel far dialogare i software, senza dimenticare la necessaria segretezza dei dati”. Allora, si torna al punto di partenza: “Che sia uno smartworking produttivo”. Nell’attesa, molti avvocati in giro per il palazzo di giustizia, sono pessimisti: “Qui si blocca di nuovo tutto”. Vengono in mente le parole del presidente del tribunale, Massimo Terzi, uscendo dal lockdown: “Un altro vorrebbe dire la fine del settore penale”. Dunque, occhio. Livorno. Il viceministro Giorgis in visita a Pianosa quinewselba.it, 22 ottobre 2020 Un sopralluogo per cercare di risolvere le difficoltà per procedere con il progetto Pon inclusione. È questo il motivo che ha portato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis a visitare l’isola di Pianosa nei giorni scorsi. Ad accompagnare il viceministro che ha visitato tutta l’isola e in particolare la zona che fino alla dismissione era destinata al carcere c’erano il sindaco di Campo nell’Elba Davide Montauti e il direttore del carcere di Porto Azzurro Francesco D’Anselmo. Il Pon è un progetto che ha come obiettivo la formazione dei detenuti e il loro graduale inserimento nel mondo lavorativo con attività tutte destinate al mondo dell’agricoltura e sarà realizzato grazie ai fondi messi a disposizione dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali con il cofinanziamento del Fondo sociale europeo. Tra Pianosa e Gorgona sono stati stanziati circa 1 milione e 300mila euro e il programma vedrà come soggetto attuatore la Regione Toscana. L’isola di Pianosa ha nella sua storia una narrazione tutta dedicata all’agricoltura. Già dalla seconda metà del 1800 il direttore della colonia agricola Leopoldo Ponticelli, uomo illuminato e di grande cultura sviluppò intorno al carcere progetti di recupero dei detenuti attraverso modelli destinati alle produzioni agricole moderni ed innovativi. “È stato un incontro molto positivo - ha detto il sindaco di Campo nell’Elba Davide Montauti - teso a risolvere alcune difficoltà di tipo tecnico. Con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis ci siamo focalizzati su alcuni aspetti strettamente strutturali fondamentali per la realizzazione del progetto. C’è la volontà condivisa delle Istituzioni coinvolte ad avviare in tempi brevi il progetto Pon. Questo è un passo importante per consolidare interventi che aiutino l’isola a superare lo stato di degrado. La strada è ancora lunga ma la nostra idea è anche quella di costruire una rete di collaborazioni con le realtà agricole locali. Una sinergia che potrebbe portare sviluppo e lavoro anche per il nostro territorio considerando anche che, grazie agli usi civici, buona parte dell’isola appartiene alla comunità campese”. Siracusa. Cure sanitarie in carcere: il Garante incontra il direttore sanitario Asp siracusanews.it, 22 ottobre 2020 Al centro del dibattito la condizione dell’infermeria e la cadenza delle visite al Cavadonna e al carcere di Brucoli. “Rapporti tra Asp, amministrazione penitenziaria e ufficio del Garante in materia di tutela del diritto alla salute e di accesso alle cure dei soggetti sottoposti a restrizione della libertà personale”. Nei giorni scorsi, negli uffici dell’azienda sanitaria provinciale di Siracusa, si è svolto un incontro tra Giovanni Villari, Garante dei diritti delle persone private della libertà e Salvatore Madonia, nuovo direttore sanitario dell’Asp 8 di Siracusa. L’incontro ha avuto il fine, oltre le presentazioni ufficiali, di informare il direttore dei problemi frequentemente incontrati dai detenuti degli istituti carcerari di Cavadonna e Brucoli per l’accesso alle cure e quindi la tutela del loro diritto alla salute che, come risaputo, non è inferiore a quello dei cittadini in libertà. Il direttore Madonia ha voluto che all’incontro fosse presente anche Adalgisa Cucè, responsabile dell’Urp (ufficio relazioni con il pubblico), la quale ha fornito spiegazioni e giustificazioni in merito ai soliti ritardi che si verificano tra le richieste avanzate dall’infermeria del carcere per la cura dei detenuti e la prestazione dei servizi sanitari. Al fine di velocizzare e migliorare la comunicazione tra il carcere e l’amministrazione sanitaria, Madonia ha individuato e incaricato nella persona del dottor Micale, l’attuale responsabile di medicina legale, il referente dell’Asp, il quale già da tempo intrattiene rapporti con la direzione della Casa Circondariale di Cavadonna. Il Garante ha sottolineato l’impegno e l’attenzione che la direzione della casa circondariale di Cavadonna ha sempre dimostrato in materia di cure, affinché il diritto alla salute venga garantito a tutte le persone detenute. Poi ha elencato le principali anomalie nei rapporti tra Asp e istituto penitenziario. Il primo punto è quello del ritardo nell’erogazione dei servizi inerenti alle visite specialistiche. L’attesa per ricevere una radiografia o una Tac è mediamente superiore ad un anno. A tal proposito la dottoressa Cucè ha puntualmente sottolineato che questo è un problema che non riguarda solo il carcere ma “tutti i cittadini”. Chi si trova in condizione di detenzione, quando richiede prestazioni sanitarie, deve attenersi ai regolamenti e alle direttive imposte dalla struttura e non può optare per un’alternativa. Dal punto di vista della dottoressa, inoltre, l’irregolarità formale di molte delle richieste di cure provenienti dal carcere sarebbe uno degli ulteriori motivi dei ritardi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie. Non vi è molta fluidità nelle comunicazioni tra il presidio sanitario all’interno del carcere e l’ufficio predisposto alla ricezione delle richieste, entrambi appartenenti alla stessa amministrazione. Questo costituisce un serio ostacolo all’esercizio del diritto alla salute per chi si trova in stato di restrizione della libertà personale. Madonia, mostrando attenzione e interesse, ha promesso il suo impegno per l’erogazione dei servizi diagnostici di radiologia attraverso l’invio di un Urm (unità radiologica mobile) nella struttura di Cavadonna. Problema a se stante è quello degli esami endoscopici. Ritardi in tutta la provincia di Siracusa e non solo, quindi non soltanto nei confronti dell’istituzione penitenziaria. Il secondo punto della discussione è la richiesta di una maggior frequenza di visite psicologiche e psichiatriche. Al momento viene erogata una visita settimanale e il Garante chiede che ne vengano erogate almeno tre, per permettere ai detenuti che soffrono problemi psicologici e psichiatrici di ricevere le cure adeguate. Il terzo punto della discussione ha riguardato l’infermeria dell’ospedale e la predisposizione dei dispositivi sanitari. Il Garante ha segnalato come l’infermeria sia dotata di dispositivi, accessori e arredi vetusti, non adeguati all’ambiente sanitario e alle esigenze dell’istituto penitenziario di Cavadonna, secondo a livello regionale in termini di presenze di detenuti. A tal proposito il Garante auspica un’eventuale e prossima visita del direttore Madonia nei locali l’area sanitaria di Cavadonna a scopo conoscitivo. Il direttore del carcere ha dichiarato che è sua competenza la predisposizione e la manutenzione straordinaria dei locali ma che è competenza dell’Asp la predisposizione dei dispositivi e dei presidi sanitari e la loro manutenzione. Il quarto ed ultimo punto della discussione ha riguardato la predisposizione di una linea diretta di comunicazione tra il carcere e l’ASP, che è anch’essa di competenza dell’amministrazione sanitaria. Il nuovo direttore sanitario, Madonia, ha mostrato la sua piena disponibilità a risolvere, nei limiti delle sue possibilità, le problematicità emerse dai sopralluoghi svolti dal Garante. Cuneo. Apre “Mondo pane”, laboratorio per prodotti da forno nel carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 ottobre 2020 Nei mesi scorsi tre detenuti del carcere di Cuneo hanno appreso tecniche e segreti della panificazione e da qualche giorno hanno iniziato a lavorare nel laboratorio aperto, all’interno dell’istituto, da Mondo pane S.r.l, azienda di Mondovì molto conosciuta e apprezzata nel Cuneese. I locali in cui è stata allestita la sede dell’attività per la panificazione e la produzione di prodotti da forno, sono stati concessi in comodato d’uso gratuito dalla Direzione della casa circondariale alla ditta, che ha assunto detenuti alle proprie dipendenze. Il tutto sulla base di una convenzione, firmata lo scorso agosto, tra la casa circondariale e Mondo pane S.r.l. Il laboratorio, inaugurato giovedì scorso, consente di prevedere uno sbocco lavorativo per l’attività formativa che, fin dal 2011, si svolge all’interno del penitenziario in collaborazione con l’Istituto di Istruzione Superiore Statale “Virginio-Donadio” di Cuneo per il conseguimento della qualifica professionale triennale di addetto ai servizi per la ristorazione. È parte integrante del progetto la creazione di rapporti strutturati con il territorio che possano ampliare le prospettive di reinserimento sociale di detenuti tramite una rete istituzionale che comprenda il Comune di Cuneo, la Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e le associazioni di categoria. Modena. “Sognalib(e)ro 2020”: leggere riabilita, i detenuti votano il romanzo migliore di Luca Donigaglia agenziadire.com, 22 ottobre 2020 In lizza per l’edizione 2020: Gianrico Carofiglio con “La misura del tempo”, Valeria Parrella con “Almarina”, Maria Attanasio con “Lo splendore del niente e altre storie”. Detenuti e operatori sociali online insieme, all’insegna della cultura. Saranno 14 i penitenziari italiani, sui 17 che aderiscono al progetto “Sognalib(e)ro 2020”, collegati in teleconferenza domani dalle 10 per la prima iniziativa del premio letterario nazionale per le carceri, che mira a promuovere “lettura e scrittura come strumento di riabilitazione come prevede l’articolo 27 della Costituzione”. Dalle rispettive sedi, i detenuti coinvolti parteciperanno all’autopresentazione dei tre scrittori in lizza per l’edizione 2020: Gianrico Carofiglio con “La misura del tempo” (Einaudi, 2019), Valeria Parrella con “Almarina” (Einaudi, 2019), Maria Attanasio con “Lo splendore del niente e altre storie” (Sellerio 2020). Ognuno di loro interverrà in videoconferenza collegandosi dalle rispettive città, attraverso il carcere di Sant’Anna di Modena, con gli altri 13 istituti penitenziari connessi. L’iniziativa è stata illustrata oggi nella città della Ghirlandina dall’assessore alla Cultura Andrea Bortolamasi con Bruno Ventavoli, giornalista di Tuttolibri-La Stampa e presidente del premio, e in collegamento da remoto Maria Martone, direttrice del Sant’Anna di Modena, oltre a Eugenio Garavini, vicedirettore generale di Bper Banca, e a Marco Bonfiglioli, dirigente del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Quest’ultimo rimarca sul “rilievo dell’appuntamento”, proprio perché si svolgerà all’interno del carcere di Modena, ormai recuperato perché “si stanno concludendo a tempo di record i lavori di ripristino dopo i fatti di marzo”, con la rivolta dei detenuti tra disordini e decessi nel vivo della prima fase dell’emergenza Covid. Nel frattempo, i detenuti delle 17 carceri in rete con Sognalib(e)ro stanno iniziando a leggere i tre testi in concomitanza con l’avvio dell’anno scolastico. Al termine sceglieranno “il migliore romanzo”, con un voto e con un’apposita guida che permette, con l’aiuto degli educatori, di esprimere giudizi e osservazioni dettagliate sul testo e sull’esperienza di lettura. Dunque, sono stati individuati dal ministero 17 istituti dove sono attivi laboratori di lettura o scrittura creativi: oltre a Modena, ci sono la casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, le case di reclusione Milano Opera, e Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza, Saluzzo, Pescara, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna e Castelfranco Emilia, quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. Como. “I classici a fumetti”, pensieri dal carcere Il Giorno, 22 ottobre 2020 “I classici a fumetti. Pensieri a colori dal carcere”: la mostra curata dall’associazione Bottega Volante, si inaugura venerdì 23 ottobre alle 19 a Villa Olmo, e resterà allestita fino al 1° novembre. “Dalle parole alle emozioni. Dai pensieri alle immagini. - spiegano i curatori - Il tema dell’edizione 2020 di Parolario è il coraggio”. Parole tratte da libri che, una volta al mese, nel 2018 e 2019, hanno superato le sbarre per arrivare nelle mani di un gruppo di detenuti del carcere del Bassone di Como. Le pagine di quei romanzi hanno fatto nascere emozioni e pensieri trascritti sulla carta da alcuni di quei detenuti, arrivando nelle mani di un gruppo di ventisei disegnatori che collaborano con l’associazione Slowcomix che hanno immaginato e donato la loro copertina per quel classico. La mostra si può visitare da lunedì a venerdì dalle 15 alle 23, sabato e domenica dalle 10 alle 22, con ingresso libero. Milano: “Di cuore e di coraggio”, presentazione del libro di Giacinto Siciliano mentelocale.it, 22 ottobre 2020 Giovedì 22 ottobre 2020, alle ore 18.00, il Teatro Menotti di Milano ospita la presentazione del libro Di cuore e di coraggio di Giacinto Siciliano (per info e prenotazioni 02.36592538). Il senso dello Stato è uno dei pilastri essenziali di qualsiasi società civile. Proprio a recuperare e consolidare il senso dello Stato in chi lo ha perduto, dedica da sempre la propria vita Giacinto Siciliano, una lunga carriera condotta interamente nella amministrazione penitenziaria italiana che lo ha portato a confrontarsi con detenuti di ogni provenienza, dagli stranieri che affollano oggi i bracci di San Vittore ai mafiosi più irriducibili del reparto 41bis nel carcere di Opera, tra cui lo stesso Totò Riina. Leggendo i ricordi raccolti in questo libro profondo ed emozionante, si squarciano davanti agli occhi dei lettori le realtà più delicate e dolorose come le rivolte - anche quella scoppiata a San Vittore nel marzo 2020 a seguito della diffusione del Coronavirus - e dei suicidi in carcere. Al tempo stesso si comprende cosa voglia dire gestire e tentare sempre, anche nei casi estremi, di avviare un percorso di recupero. Perché quello del direttore penitenziario - come lo interpreta Giacinto Siciliano - è un lavoro di cuore e di coraggio: non si tratta certo di fare sconti, anzi al contrario occorre impegnarsi quotidianamente per dare fiducia a ogni detenuto e aprire un dialogo che lo porti a comprendere i propri errori e a riappropriarsi del valore delle regole e, appunto, del senso dello Stato. Ogni uomo è una storia, ma è anche un futuro, dice Siciliano. Il suo dovere è indicargli la via per costruirsi un futuro solido e libero. Volterra. Il mondo delle carceri raccontato dall’obiettivo di Clara Vannucci di Massimiliano Minervini gnewsonline.it, 22 ottobre 2020 Raccontare il mondo dei detenuti attraverso la fotografia: questo è l’ambizioso progetto che da anni impegna Clara Vannucci. Fra Italia e Stati Uniti, l’artista ha descritto, attraverso il suo obiettivo, la vita negli istituti di pena. Nel carcere di Volterra, a stimolare la sua fantasia sono stati i partecipanti alla Compagnia della Fortezza, reclusi e teatranti, immortalati in un reportage dal titolo “Crimine e redenzione”. “Ero molto giovane quando ho iniziato a occuparmi di teatro all’interno del carcere - sostiene Clara Vannucci -. Successivamente alla prima esperienza in un istituto minorile, ho iniziato a documentare numerose realtà carcerarie toscane, fra cui Volterra. Mi colpì il fatto che in quel penitenziario la recitazione permettesse al detenuto di entrare anche in contatto con il mondo del lavoro. Così iniziai a fotografare ogni anno le manifestazioni teatrali che lì si svolgevano. La raccolta che ho realizzato è il riassunto in immagini di oltre dieci anni di lavoro. Grazie al carcere ho potuto trasformare una passione in una professione”. Immancabili i ricordi di volti e di storie che l’hanno accompagnata in questo cammino: “Ho tanti ricordi a Volterra - sottolinea la fotografa - e con alcuni detenuti avevamo costruito un rapporto intenso, umano. Alcuni, una volta usciti dalla struttura, avendo estinto la pena o scontandola con modalità diverse, vi rientravano per continuare a recitare. Altri, partendo dalla compagnia della Fortezza, sono riusciti a ritagliarsi ruoli da attori professionisti”. “Tante soddisfazioni - conclude Clara Vannucci - le ho raccolte anche nel carcere di Opera, dove ho lavorato per circa 2 anni, in cui ho potuto immortalare dei momenti di grande intimità come durante le partite di calcio fra detenuti e figli. Un lavoro che ho avuto il piacere di ripetere anche a Secondigliano”. Le carceri sono una discarica in cui la società nasconde le sue vergogne di Guido Vitiello Il Foglio, 22 ottobre 2020 In coda a “Dei relitti e delle pene”, utilissima radiografia della questione carceraria in Italia appena pubblicata da Rubbettino, Stefano Natoli ricorre alle parole di un romanzo di José Saramago, “Cecità”, per dire che rispetto alle patrie galere siamo come “ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Mi sembra una metafora ben più accurata di quella del carcere come discarica in cui la società nasconde le sue vergogne. È evidente infatti che il sentimento della vergogna non ci sfiora neppure; anzi, sono sempre più numerose le avvisaglie che le miserie del sistema carcerario stiano conquistando una nuova e perversa visibilità. La sfrontatezza cerimoniale e organizzata dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, svelati dalla benemerita inchiesta di Nello Trocchia su Domani, o, per altro verso, le aggressioni ostentatorie di esponenti politici nazionali e di talk-show maramaldi contro quelli che oggi sono detenuti inermi nella custodia dello stato - si tratti di Cesare Battisti o di qualche boss moribondo - sembrano definire un nuovo ruolo del carcere nell’economia psicopolitica nazionale: un luogo chiuso ma non più invisibile, anzi continuamente e trionfalmente esibito, su cui riversare i nostri bisogni di umiliazione simbolica. Ci godiamo lo spettacolo con occhi avidi, e l’unico punto cieco riguarda l’umanità dei detenuti. Dopo tutto, le metafore che usiamo con distratta ferocia la sanno più lunga di noi; e non ci voleva un genio per capire che, quando butti la chiave, ti si spalanca il buco della serratura. Mare Fuori, l’intervista a Massimiliano Caiazzo: “Perché salvarsi è possibile” di Andrea Conti Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2020 La serie tv di Rai Due che accende la speranza contro la Camorra. Intervista all’attore 24enne Massimiliano Caiazzo, che nella serie interpreta il personaggio chiave Carmine. Figlio di una nota famiglia di camorristi di Napoli, Carmine cerca di fuggire dalle grinfie della famiglia con l’aiuto del comandante dell’Istituto di Pena Minorile di Napoli. La serie tv è ben scritta con attori di alto livello ma è purtroppo spesso rimasta schiacciata dai dati Auditel (ha totalizzato 6.8% di share mercoledì scorso) della concorrenza “in casa” di Rai Uno e Rai Tre “Il Mare Fuori è l’attimo in cui si spalanca una finestra e lo sguardo spazia fino a orizzonti infiniti, dove, come miraggi, i sogni imprigionati danzano vividi”. Quegli “orizzonti infiniti” sono appunto i sogni di libertà e speranza. È iniziata così, lo scorso 23 settembre, la bella serie tv di Rai Due “Mare Fuori”. La storia, diretta da Carmine Elia con Carolina Crescentini e Carmine Recano, racconta le vicende degli adolescenti rinchiusi nell’Istituto di Pena Minorile di Napoli. Storie difficili contrassegnate dalla violenza, dalle quali c’è sempre qualcuno che prova a scappare e salvarsi. L’Istituto Minorile è realmente sul mare e ospita settanta detenuti: 50 maschi e 20 femmine. Quando entrano i ragazzi hanno sempre meno di 18 anni. FQMagazine ha incontrato Massimiliano Caiazzo, che interpreta Carmine, il personaggio chiave di “Mare Fuori”. “Scappare dalla Camorra si può - spiega Massimiliano -, bisogna avere punti di riferimento positivi”. Carmine proviene da una nota famiglia di camorristi ma cerca in tutti i modi di fuggire dalle grinfie della famiglia, lavorando come parrucchiere e sognando di costruire un futuro con la sua ragazza. Un tragico evento lo costringe ad entrare in carcere e nonostante le forti pressioni interne ed esterne, riesce a non cadere nella tentazione di entrare nel circolo malavitoso. La serie tv è ben girata con un cast di attori giovanissimi di alto livello, tra questi si segnalano Nicolas Maupas, Giacomo Giorgio e Valentina Romani. Il messaggio sociale è importante. Nonostante queste ottime premesse “Mare Fuori” si è fermato a uno zoccolo duro di 1.550.000 spettatori pari al 6.8% di share, dati Auditel della scorsa puntata. Un ottimo prodotto schiacciato al mercoledì dalla forte concorrenza, anche in casa Rai, di “Chi l’ha visto”, le partite su Rai Uno o gli speciali di Alberto Angela. Carmine è il personaggio chiave della serie. Fugge dalla Camorra, secondo te è possibile fuggire dalla malavita? Sì, è possibile. Non mi riferisco solo al contesto di una famiglia malavitosa, ma ai tanti tipi di violenza psicologica e fisica che questi ragazzi subiscono. Secondo me è sempre possibile evadere attraverso la scelta di una alternativa. In qualche modo è quello che si cerca di fare anche negli istituti penitenziari, ossia affiancare questi ragazzi a persone che diventino loro punti di riferimento. Un percorso importante soprattutto per questi adolescenti che ancora non sanno distinguere il bene dal male. Nel caso di ‘Mare Fuori’ è il comandante che cerca di aiutare Carmine. Sei entrato in contatto con i ragazzi dell’Istituto di Pena Minorile di Napoli, quali sono state le tue impressioni? Nel momento in cui varchi la porta dell’Istituto cambia l’energia che si respira nell’aria. C’è un carico di tensione allucinante. Mi ha colpito l’attenzione delle guardie nei nostri confronti, che eravamo lì come visitatori. Ho provato una immensa tenerezza nei confronti di alcuni dei detenuti. Giovanissimi con uno sguardo dolce. Mai e poi mai avrei detto che ragazzi così potessero finire poi rinchiusi in cella. C’è stato anche chi, mentre noi visitatori giravamo, stava in disparte oppure si assentava come assorto nei propri pensieri. Ho preso questo spunto per cercare di dare credibilità al mio personaggio che spesso si defila, come per cercare dentro di sé alcune risposte irrisolte della vita. Come mai l’età dei detenuti si abbassa sempre di più con il passare degli anni? Più sono piccoli e meno strumenti hanno per scindere il bene dal male. Si segue l’unica strada che si conosce. Nessuno nasce buono, cattivo, criminale, serial killer o avvocato. Ognuno di noi diventa ‘qualcuno’ in seguito al contesto sociale dove è cresciuto. Quali storie si celano dietro tutta la violenza di questi ragazzi? Tutto ha una origine. C’è sempre un motivo per cui si agisce in un determinato modo. Spesso queste azioni sono mosse da un tentativo di farsi accettare o ingraziarsi una persona a cui si vuole bene. Alla base quello che spinge all’azione una persona è sempre un groviglio di emozioni. Ti sei mai ritrovato in mezzo a situazioni borderline? Ho visto amici prendere brutte strade e con qualcuno ho avuto possibilità di parlare per confrontarmi, prima di iniziare le riprese. L’ho fatto per capire perché si sceglie di intraprendere una vita così. La cosa che mi ha colpito di queste persone è che stanno sempre “ ull’attenti”, si guardano attorno come se dovesse sempre succedere qualcosa da un momento all’altro. Nel parlare con loro, confesso che in qualche modo mi sono sentito ‘in colpa’ perché sono stato fortunato: ho scelto la recitazione. Cos’ha rappresentato per te la recitazione? Io, come molte persone, ho attraversato un periodo della vita in cui mi vergognavo di mostrare chi ero. Con la recitazione mi sono ‘liberato’ e mi sono sentito molto più leggero. Non avrei mai pensato qualche anno fa di intraprendere questa carriera. Se non avesse recitato chi sarebbe oggi Massimiliano? Ero iscritto all’Università in Biotecnologie, andavo a lezione ma al posto di seguire studiavo i copioni. Ho provato a fare altro, ma la strada del cinema era la più forte di tutte. Il messaggio di speranza di ‘Mare Fuori’ è arrivato a destinazione? Mi sono arrivati un sacco di messaggi. Oltre a chi ti fa i complimenti per l’aspetto fisico, mi hanno colpito molto alcune storie. Una ragazza era indecisa se entrare a lavorare all’Istituto di Pena Minorile e alla fine si è convinta, dopo aver visto la serie. Un ex detenuto mi ha scritto dicendo che le storie erano pazzesche e corrispondenti alla realtà. Insomma anche solo aver regalato un granellino di speranza a qualcuno per me è un gran successo. I pericoli (futuri) dell’emergenza Covid di Pier Luigi Portaluri* Corriere della Sera, 22 ottobre 2020 Vi è un rischio legato alla pandemia che non riguarda la vita o la libertà dei cittadini, ma l’assetto futuro delle democrazie europee. Lo rende più insidioso l’esser nascosto e il non essere immediato. Un passo indietro. Durante la prima ondata del virus i giuristi hanno cercato di teorizzare l’autorità che i governi esercitavano negli Stati colpiti dall’attacco. Due i filoni del dibattito. Il primo. Se la situazione avesse comportato il passaggio, di fatto, a uno stato di eccezione. Il secondo. Se fosse opportuna una riforma costituzionale che regolasse competenze e poteri di gestione della crisi. Il primo filone sembra per fortuna esaurito: a differenza dello stato di emergenza, lo stato di eccezione è una insidiosa sospensione dell’ordinamento vigente in vista di un assetto nuovo, di una cesura col passato. Come diceva Benjamin, l’eccezione diventa norma e si crea un vuoto di diritto. Il nazismo è l’esempio tragico: una “legittima” eccezione lunga dodici anni, dove tutto era retoricamente kampf, cioè lotta per raggiungere mete imprecisate. Del secondo c’è stata anche da noi qualche eco, soprattutto dopo il fallito tentativo francese di inserire nella Costituzione norme che disciplinassero questi momenti particolari. Ma a spianare la strada di Hitler fu l’abuso sistematico del famigerato articolo 48 della Costituzione di Weimar, il quale consentiva di congelare i diritti fondamentali se l’ordine pubblico fosse stato significativamente in pericolo. Questi dibattiti, pur se sfociati nel nulla di fatto, hanno comunque un effetto in sé negativo. Lo ha evidenziato giorni fa Anne Simonin su Le Monde: anche solo discutendone, lo stato di eccezione conduce a riattivare le condizioni tumultuose delle sue origini. Crea una pericolosa e diffusa dimestichezza con l’idea di una negoziabilità politica estesa sino alle basi della convivenza civile. Nasce qui il rischio duplice - perché nascosto e non immediato - di cui dicevo all’inizio. Anche il solo evocare questo fantasma, e il dargli poi parvenza di vita con la continua normazione anti-Covid, scuote i pilastri dell’ordinamento. Anzitutto, i diritti fondamentali (alla vita, alla dignità, alla libertà) divengono nel sentire comune oggetto di un bilanciamento i cui criteri tendono a evitare - in nome dell’emergenza - un effettivo sindacato parlamentare: l’uso eccessivo della decretazione d’urgenza con l’immancabile maxi-emendamento governativo (accompagnato dall’altrettale fiducia) e il ricorso alle fonti secondarie (i molteplici dpcm) ne sono un paradigma vistoso. Esautorato di fatto il Parlamento, il modello decisionale si sta assestando su un piano che si connota per il confronto fra esecutivo e giudiziario, nel quale la parola finale spetta oramai al secondo. Il cui prevalere è fenomeno non nuovo: “il diritto dei giudici appartiene al nostro destino”, diceva più di mezzo secolo fa un giurista tedesco, Franz Gamillscheg. L’esecutivo produce regole generali la cui vaghezza spesso non incide nella realtà: ne deriva una delega al potere giurisdizionale, vero arbitro del bilanciamento fra diritti fondamentali. Con una novità. Immettere nell’ordinamento nebbiose “sostanze normative” che sono non soltanto giustificate in nome della pandemia, ma anche disegnate a maglie larghe, significa accrescere lo spazio lasciato al giudice, che avrà come bussola interpretativa la tutela di esigenze per principio prevalenti, perché soggettivamente ritenute - a torto o a ragione - collegate all’emergenza. Questi sono, in fondo, tempi politicamente abbastanza tranquilli: le istituzioni non sembrano in pericolo. Quindi affidare il bilanciamento fra diritti fondamentali a norme vaghe, e rilette dal giudiziario sotto la luce incerta dell’emergenza, non desta troppa preoccupazione. Oggi. Ma nel sistema si inocula così un altro virus: la menomazione di quei diritti è regolata dall’esecutivo solo genericamente, e l’interpretazione giurisdizionale avviene nel segno dell’emergenza. Il che potrebbe per esempio condurre ogni cittadino - lo ha sostenuto il Comitato etico tedesco - a dover accettare, in nome delle superiori esigenze del popolo, un “generale rischio di morte”. Tempi tranquilli. Ma se il vento aumentasse, quel virus si attiverebbe. Pulsioni autoritarie, dittature presidenziali in stile weimariano disporrebbero di un complessivo modello istituzionale formalmente legittimo, ma pronto nella realtà a sospendere di nuovo i diritti fondamentali: compressi da una pseudo-democrazia governamentale che il giudiziario - assuefatto all’interpretazione in chiave permanentemente emergenziale - non potrebbe contrastare. Una lezione non lontana. Ernst Forsthoff, allievo di Schmitt e nazista convinto, nel 1959 - dopo l’Ora Zero - recitò il suo pater peccavi. Riconobbe che chi si affida a logiche incerte come quelle emergenziali sigla una cambiale della quale non si conosce però il presentatore: se sfortuna vorrà che essa, un domani, sia presentata all’incasso. *Docente di diritto amministrativo dell’Università del Salento Babele tra istituzioni sulla lotta al Covid. Serve una Commissione per coordinare le misure di Guido Neppi Modona* Il Dubbio, 22 ottobre 2020 Da alcune settimane le risposte alla pandemia sono purtroppo caratterizzate da un crescente clima di incertezza e di confusione, che ormai coinvolge tutti i protagonisti istituzionali chiamati direttamente in causa, dal Presidente del consiglio dei ministri alle Regioni e ai sindaci. Il Presidente Mattarella aveva tempestivamente colto questo deterioramento e il 10 ottobre aveva rivolto un appello alla solidarietà e alle responsabilità individuali e delle istituzioni per fronteggiare l’ondata autunnale del contagio. Martedì ha avvertito l’esigenza di indirizzare un nuovo forte richiamo alla “collaborazione e al coordinamento”, ribadendo che prevalente su tutto “è l’interesse generale di sconfiggere la pandemia”, a cui deve esser sacrificato ogni altro interesse, sia esso individuale, collettivo, comunale, regionale o di qualsiasi altra natura. In altre parole, la pandemia può essere validamente contrastata solo se a livello individuale, sociale e istituzionale si affermerà un clima di “responsabilità diffuse”. Sembra invece che ciascuno tenda a muoversi per conto suo, a cominciare dal Presidente del consiglio. Ci si aspetterebbe che chi ricopre la carica di capo del governo diffonda fiducia e, nei limiti del possibile, qualche certezza. Purtroppo dal Presidente del Consiglio riceviamo quotidianamente un profluvio di parole, mentre vorremmo la comunicazione di fatti. Direttamente o attraverso fonti ministeriali siamo martellati da anticipazioni sui contenuti del prossimo o dei prossimi decreti anti-Coronavirus, veniamo a conoscenza che si stanno studiando misure per mettere al bando parrucchieri piuttosto che estetisti, che sono in corso estenuanti discussioni circa l’ora di chiusura di esercizi pubblici quali bar e ristoranti, suscitando evidentemente le indignate proteste delle categorie che si ritengono ingiustamente colpite dai provvedimenti restrittivi. Nel clima di paura e insicurezza che stiamo vivendo sarebbe più corretto emanare i certamente impopolari ma necessari provvedimenti di contrasto alla pandemia senza sbandierarli e anticiparli a pezzi e bocconi, limitandosi poi a comunicare i contenuti definitivi e a spiegare le ragioni per cui è stato indispensabile assumere quelle misure. A questa discutibile strategia della comunicazione da parte del governo si è affiancata una gran baraonda di provvedimenti regionali e comunali, tra cui ad esempio la chiusura dei centri commerciali durante il week- end. Ricorre con sempre maggior frequenza il termine militaresco “coprifuoco”, che i più anziani ricollegano ai tempi della Seconda guerra mondiale e dei bombardamenti sulle città italiane. Si parla di iniziative volte a mettere in isolamento quartieri cittadini, di chiusura di parti di questa o quella Regione, come se la tutela della salute, solennemente proclamata dall’art. 32 della Costituzione quale “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, fosse una faccenda locale e non invece una questione che coinvolge l’intera Nazione. Come se la limitazione di fondamentali diritti di libertà che consegue a questi provvedimenti possa dipendere solo dalla volontà di un presidente di Regione o di un sindaco. Si deve poi tenere presente che ad assumere provvedimenti impopolari saranno chiamati anche sindaci di comuni e presidenti di Regioni ove l’anno prossimo si svolgeranno le elezioni amministrative, cioè soggetti che potrebbero trovarsi in situazioni di contrasto di interessi tra l’immediata esigenza di tutela della salute e i futuri appuntamenti elettorali. Per evitare questa grande confusione, ed anche le violazioni del principio costituzionale di eguaglianza tra i cittadini dei diversi comuni e regioni, una Commissione governativa istituita presso la presidenza del consiglio dovrebbe assumersi il compito - puntualmente segnalato dal Presidente Mattarella - di “collaborazione, coordinamento e raccordo positivo” tra le varie iniziative e attività di contrasto alla pandemia. Della commissione, presieduta dal Presidente del Consiglio, dovrebbero necessariamente fare parte esponenti del Comitato tecnico scientifico per il Coronavirus e dell’Istituto superiore della sanità, nonché rappresentanti dei ministeri di volta in volta interessati. La Commissione verrebbe chiamata a esaminare e valutare le iniziative nazionali e locali di contrasto alla pandemia, verificandone la conformità all’interesse nazionale della tutela della salute e la proporzionalità- adeguatezza a fronte delle limitazioni ai diritti costituzionali di libertà che quelle misure necessariamente comportano. Penso che l’esistenza e il funzionamento di un organo di questo genere potrebbe restituire un po’ di fiducia e tranquillità a una popolazione che ormai quotidianamente vede sacrificata o comunque limitata la propria libertà, a partire dai diritti di circolazione e di riunione in qualsiasi parte del territorio nazionale. Sino ai durissimi mesi di isolamento nella propria abitazione, che ha violato il diritto alla “socializzazione”, non scritto nella Costituzione ma profondamente radicato nell’esistenza e nella coscienza di ciascuno di noi. *Professore, ex giudice costituzionale “Paura e isolamento”: così è la vita dei nostri anziani con la pandemia di Errico Novi Il Dubbio, 22 ottobre 2020 Un sondaggio condotto tra gli over 65 mette in luce difficoltà e abitudini dovute al coronavirus. Sanno di essere quelli che rischiano di più in caso di Covid-19, e ormai sono terrorizzati al punto da aver praticamente azzerato la propria vita sociale. Hanno paura di finire in ospedale, di essere intubati e di non avere nessuno accanto al momento del trapasso, ma la prima preoccupazione è per i propri cari che hanno paura di poter infettare. È la fotografia che emerge dal sondaggio condotto da Senior Italia FederAnziani su un campione di 645 over 65, per analizzare le paure e le difficoltà che la popolazione “senior” del Belpaese sta incontrando in questo lungo periodo di pandemia, e il livello di fiducia nei decisori politici. Così scopriamo che, nonostante le difficoltà, gli over 65 hanno imparato a usare tutte le tecnologie disponibili per restare in contatto con familiari e amici. Hanno avuto gravi difficoltà ad effettuare le visite specialistiche in itinere, gli esami diagnostici, gli interventi già programmati, i controlli oncologici e in un caso su tre sono stati costretti a ricorrere a strutture private pagando di tasca propria. Nonostante tutto, poi, si fidano delle istituzioni e tendenzialmente giudicano corrette e utili le azioni e le strategie messe in atto negli ultimi mesi dal governo centrale e dalle Regioni. In dettaglio, più dell’80% del campione è terrorizzato dal Covid, e un intervistato su quattro teme di poter morire (19,8%). La paura più diffusa è quella di infettare le persone care o essere infettati dai propri familiari (38,6% del campione), seguita da quella di essere intubato (36,4%), di finire in ospedale (34,7%), mentre la possibilità di morire da solo senza i propri familiari accanto spaventa un terzo degli intervistati (30,1%). Uno su cinque soffre una generica incertezza riguardo il proprio futuro (21,9%), teme lo sconvolgimento delle abitudini di vita (21,4%), e per la stessa percentuale lo spettro peggiore è quello della solitudine. La vita degli over 65 è drasticamente cambiata dall’inizio della pandemia: il 57% del campione ha finito col vivere questi mesi in un lockdown permanente, vedendo ridotta o completamente azzerata la propria vita sociale nella quotidianità; per il 47,4% una delle più pesanti limitazioni è rappresentata dal non poter più viaggiare, per il 36,3% ha pesato soprattutto la difficoltà a contattare i medici e specialisti. Il 28,4% lamenta la difficoltà a incontrare i propri cari, il 19,7% ha sofferto per la mancanza di attività fisica, incluso il ballo all’interno del proprio centro anziani, il 19,4% avuto difficoltà a comunicare con gli uffici pubblici, mentre solo il 12,9% ha dichiarato di non aver riscontrato grandi cambiamenti nella propria vita quotidiana. Nonostante le limitazioni gli over 65 non hanno rinunciato a comunicare con familiari e amici, e lo hanno fatto prevalentemente attraverso il telefono, fisso e cellulare (70,5%), via WhatsApp (63,4%), di persona anche se con le necessarie accortezze (47,9%), tramite video chiamata (44,3%) attraverso i social network (11,2%) e via mail (10%). Un intervistato su quattro ha qualcuno che si è ammalato di Covid tra i suoi familiari, parenti o amici (25,27%) e tra questi uno su cinque ha dichiarato che questo qualcuno è venuto a mancare a causa del coronavirus. Figli di due madri: “Serve una legge”, dice la Corte costituzionale di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 ottobre 2020 I giudici costituzionalisti invitano il legislatore ad intervenire “tenendo conto degli orientamenti più diffusi nel tessuto sociale in un determinato momento storico”. È di nuovo un richiamo all’intervento del legislatore, quello pronunciato ieri dalla Consulta riguardo il caso sollevato dal Tribunale di Venezia di due donne unite civilmente che si sono viste negare l’iscrizione all’anagrafe di entrambe come madri del bambino nato da una di loro, nel 2018 a Mestre, con la procreazione medicalmente assistita praticata all’estero. Per la Corte costituzionale - relatore lo stesso presidente Mario Morelli - spetta al legislatore “su temi così eticamente sensibili, ponderare gli interessi e i valori in gioco, tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi nel tessuto sociale in un determinato momento storico”. Infatti, spiega l’ufficio stampa in attesa delle motivazioni della sentenza che saranno depositate nelle prossime settimane, “il riconoscimento dello status di genitore alla cosiddetta “madre intenzionale” non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale”. Non è una questione da affrontare con le sentenze, dunque, ma con la politica. Tanto più vero - rilevano ancora i giudici, pur dichiarando inammissibili le questioni di costituzionalità - se si pensa che il legislatore potrebbe già da subito individuare, nell’”attuale disciplina sull’adozione in casi particolari”, “varie soluzioni, tutte compatibili con la Costituzione”, al fine di assicurare la “protezione del miglior interesse del minore in simili situazioni”. Perché è proprio questo il punto più “caldo” della questione riguardante le coppie omosessuali (soprattutto dal punto di vista del Vaticano): i figli. Quelli negati dalla legge 40/2004 che vieta la maternità surrogata e, alle coppie omosessuali, l’accesso alla fecondazione assistita. E quelli negati ai genitori dello stesso sesso con figli avuti all’estero che, malgrado il riconoscimento di un giudice estero non possono ottenere la trascrizione di genitorialità nei registri dello stato civile italiano (come ha stabilito la Corte di Cassazione, a Sezioni civili unite, nella sentenza 8 maggio 2019). A fine gennaio però la Consulta dovrà pronunciarsi su un nuovo caso “di discriminazione, ancora più grave perché a danno di minori”, spiega la segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, l’avvocata che è riuscita a smontare pezzo per pezzo nelle aule di tribunale quasi tutta la legge 40. Gallo si riferisce al caso sollevato lo scorso 29 aprile dalla stessa Cassazione riguardo due uomini, coniugati in Canada e uniti civilmente in Italia, riconosciuti entrambi dalla Suprema corte canadese genitori legittimi del bimbo concepito tramite fecondazione eterologa e maternità surrogata, che non hanno però ottenuto dal Comune di Verona “l’inserimento, nell’atto dello stato civile di un minore, della indicazione del “padre d’intenzione”, che non è quello biologico”. Anche le questioni di legittimità su cui si è espressa ieri la Corte Costituzionale riguardano la legge sulle Unioni civili e il decreto sugli atti dello stato civile. Secondo il Tribunale di Venezia che ha sollevato il dubbio, “la disciplina vigente, nell’escludere la registrazione nell’atto di nascita del bambino come figlio di entrambe le donne, violerebbe i dritti della cosiddetta madre intenzionale e quelli del minore, e determinerebbe una irragionevole discriminazione per motivi di orientamento sessuale”. Ora la Consulta chiama in campo nuovamente il legislatore che, “pur riconoscendo - spiega ancora Gallo - diritti alle coppie dello stesso sesso con la legge sulle Unioni civili, non ha previsto la possibilità piena di fare famiglia a tante coppie con figli che nel nostro Paese non hanno le medesime tutele e diritti di altri bambini nati da coppie di sesso diverso. Questa è una discriminazione che dovrà essere rimossa dal legislatore. O, in assenza di volontà politica, dalle Corti. Perché vale il principio di uguaglianza dei bambini, nati grazie all’amore dei propri genitori indipendentemente dal sesso degli stessi. La legge 40, infatti, prevede che “I nati a seguito dell’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime”. Eppure, tutto ciò non vale per le coppie dello stesso sesso”. I dati sui nuovi italiani mostrano l’inadeguatezza della legge sulla cittadinanza di Giansandro Merli Il Manifesto, 22 ottobre 2020 Dossier statistico immigrazione 2020. I numeri contenuti nel rapporto mostrano come l’impianto legislativo in vigore sia “ancorato più al passato dell’Italia, quale “grande paese di emigrazione”, che al suo presente di “importante paese di immigrazione”. “Uno straniero che possa vantare avi della penisola persino precedenti all’Unità d’Italia può acquisire la cittadinanza italiana più facilmente di uno straniero che, pur nato e cresciuto in Italia, non possa dimostrare tali ascendenze”. I paradossi della legge italiana sulla cittadinanza, ancorata al principio dello ius sanguinis, sono noti da tempo, ma parole e numeri del Dossier statistico immigrazione 2020 aiutano a vederne concretamente gli effetti. Qualche giorno fa è stata diffusa l’anticipazione del rapporto relativa al numero di migranti non comunitari regolarmente presenti in Italia: tra il 2018 e il 2019 sono diminuiti di 106.000 unità. Molti di loro sono scivolati in una condizione di irregolarità a causa dei due “decreti sicurezza”. Oggi, invece, sono stati resi pubblici i numeri dello studio che riguardano le acquisizioni di cittadinanza. Lo scorso anno 227mila persone hanno conquistato il passaporto tricolore. 100mila sono nate e/o vivono all’estero: 9mila possono vantare un avo del bel paese, 91mila sono figli di concittadini residenti oltreconfine. La comunità di connazionali che non vivono in Italia raggiunge così quota 2,3 milioni. 127.001, invece, sono i residenti nello stivale che da stranieri sono diventati italiani nel corso del 2019. Un numero più alto del 2018 (+112.523), ma più basso del 2017 (+146.605) e soprattutto dell’anno record 2016 (+201.591). Migranti, o meglio ex migranti, che fanno meno rumore di quelli arrivati via mare, ma sono molto più numerosi: nel 2019 è sbarcato 1 straniero per ogni 11 che hanno acquisito la cittadinanza, nel 2018 il rapporto è stato di 1 a 5. In totale negli ultimi 10 anni sono quasi 1 milione e 250 mila i cittadini di paesi non comunitari che sono riusciti a diventare italiani, superando un percorso a ostacoli più volte messo sotto accusa dalle associazioni che sostengono una riforma della legge nella direzione dello ius soli. Questa farebbe rientrare tra i nuovi cittadini i circa due terzi di studenti stranieri iscritti nelle scuole italiane e nati in questo paese (570mila tra il 2012 e il 2019, di cui 63mila nell’ultimo anno: il 15% del totale). Anche per questo gli estensori del rapporto, i centri studi Idos e Confronti, affermano che: “Il quadro descritto dai dati rispecchia un impianto legislativo ancorato più al passato dell’Italia, quale “grande paese di emigrazione”, che al suo presente di “importante paese di immigrazione”. Il Dossier statistico immigrazione 2020 sarà presentato il 28 ottobre in una conferenza stampa telematica. La censura ai tempi del Coronavirus di Arturo Di Corinto Il Manifesto, 22 ottobre 2020 Che si tratti di giornalisti, cittadini, oppositori, attivisti, sono innumerevoli gli esempi della censura ai tempi del Coronavirus. Dall’Egitto al Sudan passando per il Kenya, gli attivisti del web sono bersaglio di governi autoritari. Lo stesso accade coi giornalisti in Cina, Vietnam e nelle Filippine. La denuncia di Reporter senza frontiere, Global Voices e Articolo 19. L’emergenza coronavirus sta accelerando il drastico declino della libertà globale di Internet. Oggi che tutte le attività umane, dal commercio all’istruzione alla sanità, si stanno spostando online, attori statali e non statali usano la pandemia per modellare le narrazioni globali, censurare le voci dissidenti e costruire nuovi sistemi di controllo sociale basati sulla rete. In Egitto, ad esempio, il governo di Al Sisi - dove è ancora imprigionato Patrick Zaki a causa di alcuni post su Facebook - ha imposto una serie di restrizioni ai social media in risposta alle proteste pubbliche che si sono svolte al Cairo e in altre città egiziane nel mese di settembre. Diverse testimonianze riferiscono che Twitter e Messenger sono stati inaccessibili per chi usava i servizi internet di Telecom Egitto, Raya e Vodafone. Stessa sorta per il sito d’informazione BBC Arabic. Il 26 settembre attivisti locali hanno riportato che le pagine principali di Wickr e Signal erano state bloccate. Secondo Articolo 19, Ong focalizzata sulla libertà di espressione, da marzo ad oggi in Kenya si sono registrati più di 47 casi di arresti illegali, aggressioni e molestie contro blogger, attivisti online e difensori dei diritti umani. In Sudan accade di peggio. Le molestie online, secondo un rapporto di Human Rights Watch, qui sono opera di militari. In passato le attiviste donne sono state prese di mira dalla pagina Facebook di “Donne sudanesi contro l’Hijab”, che ha pubblicato le loro foto private senza consenso insieme ad affermazioni inventate sull’essere contro il velo religioso. Le donne sudanesi hanno però risposto con una tattica di controguerriglia social: hanno creato un gruppo Facebook chiamato “Inboxat”, dove hanno riprodotto i messaggi che i molestatori gli avevano inviato. Poi hanno creato degli hashtag per denunciare le molestie online. Ad esempio, l’hashtag “Esponi un molestatore” è ancora utilizzato attivamente dalle donne per condividere le loro storie personali. Oggi le applicazioni di messaggistica istantanea e i social media sono uno spazio cruciale per comunicare e stringersi assieme per superare la pandemia. Nonostante questo, i soggetti più attivi sono proprio quelli presi di mira da autorità e polizia. A farne le spese sono sovente le attiviste per i diritti umani e civili che ricevono minacce di morte e attacchi informatici: doxxing, cyberbullismo ed hate speech sono all’ordine del giorno. Le molestie online possono portare a importanti conseguenze psicologiche come ansia e depressione, ma accade anche di peggio. Racconta Global Voices che l’attivista e giornalista vietnamita Pham Doan Trang è stata arrestata dalla polizia il 6 ottobre con l’accusa di condurre “propaganda contro la Repubblica socialista del Vietnam” e della “produzione, archiviazione, diffusione di informazioni e articoli allo scopo di opporsi allo Stato della Repubblica socialista del Vietnam”. Rischia fino a 20 anni di carcere. Doan Trang ha co-fondato la Vietnam Legal Initiative, una Ong che promuove i diritti umani in Vietnam e la rivista legale online Luat Khoa ma i suoi libri sulla democrazia sono stati confiscati dalle autorità. In Cina, secondo Reporter senza frontiere, oltre 100 giornalisti e blogger sono attualmente incarcerati e almeno sei tra giornalisti e commentatori sono stati arrestati in relazione alla pandemia, mentre nelle Filippine due giornalisti sono stati reclusi per aver diffuso “fake news” sulla crisi del Covid-19. Papa Francesco incontra le famiglie dei pescatori siciliani arrestati nella Libia di Haftar di Vincenzo Nigro La Repubblica, 22 ottobre 2020 Bergoglio aveva ricordato per la prima volta il caso dei diciotto marinai sequestrati il 1° settembre al largo della Cirenaica domenica scorsa in piazza San Pietro. Ma le autorità dell’Est della Libia hanno fatto sapere che i pescatori non verranno rilasciati se non in cambio di quattro calciatori libici condannati in Italia Papa Francesco ieri mattina alle 7 ha accolto i familiari dei pescatori di Mazara del Vallo che dal 1° settembre sono stati arrestati in Libia dalla milizia del generale Khalifa Haftar. Il papa aveva ricordato per la prima volta il caso dei diciotto marittimi italiani, tunisini, senegalesi e indonesiani nell’Angelus di domenica scorsa in piazza San Pietro. E oggi di buon mattino le sei donne e i due uomini di Mazara che da ben 30 giorni hanno montato le loro tende in piazza Montecitorio - ogni notte, quattro di loro dormono in strada - sono stati accolti in Vaticano. “Aspettiamo una buona notizia. Abbiamo ringraziato il Papa per la sua preghiera di domenica, per noi e per i nostri pescatori. Purtroppo, a causa del Covid, non ci siamo potuti avvicinare a Sua Santità ma le sue parole ci hanno dato speranza”. Sono i due armatori dei due pescherecci sequestrati in Libia, Leonardo Gancitano e Marco Marrone, assieme a 4 familiari ad essere entrato sono entrati a Santa Marta. L’incontro ha dato speranza ai familiari: “Aspettiamo una buona notizia e la nostra sensazione è che possa arrivare da un momento all’altro. Finché non vediamo tornare le nostre barche siamo con il cuore spezzato, e rimarremo a Roma. Oggi sono 31 giorni che siamo davanti a Montecitorio, aspettiamo questa settimana per vedere se ci saranno novità. Sicuramente noi non andremo via da Roma fin quando i nostri pescatori e i nostri pescherecci non saranno liberati”. “Siamo entusiasti dell’incontro con il pontefice, è una grandissima emozione e soprattutto ci dà un’incredibile speranza”, dicevano ieri notte in piazza la moglie e la madre dei pescatori. Sui due pescherecci “Medinea” e “Antartide” bloccati il 1° settembre c’erano otto cittadini italiani, sei tunisini, due senegalesi e due indonesiani. Erano tutti impegnati nella pesca del gambero rosso al largo delle coste di Bengasi, nella Libia orientale, la Cirenaica. In un primo momento tutti i pescatori sono stati trasferiti in un edificio nel carcere di El Kuefia, a 15 km a sud est da Bengasi. Poi gli italiani erano rimasti soli, mentre gli altri erano stati fatti entrare nelle celle con i criminali comuni libici. Dopo alcuni giorni, i capi della milizia di Haftar hanno riunito ancora una volta italiani e stranieri. In questi giorni le autorità dell’Est della Libia hanno fatto sapere che i pescatori non verranno rilasciati se non in cambio della liberazione di quattro calciatori libici, condannati in Italia a 30 anni di carcere. I quattro sono detenuti in Sicilia in quanto condannati per essere stati tra gli scafisti della cosiddetta “Strage di Ferragosto” in cui morirono 49 migranti, asfissiati nella stiva di un’imbarcazione. Uno scambio impossibile, fra carcerati condannati da un sistema giudiziario e pescatori bloccati da una milizia non riconosciuta dalla comunità internazionale. Regno Unito. Saranno espulsi i cittadini Ue con condanne penali alle spalle di Antonello Guerrera La Repubblica, 22 ottobre 2020 L’annuncio del governo. La misura riguarda anche reati minori e scatterà dal 1° gennaio. I cittadini dell’Ue che avranno subito condanne penali potranno essere espulsi o respinti dal Regno Unito, anche in caso di reati minori accumulati e/o ripetuti, in questo caso a discrezione del ministero dell’Interno britannico. È l’annuncio che, come appreso da “Repubblica”, farà questa mattina Priti Patel, a capo del dicastero dell’Home Office, brexiter ed euroscettica di ferro: “Per troppo tempo, le leggi dell’Unione europea hanno permesso di far entrare nel nostro Paese criminali stranieri, che abusano dei nostri valori e minacciano il nostro modo di vivere. Dal 1° gennaio 2021 finirà la libertà di movimento Ue per noi e il Regno Unito sarà un Paese molto più sicuro, grazie ai nostri controlli ai confini: i criminali europei saranno trattati come tutti quelli degli altri Paesi”. A oggi invece, in base alle leggi Ue che Londra rispetterà fino al 31 dicembre (periodo di transizione), i cittadini europei possono essere espulsi dal Regno Unito solo se rappresentano una minaccia conclamata e non su un’eventuale condanna passata, anche per reati gravi come stupro o omicidio. Adesso invece cambierà tutto. Tuttavia, ci sono delle zone d’ombra. Di certo, ai cittadini europei che hanno avuto condanne superiori a un anno di carcere non sarà permesso di entrare in Regno Unito o, se sono già nel Paese, dal 1° gennaio prossimo potrebbero essere espulsi senza tanti complimenti. Per coloro che invece hanno ricevuto condanne minori a 12 mesi di galera, questi saranno valutati caso per caso e si considererà anche se avranno legami familiari in Uk. Non solo. A discrezione del ministero dell’Interno britannico sarà deciso il destino e l’eventuale espulsione anche di quei cittadini europei che hanno avuto condanne minori, magari sospese e che non hanno mai comportato l’incarcerazione. Oppure, ciò si verificherà ugualmente se per esempio i reati, seppur minori e commessi in qualsiasi Stato, sono persistenti o anche se la presenza del cittadino dell’Ue in questione è considerata “non favorevole al bene comune”: per esempio riguardo “il mantenimento dell’ordine pubblico” o la “protezione dei diritti altrui”. Insomma, in questo caso i parametri che potrebbero innescare l’espulsione del cittadino europeo non sono ancora molto chiari, in taluni casi sono piuttosto vaghi, e, nella peggiore delle ipotesi secondo i critici, potrebbero anche generare espulsioni improprie o abusi di ufficio. Queste nuove leggi del governo Johnson non si applicheranno agli eventuali reati pregressi dei cittadini europei che negli ultimi mesi hanno ottenuto almeno il permesso di soggiorno di 5 anni (nell’ambito del programma cosiddetto “Settlement Scheme” conseguente alla Brexit). Tuttavia, questo potrebbe essere revocato se si commetteranno reati dal 1° gennaio in poi che comporteranno una condanna di un anno di carcere. Nigeria. Migliaia contro il coprifuoco la polizia spara sulla folla: 12 morti di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 22 ottobre 2020 Dilaga nelle piazze il movimento di protesta contro gli squadroni paramilitari chiamati “Sars”. Sars, nome tristemente noto, la malattia comparsa qualche anno fa in Cina con un alto tasso di letalità. Lo stesso ceppo virale del Covid 19. In Nigeria però la Sars è sinonimo di pericolo per un’altra ragione. Si tratta della squadra di polizia antirapina protagonista di numerosi episodi di violenza negli ultimi anni, un vero e proprio squadrone della morte accusato di detenzioni illegali, aggressioni e uso ingiustificato delle armi. Contro questa unità della polizia è iniziata da due settimana una protesta spontanea della popolazione, talmente determinata da costringere le autorità a sciogliere la Sars l’11 ottobre scorso. Ma i manifestanti non hanno intenzione di lasciare il campo e ogni giorno si susseguono cortei e iniziative nelle strade della città più grande della Nigeria, Lagos. Appena due giorni fa un episodio gravissimo ha scosso il paese, 12 persone sono rimaste uccise per mano dell’esercito mentre si erano radunate pacificamente al casello di Lekki, un quartiere residenziale. La protesta era in realtà una vera e propria sfida al coprifuoco di 24 ore a tempo indeterminato voluto dal presidente Bhouari, il confronto di strada non si è però ancora interrotto, anche ieri infatti in molti si sono recati sul luogo dell’eccidio. La strage è stata confermata anche da Amnesty International che ritiene credibili le testimonianze raccolte. L’esercito invece nega mentre il governo ha promesso un’indagine sulla quale vengono risposte ben poche speranze. Il motivo della sfiducia sta nella descrizione delle violenze veicolate anche sui social. facendo diventare la protesta un fenomeno mondiale. Il movimento è stato ribattezzato # EndSars, a sostegno di esso stanno prendendo posizione in particolar modo atleti (calciatori in maggior misura) che si trovano all’estero. Come nel caso di Odion Jude Ighalo, in forza al Manchester United, che ha accusato pubblicamente il governo nigeriano di “aver ucciso i propri cittadini”. I testimoni oculari sono concordi nel confermare che i soldati hanno barricato il sito della protesta creando una gabbia impossibile da superare anche per le ambulanze. Poi sono avanzati sparando. I video, alcuni visibili anche in diretta danno il senso della carneficina. Il tutto è durato circa un’ora e mezza. Alla fine i soldati sono stati visti raccogliere cadaveri. In segno di protesta verso presidente nigeriano è intervenuto anche l’ex segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, ma le reazioni ufficiali sono tutte tese a minimizzare l’accaduto. Per il governatore dello stato di Lagos, Babajide Sanwo- Olu, si è trattato solo di “uno sfortunato incidente di tiro”. Ha rigettato le accuse contro fantomatici criminali che avrebbero fatto deragliare le proteste pacifiche violando il coprifuoco (in vigore in 36 stati della Nigeria). Ma un clima di calma sarebbe stato impossibile visto che contro il movimento #EndSars il capo il capo della polizia nazionale ha ordinato l’immediato dispiegamento di forze antisommossa a livello nazionale. Iran. Nasrin Sotoudeh trasferita nella prigione delle torture di Victor Castaldi Il Dubbio, 22 ottobre 2020 L’avvocata è ora nel famigerato carcere di Qarchak. Nasrin Sotoudeh, l’avvocata iraniana per i diritti umani, è stata trasferita nella prigione di Qarchak, nota per i maltrattamenti sui prigionieri politici. A comunicarlo il marito Reza Khandan, che denuncia l’ennesimo abuso ai danni della moglie. Ieri “le guardie della prigione di Evin hanno chiamato Nasrin e le hanno detto di essere pronta per il trasferimento in ospedale. Invece è stata trasferita direttamente alla prigione di Qarchak - ha scritto sul proprio profilo Facebook - Tre settimane fa, dopo essere stata ricoverata in ospedale, è stata riportata in prigione prima di completare l’intero trattamento. Secondo gli esperti, avrebbe dovuto essere nuovamente trasferita in ospedale per un esame cardiaco urgente e angiografia, ma invece le autorità di Evin l’hanno trasferita nel carcere di Qarchak, dove le condizioni sanitarie e di detenzione sono anche peggiori del carcere di Evin”. Sotoudeh soffre di una serie di problemi di salute cronici. Accusata di “propaganda sovversiva”, l’attivista è stata condannata nel 2018 a 148 frustate e 33 anni e mezzo di carcere, di cui dovrà scontarne almeno 12. Sotoudeh, che assieme al marito è fra i principali attivisti iraniani per i diritti umani, si è sempre detta innocente, dicendo di aver soltanto manifestato pacificamente per i diritti delle donne e contro la pena di morte. La prigione di Qarchak è una struttura per sole donne in una fabbrica di polli inutilizzata a sud di Teheran, nota per le condizioni antigeniche e il maltrattamento dei prigionieri politici. Nella stessa prigione si trova anche la ricercatrice dell’Università di Melbourne Kylie Moore- Gilbert, condannata nel 2018 a dieci anni di carcere per presunto spionaggio, un’accusa spesso intentata contro cittadini stranieri e con doppia cittadinanza. Arabia Saudita. Donne e bambini contro la repressione di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 ottobre 2020 Mentre il G20 affida a Riyadh la gestione del Women20 Summit, Hatice Cengiz, la fidanzata del giornalista Khashoggi, denuncia Mohammed bin Salman a una corte di Washington. E un’associazione in Europa svela la mancata applicazione del decreto che vieta la pena capitale per i minorenni. Nella grande distopia che è l’Arabia saudita e il suo riconoscimento nel consesso internazionale come interlocutore plausibile su temi quali i diritti umani, succede che il G20 gli affidi il Women20Summit, enorme spazio di dibattito (quest’anno virtuale) per oltre 80 esperti di diritti delle donne, membri di organizzazioni no profit, compagnie private e università. Il summit è iniziato martedì e si concluderà oggi con l’obiettivo dichiarato di “incoraggiare l’eguaglianza di genere e l’empowerment economico delle donne”. Sembrerebbe una barzelletta se la situazione delle donne saudite non fosse drammatica, tra il sistema del guardiano che impedisce una vita libera e scelte indipendenti, la discriminazione strutturale sul piano politico, sociale ed economico e la detenzione delle attiviste più note ed esposte della monarchia. E martedì è stata un’altra donna a scuotere Riyadh. Hatice Cengiz, la fidanzata del giornalista Jamal Khashoggi ucciso nel consolato saudita di Istanbul nell’ottobre 2018, martedì ha denunciato - insieme alla Democracy for the Arab World Now - a una corte distrettuale di Washington il principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) per l’omicidio. Lo accusano di aver ordinato il rapimento, la tortura, l’uccisione e lo smembramento del corpo di Khashoggi: “Gli accusati vedevano nelle azioni di Khashoggi negli Stati uniti (lavorava per il Washington Post, ndr) - si legge nella denuncia - una minaccia esistenziale ai loro interessi”. Una teoria ben diversa da quella spacciata dalla petromonarchia che ha sempre negato un coinvolgimento sebbene gli esecutori fossero uomini della ristretta cerchia di MbS. A completare l’insabbiamento è stato un processo farsa che a inizio settembre ha condannato otto cittadini sauditi (senza nome) a pene tra 10 e 20 anni. Sembra bastare all’amministrazione Trump che non ha mai messo in discussione i rapporti con Riyadh e ha sempre bloccato con il veto i tentativi del Congresso di sospendere le forniture di armi agli alleati sauditi, nonostante i rapporti della Cia abbiano indicato nei vertici della monarchia i mandati dell’omicidio. È, infine, di lunedì scorso la denuncia della European Saudi Organization for Human Rights, stavolta intorno al destino di almeno 13 minorenni (ora o al momento dell’arresto) nel braccio della morte nonostante il decreto reale dello scorso aprile, firmato da re Salman, cancelli la pena di morte per bambini e adolescenti e limiti a dieci anni il periodo di detenzione nelle carceri minorili. Secondo l’avvocato di uno di loro, Ali al-Nimr, 17enne al momento dell’arresto nel 2012 con l’accusa di terrorismo per aver preso parte a proteste anti-governative (come altri ragazzini condannati alla pena capitale), “il decreto non è mai stato pubblicato”. Solo firmato, a beneficio degli alleati che cercano di far passare Mohammed bin Salman, reggente de facto, come governante illuminato e riformatore.